Caterina, Dialogo 30

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CAPITOLO XXX.

Allora quell'anima, quasi come ebbra, non si poteva tenere, ma quasi stando nel cospetto di Dio diceva: - O eterna misericordia, la quale ricuopri i difetti delle tue creature, non mi maraviglio che tu dica di coloro che escono del peccato mortale e tornano a te: «Io non mi ricordarò che tu m'offendessi mai». (Jr 31,34 Ez 18,21-22 He 10,17) O misericordia ineffabile, non mi maraviglio che tu dica questo a coloro che escono dal peccato, quando tu dici di coloro che ti perseguitano; «Io voglio che mi preghiate per loro, acciò che Io lo' facci misericordia».

O misericordia, la quale esce dalla deità tua, Padre eterno, la quale governa con la tua potenzia tutto quanto il mondo! Nella misericordia tua fummo creati; nella misericordia tua fummo ricreati nel sangue del tuo Figliuolo.

La misericordia tua ci conserva. La misericordia tua fece giocare in sul legno della croce il Figliuolo tuo alle braccia, giocando la morte con la vita e la vita con la morte. E allora la vita (26r) sconfisse la morte della colpa nostra, e la morte della colpa tolse la vita corporale allo immaculato Agnello. Chi rimase vénto? La morte. Chi ne fu cagione? La misericordia tua.

La tua misericordia dà vita; ella dà lume per lo quale si cognosce la tua clemenzia in ogni creatura, ne' giusti e ne' peccatori. Nell'altezza del cielo riluce la tua misericordia, ciò è ne' santi tuoi. Se io mi vollo alla terra, ella abonda della tua misericordia. Nella tenebre dello 'nferno riluce la tua misericordia non dando tanta pena a' dannati quanta meritano.

Con la misericordia tua mitighi la giustizia; per misericordia ci ài lavati nel sangue; per misericordia volesti conversare con le tue creature. O pazzo d'amore: non ti bastò incarnare, che anco volesti morire? Non bastò la morte, che anco descendesti allo inferno, traendone i santi padri, per adempire la tua verità e misericordia in loro? Però che la tua bontà promette bene a coloro che ti servono in verità, imperò discendesti al limbo per trare di pena chi t'aveva servito, e renderlo' il frutto delle loro fadighe! La misericordia tua veggo che ti costrinse a dare anco più a l'uomo, ciò è lassandoti in cibo acciò che noi debili avessimo conforto, e gl'ignoranti smemorati non perdessero la ricordanza dei benefizi tuoi. § 112 E però el dài ogni dì a l'uomo, rappresentandoti nel sacramento dell'altare nel corpo mistico della santa Chiesa. Questo chi l'à fatto? La misericordia tua.

O misericordia! Il cuore ci s'affoga a pensare di te, ché ovunque io mi vollo a pensare non truovo altro che misericordia. O Padre eterno, perdona all'ignoranzia mia, che ò presunto di favellare innanzi a te, ma l'amore della tua misericordia me ne scusi dinanzi alla benignità tua. -

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CAPITOLO XXXI.

Poi che quella anima col verbo della parola ebbe un poco dilatato il cuore (Is 60,5 Ps 118 Ps 32) nella misericordia di Dio, umilemente aspettava che la promessa le fosse attenuta. E ripigliando (26v) Dio le parole sue diceva:

- Carissima figliuola, tu ài narrato dinanzi a me della misericordia mia, perché Io te la diei a gustare e a vedere nella parola che Io ti dissi, dicendo: «Costoro sono coloro per li quali vi prego che mi preghiate».

Ma sappi che senza alcuna comparazione è più la misericordia mia verso di voi che tu non vedi, però che 'l tuo vedere è imperfetto e finito, e la misericordia mia è perfetta e infinita, sì che comparazione non ci si può ponere se non quella che è da la cosa finita alla infinita.

Ò voluto che l'abbi gustata questa misericordia ed anco la dignità de l'uomo la quale di sopra ti mostrai, acciò che tu meglio cognosca la crudeltà e la indegnità degl'iniqui uomini che tengono per la via di sotto.

Apre l'occhio dell'intelletto e mira costoro che volontariamente s'anegano, e mira in quanta indegnità essi sono caduti per le colpe loro.

Prima è che essi sono diventati infermi, e questo si è quando conceperono il peccato mortale nelle menti loro; poi el partoriscono e perdono la vita della grazia.

E come il morto, che niuno sentimento può adoperare, né si muove da se medesimo, se none quanto egli è levato da altrui, così costoro, che sono annegati nel fiume de l'amore disordinato del mondo, sono morti a grazia. E perché essi sono morti, la memoria non ritiene il ricordamento della mia misericordia; l'occhio de l'intelletto non vede né cognosce la mia verità, perché il sentimento è morto, ciò è che lo 'ntelletto non s'à posto dinanzi altro che sé, con l'amore morto della propria sensualità. E però la volontà ancora è morta alla volontà mia, perché non ama altro che cose morte.

Essendo morte queste tre potenzie, tutte l'operazioni sue, e attuali e mentali, sono morte quanto che a grazia; e già non si può difendere da'nimici suoi, né aitarsi per se medesimo, se non quanto è aitato da me.

Bene è vero che ogni volta che (27r) questo morto, nel quale è rimaso solo il libero arbitrio, mentre che egli è nel corpo mortale dimanda l'aiutorio mio, el può avere, ma per sé non potrà mai.

Egli è fatto incomportabile a se medesimo e, volendo signoreggiare el mondo, egli è signoreggiato da quella cosa che non è, cioè dal peccato. Il peccato è non cavelle ed essi son fatti servi e schiavi del peccato.

Io gli feci arbori d'amore con vita di grazia, la quale ebbero nel santo battesmo, ed essi sono fatti arbori di morte, perché sono morti come detto t'ò.

Sai dove egli tiene la radice questo arbore? Nell'altezza della superbia, la quale l'amore sensitivo proprio di loro medesimi nutrica; il suo mirollo è la impazienzia, e 'l suo figliuolo è la indiscrezione. Questi sono quattro principali vizi che in tutto uccidono l'anima di colui il quale ti dissi che era arbore di morte, perché n'ànno tratta la vita della grazia.

Dentro dall'arbore si nutrica uno vermine di conscienzia, il quale, mentre che l'uomo vive in peccato mortale, è accecato dal proprio amore, e però poco el sente.

I frutti di questo arbore sono mortali: perché ànno tratto l'umore dalla radice della superbia, la tapinella anima è piena d'ingratitudine, unde procede ogni male. E se ella fosse grata de' benefici ricevuti cognoscerebbe me, e cognoscendo me cognoscerebbe sé e così starebbe nella mia dilezione; ma ella come cieca si va attaccando pure per lo fiume, e non vede che l'acqua non l'aspetta.



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CAPITOLO XXXII.

Tanto sono diversi i frutti di questo arbore, che dànno morte, quanto sono diversi i peccati. Alcuni ne vedi che sono cibi da bestie, e questi sono quelli che immondamente vivono, facendo del corpo e della mente loro come il porco che s'involle nel loto. Così s'invollono nel loto della carnalità - o anima brutta dove ài lassata la tua dignità? tu eri fatta sorella degli angeli ora se' fatta animale bruto - in tanta miseria che non tanto che sieno sostenuti da me, che so' somma purità, ma le dimonia, di (27v) cui essi sono fatti amici e servi, non possono vedere commettere tanta immondizia.

Veruno peccato è che tanto sia abominevole e tanto tolga il lume de l'intelletto all'uomo quanto questo.

Questo cognobbero i filosofi, § 150 ; § 158 non per lume di grazia, perché non l'avevano, ma la natura lo' porgeva quello lume, cioè che questo peccato offuscava l'intelletto, e però si conservavano nella continenzia per meglio studiare. E anco le ricchezze gittavano da loro, acciò che il pensiero d'esse non l'occupasse il cuore. Non fa così l'ignorante falso cristiano, il quale à perduto la grazia per la colpa sua.



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CAPITOLO XXXIII.

Alcuni altri sono che il frutto loro è di terra. Questi sono i cupidi avari i quali fanno come la talpa che sempre si nutrica della terra infino alla morte, e gionta la morte non ànno remedio. Costoro con l'avarizia loro spregiano la mia larghezza, vendendo il tempo al prossimo loro. Questi son gli usurai che diventano crudeli e robbatori del prossimo, perché nella misericordia (Mt 18,33) loro non ànno il ricordamento della mia misericordia. Che se essi l'avessero non sarebbero crudeli, né verso di loro né verso del prossimo, anco usarebbero pietà e misericordia, a se medesimi operando le virtù, e al prossimo servendolo caritativamente.

O quanti sono i mali che per questo maladetto peccato vengono! § 150 Quanti omicidi, furti e rapine, con molti guadagni inliciti, e crudeltà di cuore e ingiustizia del prossimo! Uccide l'anima e falla diventare schiava delle ricchezze, unde non si cura d'observare i comandamenti di Dio. Costui non ama persona se none per propria utilità.

Questo vizio procede dalla superbia e nutrica la superbia; l'uno procede da l'altro perché porta sempre seco la propria reputazione, sì che subito giogne nell'altro vizio e così va di male in peggio per la miserabile superbia, la quale è piena di pareri. Ed è un fuoco che sempre germina fummo di vanagloria e di vanità di cuore, gloriandosi di quello che non è loro. Ed è radice che à molti (28r) rami: il principale è la propria reputazione, unde esce il volere essere magiore che 'l prossimo suo. E parturisce il cuore ficto e non schietto né liberale ma doppio, che mostra una in lingua e un'altra à in cuore, occulta la verità e dice la bugia per utilità sua propria. E germina una invidia, la quale è uno vermine che sempre rode e non gli lassa avere bene del suo bene proprio né dell'altrui.

Come daranno questi iniqui, posti in tanta miseria, della sustanzia loro a' povarelli quando essi tolgono l'altrui? come trarranno la immonda anima della immondizia, quando essi ve la mettono? Che alcuna volta sono tanto animali, che le figliuole ed i congiunti loro non riguardano, ma con essi caggiono in molta miseria. E non di meno la mia misericordia gli sostiene, e non comando alla terra che gli inghiottisca, acciò che si raveggano delle colpe loro.

Come dunque daranno la vita per la salute dell'anime, quando non dànno la sustanzia? come daranno la dilezione, quando essi si rodono per invidia? O miserabili vizi, i quali atterrano il cielo dell'anima. «Cielo» la chiamo, perché Io la feci cielo dove Io abitavo per grazia, celandomi dentro da lei, e facendo mansione per affetto d'amore. Ora s'è partita da me sì come adultera, amando sé le creature e le cose create più che me. Anco di sé s'à fatto Dio, e me perseguita (Ac 9,4 Ac 22,7 Ac 26,14) con molti e diversi peccati. E tutto questo fa perché non ripensa il beneficio del sangue sparto con tanto fuoco d'amore.



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CAPITOLO XXXIV.

Altri sono i quali tengono il capo alto per signoria, nella quale signoria portano la insegna della ingiustizia, ingiustizia adoperando inverso Dio e verso il prossimo, e ingiustizia verso di loro.

Verso di loro non si rendono il debito della virtù, e inverso di me non mi rendono il debito de l'onore, rendendo gloria e loda al nome mio sì come sono tenuti di rendere, anco come ladri furano quello che è mio e dànnolo alla serva della propria sensualità. Sì che costui commette ingiustizia verso di me (28v) e verso di sé, come accecato e ignorante, non cognoscendo me in sé.

E tutto è per l'amore proprio, sì come fecero i giuderi e ministri della legge, che per la invidia e amore proprio s'accecarono, e però non cognobbero la verità de l'unigenito mio Figliuolo, e però non rendevano il debito di cognoscere Vita eterna ch'era fra loro, come disse la mia Verità dicendo: «Il Regno di Dio è tra voi». (Lc 17,21) Ma essi no'l conoscevano: perché? Però che per lo modo detto aveano perduto il lume della ragione, e per questo modo non rendevano il debito di rendere onore e gloria a me, e a lui che era una cosa con meco. (Jn 10,30) E però come ciechi commissero la ingiustizia, perseguitandolo con molti obbrobri infino alla morte della croce.

Così questi cotali rendono ingiustizia a loro e a me e anco al prossimo loro: ingiustamente rivendono le carni de' sudditi loro e di qualunque altra persona a mano lo' viene.



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CAPITOLO XXXV.

Per questo ed altri difetti caggiono nel falso giudicio, sì come Io di sotto ti distenderò. § 138 ,319) Sempre si scandalizano nelle mie operazioni, le quali tutte sono giuste, e in verità tutte fatte per amore e misericordia.

Con questo falso giudicio, col veleno della invidia e della superbia, erano calunniate e giudicate ingiustamente l'operazioni del mio Figliuolo, con false bugie, dicendo: «Costui el fa in virtù di Belzebub». (Mt 12,24) Così costoro, iniqui, posti nell'amore proprio, nella immondizia, nella superbia, nell'avarizia, in una invidia, fondati nella perversa indiscrezione, con una impazienzia e con molti altri mali che essi commettono, sempre si scandalizano in me e ne' servi miei, giudicando che fittivamente aduoperino la virtù. Perché il cuore loro è fracido § 93 ,469) e ànno guasto il gusto, però le cose buone lo' paiono gattive; e le gattive, cioè il disordinato vivere, lo' pare buono.

O cechità umana, che non raguardi la tua dignità! Ché di grande se' fatto piccolo, di signore se' fatto servo della più vile signoria che possi (29r) avere, però che tu se' fatto servo e schiavo del peccato, e tale diventi quale è quella cosa che tu servi. Il peccato è non cavelle, adunque tu se' fatto non cavelle. Àssi tolta la vita e data la morte.

Questa vita e questa signoria vi fu data per lo Verbo de l'unigenito mio Figliuolo e glorioso ponte: essendo servi del demonio vi trasse dalla servitudine sua. Feci lui servo per tollervi la servitudine, e posili l'obbedienzia per consumare la disobedienzia d'Adam. Umiliandosi esso all'obrobiosa morte della croce per confondere la superbia, tutti i vizi distrusse con la morte sua, acciò che niuno potesse dire: «Il cotale vizio rimase che non fusse punito e fabricato con pene», sì come Io ti dissi di sopra dicendo che del corpo suo aveva fatta ancudine. Tutti i rimedi sono posti per camparli della morte eternale, ed essi spregiano il sangue e ànnolo conculcato co' piedi del disordinato affetto.

E questa è la ingiustizia e 'l falso giudicio de' quali è ripreso il mondo e sarà ripreso ne l'ultimo dì del giudicio. E questo volse dire la mia Verità quando disse: «Io mandarò il Paraclito, che riprenderà il mondo della ingiustizia e del falso giudicio». (Jn 16,8) Allora fu ripreso, quando mandai lo Spirito santo sopra gli appostoli.



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CAPITOLO XXXVI.

Tre reprensioni sono. L'una fu data quando lo Spirito santo venne sopra i discepoli, come detto è, i quali fortificati dalla potenzia mia, illuminati dalla sapienzia del Figliuolo mio diletto, tutto ricevettono nella plenitudine dello Spirito santo. Allora lo Spirito santo, che è una cosa con meco e col Figliuolo mio, riprendette il mondo, per la bocca dei discepoli, con la dottrina della mia Verità. (Ac 2,22-36) Eglino e tutti gli altri che sono discesi da loro, seguitando la verità, la quale intesero per mezzo di loro, riprendono il mondo.

Questa è quella continua reprensione che Io fo al mondo col mezo della santa Scrittura e de' servi miei ponendosi lo Spirito santo nelle lingue loro, annunziando la verità, sì come il dimonio (29v) si pone in su la bocca de' servi suoi, cioè di coloro che passano per lo fiume iniquamente.

Questa è quella dolce reprensione posta continua per lo modo detto, per grandissimo affetto d'amore che Io ò alla salute dell'anime. E non possono dire «io non ebbi chi mi riprendesse», però che già l'è mostrata la verità, mostrandolo' il vizio e la virtù e fattolo' vedere il frutto della virtù e il danno del vizio, per darlo' amore e timore santo con odio del vizio e amore della virtù. E già non l'è stata mostrata questa dottrina e verità per angelo, acciò che non possano dire «l'angelo è spirito beato e non può offendere, e non sente le molestie della carne come noi, né la gravezza del corpo nostro». Questo l' è tolto che no'l possono dire, perché l'è stata data da la mia Verità, Verbo incarnato con la carne vostra mortale.

Chi sono stati gli altri che ànno seguitato questo Verbo? Creature mortali e passibili come voi, con la impugnazione della carne contra lo spirito, sì come ebbe il glorioso Pauolo mio banditore, (2Co 12,7) e così di molti altri santi i quali, chi da una cosa chi da un'altra, sono stati passionati. Le quali passioni Io permettevo e permetto per accrescimento di grazia e per aumentare la virtù nell'anime loro. E così nacquero di peccato come voi, e nutricati d'uno medesimo cibo; e così so' Dio Io ora come allora: non è infermata né può infermare la mia potenzia, sì che Io posso sovenire e voglio e so sovenire a chi vuol essere sovenuto da me. Allora vuole essere sovenuto da me quando esce del fiume e va per lo ponte, seguitando la dottrina della mia Verità.

Sì che non ànno scusa, però che sono ripresi ed èllo' mostrata la verità continuamente. Unde se essi non si correggeranno mentre che essi ànno il tempo, saranno condannati nella seconda reprensione, la quale si farà ne l'ultima estremità della morte, dove grida la mia giustizia dicendo: "Surgite mortui, venite ad giudicium" (Mi 6,1); ciò è: tu che se' morto a grazia (30r) e morto giogni alla morte corporale, levati su e vieni dinanzi al sommo Giudice con la ingiustizia e falso giudicio tuo e col lume spento della fede. Il quale lume traesti acceso del santo battesmo, e tu lo spegnesti col vento della superbia e vanità di cuore, del quale facevi vela a' venti che erano contrari alla salute tua; e 'l vento della propria reputazione nutricavi con la vela dell'amore proprio, unde corrivi per lo fiume delle delizie e stati del mondo con la propria volontà, seguitando la fragile carne e le molestie e tentazioni del dimonio. Il quale dimonio con la vela della tua propria volontà t'à menato per la via di sotto, la quale è uno fiume corrente, unde t'à condotto con lui insieme all'eterna dannazione. § 94

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CAPITOLO XXXVII.

Questa seconda reprensione, carissima figliuola, è in fatto perché è gionta all'ultimo dove non può avere rimedio, perché s'è condotta alla estremità della morte dove il vermine della coscienza, del quale Io ti dissi ch'era accecato per lo proprio amore che egli aveva di sé, ora, nel punto della morte, perché vede sé non potere escire delle mie mani, questo vermine comincia a vedere, e però rode con reprensione se medesimo, vedendo che per suo difetto è condotto in tanto male.

Se essa anima avesse lume che cognoscesse e dolessesi della colpa sua, non per la pena dello 'nferno che ne le seguita, ma perché à offeso me che so' somma ed eterna Bontà, anco trovarebbe misericordia.

Ma se passa il punto della morte senza lume, e solo col vermine della coscienzia e senza la speranza del sangue, o con propria passione dolendosi del danno suo più che dell'offesa mia, egli giogne all'eterna dannazione ed allora è ripreso crudelmente dalla mia giustizia, ed è ripreso della ingiustizia e del falso giudicio. E non tanto della ingiustizia e giudicio generale, il quale à usato nel mondo generalmente in tutte le sue operazioni, ma molto maggiormente sarà ripreso della ingiustizia e giudicio particulare, il quale à (30v) usato nell'ultimo, cioè d'avere posta, giudicando, maggiore la miseria sua che la misericordia mia. (Gn 4,13) Questo è quello peccato che non è perdonato né di qua né di là, perché non à voluto, spregiando, la mia misericordia, (Mt 12,31-32) però che più m'è grave questo che tutti gli altri peccati che egli à commessi.

Unde la disperazione di Giuda mi dispiacque più, e più fu grave al mio Figliuolo, che non fu il tradimento ch'egli gli fece. Sì che sono ripresi di questo falso giudicio, d'avere posto maggiore il peccato loro che la misericordia mia, e però sono puniti con le dimonia e crociati eternalmente con loro.

E sono ripresi della ingiustizia, e questo è quando si dogliono più del danno loro che dell'offesa mia.

Allora commettono ingiustizia, perché non rendono a me quello che è mio né a loro quello che è loro. A me debbono rendere amore e amaritudine con la contrizione del cuore e offerirla dinanzi a me per l'offesa che m'ànno fatta, ed essi fanno il contrario, ché danno a loro amore compassionevole di loro medesimi e dolore della pena che per le colpe loro aspettano.

Sì che vedi che commettono ingiustizia, e però sono puniti e dell'uno e de l'altro insieme. Avendo essi spregiata la misericordia mia, ed Io con giustizia li mando, insieme con la serva loro crudele della sensualità, col crudele tiranno del dimonio di cui si fecero servi col mezzo della serva della propria sensualità loro, che insieme sieno puniti e tormentati, come insieme m'ànno offeso. Tormentati dico da' miei ministri dimoni, i quali à messi la giustizia mia a rendere tormento a chi à fatto male.



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CAPITOLO XXXVIII.

Figliuola, la lingua non è sufficiente a narrare, di queste tapinelle anime, la pena loro. Come sono tre principali vizi, ciò è l'amore proprio di sé unde esce il secondo, ciò è la propria reputazione, e dalla reputazione procede il terzo, ciò è la superbia con falsa ingiustizia e crudeltà, e con altri (31r) iniqui e immondi peccati che doppo questi seguitano, così ti dico che nello 'nferno essi ànno quattro tormenti principali, a' quali seguitano tutti gli altri tormenti.

Il primo si è che si veggono privati della mia visione; il quale l'è tanta pena, che se possibile lo' fosse eleggerebbero più tosto il fuoco e crociati tormenti e vedere me; che stare fuore delle pene e non vedermi.

Questa pena lo' rinfresca la seconda del vermine della coscienzia, il quale sempre rode, vedendosi privati di me e della conversazione degli angeli per loro difetto, e fattisi degni della conversazione delle dimonia e visione loro.

Il quale vedere del dimonio, che è la terza pena, lo' raddoppia ogni loro fadiga. Unde, come nella visione di me i santi sempre esultano, rinfrescandosi con allegrezza il frutto delle loro fadighe che essi ànno portate per me con tanta abondanzia d'amore e dispiacimento di loro medesimi, così in contrario questi tapinelli si rinfrescano ne' tormenti nella visione delle dimonia, però che nel vedere loro cognoscono più sé, cioè cognoscono che per loro difetto se ne sono fatti degni. E per questo modo il vermine più rode e non ristà mai il fuoco di questa coscienzia d'ardere. (Is 66,24 Mc 9,43-47) Ancora l'è più pena perché el veggono nella propria figura sua, la quale è tanto orribile che non è cuore d'uomo che 'l potesse imaginare. E se bene ti ricorda sai che, mostrandolo a te nella forma sua, in piccolo spazio di tempo - che sai che quasi fu un punto - tu eleggevi, poi che tornasti a te, prima di volere andare per una strada di fuoco, se dovesse durare infino all'ultimo dì del giudicio, e andare sopra esso, innanzi che vederlo più. Con tutto questo che tu vedesti, anco non sai bene quanto egli è orribile, però che si mostra per divina giustizia più orribile nell'anima che è privata di me (31v), e più e meno secondo la gravezza delle colpe loro.

El quarto tormento si è il fuoco. Questo fuoco arde e non consuma, però che l'anima non si può consumare, l'essere suo, e non è cosa materiale, la quale materia il fuoco consumasse, però che ella è incorporea. Ma Io per divina giustizia ò permesso che il fuoco gli arda affligitivamente, che gli affligge e non gli consuma, e affliggegli e ardegli con grandissime pene, in diversi modi secondo la diversità dei peccati, chi più e chi meno, secondo la gravezza della colpa.

Sopra questi quattro tormenti escono tutti quanti gli altri, con freddo e caldo e stridore di denti. (Mt 8,12 Lc 13,28) Or così miserabilemente, doppo la reprensione che lo' fu fatta del giudicio e della ingiustizia nella vita loro, e non si corressero in questa prima reprensione come detto è disopra, e nella seconda, ciò è nella morte, non volsero sperare né dolersi dell'offesa mia ma sì della pena loro, ànno ricevuta morte eterna.



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CAPITOLO XXXIX.

Ora ti resto a dire della terza reprensione, cioè de l'ultimo dì del giudicio. Già t'ò detto delle due; ora, acciò che tu vegga bene quanto l'uomo s'inganna, ti dirò della terza, cioè del giudicio generale, nel quale all'anima tapinella sarà rinfrescata e cresciuta la pena per l'unione che l'anima farà col corpo, con una reprensione intollerabile, la quale le generarà confusione e vergogna.

Sappi che ne l'ultimo dì del giudicio, quando verrà il Verbo del mio Figliuolo con la divina mia maiestà a riprendere il mondo con la potenzia divina, egli non verrà come poverello, sì come quando egli nacque, venendo nel ventre della Vergine e nascendo nella stalla fra gli animali, e poi morendo in mezzo fra due ladroni.

Allora Io nascosi la potenzia mia in lui, lassandolo sostenere pene e tormenti come uomo: non che la natura mia divina fusse però separata dalla natura umana, ma lassa'lo patire come uomo per satisfare alle colpe vostre.

Non verrà così ora in questo ultimo punto, ma verrà con potenzia (32r) a riprendere egli con la propria persona; e non sarà alcuna creatura che non riceva tremore, e renderà a ogni uno il debito suo. (Mt 24,30) A' dannati miserabili darà tanto tormento l'aspetto suo e tanto terrore, che la lingua non sarebbe sofficiente a narrarlo. A' giusti darà timore di reverenzia con grande giocondità. Non che si muti la faccia sua, però che egli è inmutabile, perché è una cosa con meco secondo la natura divina; e secondo l'umana natura la faccia sua anco è inmutabile, poi che prese la gloria della resurrezione. Ma all'occhio del dannato se gli mostrerà cotale, però che con quello occhio terribile e oscuro che egli à in se medesimo, con quello el vedarà.

Sì come l'occhio infermo che del sole, che è così lucido, non vede altro che tenebre e l'occhio sano vede la luce - e questo non è per difetto della luce che si muti più al cieco che all'alluminato, ma è per difetto dell'occhio che è infermo - così i dannati el veggono in tenebre, in confusione e in odio, non per difetto della divina mia maiestà, colla quale egli verrà a giudicare il mondo, ma per difetto loro.


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CAPITOLO XL.

Egli è tanto l'odio ch'essi ànno, che non possono volere né desiderare veruno bene, ma sempre mi bastemiano. E sai perché eglino non possono desiderare il bene? Però che, finita la vita dell'uomo, è legato il libero arbitrio; per la quale cosa non possono meritare, perduto che essi ànno il tempo. Se essi finiscono in odio, con la colpa del peccato mortale, sempre per divina giustizia sta legata l'anima col legame de l'odio, e sempre sta ostinata in quel male che ella à, rodendosi in se medesima. E acresconle sempre pene, e specialmente delle pene d'alcuni in particulare, dei quali ella fosse stata cagione della dannazione loro.

Sì come vi dimostrò quello ricco dannato, quando chiedeva di grazia che Lazaro andasse a' suoi fratelli, i quali erano rimasi nel mondo, ad annunziare le pene sue. (Lc 16,27-28) Questo già non faceva per carità né per compassione de' fratelli, però che egli era privato della carità e non poteva desiderare bene, né in onore (32v) di me né in salute loro, perché già t'ò detto che non possono fare alcuno bene nel prossimo, e me bastemmiano perché la vita loro finì ne l'odio di me e della virtù. Ma perché dunque el faceva? Però che egli era stato il maggiore e avevagli nutricati nelle miserie nelle quali egli era vissuto, sì che egli era cagione della dannazione loro. Per la qual cagione se ne vedeva seguitare pena, giognendo eglino al crociato tormento con lui insieme, dove sempre in odio si rodono, perché ne l'odio finì la vita loro.



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CAPITOLO XLI.

Così l'anima giusta che finisce in affetto di carità e legata in amore non può crescere in virtù venuto meno il tempo, ma può sempre amare con quella dilezione che ella viene a me, e con quella misura l'è misurato. § 131 ,2672; § 164 ,1276-1326ss.) Sempre desidera me e sempre m'à, unde il suo desiderio non è votio, ma avendo fame è saziato e saziato à fame; e dilonga è il fastidio dalla sazietà, e dilonga è la pena dalla fame.

Nell'amore godono nell'eterna mia visione, participando quello bene che Io ò in me medesimo à ognuno secondo la misura sua, cioè con quella misura dell'amore che essi sono venuti a me, con quella l'è misurato. Perché sono stati nella carità mia e in quella del prossimo, ed uniti insieme colla carità comune e con la particulare, che esce pure d'una medesima carità, godono ed esultano participando il bene l'uno dell'altro con l'affetto della carità, oltre al bene universale che essi ànno tutti insieme. E con la natura angelica godono ed esultano, co' quali i santi sono conlocati secondo le diverse e varie virtù le quali principalmente ebbero nel mondo. Essendo legati tutti nel legame della carità, ànno una singulare participazione con coloro con cui strettamente d'amore singulare s'amarono nel mondo, col quale amore crescevano in (33r) grazia augmentando la virtù. L'uno era cagione all'altro di manifestare la gloria e loda del nome mio in loro e nel prossimo. Sì che poi nella vita durabile non l'ànno perduto, anco l'ànno, participando strettamente e con più abbondanzia l'uno con l'altro, aggiontolo all'universale bene. § 131 ,2658ss.) E non vorrei però che tu credessi che questo bene particulare, il quale Io t'ò detto che essi ànno, l'avessero solo per loro, però che non è così, ma è participato da tutti quanti i gustatori cittadini e diletti miei figliuoli e da tutta la natura angelica. Unde, quando l'anima giogne a vita eterna, tutti participano il bene di quella anima e l'anima del bene loro. Non che il vasello loro né il suo possa crescere, né che abbi bisogno d'empirsi, però che egli è pieno e però non può crescere, ma ànno una esultazione con una giocondità, uno giubilo, una allegrezza la quale si rinfresca in loro per lo cognoscimento che ànno trovato in quella anima. Veggono che per mia misericordia ella è levata dalla terra con la plenitudine della grazia, e così esultano in me, nel bene di quella anima, il quale à ricevuto per la mia bontà.

E quella anima gode in me e nell'anime e negli spiriti beati, vedendo e gustando in loro la dolcezza della mia carità. I loro desideri sempre gridano dinanzi da me per la salvazione di tutto quanto il mondo; perché la vita loro finì nella carità del prossimo, non l'ànno lassata, anco con essa passarono per la porta de l'unigenito mio Figliuolo (Jn 10,7) per lo modo che di sotto ti contierò. § 83 ,1806; § 131 ,2652) Sì che vedi che con quello legame dell'amore in che finì la vita loro, con quello permangono e dura sempre eternalmente.

Essi sono tanto conformati con la mia volontà che non possono volere se non quel che Io voglio, perché l'arbitrio loro è legato nel legame della carità per sì fatto modo, che venendo meno il tempo alla creatura che (35v) à in sé ragione, morendo in stato di grazia, non può più peccare. E in tanto è unita la sua volontà con la mia che, vedendo il padre o la madre il figliuolo suo ne l'inferno, o il figliuolo la madre, non se ne curano, anco sono contenti di vederli puniti, come nimici miei.

In niuna cosa si scordano da me; i desideri loro sono pieni. Il desiderio dei beati è di vedere l'onore mio in voi viandanti, i quali sete peregrini che sempre corrite verso il termine della morte. Nel desiderio del mio onore desiderano la salute vostra, e però sempre mi pregano per voi. Il quale desiderio è adempito da me dalla parte mia, colà dove voi ignoranti non recalcitraste alla mia misericordia.

Ànno desiderio ancora di riavere la dota del corpo (Mt 25,14-30; Let79) loro e questo desiderio non gli affligge, non avendolo attualmente, ma godono gustando per certezza che essi ànno d'avere il loro desiderio pieno; non gli affligge, però che non avendolo non lo' manca beatitudine, e però non lo' dà pena.

E non ti pensare che la beatitudine del corpo dopo la resurrezione dia piú beatitudine all'anima. Che se questo fusse seguiterebbe che infino che non avessero il corpo averebbero beatitudine imperfetta, la qual cosa non può essere, però che in loro non manca alcuna perfezione. Sì che non è il corpo che dia beatitudine all'anima, ma l'anima darà beatitudine al corpo: darà dell'abbondanzia sua, rivestita ne l'ultimo dì del giudicio del vestimento della propria carne la quale lassò.

Come l'anima è fatta immortale, fermata e stabilita in me, così il corpo in quella unione diventa immortale: perduta la gravezza è fatto sottile e leggiero. Unde sappi che 'l corpo glorificato passerebbe per lo mezzo del muro, né il fuoco né l'acqua non l'offenderebbe; non per virtù sua ma per la virtù dell'anima (34r), la quale virtù è mia, data a lei per grazia, e per amore ineffabile col quale Io la creai alla imagine e similitudine mia.

L'occhio de l'intelletto tuo non è sufficiente a vedere, né l'orecchia a udire, né la lingua a narrare, né il cuore a pensare il bene loro. (1Co 2,9) O quanto diletto ànno in vedere me che so' ogni bene! O quanto diletto averanno essendo col corpo glorificato! Il quale bene non avendo di qui al giudicio generale, non ànno pena, perché non lo' manca beatitudine, però che l'anima è piena in sé. La quale plenitudine participarà il corpo, come detto t'ò.

Dicevoti del bene che avarebbe il corpo glorificato ne l'umanità glorificata de l'unigenito mio Figliuolo la quale vi dà certezza della vostra resurrezione. Ine esultano nelle piaghe sue, le quali sono rimase fresche, riservate le cicatrici nel corpo suo, le quali gridano continuamente misericordia a me, sommo ed eterno Padre, per voi. Tutti si conformaranno con lui in gaudio e in giocondità, occhio con occhio e mano con mano; con tutto quanto il corpo del dolce Verbo mio Figliuolo tutti vi conformarete. Stando in me starete in lui, perché egli è una cosa con meco. Ma l'occhio del corpo vostro, come detto t'ò, si deletterà ne l'umanità glorificata del Verbo unigenito mio Figliuolo.

Questo perché? Perché la vita loro finì nella dilezione della mia carità, e però lo' dura eternalmente. Non che possano adoperare alcuno bene, ma godonsi quello che essi ànno portato, ciò è che non possono fare alcuno atto meritorio per lo quale possino meritare, però che solo in questa vita si merita e pecca, secondo che piace alla propria volontà, col libero arbitrio.

Costoro non aspettano con timore il divino giudicio, ma con allegrezza; e non lo' parrà la faccia del Figliuolo mio terribile né piena d'odio, perché essi sono finiti in carità ed in dilezione di me e (34v) benivolenzia del prossimo.

Sì che vedi che la mutazione della faccia non sarà in lui quando verrà a giudicare con la maiestà mia, ma in coloro che saranno giudicati da lui. A' dannati apparirà con odio e con giustizia, ne' salvati con amore e con misericordia.




Caterina, Dialogo 30