Caterina, Dialogo 69

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CAPITOLO LXIX.

Òtti detto dello 'nganno che ricevono coloro che a loro modo vogliono gustare e ricevere me nella mente loro. Ora ti voglio dire il secondo inganno di coloro che tutto il loro diletto è posto in cercare la consolazione della mente loro, in tanto che spesse volte vedranno il prossimo loro in necessità spirituale o temporale e non gli soverranno, sotto colore di virtù, dicendo: «Io ne perdo la pace e la quiete della mente mia, e non dico l'ore mie all'ora e al tempo suo». Unde, non avendo la consolazione, lo' pare offendere me; ed essi sono ingannati dal proprio diletto spirituale della mente loro, e offendonmi più non sovenendo alla necessità del prossimo, che lassando tutte le loro consolazioni. Però che ogni esercizio vocale e mentale è ordinato da me, che l'anima el facci per giugnere a carità perfetta di me e del prossimo, e per conservarsi in essa carità.

Sì che (61r) m'offende più lassando la carità del prossimo per lo suo esercizio attuale e quiete di mente, che lassando l'esercizio per lo prossimo, perché nella carità del prossimo truovano me, e nel diletto loro, dove cercano me, ne sarebbero privati. (Mt 25,45) Però che, non sovenendo, esso facto diminuiscono la carità del prossimo. Diminuita la carità del prossimo, diminuisce l'affetto mio inverso di loro; diminuito l'affetto, diminuita la consolazione. Sì che volendo guadagnare perdono, e volendo perdere guadagnano: cioè volendo perdere le proprie consolazioni in salute del prossimo, riceve l'anima e guadagna me e il prossimo suo, sovenendoli e servendolo caritativamente. (Mt 16,25) E così gustarebbe in ogni tempo la dolcezza della mia carità, e non facendolo sta in pena, perché alcuna volta si converrà pure che 'l sovenga, o per forza o per amore, o per infermità corporale o per infermità spirituale che elli abbi; sovenendolo, el soviene con pena, con tedio di mente e stimolo di coscienza, e diventa incomportabile a sé e ad altrui. E chi el dimandasse: «Perché senti questa pena?» risponderebbe: «Perché mi pare avere perduta la pace e quiete della mente, e molte cose di quelle che io solevo fare ò lassate, e credone offendere Dio». Ed elli non è così, ma perché il suo vedere è posto nel proprio diletto, però non sa discernere né cognoscere in verità dove sta la sua offesa. Però che ella vedrebbe che l'offesa non sta in non avere la consolazione mentale, né in lassare l'esercizio dell'orazione nel tempo della necessità del prossimo suo; anco sta in essere trovato senza la carità del prossimo, il quale debba amare e servire per amore di me.

Sì che vedi come si inganna, solo col proprio amore spirituale verso di sé.



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CAPITOLO LXX.

E alcuna volta per questo così fatto amore ne riceve anco più danno. Che se l'affetto suo solo si pone e cerca nella consolazione e visioni, le quali spesse volte dono e do ai servi miei, quando ella se ne vedesse privata cade in amaritudine e in tedio di mente, perché le pare essere privata della grazia, quando alcuna volta mi sottraggo della mente sua; sì come Io ti dissi § 64 ,444ss.) che Io andavo e tornavo nell'anima, partendomi non per grazia ma per sentimento, per fare venire l'anima (61v) a perfezione. Sì che ne cade in amaritudine, e parle essere intro lo 'nferno, sentendosi levata dal diletto, e sentire le pene e le molestie delle molte tentazioni.

Non debba essere ignorante, né lassarsi tanto ingannare al proprio amore spirituale che non cognosca la verità; e cognoscere me in sé, ché so' Io quello sommo Bene che le conservo la buona volontà nel tempo delle battaglie, che non corre per diletto dietro a loro. Debbasi dunque umiliare, reputandosi indegna della pace e quiete della mente. E per questa cagione mi sottraggo da lei: per farla umiliare e per farle cognoscere la carità mia in sé, trovandola nella buona voluntà che Io le conservo nel tempo delle battaglie; e perché essa non riceva solamente il latte della dolcezza sprizzato da me nella faccia dell'anima sua, ma acciò che ella s'attacchi al petto della mia Verità, acciò che riceva il latte insieme con la carne, cioè di trare a sé il latte della mia carità col mezzo della carne di Cristo crocifisso, cioè della dottrina sua, della quale v'ò fatto ponte § 29 ,210ss.) acciò che per lui giogniate a me. Per questo mi ritraggo da loro.

Andando esse con prudenzia, e non con ignoranzia ricevendo solamente il latte, ritorno a loro con piú diletto e fortezza, lume e ardore di carità. Ma se esse ricevono con tedio e con tristizia e confusione di mente il partire del sentimento della dolcezza mentale, poco guadagnano e permangono nella tiepidezza loro.



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CAPITOLO LXXI.

E dopo questo, ricevono spesse volte un altro inganno dal dimonio, cioè di trasformarsi in forma di luce.

Perché il dimonio, in quello che vede la mente disposta a ricevere e desiderare, in quello dà. Unde vedendo la mente inghiottornita e posto il suo desiderio solo nelle consolazioni e visioni mentali - alle quali l'anima non debba ponere il suo desiderio, ma solamente nelle virtù, e di quelle per umilità reputarsene indegna, ed in esse consolazioni ricevere l'affetto mio - dico che 'l dimonio si transforma allora in quella mente in (62r) forma di luce, in diversi modi: quando in forma d'angelo, quando in forma della mia Verità, o in altra forma de' santi miei. E questo fa per pigliarla con l'amo del proprio diletto spirituale che à posto nelle visioni e diletto della mente. E se essa anima non si leva con la vera umilità, spregiando ogni diletto, rimane presa con questo lamo nelle mani del dimonio. Ma se essa con umilità spregia il diletto, e con amore stringa l'affetto di me che so' donatore e non del dono, il dimonio non la può sostenere, per la sua superbia, la mente umile.

E se tu mi dimandassi: «A che si può cognoscere che la visitazione sia più dal dimonio che da te?» Io ti rispondo che questo è il segno, § 106 che se ella è dal dimonio che sia venuto nella mente a visitare in forma di luce, come detto è, l'anima riceve subito nel suo venire allegrezza, e quanto più sta più perde l'allegrezza e rimane tedio e tenebre e stimolo nella mente offuscatavisi dentro. Ma se in verità è visitata da me, Verità eterna, l'anima riceve timore santo nel primo aspetto, e con esso timore riceve allegrezza e sicurtà con una dolce prudenzia che, dubitando, non dubita, ma per cognoscimento di sé reputandosi indegna, dirà: «Io non so' degna di ricevere la tua visitazione; non essendone degna, come può essere?» (OrazXI22ss.) Allora si volle alla larghezza della mia carità, cognoscendo e vedendo che a me è possibile di dare, e non raguardo alla indignità sua ma alla dignità mia che la fo degna di ricevermi, per grazia e per sentimento, in sé, perché non spregio il desiderio col quale ella mi chiama. E però riceve umilemente, dicendo: «Ecco l'ancilla tua: fatta sia la tua voluntà in me», (Lc 1,38) Allora esce del cammino de l'orazione e visitazione mia con allegrezza e gaudio di mente, e con umilità reputandosi indegna, e con carità ricognoscendola da me.

Or questo è il segno che l'anima è visitata da me o dal dimonio, trovando nella mia visitazione nel primo aspetto il timore, e nel mezzo e al fine l'allegrezza e la (62v) fame delle virtù. E'l dimonio, il primo aspetto è l'allegrezza, e poi rimane in confusione e in tenebre di mente. Sì che Io ò proveduto in darvi il segno, acciò che l'anima, se ella vuole andare umile e con prudenzia, non possa essere ingannata. Il quale inganno riceve l'anima che vuole navicare solo con l'amore imperfetto delle proprie consolazioni, più che dell'affetto mio, come detto t'ò.



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CAPITOLO LXXII.

Non t'ò voluto tacere lo 'nganno che ricevono i comuni nell'amore sensitivo, nel loro poco bene adoperare, cioè di quella poca virtù che essi aoperano nel tempo della consolazione, né dell'amore proprio spirituale delle proprie consolazioni de' servi miei, come essi col proprio amore del diletto s'ingannano, ché non lo' lassa cognoscere la verità dell'affetto mio né discernere la colpa dove ella sta; e lo inganno che il dimonio usa con loro per loro colpa, se essi non tengono il modo che detto t'ò. Òttelo detto acciò che tu e gli altri servi miei andiate dietro alle virtù per amore di me e non a veruna altra cosa.

Tutti questi inganni possono ricevere, e spesse volte ricevono, coloro che sono nell'amore imperfetto, cioè d'amare me per rispetto del dono e non di me che do. Ma l'anima che in verità è intrata nella casa del cognoscimento di sé, esercitando l'orazione perfetta e levandosi dalla imperfezione dell'amore dell'orazione imperfetta, per quel modo che nel trattato dell'orazione Io ti contiai, § 66 ,545ss.) riceve me per affetto d'amore, cercando di trare ad sé el latte della dolcezza mia col petto della dottrina di Cristo crocifisso.

Giunta al terzo stato, dell'amore dell'amico e filiale, non à amore mercennaio. Anco fanno come carissimi amici, sì come farà l'uno amico con l'altro che, essendo presentato da l'amico suo, l'occhio non si volle solamente al presente, anco nel cuore e nell'affetto di colui che dà, e riceve e tiene caro il presente solo per l'amore de l'affetto de l'amico suo. Così l'anima, giunta al terzo stato de l'amore perfetto, quando riceve i doni e le grazie mie non raguarda solamente il dono, ma raguarda con l'occhio de l'intelletto l'affetto della carità di me donatore (63r). (Let 146) E acciò che l'anima non possa avere scusa di fare così, cioè di raguardare l'affetto mio, Io providi d'unire il dono col donatore, cioè unendo la natura divina con la natura umana, quando vi donai il Verbo de l'unigenito mio Figliuolo, il quale è una cosa con meco e Io con lui. Sì che per questa unione non potete raguardare il dono che non raguardiate me donatore.

Vedi dunque con quanto affetto d'amore dovete amare e desiderare il dono e 'l donatore! Facendo così sarete in amore puro e schietto e non mercennaio, sì come fanno questi che sempre stanno serrati nella casa del cognoscimento di loro.



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CAPITOLO LXXIII.

In fino a ora Io t'ò mostrato per molti modi come l'anima si leva da la imperfezione e giogne all'amore perfetto, e quello che fa poi che ella è gionta all'amore dell'amico e filiale. Dissiti e dico che ella vi giogne con perseveranzia, serrandosi nella casa del cognoscimento di sé, il quale cognoscimento di sé vuole essere condito col cognoscimento di me, acciò che non venga a confusione. Perché del cognoscimento di sé acquistarà l'odio della propria passione sensitiva e del diletto delle proprie consolazioni, e da l'odio fondato in umilità trarà la pazienzia, nella quale pazienzia diventerà forte contra le battaglie del dimonio, contra le persecuzioni degli uomini e verso di me, quando per suo bene sottraggo il diletto della mente sua. Tutte le portarà con questa virtù. E se la propria sensualità per malagevolezza volesse alzare il capo contra la ragione, il giudice della coscienzia debba salire sopra di sé, e con odio tenersi ragione, e non lassare passare i movimenti che non sieno corretti. Benché l'anima che sta ne l'odio sempre si corregge e si riprende d'ogni tempo, non tanto di quegli che sono contra la ragione, ma di quelli che spesse volte saranno da me.

Questo volse dire il dolce servo mio Gregorio, quando disse che la santa e pura coscienzia fa peccato (63v) dove non è peccato, ciò è che vede, per la purità della coscienzia, la colpa dove non era la colpa.

Or così debba fare e fa l'anima che si vuole levare dalla imperfezione, aspettando nella casa del cognoscimento di sé la providenzia mia col lume della fede sì come fecero i discepoli che stettero in casa e non si mossero mai, ma con perseveranzia in vigilia e umile e continua orazione perseveraro infino all'avvenimento dello Spirito santo. (Ac 1,13-14) Questo è quello, sì come Io ti dissi, § 63 che l'anima fa quando s'è levata dalla imperfezione e rinchiusasi in casa per giognere alla perfezione. Ella sta in vigilia, veghiando con l'occhio de l'intelletto nella dottrina della mia Verità, umiliata, perché à conosciuta sé in continua orazione, cioè di santo e vero desiderio, perché in sé cognobbe l'affetto della mia carità.



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CAPITOLO LXXIV.

Ora ti resto a dire in che si vede che l'anima sia gionta all'amore perfetto: quello segno medesimo che fu dato a' discepoli santi poi che ebbero ricevuto lo Spirito santo, che esciro fuore di casa e, perduto il timore, annunziavano la parola mia, predicando la dottrina del Verbo de l'unigenito mio Figliuolo, e non temevano pene, anco si gloriavano nelle pene. (Ac 5,41) Non curavano d'andare dinanzi a' tiranni del mondo ad annunziare e dirlo' la verità, per gloria e loda del nome mio.

Così l'anima che à aspettato per cognoscimento di sé, per lo modo che detto t'ò, Io so' tornato a lei col fuoco della mia carità. Nella quale carità, mentre che stette in casa, concepé le virtù con perseveranzia, per affetto d'amore, participando della potenzia mia, con la quale potenzia e virtù signoreggiò e vinse la propria passione sensitiva.

Ed in essa carità participai in lei la sapienzia del mio Figliuolo, ne la quale sapienzia vide e cognobbe, con l'occhio de l'intelletto, la mia verità e gl'inganni dell'amore sensitivo spirituale, cioè l'amore imperfetto della propria consolazione, come detto è. E cognobbe la malizia e lo 'nganno del dimonio (64r) che dà all'anima la quale è legata in quello amore imperfetto, e però si levò con odio d'essa imperfezione e con amore della perfezione.

In questa carità, che è esso Spirito santo, el participai nella voluntà sua, fortificando la voluntà a volere sostenere pena, ed escire fuore di casa per lo nome mio, a parturire le virtù sopra del prossimo suo. Non che esca fuore di casa del cognoscimento di sé, ma escono della casa dell'anima le virtù concepute per affetto d'amore, e parturiscele al tempo del bisogno del prossimo suo in molti e diversi modi; perché il timore è perduto, il quale teneva, che non si manifestava per timore di non perdere le proprie consolazioni, sì come di sopra ti dissi. Ma poi che sono venuti all'amore perfetto e liberale, escono fuore per lo modo detto abandonando loro medesimi.

E questo gli unisce col quarto stato, ciò è che dal terzo stato, il quale è stato perfetto, nel quale stato gusta e parturisce la carità nel prossimo suo, riceve uno stato ultimo di perfetta unione in me. I quali due stati sono uniti insieme, ché non è l'uno senza l'altro, se non come la carità mia senza la carità del prossimo e quella del prossimo senza la mia: non può essere separata l'una da l'altra. (Vita121) Così questi due stati non è l'uno senza l'altro sì come ti verrò dichiarando e mostrando per questo terzo stato.



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CAPITOLO LXXV.

Òtti detto che sono esciti fuore, el quale è il segno che essi sono levati dalla imperfezione e gionti alla perfezione.

Apre l'occhio de l'intelletto e mirali corrire per lo ponte della dottrina di Cristo crocifisso, il quale fu regola, via e dottrina vostra. Dinanzi all'occhio de l'intelletto loro essi non si pongono me, Padre, sì come fa colui che sta nell'amore imperfetto, il quale non vuole sostenere pena, e perché in me non può cadere pena, vuole seguitare solo il diletto che truova in me, § 53 ,135ss.) e però (64v) dico che sèguita me: non me, ma il diletto che truova in me. Non fanno così costoro ma, come ebbri e affocati d'amore, ànno congregati e saliti i tre scaloni generali, i quali ti figurai nelle tre potenzie dell'anima, e i tre scaloni attuali che attualmente ti figurai nel corpo di Cristo crocifisso, unigenito mio Figliuolo. Saliti i piei co' piei dell'affetto dell'anima, sono gionti al costato, dove trovaro il secreto del cuore e cognobbero il battesmo dell'acqua, il quale à virtù nel sangue, dove l'anima trovò la grazia nel santo battesmo, disposto il vasello dell'anima a ricevere la grazia unita ed impastata nel sangue.

Dove cognobbe questa dignità di vedersi unita e impastata nel sangue dell'Agnello, ricevendo il santo battesmo in virtù del sangue? Nel costato, dove cognobbe il fuoco della divina carità. E così manifestò, se bene ti ricorda, la mia Verità, essendo dimandato da te: «Doh, dolce ed immaculato Agnello, tu eri morto quando il costato ti fu aperto: (Jn 19,34) perché volesti essere percosso e partito il cuore?».

Elli rispose, se bene ti ricorda, che assai cagioni ci aveva: «Ma alcuna principale te ne dirò: perché il desiderio mio era infinito verso l'umana generazione, e l'operazione attuale di sostenere pene e tormenti era finita; e per la cosa finita non poteva mostrare tanto amore quanto più amavo, perché l'amore mio era infinito. E però volsi che vedeste il secreto del cuore, mostrandovelo aperto, acciò che vedeste che più amavo che mostrare non vi potevo per la pena finita. (Let 189) Gittando sangue e acqua vi mostrai il santo battesmo dell'acqua, il quale ricevete in virtù del sangue.

«Ed anco mostravo il battesmo del sangue in due modi: l'uno è in coloro che sono battezzati nel sangue loro sparto per me, il quale à virtù per lo sangue mio, non potendo avere altro battesmo. Alcuni altri si battezano nel fuoco, desiderando il battesmo con affetto d'amore e non potendolo avere; e non è battesmo di fuoco senza sangue, però che il sangue (65r) è intriso e impastato col fuoco della divina carità, perché per amore fu sparto. § 27 ,93ss.) «In un altro modo riceve l'anima questo battesmo del sangue, parlando per figura. E di questo provide la divina carità perché, cognoscendo la infermità e fragilità de l'uomo, per la quale fragilità offendendo - non che egli sia costretto da fragilità né da altro a commettere la colpa, se egli non vuole, ma come fragile cade in colpa di peccato mortale - per la quale colpa perde la grazia la quale trasse del santo battesmo in virtù del sangue. E però fu bisogno che la divina carità provedesse a lassare il continuo battesmo del sangue, il quale si riceve con la contrizione del cuore e con la santa confessione, confessando, quando può, a' ministri miei che tengono la chiave del sangue. Il quale sangue il sacerdote gitta nella assoluzione sopra la faccia dell'anima. (Let 28) «E non potendo avere la confessione basta la contrizione del cuore. Allora la mano della mia clemenzia vi dona il frutto di questo prezioso sangue, ma potendo avere la confessione voglio che l'abbiate; e chi la potrà avere e non la vorrà, sarà privato del frutto del sangue. è vero che nell'ultima estremità, volendola l'uomo e non potendola avere, anco el riceverà. Ma non sia alcuno sì matto che voglia però con questa speranza conducersi ad acconciare i fatti suoi nell'ultima estremità della morte, perché non è sicuro che, per la sua ostinazione, Io con la divina mia giustizia non dicesse: Tu non ti ricordasti di me nella vita, nel tempo che tu potesti: Io non mi ricordo di te nella morte! «Sì che niuno debba pigliare lo indugio, e se l'uomo pure per lo suo difetto l'à preso, non debba lassare infino all'ultimo di battezarsi per speranza nel sangue. Sì che vedi che questo battesmo è continuo, dove l'anima si debba battezzare infino all'ultimo per lo modo detto.

«In questo battesmo cognosci che l'operazione mia, cioè della pena della (65v) croce, fu finita, ma il frutto della pena, il quale avete ricevuto per me, è infinito. Questo è in virtù della natura divina infinita, unita con la natura umana finita, la quale natura umana sostenne in me, Verbo, vestito della vostra umanità. Ma perché è intrisa e impastata l'una natura con l'altra, trasse a sé la Deità eterna la pena che Io sostenni con tanto fuoco d'amore.

«E però si può chiamare infinita questa operazione: non che infinita sia la pena attuale del corpo, né la pena del desiderio che Io avevo di compire la vostra redenzione, però che ella terminò e finì in croce quando l'anima si partì dal corpo. Ma il frutto che escì dalla pena e il desiderio della vostra salute è infinito, e però el ricevete infinitamente. Però che, se egli non fosse stato infinito, non sarebbe restituita tutta l'umana generazione, cioè i presenti, i passati e gli a venire. Né anco l'uomo che offende, dopo la colpa non si potrebbe rilevare se questo battesmo del sangue non vi fosse dato infinito, cioè che il frutto del sangue fosse infinito.

«Questo vi manifestai nell'apritura del lato mio, dove truovi il secreto del cuore, mostrando che Io v'amo piú che mostrare non posso colla pena finita. Mòstrotelo infinito. Con che? Col battesmo del sangue unito col fuoco della mia carità, ché per amore fu sparto; e col battesmo generale dato a' cristiani, a chiunque el vuole ricevere, dell'acqua unita col sangue e col fuoco, dove l'anima s'impasta col sangue mio. E per mostrarvelo volsi che del costato escisse sangue e acqua.

«Ora ò risposto a quello che tu m'addimandi».



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CAPITOLO LXXVI.

Ora ti dico che tutto questo che Io t' ò narrato, sai che rispose a te a la mia Verità. Òttelo narrato da capo favellandoti Io in persona sua, acciò che tu cognosca la eccellenzia dove è l'anima che è salita questo secondo scalone, dove cognosce e acquista tanto fuoco d'amore che subito corre al terzo, cioè alla bocca, dove manifesta essere venuto a perfetto stato.

Unde passò? Per lo mezo del (66r) cuore, cioè con la memoria del sangue, nel quale si ribattezò, lassando l'amore imperfetto per lo cognoscimento che trasse del cordiale amore, vedendo gustando e provando il fuoco della mia carità. Gionti sono costoro alla bocca, e però el dimostrano facendo l'offizio della bocca. § 23 La bocca parla con la lingua che è in essa, il gusto gusta. La bocca ritiene porgendo allo stomaco, e i denti schiacciano, però che in altro modo non potrebbe inghiottire il cibo.

Or così l'anima: prima parla a me con la lingua che sta nella bocca del santo desiderio suo, ciò è la lingua della santa e continua orazione. Questa lingua parla attuale e mentale: mentale offerendo a me dolci e amorosi desideri in salute dell'anime, e attuale parla annunziando la dottrina della mia Verità, amonendo consigliando e confessando senza alcuno timore di propria pena che il mondo le volesse dare, ma arditamente confessa inanzi ad ogni creatura in diversi modi, e a ciascuno secondo lo stato suo.

Dico che mangia prendendo il cibo dell'anime per onore di me in su la mensa della santissima croce però che in altro modo né in altra mensa no'l potrebbe mangiare in verità perfettamente, e dico che lo schiaccia, però che in altro modo no'l potrebbe inghiottire, co' denti, cioè con l'odio e con l'amore, i quali sono due filaia di denti nella bocca del santo desiderio, che ritiene il cibo schiacciando con odio di sé e con amore della virtù in sé e nel prossimo suo. Schiaccia ogni ingiuria: scherni, villanie, strazi e rimproverii con molte persecuzioni, sostenendo fame e sete, freddo e caldo, e penosi desideri lagrime e sudori per salute dell'anime. Tutti gli schiaccia per onore di me, portando e sopportando il prossimo suo. E poi che l'à schiacciato, el gusto il gusta, assaporando il frutto della fadiga e'l diletto del cibo dell'anime, gustandolo nel fuoco della carità mia e del prossimo suo. E così giugne questo cibo nello stomaco, che per lo desiderio e fame dell'anime s'era disposto a volere ricevere, ciò è lo stomaco del cuore, col cordiale amore, diletto e dilezione di carità col prossimo (66v) suo; dilettandosene e rugumando per sì fatto modo, che perde la tenerezza della vita corporale per potere mangiare questo cibo, preso in su la mensa della croce, della dottrina di Cristo crocifisso.

Allora ingrassa l'anima nelle vere e reali virtù, e tanto rigonfia per l'abondanzia del cibo, che il vestimento della propria sensualità, cioè il corpo, che ricuopre l'anima, criepa quanto all'appetito sensitivo. Colui che criepa muore: così la voluntà sensitiva rimane morta. Questo è perché la voluntà ordinata dell'anima è viva in me, vestita dell'eterna voluntà mia, e però è morta la sensitiva.

Or questo fa l'anima che in verità è gionta al terzo scalone della bocca. Il segno che ella vi sia gionta è questo: che ella à morta la propria volontà quando gustò l'affetto della mia carità, e però trovò pace e quiete nell'anima sua nella bocca. Sai che nella bocca si dà la pace. Così in questo terzo stato l'anima truova la pace per sì fatto modo, che niuno è che la possa turbare, perché à perduta e annegata la sua volontà, la quale volontà quando è morta dà pace e quiete.

Questi parturiscono le virtù senza pena sopra del prossimo loro. Non che le pene non sieno in sé pene, ma non sono pena alla volontà morta, però che voluntariamente sostiene pena per lo nome mio.

Questi corrono senza negligenzia per la dottrina di Cristo crocifisso, e non allentano l'andare per ingiuria che lo' sia fatta, né per alcuna persecuzione, né per diletto che trovassero, ciò è diletto che il mondo lo' volesse dare. Ma tutte queste cose trapassano con vera fortezza e perseveranzia, vestito l'affetto loro dell'affetto della mia carità, gustando il cibo della salute de l'anime con vera e perfetta pazienzia. La quale pazienzia è uno segno dimostrativo che mostra che l'anima ama perfettamente e senza alcuno rispetto, però che se ella amasse me e 'l prossimo per propria utilità, sarebbe impaziente e allenterebbe nell'andare.

Ma perché essi amano me per me, in quanto Io so' somma bontà degno d'essere amato, e loro amano per me e il prossimo per me, per rendere gloria e loda al nome mio, però sono pazienti e forti (67r) a sostenere, e perseveranti.



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CAPITOLO LXXVII.

Queste sono quelle tre gloriose virtù § 9 fondate nella vera carità, le quali stanno in cima dell'arbolo d'essa carità, cioè la pazienzia, la fortezza, e la perseveranzia che è coronata col lume della santissima fede, col quale lume corrono senza tenebre per la via della verità. Ed è levata in alto per santo desiderio, e però non è veruno che la possi offendere: né il dimonio con le sue tentazioni, perché egli teme l'anima che arde nella fornace della carità; né le detrazioni e ingiurie degli uomini; anco, con tutto ciò che il mondo gli perseguiti, il mondo à timore di loro.

Questo permette la mia bontà, di fortificargli e fargli grandi dinanzi a me e nel mondo, perché essi si sono fatti piccoli per vera umilità. (Mt 18,4) Bene el vedi tu ne' santi miei, i quali per me si fecero piccoli, e Io gli ò fatti grandi in me, Vita durabile, e nel corpo mistico della santa Chiesa, dove si fa sempre menzione di loro perché i nomi loro sono scritti in me, libro di vita. Sì che il mondo gli à in reverenzia perché essi ànno spregiato il mondo.

Questi non nascondono la virtù per timore ma per umilità; e se elli è bisogno il servizio suo nel prossimo, elli non la nasconde per timore della pena né per timore di perdere la propria consolazione, ma virilmente el serve perdendo se medesimo e non cura di sé. E in qualunque modo egli esercita la vita e 'l tempo suo in onore di me, sì gode e truovasi pace e quiete nella mente.

Perché? Perché non elegge di servire a me a suo modo, ma a modo mio, e però gli pesa tanto il tempo della consolazione quanto quello della tribolazione, e tanto la prosperità quanto l'avversità. Tanto gli pesa l'una quanto l'altra, perché in ogni cosa truova la volontà mia, ed egli non pensa altro se non di conformarsi, inunque egli la truova, in essa volontà.

Egli à veduto che niuna cosa è fatta senza me, né sanza misterio e divina providenzia, se non il peccato che non è, e però odia il peccato e ogni altra cosa à in reverenzia. E però costoro sono tanto fermi e stabili nel loro volere andare per la via della verità e non allentano, ma fedelmente servono il prossimo loro non raguardando alla (67v) ignoranzia e ingratitudine sua, né perché alcuna volta il vizioso gli dica ingiuria e riprenda il suo bene adoperare, che egli non gridi nel cospetto mio per santa orazione per lui, dolendosi più dell'offesa che fa a me e del danno dell'anima sua che della ingiuria propria.

Costoro dicono col glorioso apostolo Pauolo mio banditore: «Il mondo ci maladice e noi benediciamo, egli ci perseguita e noi ringraziamo; cacciaci come immundizia e spazzatura del mondo, e noi pazientemente portiamo». (1Co 4,12-13) Sì che vedi, dilettissima figliuola, i dolci segni, e singularmente sopra ogni segno la virtù della pazienzia, dove l'anima dimostra in verità d'essere levata da l'amore imperfetto e venuta al perfetto, seguitando il dolce e immaculato Agnello unigenito mio Figliuolo, il quale, stando in su la croce tenuto da' chiovi de l'amore, non ritrae a dietro per detto dei giuderi che diceano: «Discende della croce e crederemti» (Mt 27,42 Mc 15,32) né per la ingratitudine vostra non ritrasse adietro che non perseverasse nell'obedienzia che Io gli avevo posta, con tanta pazienzia che il grido suo non fu udito per veruna mormorazione. Così questi cotali, dilettissimi figliuoli e fedeli servi miei, seguitano la dottrina e l'esempio della mia Verità. E perché con lusinghe e minacce il mondo gli voglia ritrarre, non vollono però il capo a dietro a mirare l'aratro, (Lc 9,62) ma raguardano solo ne l'obietto della mia Verità. Questi non si vogliono partire dal campo per tornare a casa per la gonnella, (Mt 24,18 Mc 13,16) cioè per la gonnella propria, che essi lassarono, del piacere più alle creature e temere più loro che me suo Creatore; anco con diletto stanno nella battaglia, pieni e inebriati del sangue di Cristo crocifisso. Il quale sangue v'è posto dinanzi nella bottiga del corpo mistico della santa Chiesa dalla mia carità, per fare inanimare coloro che vogliono essere veri cavalieri e combattere con la propria sensualità e carne fragile, col mondo e col dimonio, col coltello de l'odio d'essi nimici con cui essi ànno a combattere, e con l'amore delle virtù. Il quale amore è un'arme che ripara da' colpi che non li possono accarnare se essi non si traggono l'arme di dosso e'l coltello di mano, e dianlo nelle mani de' nimici loro, cioè dando l'arme (68r) con la mano del libero arbitrio, arrendendosi voluntariamente a' nimici suoi. Non fanno così questi che sono inebriati del sangue, anco virilmente perseverano infino alla morte, dove rimangono sconfitti tutti i nimici suoi.

O gloriosa virtù, quanto sei piacevole a me e riluci nel mondo negli occhi tenebrosi degli ignoranti che non possono fare che non participino della luce de' servi miei! Ne l'odio loro riluce la clemenzia che i miei servi ànno alla loro salute; nella invidia loro riluce la larghezza della carità; nella crudeltà la pietà, però che il mondo è crudele inverso di loro ed essi sono pietosi; nella ingiuria riluce la pazienzia, reina, che tiene la signoria e signoreggia tutte le virtù, perché ella è il mirollo della carità. Ella dimostra e rassegna le virtù nell'anima: dimostra se elle sono virtù fondate in me, Verità eterna, o no. Ella vince e non è mai vinta; ella è accompagnata da la fortezza e perseveranzia, come detto è; ella torna a casa con la vittoria: esciti del campo della battaglia tornano a me, Padre eterno remuneratore d'ogni loro fadiga, e ricevono da me la corona della gloria. (1P 5,4)

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CAPITOLO LXXVIII.

Ora non ti voglio tacere in quanto diletto gustano me. essendo ancora nel corpo mortale. Perché, giunti al terzo stato, in esso stato, sì come Io ti dissi, acquistano il quarto. Non che sia stato separato dal terzo ma unito insieme con esso, e l'uno non può essere senza l'altro se non come la carità mia e quella del prossimo, sì come Io ti dissi. § 74 ,1132ss.) Ma è uno frutto che esce di questo terzo stato d'una perfetta unione che l'anima fa in me, dove riceve fortezza sopra fortezza, intanto che, non che porti con pazienzia, ma esso desidera con ansietato desiderio (Ps 142,4) di potere sostenere pene per gloria e loda del nome mio.

Questi si gloria negli obrobrii de l'unigenito mio Figliuolo, sì come diceva il glorioso Paulo mio banditore: «Io mi glorio nelle tribolazioni e negli obrobrii di Cristo crocifisso». E in un altro (68v) luogo dice: «Io porto le stimate di Cristo crocifisso nel corpo mio». (2Co 12,10 Ga 6,17) Così questi cotali, come inamorati dell'onore mio e affamati del cibo dell'anime, corrono alla mensa della santissima croce, volendo con pena e col molto sostenere fare utilità al prossimo, e conservare e acquistare le virtù, portando le stimate di Cristo nei corpi loro. Ciò è che 'l crociato amore che essi ànno riluce nel corpo, mostrandolo con dispregiare se medesimi e con dilettarsi d'obrobri, sostenendo molestie e pene da qualunque lato e in qualunque modo Io le concedo.

A questi cotali carissimi figliuoli la pena l'è diletto e il diletto l'è fadiga, e ogni consolazione e diletto che el mondo alcuna volta lo' volesse dare. E non solamente quelle che 'l mondo lo' dà per mia dispensazione - ciò è che i servi del mondo alcuna volta sono costretti dalla mia bontà ad averli in reverenzia e sovenirgli ne' loro bisogni e necessità corporali - ma anco la consolazione che ricevono da me, Padre eterno, nelle menti loro, la spregiano per umilità e odio di loro medesimi. Non che spregino la consolazione e'l dono e la grazia mia, ma il diletto che truova il desiderio dell'anima in essa consolazione.

Questo è per la virtù della vera umilità acquistata dall'odio santo, la quale umilità è balia e nutrice della carità, acquistata con vero cognoscimento di sé e di me. Sì che vedi che la virtù riluce, e le stimate di Cristo crocifisso, nei corpi e nelle menti loro.

A questi cotali è tolto di non separarmi da loro per sentimento, sì come dagli altri ti dissi che Io andavo e tornavo a loro, partendomi non per grazia ma per sentimento. § 63 ,342ss.) Non fo così a questi perfettissimi che sono giunti alla grande perfezione, in tutto morti ad ogni loro voluntà, ma continuamente mi riposo per grazia e per sentimento nell'anime loro. Ciò è che ogni volta che vogliono unire in me la mente per affetto d'amore possono, perché il desiderio loro è venuto a tanta unione per affetto d'amore, che per niuna cosa se ne può separare, ma ogni luogo l'è luogo e ogni tempo l'è tempo d'orazione. Perché la loro conversazione è levata dalla terra e salita in cielo, cioè che ogni affetto terreno e amore proprio sensitivo di loro medesimi ànno (69r) tolto da sé, e levati si sono sopra di loro nell'altezza del cielo con la scala delle virtù, saliti nei tre scaloni che Io ti figurai nel corpo de l'unigenito mio Figliuolo.

Nel primo spogliarono i piei dell'affetto de l'amore del vizio; nel secondo gustaro il secreto e affetto del cuore unde concepettero amore nella virtù; nel terzo, della pace e quiete della mente, provarono in sé la virtù, e levandosi da l'amore imperfetto giunsero alla grande perfezione. Unde ànno trovato il riposo nella dottrina della mia Verità; ànno trovato la mensa, il cibo e il servidore, il quale cibo gustano col mezzo della dottrina di Cristo crocifisso, unigenito mio Figliuolo.

Io lo' so' letto e mensa. Questo dolce e amoroso Verbo l'è cibo, sì perché gustano il cibo dell'anime in questo glorioso Verbo, e sì perché egli è cibo dato da me a voi: la carne e 'l sangue suo, tutto Dio e tutto uomo, il quale ricevete nel sacramento dell'altare posto e dato a voi dalla mia bontà, mentre che sete pellegrini e viandanti, acciò che non veniate meno ne l'andare per debilezza, e perché non perdiate la memoria del benefizio del sangue sparto per voi con tanto fuoco d'amore, ma perché sempre vi confortiate e dilettiate nel vostro andare. Lo Spirito santo gli serve, cioè l'affetto della mia carità, la quale carità lo' ministra i doni e le grazie.

Questo dolce servitore porta e arreca: arreca e offera a me i dolci e amorosi desideri loro, e porta a loro il frutto della divina carità, delle loro fadighe, nell'anima loro, gustando e nutricandosi della dolcezza della mia carità. Sì che vedi che Io lo' so' mensa, il Figliuolo mio l'è cibo, e lo Spirito santo gli serve che procede da me Padre e dal Figliuolo.

Vedi dunque che sempre, per sentimento, mi sentono nelle menti loro. E quanto più ànno spregiato il diletto e ànno voluta la pena, più ànno perduta la pena e acquistato il diletto. Perché? Perché sono arsi e affocati nella mia carità, dove è consumata la volontà loro. Unde il dimonio teme il bastone della carità loro, e però gitta le saette sue da lunga e non s'ardisce d'accostare. Il mondo percuote nella corteccia de' corpi (69v) loro: credendo offendere egli è offeso, perché la saetta che non truova dove intrare ritorna a colui che la gitta. Così il mondo con le saette delle ingiurie e persecuzioni e mormorazioni sue: gittandole ne' perfettissimi servi miei, non v'à luogo da veruna parte dove possa entrare, perché l'orto dell'anima loro è chiuso; e però ritorna la saetta a colui che la gitta, avelenata col veleno della colpa.

Vedi che da niuno lato la può percuotere, però che percotendo il corpo non percuote l'anima. Ma sta beata e dolorosa: dolorosa sta dell'offesa del prossimo suo, e beata per l'unione e affetto della carità che à ricevuta in sé.

Questi seguitano lo immaculato Agnello, (Ap 14,4) unigenito mio Figliuolo, il quale stando in croce era beato e doloroso: doloroso era portando la croce del corpo sostenendo pena, e la croce del desiderio per satisfare la colpa dell'umana generazione; e beato era perché la natura divina unita con la natura umana non poteva sostenere pena, e sempre faceva l'anima sua beata mostrandosi a lei senza velame. E però era beato e doloroso, perché la carne sosteneva, e la deità pena non poteva patire; né anco l'anima quanto alla parte di sopra de l'intelletto.

Così questi diletti figliuoli, giunti al terzo e al quarto stato, sono dolorosi portando la croce attuale e mentale, cioè attualmente sostenendo pene nei corpi loro secondo che Io permetto, e la croce del desiderio, cioè il crociato dolore dell'offesa mia e danno del prossimo. Dico che sono beati, però che'l diletto della carità, la quale gli fa beati, non lo' può essere tolto, unde essi ricevono allegrezza e beatitudine. Unde si chiama quello dolore non «dolore affligitivo» che disecchi l'anima, ma «dolore ingrassativo», che ingrassa l'anima nell'affetto della carità, perché le pene aumentano fortificano e crescono e pruovano la virtù.

Sì che è ingrassativa la pena e non affligitiva, però che niuno dolore né pena la può trare del fuoco se non come il tizzone quando è tutto consumato nella fornace, che niuno è che'l possa pigliare per spegnere, perché egli è fatto fuoco. Così queste anime gittate nella fornace della mia (70r) carità, non rimanendo veruna cosa fuori di me, cioè veruna loro voluntà, ma tutti affocati in me, niuno è che le possa pigliare né trarle fuore di me per grazia, perché sono fatte una cosa con meco ed Io con loro. E mai da loro non mi sottraggo per sentimento, ma la mente loro sempre mi sente in sé, dove degli altri Io ti dissi che Io andavo e tornavo, partendomi per sentimento e non per grazia, e questo facevo per fargli venire alla perfezione.

Giunti alla perfezione lo' tolgo il giuoco dell'amore d'andare e tornare, il quale si chiama «giuoco d'amore» perché per amore mi parto e per amore torno; non propriamente Io, ché Io so' lo Dio vostro immobile che non mi muovo, ma il sentimento che dà la mia carità nell'anima è quello che va e torna.




Caterina, Dialogo 69