Caterina, Dialogo 159

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CAPITOLO CLIX.

Poi che detto t'ò de' luoghi, cioè di queste navicelle ordinate dallo Spirito santo per lo mezo di questi padroni - e però ti dissi che lo Spirito santo era padrone di queste navicelle fondate col lume della santissima fede, cognoscendo con questo lume che la clemenzia mia, esso Spirito santo, ne sarebbe governatore - e òtti mostrato de' detti luoghi e ordini la loro perfezione, ora ti parlarò della obedienzia e disubidienzia di quelli che sono in questa navicella, parlandoti insieme di tutti e non in particulare, cioè non parlando più d'uno ordine che d'un altro, mostrando insiememente il difetto del disubidiente con la virtù de l'obediente acciò che meglio cognoschi l'uno per l'altro. E come debbe andare, cioè in che modo, colui che va ad entrare ne la navicella de l'ordine.

Come debbe andare colui che vuole entrare alla perfetta obedienzia particulare? Col lume della santissima fede col quale lume cognosca che gli conviene uccidere la propria (179v) volontà col coltello de l'odio d'ogni propria passione sensitiva, pigliando la sposa che gli darà la carità: la sposa, dico, della vera e pronta obedienzia con la sorella della pazienzia e con la nutrice de l'umilità. Che se egli non avesse questa nutrice, l'obedienzia perirebbe di fame, perché nell'anima dove non è questa virtù piccola de l'umilità, l'obedienzia vi muore di subito.

L'umilità non è sola, ma à la serva della viltà e spregio del mondo e di sé, che fa l'anima tenere vile: non appetisce onore ma vergogna. Così morto debbe andare alla navicella de l'ordine quelli che è in età da ciò; ma per qualunque modo egli v'entra - perché ti dissi che in diversi modi Io gli chiamavo § 158 ,383ss.) - egli debbe acquistare e conservare in sé questa perfezione: pigliare largamente e festinamente la chiave de l'obedienzia dell'ordine, la quale chiave diserra lo sportello che è nella porta del cielo, sì come la porta materiale che à lo sportello. Così questi cotali ànno preso a diserrare lo sportello: passando da la chiave grossa generale dell'obedienzia che diserra la porta del cielo, sì come Io ti dissi, in questa porta ànno presa una chiave sottile, passando per lo sportello basso e stretto. (Mt 7,13 Lc 13,24) Il quale non è separato però dalla porta, sì come materialmente tu vedi. Questa chiave debbano tenere poi che essi l'ànno presa, e non gittarla da loro.

E perché i veri obedienti ànno veduto, col lume della fede, che col carico delle ricchezze e col peso de la loro volontà essi non possono passare per questo (180r) sportello senza grande loro fadiga e che non vi lassino la vita, né andare col capo alto che non se'l rompino, chinandolo, voglino essi o no, con loro pena, però gittano via il carico delle ricchezze e della propria loro volontà, osservando il voto della povertà volontaria. E' non vogliono possedere, perché veggono col lume della fede in quanta ruina essi ne verrebbero: essi trapassarebbono l'obedienzia, ché non osservarebbono il voto promesso della povertà volontaria. Essi ne vengono nella superbia, portando ritto il capo della volontà loro. E convenendolo' alcuna volta pure obedire, non el chinano per umilità, ma passanla con superbia, chinando il capo per forza. La qual forza rompe il capo alla volontà, facendo quella obedienzia con dispiacimento de l'ordine e del prelato loro.

A mano a mano essi si vedrebbono rovinare nell'altro trapassando il voto della continenzia, però che colui che non à ordinato l'appetito suo, né spogliatosi della sustanzia temporale, piglia le molte conversazioni e truova degli amici assai, che l'amano per propria utilità. Dalle conversazioni vengono alle strette amistà, e'l corpo loro tengono in delizie, perché non ànno la baglia de l'umilità, né la sorella sua della viltà; e però stanno nel piacere di loro medesimi, vivendo agiatamente e dilicatamente, non come religiosi ma come signori, non con la vigilia e orazione. Per queste e molte altre cose, le quali l'addivengono e fanno perché ànno che spendere (180v) - che se non avessino che spendere non l'adiverrebbe - caggiono nella immondizia, corporale o mentale. Che se alcuna volta, per vergogna o per non avere il modo, essi se n'astengono corporalmente, non si asterranno mentalmente, però che impossibile sarebbe a quelli che sta in molta conversazione, in dilicatezza di corpo, in prendere disordinatamente i cibi e senza la vigilia e orazione, conservare la mente sua pura. (Mt 26,41 Mc 14,38 Lc 22,46) E però il perfetto obediente vede dalla lunga, col lume della santissima fede, il male e il danno che gli verrebbe del possedere la sustanzia temporale e l'andare col peso della propria volontà. E vede bene che pure passare gli conviene per questo sportello, e che egli il passarebbe con morte e non con vita, perché non l'avrebbe diserrato con la chiave dell'obedienzia. Per che ti dissi che pure passare gli conviene, e così è; cioè che, non partendosi della navicella dell'ordine, pure, voglia egli o no, gli converrà passare per la strettezza dell'obedienzia del prelato suo.

E però il perfetto obediente leva sé sopra di sé e signoreggia la propria sensualità. Levandosi sopra a' sentimenti suoi con fede viva, à messo l'odio nella casa dell'anima sua come servo, perché cacci il nimico de l'amore proprio, però che non vuole che la sposa sua obedienzia - la quale gli fu data dalla madre della carità, sposata con l'anello della fede - non vuole che sia offesa, e però ne caccia il nimico e mettevi la compagna e la nutrice della sposa sua. L'odio à cacciato il nimico, e l'amore dell'obedienzia vi mette dentro gli amatori (181r) della sposa sua che amano la sposa dell'obedienzia: ciò sono le vere e reali virtù, e costumi e l'osservanzie de l'ordine. Unde questa dolce sposa entra dentro nell'anima con la sorella della pazienzia e con la nutrice de l'umilità accompagnata con la viltà e dispiacere di sé. Poi che ella è entrata dentro, ella possiede la pace e la quiete, perché à messi di fuore i nimici suoi. Sta nel giardino della vera continenzia col sole del lume de l'intelletto, dentrovi la pupilla della fede, ponendosi per obietto la mia Verità, perché l'obietto suo è verità. Èvvi il fuoco che rende caldo a tutti i compagni e servi suoi, perché osserva l'osservanzie de l'ordine con fuoco d'amore.

Quali sono i nimici suoi che stanno di fuore? Il principale è l'amore proprio che produce superbia, nimico della carità e umilità; la impazienzia contraria alla pazienzia; la disubidienzia contra la vera obedienzia; la infedelità contraria alla fede. Il presummere e sperare in sé non s'accorda con la speranza vera che l'anima debbe avere in me. La ingiustizia non s'acorda con la giustizia, né la stoltizia con la prudenzia, né la intemperanzia con la temperanzia, né il trapassare i costumi dell'ordine con l'osservanzia de l'ordine, né le gattive conversazioni di coloro che sceleratamente vivono con le buone conversazioni, anco sono nimici.

Questi sono i nimici crudeli suoi: èvvi l'ira contra la benivolenzia, la crudeltà contra la pietà, l'iracundia contra la benignità, (181v) l'odio delle virtù contro all'amore d'esse virtù, la immondizia contra alla purità, la negligenzia contro alla sollicitudine, la ignoranzia contro al cognoscimento, e il molto dormire contro alla vigilia e continua orazione.

E perché col lume della fede cognobbe che questi erano tutti nimici che avevano a contaminare la sposa sua della santa obedienzia, però mandò l'odio che gli cacciasse, e l'amore che mettesse dentro gli amici suoi. Unde l'odio col coltello suo uccise la propria perversa volontà, la quale volontà, nutricata da l'amore proprio, dava vita a tutti questi nimici della vera obedienzia. Mozzo il capo al principale, per cui si conservano tutti gli altri, rimane libero e in pace, senza veruno. Non à chi gli li faccia, perché l'anima à tolto da sé quello che la teneva in amaritudine ed in tristizia.

E che guerra à l'obediente? fagli guerra la ingiuria? No, ché egli è paziente; la quale pazienzia è sorella dell'obedienzia. Songli gravi i pesi de l'ordine? No, ché l'obedienzia ne'l fa osservatore. Dàgli pena la grave obedienzia? No, ché egli à conculcata la sua volontà e non vuole investigare né giudicare la volontà del prelato suo, ma col lume della fede giudica la volontà mia in lui, credendo in verità che la clemenzia mia gli fa comandare e non comandare, secondo che è di necessità alla sua salute. Recasi egli a dispiacere o a schifezza di fare le cose vili de l'ordine? o sostenere le beffe e rimproverii, scherni e villanie, che spesse volte (182r) gli sono fatte e dette, e l'essere tenuto vile? No, perché egli à conceputo amore alla viltà: è dispiaciuto a se medesimo con perfettissimo odio; anco gode con pazienzia, esultando in gaudio e in giocondità con la sposa sua della vera obedienzia. Egli non si contrista se non dell'offese che vede fare a me, suo Creatore.

La sua conversazione è con quelli che temono me in verità, e se pure conversa con quelli che sono separati dalla volontà mia, non el fa per conformarsi co' difetti loro, ma per sottrargli dalla loro miseria, perché con carità fraterna quello bene che à in sé vorrebbe porgere a loro, vedendo che più gloria e loda tornarebbe al nome mio avere molti di quelli che osservassino l'ordine, che pure di lui. E però s'ingegna di chiamare e religiosi e secolari con la parola e con l'orazione: per qualunque modo egli può s'ingegna di trarli della tenebre del peccato mortale. Sì che le conversazioni del vero obediente sono buone e perfette, o con giusti o con peccatori che elli sieno, per l'ordinato affetto e larghezza di carità.

Della cella si fa uno cielo, dilettandosi di parlare e conversare in me, sommo ed eterno Padre, con affetto d'amore, fugendo l'ozio con l'umile e continua orazione. E quando i pensieri per illusione del dimonio gli abondano in cella, non si pone a sedere nel letto della negligenzia abracciando l'ozio, né vuole investigare per ragione le cogitazioni del cuore né i suoi pareri ma fugge l'ozio, levando sé sopra (182v) di sé con odio sopra'l sentimento sensitivo, e con vera umilità e pazienzia, a portare le fadighe che sente nella mente sua. Resiste con la vigilia e umile orazione, veghiando l'occhio dell'intelletto suo in me vedendo col lume della fede che Io so' suo sovenitore, e che Io posso, so e voglio subvenirlo, e apro le braccia della mia benignità, e però gliele permetto, acciò che sia più sollicito di fuggire da sé e venire a me. E se l'orazione mentale, per la grande fadiga e tenebre della mente, paresse che gli venisse meno, egli piglia la vocale o l'esercizio corporale, acciò che con questi mezzi fugga l'ozio. Col lume raguarda in me che per amore glieli do, unde trae fuore il capo della vera umilità, reputandosi indegno della pace e quiete della mente, come gli altri servi di Dio, e degno delle pene. Perché già à avilito nella mente sua se medesimo con odio e rimproverio di sé, non pare che si possa saziare delle pene, non mancandogli la speranza nella providenzia mia, ma con fede e con la chiave della obedienzia passa per questo mare tempestoso nella navicella dell'ordine. E così è abitatore della cella, fugendovi l'ozio come detto è.

L'obediente vuole essere il primo che entri in coro e l'ultimo che n'esca. E quando vede il frate più obediente e sollicito di lui, egli piglia una santa invidia, furandogli quella virtù, non volendo però che ella diminuisca in colui, che se egli volesse, sarebbe separato dalla carità del prossimo (183r) suo.

L'obediente non abandona il refettorio, anco il visita continuamente, e dilettasene di stare alla mensa co' povarelli. E in segno che se ne diletta, per non avere materia di stare di fuore, à tolta da sé la sustanzia temporale osservando perfettamente il voto della povertà; e tanto perfettamente, che la necessità del corpo tiene con rimproverio. La cella sua è piena dell'odore della povertà e non di panni; non à pensiero che i ladri vengano per imbolarli, né che la ruggine o tignuole gli rodino i vestimenti suoi. (Mt 6,19-20 Lc 12,33) E se gli è donato alcuna cosa non à pensiero di riponerla,ma liberamente la comunica co' fratelli suoi, non pensando il dì di domane, ma nel dì presente tolle la sua necessità, pensando solo del reame del cielo (Mt 6,33-34) e della vera obedienzia in che modo meglio la possi osservare. E perché per la via de l'umilità meglio si conserva, egli si sottomette al piccolo come al grande, e al povero come al ricco. Di tutti si fa servo: non rifiutando mai labore ogni uno serve caritativamente. L'obediente non vuole fare l'obedienzia a suo modo, né eleggere tempo né luogo, ma a modo de l'ordine e prelato suo.

Tutto questo fa senza pena o tedio di mente il vero obediente e perfetto. Egli passa con questa chiave in mano per lo sportello stretto de l'ordine agiatamente e senza violenzia (183v) perché à osservato e osserva il voto della povertà voluntaria, della continenzia vera e della perfetta obedienzia. À levata l'altezza della superbia e chinato il capo all'obedienzia per umilità, e però non rompe il capo per impazienzia, ma è paziente con fortezza e longa perseveranzia, che sono amici dell'obedienzia. Passa l'assedio delle dimonia mortificando e macerando la carne sua, spogliandola delle delizie e diletti, e vestela delle fadighe dell'ordine, con fede e senza sdegno. Come parvolo che non tiene a mente la battitura del padre né ingiuria che gli fosse fatta, così questo parvolo non tiene a mente né ingiurie né fadighe né battiture che ricevesse nell'ordine dal prelato suo ma, chiamandolo, umilemente torna a lui, non passionato d'odio né d'ira né di rancore, ma con mansuetudine e benivolenzia.

Questi sono quelli parvoli che contò la mia Verità a' discepoli, quando contendevano insieme quale di loro fosse il magiore, unde facendo venire uno fanciullo disse: «Lassate i parvoli venire a me, ché di questi cotali è il reame del cielo; e chi non si umilierà come questo fanciullo, cioè che egli abbi la condizione sua, non intrarà nel regno del cielo». (Mt 19,14 Mt 18,3 Mc 10,14-15 Lc 18,16-17) Però che chi s'aumilia, carissima figliuola, sarà esaltato, e chi s'esalta sarà umiliato. (Mt 23,12 Lc 14,11 Lc 18,14) Anco questo medesimo disse la mia Verità.

Dunque giustamente questi parvoli umili, che per amore (184r) si sono umiliati e fatti sudditi con vera e santa obedienzia non ricalcitrando all'ordine né al prelato loro, sono esaltati da me, sommo ed eterno Padre, co' veri cittadini della vita beata, dove sono remunerati d'ogni loro fadiga, e in questa vita gustano vita eterna.



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CAPITOLO CLX.

Compiesi in loro la parola che disse il dolce e amoroso Verbo unigenito mio Figliuolo quando rispose a Pietro che l'avea dimandato: «Maestro, noi aviamo lassato ogni cosa per lo tuo amore e aviamo seguitato te: che ci darai?» La Verità mia rispose «Daròvi per uno cento e vita eterna possederete»; (Mt 19,27-30 Mc 10,28-30 Lc 18,28-30) quasi volesse dire la mia Verità: ben ài fatto Pietro, ché in altro modo non mi potevi seguitare, ma Io in questa vita te ne darò per uno cento. E quale è questo cento, dilettissima figliuola, che dopo questo seguita vita eterna? di quale intese e disse la mia Verità? di sustanzia temporale? No propriamente, poniamo che alcuna volta ne l'elemosiniere Io facci multiplicare i beni temporali. Ma di quali? Di quello che dà la propria sua volontà, che è una volontà, Io ne gli rendo cento per questa una.

Perché ti pongo numero di cento? Perché cento è numero perfetto, e non puoi aggiugnervi più, se tu non ti ricominci al primo. Così la carità è perfettissima sopra tutte l'altre virtù, ché non si può salire a virtù più perfetta. Ricominciti bene al cognoscimento e cresci numero di centinaia in merito, ma tu giugni pure al numero del cento. Questo è (184v) quello cento che è dato a quelli che ànno dato l'uno della loro volontà, e nell'obbedienzia generale e in questa particulare.

E con questo cento avete vita eterna, però che solo la carità è quella che entra dentro come donna, menandone seco il frutto di tutte le virtù - e l'altre rimangono di fuore - in me, vita durabile, in cui essi gustano vita eterna, però che Io so' essa vita eterna. Non ci salie la fede, perché essi ànno quello, per pruova e in essenzia, che ànno creduto per fede; né la speranza, perché essi sono in possessione di quello che ànno sperato; e così tutte l'altre virtù. Solo la carità entra come reina e possiede me, suo possessore.

Vedi dunque che questi parvoli ricevono per uno cento e vita eterna con esso, ricevendo qui il fuoco della divina mia carità, posta per lo numero del cento come detto è. E perché da me ànno ricevuto questo cento, stanno in ammirabile allegrezza cordiale, perché nella carità non cade tristizia ma allegrezza: fa il cuore largo e liberale e non doppio né stretto. L'anima che è ferita di questa dolce saetta non mostra una in faccia e in lingua e un'altra abbi nel cuore; non serve né va fittivamente né con ambizione al prossimo suo, però che la carità è aperta ad ogni creatura. E però l'anima che la possiede non cade in pena né in tristizia affligitiva, né si scorda dall'obedienzia, ma è obediente infino alla morte.



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CAPITOLO CLXI.

Il contrario fa il miserabile obediente, che sta nella navicella dell'ordine con tanta pena in sé (185r) e in d'altrui, che in questa vita gusta l'arra de l'inferno. Egli sta sempre in tristizia, in confusione di mente e stimolo di coscienzia, con dispiacimento dell'ordine e del prelato suo: incomportabile è a se medesimo. Or che è a vedere, figliuola mia, quello che à presa la chiave dell'obedienzia dell'ordine, con la disobedienzia alla quale egli s'è fatto schiavo, e la disobedienzia à fatta donna con la compagna della impazienzia, nutricati dalla superbia col proprio piacere. La quale superbia detto è che esce del proprio amore di sé.

Tutto si rivolle in contrario a quello che detto t'ò della vera obedienzia.

E come può questo misero stare altro che in pena, che è privato della carità? Conviengli chinare il capo della volontà sua per forza, e la superbia gliele tiene ritto. Tutte le sue volontà si scordano dalla volontà dell'ordine. Egli gli comanda l'obedienzia, e questi ama la disobedienzia; l'ordine comanda la povertà volontaria e tu disobediente la fuggi possedendo e desiderando la ricchezza; vuole continenzia e purità, e tu immondizia. Trapassando questi tre voti il religioso, figliuola mia, cade in ruina, e in tanti miserabili difetti che l'aspetto suo non pare religioso ma uno dimonio incarnato, sì come in un altro luogo Io ti narrai più distesamente. § 125 Non lassarò però che alcuna cosa non te ne conti dello inganno loro e del frutto che traggono (185v) della disobedienzia, a commendazione ed esaltazione dell'obedienzia.

Questo misero è ingannato dal proprio amore, perché l'occhio de l'intelletto suo s'è posto con fede morta nel piacere della propria sensualità e nelle cose del mondo. À saltato il mondo col corpo e rimasovi con l'affetto. E perché gli pare fadiga l'obedienzia, vuole disubidire per fuggire fadiga, e egli cade in massima fadiga, ché pure obedire gli conviene o per forza o per amore. Meglio gli era, e meno fadiga, a fare l'obedienzia per amore che senza amore.

O come è ingannato! E niuno è che lo 'nganni se non egli medesimo. Volendo piacersi egli si dispiace, dispiacendogli l'operazioni sue stesse che egli fa, per l'obedienzia che gli è imposta. Volendo stare in grande diletto e farsi vita eterna in questa vita, e l'ordine vuole che egli sia peregrino, e continuamente gliel dimostra; ché quando egli s'è posto in un luogo a sedere per piacere e diletto che egli vi truova ed egli è mutato, nella mutazione à pena perché la volontà sua era viva a non volere. E se egli non obedisce, egli è subietto a convenirgli portare la disciplina e fadiga dell'ordine. E così sta in continuo tormento.

Vedi dunque che s'inganna: volendo fuggire le pene cade entro le pene, perché la cechità sua non el lassa cognoscere la via della vera obedienzia, la quale è una via di verità fondata nell'obediente Agnello unigenito mio Figliuolo, che gli (186r) tolle la pena. E però va per la via della bugia credendovi trovare diletto, ed egli vi truova pena e amaritudine. Chi ve'l guida? L'amore che egli à per la propria passione al disobedire. Questi, come stolto, vuole navicare in questo mare tempestoso sopra le braccia sue, fidandosi nel suo misero sapere, e non vuole navicare sopra le braccia de l'ordine e del prelato suo. Questi sta bene nella navicella de l'ordine corporalmente, ma non mentalmente, anco n'è escito per desiderio, non osservando l'ordinazioni né i costumi de l'ordine, né i tre voti che egli promise d'osservare nella sua professione. Egli sta nel mare della tempesta percosso da venti molto pericolosi e contrari alla navicella.

Sta attaccato solo per li panni, portando l'abito in sul corpo ma non in cuore.

Questi non è frate, ma uno uomo vestito: uomo in forma, ma in effetto e nel vivere suo è peggio che uno animale. E non vede egli che più fadiga gli è a navicare con le braccia sue che con l'altrui? e non vede egli che egli sta a pericolo di morte eternale, come il panno si staccasse dalla navicella? ché subito che egli fosse staccato col mezzo della morte, non avrebbe più remedio. No, che egli no'l vede, perché con la nuvila de l'amore proprio, unde gli è venuta la disobedienzia, s'è privato del lume, ché non el lassa vedere i guai suoi. Adunque miserabilemente s'inganna.

Che frutto produce l'arbolo di questo misero? Frutto di morte, perché à piantata la radice dell'affetto suo nella superbia che egli à tratta del piacere e amore proprio di sé; e però ogni cosa n'esce corrotto. § 93 ,448ss.) I fiori le foglie e il frutto e i rami dell'arbolo tutti sono guasti. I tre rami che à questo arbolo sono guasti, cioè l'obedienzia la povertà e la continenzia i quali sono tre rami che si contengono nel pedone dell'affetto, il quale è male piantato come detto è. Le foglie, ciò sono le parole che produce questo arbolo, sono corrotte per sì fatto modo, che nella bocca d'uno ribaldo secolare non (186v) starebbono. E s'egli avrà ad anunziare la parola mia, egli la gitta con parlare pulito: non schietto, ch'egli attenda a pascere l'anime di questo seme della mia parola, ma a parlare molto pulitamente. § 125 ,1610ss.) Se tu raguardi i fiori di questo arbore, essi gittano puzza, ciò sono le varie e diverse cogitazioni le quali voluntariamente riceve con diletto e piacimento, non fuggendo il luogo né le vie che ve'l fanno venire; anco le cerca per venire a compimento del peccato, il quale è uno frutto che l'uccide: tollegli la vita della grazia e dàgli morte eternale. E che puzza gitta questo frutto generato col fiore dell'arbolo? Gitta puzza di disobedienzia: col pensiero del cuore vuole investigare e giudicare in male la voluntà del prelato suo; gitta immundizia, dilettandosi con le molte conversazioni col miserabile vocabolo delle divote.

O misero! tu non t'avedi che sotto il colore della divozione escirai con la brigata de' figliuoli. Questo ti dà la disobedienzia tua. Non ài presi i figliuoli delle virtù, sì come fa il vero obediente. Egli cerca, figliuola mia, d'ingannare il prelato suo quando vede che gli diniega quello che la perversa voluntà sua vorrebbe, usando le foglie delle parole lusinghevoli o aspre, parlando inreverentemente e con rimproverio. Egli non comporta il fratello suo, né può sostenere una piccola parola né reprensione che gli fosse fatta, ma subito trae fuore il frutto avelenato della impazienzia, ira e odio verso il fratello suo, giudicando in suo male quello che egli à fatto in suo bene. E così scandalizato vive in pena l'anima e il corpo. Perché è dispiaciuto al fratello suo? Perché piacque a sé sensitivamente.

Egli fugge la cella come se ella fosse uno veleno, perché egli è escito della cella del cognoscimento di sé, per la qual cosa egli venne a disobedienzia: però non può stare nella cella attuale.

Nel refettorio non vuole apparire, se non come a suo nimico, mentre che egli (187r) à che spendere: non avendo che, la necessità ve'l mena. Bene feciono dunque gli obedienti che volsono osservare il voto della povertà per non avere che spendere, acciò che non gli traesse la pecunia della soave mensa del refettorio, dove l'obediente nutrica in pace e in quiete l'anima e 'l corpo. Non à pensiero d'apparecchiare né provedersi come il misero; il quale misero, al gusto suo il visitare el refettorio gli pare amaro, e però el fugge. Al coro sempre vuole essere l'ultimo ad entrare ed il primo che n'esca. Con le labbra sue s'appressima a me, e col cuore se ne dilonga. (Mt 15,7-8) El capitolo per timore della penitenzia il fugge volentieri quando egli può; lo starvi fa come se fosse suo nimico mortale, con vergogna e confusione nella mente sua: quello che nel commettere le colpe non ebbe, non vergognandosi di commettere le colpe dei peccati mortali. Chi ne gli è cagione? La disobedienzia.

In lui non è vigilia né orazione, e non tanto l'orazione mentale, ma spesse volte l'officio al quale egli è obligato no'l dirà; non carità fraterna, ché egli non ama altro che sé, non d'amore ragionevole ma bestiale.

Tanti sono i mali che gli caggiono in capo al disobediente, e tanti sono i dolorosi frutti suoi che la lingua tua non gli potrebbe narrare.

O disobedienzia che spogli l'anima d'ogni virtù e vestila d'ogni vizio! O disobedienzia che privi l'anima del lume dell'obedienzia, tollile la pace e dà'le la guerra, tollile la vita e dà'le la morte! Traendola della navicella dell'osservanzie dell'ordine affoghila nel mare, facendola navicare sopra le braccia sue e non sopra quelle dell'ordine. Tu la vesti d'ogni miseria e fa'la morire di fame, tollendole il cibo del merito dell'obedienzia. Tu le dài continua amaritudine e privila d'ogni diletto di dolcezza e d'ogni bene, e fa'la stare in ogni male. In questa vita le fai portare l'arra de' crociati tormenti; e se egli non si corregge inanzi che i panni si stacchino dalla navicella col mezzo della morte, tu, disobedienzia, conduci l'anima all'eterna dannazione, con le dimonia che caddono di cielo perché furono ribelli a me e (187v) andarono nel profondo. Così tu disobediente, perché se' stato ribello all'obedienzia, e questa chiave con la quale dovevi aprire la porta del cielo l'ài gittata da te, e con la chiave della disobedienzia ài aperto l'inferno.



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CAPITOLO CLXII.

O carissima figliuola, e quanti sono questi cotali che al dì d'oggi si pascono in questa navicella? Molti, unde pochi sono i contrari, cioè i veri obedienti. è vero che tra' perfetti e questi miserabili ci sono assai di quelli che si vivono nell'ordine comunemente, che né perfetti sono come essi debbono essere, né gattivi sono. Ciò è che pure conservano la conscienzia loro che non peccano mortalmente: stanno in tepidezza e freddezza di cuore, e se essi non esercitano un poco la vita loro con l'osservanzie dell'ordine, stanno a grande pericolo. E però l'è bisogno molta sollicitudine, e non dormire, e levarsi da la tepidezza loro, che se essi vi permangono, sono atti a cadere. E se pure non cadessino, staranno con uno loro parere e piacere umano, colorato col colore de l'ordine, studiandosi più d'osservare le cerimonie de l'ordine che propriamente l'ordine. E spesse volte, per poco lume, saranno atti a cadere in giudicio in quegli che più perfettamente di loro osservano l'ordine, e in meno perfezione le cerimonie delle quali essi si fanno osservatori.

Sì che in ogni modo l'è nocivo a permanere nell'obedienzia comune, ciò è che freddamente passano l'obedienzia loro, con molta fadiga e con molta pena: però che al cuore freddo pare fadigoso il portare, portano fadighe assai con poco frutto, offendono la loro perfezione nella quale essi sono entrati e sono tenuti d'osservarla. E poniamo che faccino meno male che gli altri de' quali Io t'ò contato, pure male fanno: ché essi non si partirono dal secolo per stare con la chiave generale dell'obedienzia, ma per diserrare il cielo con la chiave dell'obedienzia de l'ordine. La quale chiavicella debba essere col funicello della viltà, avilendo se medesimo, e col cingolo (188r) de l'umilità, come detto è. E tenerla stretta nella mano de l'affocato amore.

Sappi carissima figliuola, che essi sono bene atti a giognere alla grande perfezione, se essi vogliono, perché vi sono più presso che gli altri miseri. Ma in un altro modo sono più malagevoli questi, nel grado loro, a levargli dalla loro imperfezione, che lo iniquo, nel suo grado, dalla sua miseria. E sai tu perché? Perché questo si vede manifestamente che egli fa male, e la conscienzia gliele manifesta; unde per l'amore proprio di sé, che l'à indebilito, non si sforza ad escire di quella colpa, ché egli vede con uno lume naturale ch'egli fa male quello che fa. Unde chi el dimandasse: e non fai tu male di fare questo? direbbe: sì, ma è tanta la mia fragilità, che non pare che io ne possa escire. Ben che egli non dice il vero, ché con l'adiutorio mio ne può escire se vuole non di meno pure cognosce che fa male: col quale cognoscimento gli è agevole a poterne escire, se vuole.

Ma questi tiepidi, che né uno grande male fanno né un grande bene, non cognoscono la freddezza dello stato loro, né in quanto dubio stanno. Non cognoscendola non si curano di levarsene, né curano che lo' sia mostrato; ed essendolo' mostrato, per la freddezza del cuore loro si rimangono legati nella loro longa consuetudine usata.

Che modo ci sarà in costoro a fargli levare? Che tolgano le legna del cognoscimento di sé, con odio del proprio piacimento e reputazione, e mettinle nel fuoco della divina mia carità, sposando di nuovo, come se pur allora entrassino nell'ordine, la sposa della vera obedienzia con l'anello della santissima fede; e non dormino più in questo stato, ché egli è molto spiacevole a me e danno a loro. Drittamente si potrebbe dire a loro quella parola: «Maladetti tiepidi! che almeno foste voi pure ghiacci. Se voi non vi correggete sarete vomicati dalla bocca mia» (Ap 3,15-16) per quello modo che detto t'ò (188v), che non levandosi sono atti a cadere, e cadendo sarebbono riprovati da me. Inanzi vorrei che foste ghiacci: ciò è che inanzi vi foste stati nel secolo con l'obedienzia generale, la quale, a rispetto del fuoco de' veri obedienti, si mostra quasi uno ghiaccio. E però dissi: «almeno foste voi pure ghiacci».

Òtti dichiarata questa parola acciò che in te non cadesse errore di credere che Io el volesse più tosto nel ghiaccio del peccato mortale che nella tiepidezza della imperfezione. No, ché io non posso volere colpa di peccato, ché in me non è questo veleno, anco mi dispiacque tanto ne l'uomo, che Io non volsi che passasse senza punizione. E non essendo l'uomo sufficiente a portare la pena che gli seguitava dopo la colpa, mandai il Verbo de l'unigenito mio Figliuolo. Egli con l'obedienzia la fabricò sopra 'l corpo suo.

Levinsi dunque con esercizio, con vigilia con umile e continua orazione, (Mt 26,41 Mc 14,38) specchinsi ne l'ordine loro e ne' padroni di questa navicella, che sono stati uomini come eglino, nutricati d'uno medesimo cibo, nati in uno medesimo modo. E quello Dio so' ora che allotta. La potenzia mia non è infermata, la mia voluntà non è diminuita in volere la salute vostra, né la sapienzia mia in darvi lume, acciò che cognosciate la mia verità.

Adunque possono se essi vogliono, pure che se la rechino dinanzi all'occhio de l'intelletto, privandosi della nuvila dell'amore proprio, e col lume corrano co' perfetti obedienti. Con questo ci giogneranno, in altro modo no, sì che il rimedio ci è.



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CAPITOLO CLXIII.

Questo è quello vero remedio che tiene il vero obediente, e ogni dì di nuovo il tiene, augmentando la virtù dell'obedienza col lume della fede, desiderando scherni e villanie e che gli sieno posti i grandi pesi dal prelato suo, perché la virtù dell'obedienzia e della pazienzia sua sorella non inrugginiscano, acciò che nel tempo ch'elle bisognano adoperare, elle non venissino meno o dessorgli molta malagevolezza. E però continuamente (189r) suona lo stormento del desiderio: non lassa passare il tempo perché n'à fame. Ella è una sposa sollicita che non vuole stare oziosa.

O obedienzia dilettevole, o obedienzia piacevole! Obedienzia soave, obedienzia illuminativa, perché ài levata la tenebre del proprio amore. O obedienzia che vivifichi, dando nell'anima la vita della grazia, che te à eletta per sposa, toltole la morte della voluntà propria che dà guerra e morte nell'anima! Tu se' larga, ché d'ogni creatura che à in sé ragione ti fai suddita. Tu se' benigna e pietosa: con benignità e mansuetudine porti ogni grande peso, perché se' accompagnata con la fortezza e vera pazienzia. Tu se' coronata della corona d'essa perseveranzia: tu non vieni meno per importunità del prelato né per grandi pesi che egli ti ponesse senza discrezione, ma col lume della fede ogni cosa porti. Tu se' sì legata con l'umilità che niuna creatura la può trare della mano del santo desiderio de l'anima che ti possiede.

E che diceremo, dilettissima e carissima figliuola, di questa eccellentissima virtù? Diremo che ella è un bene senza veruno male. Sta nella nave, nascosta, che niuno vento contrario le può nuocere. Fa navicare l'anima sopra le braccia dell'ordine e del prelato, e non sopra le sue, perché il vero obediente non à a rendere ragione di sé a me, ma il prelato di cui egli è stato suddito.

Inamorati, dilettissima figliuola, di questa gloriosa virtù. Vuogli tu essere grata de' benefizi ricevuti da me Padre eterno? Sia obediente, però che l'obedienzia ti mostra se tu se' grata, perché procede dalla carità.

Ella ti dimostra se tu non se' ignorante, perché procede dal cognoscimento della mia Verità. Unde ella è uno bene cognosciuto nel Verbo, il quale v'insegnò la via dell'obedienzia come vostra regola, facendosi obediente infino all'obrobriosa morte della croce. (Ph 2,8) Nella cui obedienzia, che fu la chiave che diserrò il cielo, è fondata l'obedienzia generale data a voi e questa particulare, sì come nel principio del trattato di questa obedienzia Io ti narrai. § 154 ,91ss.) Questa obedienzia dà uno (189v) lume nell'anima, col quale mostra che ella è fedele a me, e fedele all'ordine e al prelato suo. Nel quale lume della santissima fede à dimenticato sé, non cercando sé per sé, perché nell'obedienzia acquistata col lume della fede à mostrato che nella voluntà sua egli è morto ad ogni proprio sentimento. Il quale sentimento sensitivo cerca le cose altrui e non le sue, come fa il disobediente che vuole investigare la volontà di chi gli comanda e giudicarla secondo il suo basso parere e vedere tenebroso, ma non la sua propria voluntà che gli dà morte. Il vero obediente col lume della fede à giudicata la voluntà del suo prelato in bene, e però non cerca la voluntà sua ma china il capo, e con l'odore della vera e santa obedienzia nutrica l'anima sua. E tanto cresce nell'anima questa virtù quanto si dilata nel lume della santissima fede, perché la carità che à partorita l'obedienzia procede dal lume della fede. Ché con quello lume della fede col quale l'anima cognosce sé e me, con quello m'ama e s'aumilia; e quanto più ama ed è umiliata, tanto più è obediente.

E l'obedienzia, con la pazienzia sua sorella, dimostrano se in verità l'anima è vestita del vestimento nuziale della carità, col quale vestimento intrate in vita eterna.

Unde l'obedienzia diserra il cielo e rimane di fuore; e la carità, che diede questa chiave, entra dentro col frutto dell'obedienzia. Ogni virtù, sì come Io ti dissi, rimane di fuore e questa entra dentro; ma all'obedienzia è appropriato, ché ella è chiave che apre. Perché con la disobedienzia del primo uomo fu serrato il cielo, e con l'obedienzia de l'umile fedele e immaculato Agnello unigenito mio Figliuolo fu diserrata vita eterna, che tanto tempo era stata serrata, sì come detto t'ò.




Caterina, Dialogo 159