Veritatis splendor 69

Peccato mortale e veniale

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69. Le considerazioni intorno all'opzione fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora notato, alcuni teologi a sottoporre a profonda revisione anche la distinzione tradizionale tra i peccati mortali e i peccati veniali. Essi sottolineano che l'opposizione alla legge di Dio, che causa la perdita della grazia santificante - e, nel caso di morte in un simile stato di peccato, l'eterna condanna -, può essere soltanto il frutto di un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè un atto di opzione fondamentale. Secondo questi teologi il peccato mortale, che separa l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio, compiuto ad un livello della libertà non identificabile con un atto di scelta né attingibile con consapevolezza riflessa. In questo senso - aggiungono - è difficile, almeno psicologicamente, accettare il fatto che un cristiano, che vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, possa così facilmente e ripetutamente commettere peccati mortali, come indicherebbe, a volte, la "materia" stessa dei suoi atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che l'uomo sia capace, in un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il legame di comunione con Dio e, successivamente, di convertirsi a lui mediante la sincera penitenza.

Occorre dunque - si dice - misurare la gravità del peccato piuttosto dal grado di impegno della libertà della persona che compie un atto che non dalla materia di tale atto.

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70. L'Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia ha ribadito l'importanza e la permanente attualità della distinzione tra peccati mortali e veniali, secondo la tradizione della Chiesa. E il Sinodo dei Vescovi del 1983, da cui è scaturita tale Esortazione, "non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso".

Il pronunciamento del Concilio di Trento non considera soltanto la "materia grave" del peccato mortale, ma ricorda anche, come sua necessaria condizione, "la piena avvertenza e il deliberato consenso". Del resto, sia nella teologia morale che nella pratica pastorale, sono ben conosciuti i casi nei quali un atto grave, a motivo della sua materia, non costituisce peccato mortale a motivo della non piena avvertenza o del non deliberato consenso di colui che lo compie. D'altra parte, "si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di "opzione fondamentale" - come oggi si suol dire - contro Dio", concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito e non riflesso rifiuto dell'amore. "Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari.

Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, quale appunto l'"opzione fondamentale", intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale".

In tal modo la dissociazione tra opzione fondamentale e scelte deliberate di comportamenti determinati - disordinati in se stessi o nelle circostanze - che non la metterebbero in causa, comporta il misconoscimento della dottrina cattolica sul peccato mortale: "Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (conversio ad creaturam). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave".

IV. L'ATTO MORALE

Teleologia e teleologismo

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71. Il rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, che trova la sua sede intima e viva nella coscienza morale, si manifesta e si realizza negli atti umani.

E' proprio mediante i suoi atti che l'uomo si perfeziona come uomo, come uomo chiamato a cercare spontaneamente il suo Creatore e a giungere liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione.

Gli atti umani sono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell'uomo stesso che compie quegli atti. Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate, qualificano moralmente la persona stessa che li compie e ne determinano la fisionomia spirituale profonda, come rileva suggestivamente san Gregorio Nisseno: "Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in male... Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente... Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo, com'è il caso degli esseri corporei... Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo così, in certo modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo".

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72. La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo (e così è "legge naturale"), quanto - in modo integrale e perfetto - attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata "legge divina"). L'agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell'uomo ed esprimono così l'ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo trova la sua piena e perfetta felicità. La domanda iniziale del colloquio del giovane con Gesù: "Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?" (
Mt 19,16) mette immediatamente in luce l'essenziale legame tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell'uomo. Gesù, nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il compimento di atti buoni, comandati da Colui che "solo è buono", costituisce la condizione indispensabile e la via per la beatitudine eterna: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,17). La risposta di Gesù e il rimando ai comandamenti manifestano anche che la via al fine è segnata dal rispetto delle leggi divine che tutelano il bene umano. Solo l'atto conforme al bene può essere via che conduce alla vita.

L'ordinazione razionale dell'atto umano al bene nella sua verità e il perseguimento volontario di questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità. Pertanto, l'agire umano non può essere valutato moralmente buono solo perché funzionale a raggiungere questo o quello scopo, che persegue, o semplicemente perché l'intenzione del soggetto è buona. L'agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l'ordinazione volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell'azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione. Se l'oggetto dell'azione concreta non è in sintonia con il bene vero della persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè Dio stesso.

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73. Il cristiano, grazie alla rivelazione di Dio e alla fede, conosce la "novità" da cui è segnata la moralità dei suoi atti; questi sono chiamati ad esprimere la coerenza o meno con quella dignità e vocazione che gli sono state donate dalla grazia: in Gesù Cristo e nel suo Spirito, il cristiano è "creatura nuova", figlio di Dio, e mediante i suoi atti manifesta la sua conformità o difformità con l'immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli (Cfr.
Rm 8,29), vive la sua fedeltà o infedeltà al dono dello Spirito e si apre o si chiude alla vita eterna, alla comunione di visione, di amore e di beatitudine con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Cristo "ci forma secondo la sua immagine - scrive san Cirillo Alessandrino -, in modo che i lineamenti della sua divina natura risplendano in noi attraverso la santificazione e la giustizia e la vita buona e conforme a virtù... La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere".

In questo senso la vita morale possiede un essenziale carattere "teleologico", perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell'uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù: "Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Ma questa ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale dell'uomo, tutelato dai comandamenti. E' ciò che ricorda Gesù stesso nella risposta al giovane: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,17).

Evidentemente dev'essere un'ordinazione razionale e libera, cosciente e deliberata, in forza della quale l'uomo è "responsabile" dei suoi atti ed è soggetto al giudizio di Dio, giudice giusto e buono che premia il bene e castiga il male, come ci ricorda l'apostolo Paolo: "Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male" (2Co 5,10).

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74. Ma da che cosa dipende la qualificazione morale dell'agire libero dell'uomo? Da che cosa è assicurata questa ordinazione a Dio degli atti umani? Dall'intenzione del soggetto che agisce, dalle circostanze - e in particolare dalle conseguenze - del suo agire, dall'oggetto stesso del suo atto? E' questo il problema tradizionalmente chiamato delle "fonti della moralità". Proprio a riguardo di tale problema, in questi decenni si sono manifestate nuove - o ripristinate - tendenze culturali e teologiche che esigono un accurato discernimento da parte del Magistero della Chiesa.

Alcune teorie etiche, denominate "teleologiche", si presentano attente alla conformità degli atti umani con i fini perseguiti dall'agente e con i valori da lui intesi. I criteri per valutare la giustezza morale di un'azione sono ricavati dalla ponderazione dei beni non-morali o pre-morali da conseguire e dei rispettivi valori non-morali o pre-morali da rispettare. Per taluni il comportamento concreto sarebbe giusto, o sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre uno stato di cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il comportamento in grado di "massimizzare" i beni e di "minimizzare" i mali.

Molti dei moralisti cattolici, che seguono questo orientamento, intendono prendere le distanze dall'utilitarismo e dal pragmatismo, per cui la moralità degli atti umani sarebbe giudicata senza far riferimento al vero fine ultimo dell'uomo. Essi giustamente si rendono conto della necessità di trovare argomentazioni razionali, sempre più consistenti, per giustificare le esigenze e fondare le norme della vita morale. E tale ricerca è legittima e necessaria, dal momento che l'ordine morale, stabilito dalla legge naturale, è in linea di principio accessibile alla ragione umana. E' ricerca, del resto, che corrisponde alle esigenze del dialogo e della collaborazione con i non-cattolici e i non-credenti, particolarmente nelle società pluralistiche.

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75. Ma all'interno dello sforzo di elaborare una simile morale razionale - talvolta chiamata a questo titolo "morale autonoma" -, esistono false soluzioni, legate in particolare ad una inadeguata comprensione dell'oggetto dell'agire morale. Alcuni non tengono in sufficiente considerazione il fatto che la volontà è coinvolta nelle scelte concrete che essa opera: queste sono condizione della sua bontà morale e della sua ordinazione al fine ultimo della persona. Altri poi si ispirano ad una concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del suo esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità sul bene, dalla sua determinazione mediante scelte di comportamenti concreti. così, secondo queste teorie, la volontà libera non sarebbe né moralmente sottomessa a obbligazioni determinate, né informata dalle sue scelte, pur rimanendo responsabile dei propri atti e delle loro conseguenze. Questo "teleologismo", come metodo di rinvenimento della norma morale, può allora - secondo terminologie e approcci mutuati da differenti correnti di pensiero - chiamarsi "consequenzialismo" o "proporzionalismo". Il primo pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del "più grande bene" o del "minor male" effettivamente possibili in una situazione particolare.

Le teorie etiche teleologiche (proporzionalismo, consequenzialismo), pur riconoscendo che i valori morali sono indicati dalla ragione e dalla Rivelazione, ritengono che non si possa mai formulare una proibizione assoluta di determinati comportamenti, che sarebbero contrastanti, in ogni circostanza e in ogni cultura, con quei valori. Il soggetto che agisce sarebbe si responsabile del raggiungimento dei valori perseguiti, ma secondo un duplice aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti in un atto umano sarebbero, per un aspetto, di ordine morale (in rapporto a valori propriamente morali, come l'amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, ecc.) e, per un altro aspetto, di ordine pre-morale, detto anche non-morale o fisico o ontico (in rapporto ai vantaggi e svantaggi recati sia a colui che agisce che ad altre persone, prima o poi coinvolte, come, ad esempio, la salute o la sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la morte, la perdita di beni materiali, ecc.). In un mondo in cui il bene sarebbe sempre mescolato al male ed ogni effetto buono legato ad altri effetti cattivi, la moralità dell'atto si giudicherebbe in modo differenziato: la sua "bontà" morale sulla base dell'intenzione del soggetto riferita ai beni morali e la sua "giustezza" sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della loro proporzione. Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da qualificarsi come "giusti" o "sbagliati", senza che per questo sia possibile valutare come moralmente "buona" o "cattiva" la volontà della persona che li sceglie. In questo modo, un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma universale negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali, potrebbe essere qualificato come moralmente ammissibile, se l'intenzione del soggetto si concentra, secondo una "responsabile" ponderazione dei beni coinvolti nell'azione concreta, sul valore morale giudicato decisivo nella circostanza.

La valutazione delle conseguenze dell'azione, in base alla proporzione dell'atto con i suoi effetti e degli effetti tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo pre-morale. Sulla specificità morale degli atti, ossia sulla loro bontà o malizia, deciderebbe esclusivamente la fedeltà della persona ai valori più alti della carità e della prudenza, senza che questa fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie a certi precetti morali particolari. Anche in materia grave, questi ultimi dovrebbero essere considerati come norme operative sempre relative e suscettibili di eccezioni.

In questa prospettiva il consenso deliberato a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale tradizionale non implicherebbe una malizia morale oggettiva.


L'oggetto dell'atto deliberato

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76. Queste teorie possono acquistare una certa forza persuasiva dalla loro affinità con la mentalità scientifica, giustamente preoccupata di ordinare le attività tecniche ed economiche in base al calcolo delle risorse e dei profitti, dei procedimenti e degli effetti. Esse vogliono liberare dalle costrizioni di una morale dell'obbligazione, volontarista e arbitraria, che si rivelerebbe disumana.

Siffatte teorie non sono pero fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di poter giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale. Queste teorie non possono richiamarsi alla tradizione morale cattolica: se è vero che in quest'ultima si è sviluppata una casistica attenta a ponderare in alcune situazioni concrete le possibilità maggiori di bene, è altrettanto vero che ciò riguardava solo i casi in cui la legge era incerta e, pertanto, non metteva in discussione la validità assoluta dei precetti morali negativi che obbliga senza eccezione. I fedeli sono tenuti a riconoscere e a rispettare i precetti morali specifici, dichiarati e insegnati dalla Chiesa in nome di Dio, Creatore e Signore.

Quando l'apostolo Paolo ricapitola nel precetto di amare il prossimo come se stessi il compimento della legge (Cfr.
Rm 13,8-10), non attenua i comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento che ne rivela le esigenze e la gravità. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono inseparabili dall'osservanza dei comandamenti dell'Alleanza, rinnovata nel sangue di Gesù Cristo e nel dono dello Spirito. E' onore proprio dei cristiani obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Cfr. Ac 4,19 Ac 5,29) ed accettare per questo anche il martirio, come hanno fatto i santi e le sante dell'Antico e del Nuovo Testamento, riconosciuti tali per aver dato la loro vita piuttosto che compiere questo o quel gesto particolare contrario alla fede o alla virtù.

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77. Per offrire i criteri razionali di una giusta decisione morale, le accennate teorie tengono conto dell'intenzione e delle conseguenze dell'azione umana. Sono certamente da prendere in grande considerazione sia l'intenzione - come insiste con una forza particolare Gesù in aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che minuziosamente prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (Cfr.
Mc 7,20-21 Mt 15,19) -, sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito di un atto particolare. Si tratta di un'esigenza di responsabilità. Ma la considerazione di queste conseguenze - nonché delle intenzioni - non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un'azione, non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto è "secondo la sua specie", o "in se stessa", moralmente buona o cattiva, lecita o illecita. Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze dell'atto, che, se possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono pero cambiarne la specie morale.

Ciascuno, del resto, conosce le difficoltà - o meglio l'impossibilità - di valutare tutte le conseguenze e tutti gli effetti buoni o cattivi - definiti pre-morali - dei propri atti: un calcolo razionale esaustivo non è possibile. Come fare allora per stabilire delle proporzioni che dipendono da una valutazione, i cui criteri restano oscuri? In che modo potrebbe giustificarsi un obbligo assoluto su calcoli tanto discutibili?

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78. La moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san Tommaso. Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, "vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale". "Spesso infatti - scrive l'Aquinate - qualcuno agisce con buona intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà: come nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è si la retta intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di conseguenza, nessun male compiuto con buona intenzione può essere scusato: "Come coloro che dicono: Facciamo il male perché venga il bene; la condanna dei quali è giusta" (
Rm 3,8)".

La ragione per cui non basta la buona intenzione ma occorre anche la retta scelta delle opere, sta nel fatto che l'atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che "solo è buono", e così realizza la perfezione della persona. L'atto è buono, quindi, se il suo oggetto è conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa moralmente rilevanti. L'etica cristiana, che privilegia l'attenzione all'oggetto morale, non rifiuta di considerare l'interiore "teleologia" dell'agire, in quanto volto a promuovere il vero bene della persona, ma riconosce che esso viene realmente perseguito solo quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana.

L'atto umano, buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile al fine ultimo. Lo stesso atto raggiunge poi la sua perfezione ultima e decisiva quando la volontà lo ordina effettivamente a Dio mediante la carità. In tal senso, il Patrono dei moralisti e dei confessori insegna: "Non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Acciocché le opere nostre siano buone e perfette, è necessario farle col puro fine di piacere a Dio".

Il "male intrinseco": non è lecito fare il male a scopo di bene

(Cfr. Rm 3,8)
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79. E' da respingere quindi la tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie - il suo "oggetto" - la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate.

L'elemento primario e decisivo per il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale ordinabilità viene colta dalla ragione nell'essere stesso dell'uomo, considerato nella sua verità integrale, dunque nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità che hanno sempre anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i contenuti della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei "beni per la persona" che si pongono al servizio del "bene della persona", di quel bene che è essa stessa e la sua perfezione. Sono questi i beni tutelati dai comandamenti, i quali, secondo san Tommaso, contengono tutta la legge naturale.

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80. Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come "non-ordinabili" a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati "intrinsecamente cattivi" (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che "esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto". Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un'ampia esemplificazione di tali atti: "Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l'onore del Creatore".

Sugli atti intrinsecamente cattivi, e in riferimento alle pratiche contraccettive mediante le quali l'atto coniugale è reso intenzionalmente infecondo, Paolo VI insegna: "In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (Cfr.
Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell'intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali".

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81. Insegnando l'esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L'apostolo Paolo afferma in modo categorico: "Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio" (
1Co 6,9-10).

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti "irrimediabilmente" cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: "Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) - scrive sant'Agostino -, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?".

Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto "soggettivamente" onesto o difendibile come scelta.

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82. Del resto, l'intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è "non-ordinabile" a Dio e "indegno della persona umana", si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene.

In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale.

La dottrina dell'oggetto, quale fonte della moralità, costituisce un'esplicitazione autentica della morale biblica dell'Alleanza e dei comandamenti, della carità e delle virtù. La qualità morale dell'agire umano dipende da questa fedeltà ai comandamenti, espressione di obbedienza e di amore. E' per questo - lo ripetiamo - che è da respingere come erronea l'opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati, prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate. Senza questa determinazione razionale della moralità dell'agire umano, sarebbe impossibile affermare un "ordine morale oggettivo" e stabilire una qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, che obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della fraternità umana e della verità sul bene, e a detrimento altresi della comunione ecclesiale.

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83. Come si vede, nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell'esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano. Riconoscendo e insegnando l'esistenza del male intrinseco in determinati atti umani, la Chiesa rimane fedele alla verità integrale dell'uomo, e quindi lo rispetta e lo promuove nella sua dignità e vocazione. Essa, di conseguenza, deve respingere le teorie sopra esposte che si pongono in contrasto con questa verità.

Bisogna pero che noi, Fratelli nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l'affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso. In Lui, che è la Verità (Cfr.
Jn 14,6), l'uomo può comprendere pienamente e vivere perfettamente, mediante gli atti buoni, la sua vocazione alla libertà nell'obbedienza alla legge divina, che si compendia nel comandamento dell'amore di Dio e del prossimo. Ed è quanto avviene con il dono dello Spirito Santo, Spirito di verità, di libertà e di amore: in Lui ci è dato di interiorizzare la legge e di percepirla e viverla come il dinamismo della vera libertà personale: "la legge perfetta, la legge della libertà" (Jc 1,25).

Capitolo III "PERCHE' NON VENGA RESA VANA LA CROCE DI CRISTO" - IL BENE MORALE PER LA VITA DELLA CHIESA E DEL MONDO

(1Co 1,17)

"Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi"

(Ga 5,1)
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84. La questione fondamentale che le teorie morali sopra ricordate pongono con particolare forza è quella del rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, ultimamente è la questione del rapporto tra la libertà e la verità.

Secondo la fede cristiana e la dottrina della Chiesa, "solamente la libertà che si sottomette alla Verità conduce la persona umana al suo vero bene.

Il bene della persona è di essere nella Verità e di fare la Verità".

Il confronto tra la posizione della Chiesa e la situazione sociale e culturale d'oggi mette immediatamente in luce l'urgenza che proprio su tale questione fondamentale si sviluppi un'intensa opera pastorale da parte della Chiesa stessa: "Questo essenziale legame di Verità-Bene-Libertà è stato smarrito in larga parte dalla cultura contemporanea e, pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è oggi una delle esigenze proprie della missione della Chiesa, per la salvezza del mondo. La domanda di Pilato: "Che cosa è la verità?" emerge anche dalla sconsolata perplessità di un uomo che spesso non sa più chi è, donde viene e dove va. E così assistiamo non di rado al pauroso precipitare della persona umana in situazioni di autodistruzione progressiva. A voler ascoltare certe voci, sembra di non doversi più riconoscere l'indistruttibile assolutezza di alcun valore morale. Sono sotto gli occhi di tutti il disprezzo della vita umana già concepita e non ancora nata; la violazione permanente di fondamentali diritti della persona; l'iniqua distruzione dei beni necessari per una vita semplicemente umana. Anzi, qualcosa di più grave è accaduto: l'uomo non è più convinto che solo nella verità può trovare la salvezza. La forza salvifica del vero è contestata, affidando alla sola libertà, sradicata da ogni obiettività, il compito di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male. Questo relativismo diviene, nel campo teologico, sfiducia nella sapienza di Dio, che guida l'uomo con la legge morale. A ciò che la legge morale prescrive si contrappongono le cosiddette situazioni concrete, non ritenendo più, in fondo, che la legge di Dio sia sempre l'unico vero bene dell'uomo".

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85. L'opera di discernimento di queste teorie etiche da parte della Chiesa non si restringe alla loro denuncia e al loro rifiuto, ma mira positivamente a sostenere con grande amore tutti i fedeli nella formazione d'una coscienza morale che giudichi e conduca a decisioni secondo verità, come esorta l'apostolo Paolo: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (
Rm 12,2). Quest'opera della Chiesa trova il suo punto di forza - il suo "segreto" formativo - non tanto negli enunciati dottrinali e negli appelli pastorali alla vigilanza, quanto nel tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. La Chiesa ogni giorno guarda con instancabile amore a Cristo, pienamente consapevole che solo in lui sta la risposta vera e definitiva al problema morale.

In particolare, in Gesù crocifisso essa trova la risposta alla questione che tormenta oggi tanti uomini: come può l'obbedienza alle norme morali universali e immutabili rispettare l'unicità e l'irripetibilità della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? La Chiesa fa sua la coscienza che l'apostolo Paolo aveva della missione ricevuta: "Cristo... mi ha mandato... a predicare il vangelo; non pero con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo... Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio" (1Co 1,17 1Co 1,23-24). Cristo crocifisso rivela il senso autentico della libertà, lo vive in pienezza nel dono totale di sé e chiama i discepoli a prendere parte alla sua stessa libertà.

86
86. La riflessione razionale e l'esperienza quotidiana dimostrano la debolezza, da cui è segnata la libertà dell'uomo. E' libertà reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza assoluto e incondizionato in se stessa, ma nell'esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un limite e una possibilità. E' la libertà di una creatura, ossia una libertà donata, da accogliere come un germe e da far maturare con responsabilità. E' parte costitutiva di quell'immagine creaturale, che fonda la dignità della persona: in essa risuona la vocazione originaria con cui il Creatore chiama l'uomo al vero Bene, e ancora di più, con la rivelazione di Cristo, a entrare in amicizia con lui, partecipando alla stessa vita divina. E' insieme inalienabile autopossesso e apertura universale ad ogni esistente, nell'uscita da sé verso la conoscenza e l'amore dell'altro. La libertà si radica dunque nella verità dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.

Ragione ed esperienza dicono non solo la debolezza della libertà umana, ma anche il suo dramma. L'uomo scopre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire questa apertura al Vero e al Bene e che troppo spesso, di fatto, egli preferisce scegliere beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor più, dentro gli errori e le scelte negative, l'uomo avverte l'origine di una ribellione radicale, che lo porta a rifiutare la Verità e il Bene per erigersi a principio assoluto di se stesso: "Voi diventerete come Dio" (
Gn 3,5). La libertà, quindi, ha bisogno di essere liberata. Cristo ne è il liberatore: egli "ci ha liberati perché restassimo liberi" (Ga 5,1).


Veritatis splendor 69