Catechesi 79-2005 8284

Mercoledì, 8 febbraio 1984

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1. L’augurio espresso dall’apostolo Paolo nella lettera ai Colossesi, ora ascoltata, è che tutti i cristiani “giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza”. San Paolo, dunque, presenta il cristianesimo non come pura saggezza umana, ma come un fatto che deve rinnovare continuamente, alla luce del Vangelo, la vita e la cultura dell’uomo decaduto (cf. Gaudium et Spes
GS 58). L’incontro con Cristo, che si realizza nella Chiesa, implica una concezione nuova dell’esistenza e della realtà. La presenza redentrice del Figlio di Dio fatto uomo costituisce una chiave di volta, un punto di vista ultimo e globale circa il modo di vivere e di pensare l’esistenza dell’uomo e del mondo. Per questo, chi crede in Cristo, anche nei momenti di maggior fatica, quando tutto può sembrare scandalo o follia, non perde il senso della vita e non cade nella disperazione.

Dicevo nell’Allocuzione all’Unesco: “Le società con la cultura tecnica più sviluppata si trovano davanti alla crisi specifica dell’uomo che consiste in un crescente venir meno di fiducia nei confronti della propria umanità, del significato del fatto di essere uomini, dell’affermazione e della gioia che ne derivano e che sono fonte di creazione. La civiltà moderna tenta di imporre all’uomo una serie di imperativi apparenti . . . Al posto del primato della verità nelle azioni, il primato del comportamento alla moda, del soggettivo e del successo immediato” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/1 [1980] 1646).

Ma l’uomo ha bisogno di conoscere il significato totale della sua vita. Egli con tutte le manifestazioni del suo essere mostra di tendere a un principio unificatore di sé e della realtà, cioè alla verità. Solo in forza di essa l’uomo può raggiungere, nonostante le contraddizioni e il peccato, la propria maturità e, con essa, la capacità di un’azione responsabile nella storia.

2. Cristo, rivelazione del Padre, è il principio originario della realtà che dà ordine a ogni cosa e che permette quindi all’uomo di giudicare in ultima analisi ciò che vale la pena di essere conosciuto, raggiunto e vissuto. Per questo la fede in Cristo esige una conversione profonda e definitiva di mentalità, che dà origine a una sensibilità e a un giudizio nuovi. Questo giudizio, intimamente connesso con la fede di ogni cristiano, anche del più semplice, genera una conoscenza della vita profonda e carica di gusto, tale da giustificare quanto dicevo nella lettera enciclica Redemptor Hominis (Ioannis Pauli PP. II, Redemptor Hominis RH 10): “L’uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve avvicinarsi a Cristo”.

Quando il giudizio di fede diventa sistematico e critico, dà origine a una nuova ermeneutica capace di redimere la cultura intesa come “manifestazione fondamentale dell’uomo come singolo, come comunità, come popolo, come nazione” (Eiusdem, Allocutio ad intellectuales europaeos habita, 3, die 15 dec. 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/2 [1983] 1356).


Quando l’evangelista annota che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Jn 1,14), egli vuole altresì insegnarci che, in Cristo, la verità si è fatta presente senza impacci, non più come termine di una sterile nostalgia, ma come realtà concreta, personalmente avvicinabile. La verità è venuta e ha riempito la mente e i cuori. Di conseguenza il pensiero dell’uomo acquista tutto il suo valore solamente se si adegua ad essa e la accetta come supremo metro di giudizio e come decisivo criterio di azione.

Esiste quindi, e non si deve temere di affermarlo, una qualificazione cristiana della cultura, perché la fede in Cristo non è un puro e semplice valore tra i valori che le diverse culture enucleano; ma per il cristiano è il giudizio ultimo che li giudica tutti, pur nel pieno rispetto della loro consistenza propria.

3. Di conseguenza, la cultura generata dalla fede è un compito da realizzare e una tradizione da conservare e trasmettere. Solo così l’evangelizzazione, pur autonoma nella sua essenza dalla cultura, trova il modo di incidere pienamente nella vita dell’uomo e delle nazioni.

Infatti tutto l’universo di interessi e di abilità dell’uomo attende di essere animato dalla luce di Cristo. La luce della sua presenza favorisce lo sviluppo della competenza umana, perché avvalora nel soggetto umano ogni potenzialità e stimola la dinamica delle sue capacità. Inoltre, nell’approfondimento e nella comunicazione della visione cristiana della realtà che la cultura consente, si documenta meglio la “convenienza” suprema del disegno di Dio sul mondo.

Fratelli carissimi, in questo Anno Santo della Redenzione siamo invitati a partecipare alla missione della Chiesa, la quale può e deve entrare in rapporto critico e costruttivo con ogni forma di cultura. Il cristiano infatti è chiamato a contribuire al progresso culturale e alla solidarietà fra gli uomini, annunciando dall’interno delle più svariate situazioni umane “una fede che esige di penetrare nell’intelligenza dell’uomo . . . non giustapponendosi a quanto l’intelligenza può conoscere con la sua luce naturale, ma permeando "dal di dentro" questa stessa conoscenza” (Ioannis Pauli PP. II, Allocutio de pastorali universitaria habita, 2, die 8 mar. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 773).

Ad un Simposio internazionale di Radiologia

A gruppi di lingua tedesca



A fedeli di espressione spagnola

Ai fedeli polacchi

Agli “Amici del Movimento dei Focolari”

Rivolgo ora il mio affettuoso saluto ad un gruppo di Vescovi, amici del Movimento dei Focolari, che in questi giorni si sono riuniti al Centro Mariapoli di Rocca di Papa.

Questo incontro annuale, cari fratelli nell’episcopato, è ormai tradizionale, ed anche oggi voglio darvi il mio caloroso benvenuto.

La vostra partecipazione al Movimento è un’ottima occasione per riflettere in una particolare atmosfera di serena fraternità e di religioso raccoglimento sulla ricchezza, la responsabilità, gli impegni del carisma pastorale che avete ricevuto “con l’imposizione delle mani” e nello stesso tempo per diffondere sempre più quei doni che lo Spirito Santo mette a disposizione per la santificazione vostra e di tutti i fratelli e sorelle nella fede, con i quali venite a contatto.

La Vergine Santissima vi assista. Di cuore tutti vi benedico.


Ai Cappellani dell’aviazione civile

Un beneaugurante saluto vada anche ai Cappellani dell’aviazione civile, partecipanti ad un corso di studio organizzato dalla Pontificia Commissione per le Migrazioni e il Turismo.

Carissimi, vi esprimo vivo apprezzamento per l’impegno con cui vi dedicate al vostro specifico ministero sacerdotale. Esso, infatti, esige da voi costante e vigile presenza, e soprattutto generosa carità, nell’accogliere, ascoltare, incoraggiare fratelli tanto diversi per lingua, provenienza, educazione e cultura: tutti attendono una parola di elevazione spirituale che faciliti il loro incontro col Signore, che è l’aspirazione, spesso inconfessata, ma certo la più profonda e vera.

Nell’assicurarvi la mia preghiera, v’imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

Ai giovani

Un saluto particolare rivolgo ora a tutti i giovani qui presenti, fra i quali quelli del “Movimento Gen” del “Movimento dei Focolari” provenienti da tutta l’Europa per un loro congresso.

Carissimi, voi rappresentate la speranza, la gioia e la vitalità di ogni società civile e della Chiesa. A voi chiedo quindi, a nome del Signore Gesù, di avvicinarvi con desiderio ardente e con serenità alla Sua parola, che Egli semina abbondantemente nei vostri cuori affinché portiate frutti abbondanti di opere buone. Fate tesoro quindi della presenza di Cristo nella vostra vita, perché ogni vostra giornata, oggi e sempre, sia vissuta con pienezza di convinzioni e con gioia viva ed autentica.

Vi accompagni in questo cammino la mia Benedizione.

Alle coppie di sposi novelli

Mi rivolgo infine a voi, sposi novelli, che avete voluto segnare l’inizio della vostra vita coniugale con la visita e la preghiera sulla tomba di Pietro. La liturgia del Matrimonio che avete appena celebrato vi ha rivolto la parola di Gesù Cristo. Egli vi ha detto: “Voi siete il sale della terra . . . voi siete la luce del mondo”. Vi esorto, carissimi, sia il vostro amore e la vostra dedizione vicendevole una vera e perenne testimonianza all’amore di Cristo: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.

Vi sia di incoraggiamento la mia Benedizione.
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Carissimi ammalati, desidero annunciarvi che, con data 11 febbraio corrente, memoria della prima apparizione di Maria santissima a Lourdes, sarà pubblicata la mia Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana.

Ho ritenuto opportuno e significativo, nell’Anno Santo della Redenzione, che commemora in un modo del tutto speciale la morte salvifica di Gesù in croce, esortare tutti i cristiani a meditare con più profondità e con maggiore convinzione sul valore insostituibile del dolore per la salvezza del mondo. Tale Lettera vuole essere di aiuto a guardare a Cristo crocifisso e ad accettare il “vangelo della sofferenza” con amore e con coraggio, nel disegno misterioso ma sempre amoroso della Divina Provvidenza. Infatti ciò che per la ragione rimane insondabile enigma, per la fede, alla luce del Cristo morto e risorto, diventa messaggio di elevazione e di salvezza.

Offro a voi, cari ammalati e sofferenti, e consegno ad ogni cristiano questo documento, con l’augurio che possa illuminare, confortare e sostenere, mentre invoco l’intercessione della Vergine Immacolata che ha fatto di Lourdes un centro di sofferenza accettata con amore, e di preghiera sostenuta dalla speranza.
* * *


Dal Libano continuano a giungere notizie sempre più allarmanti, che certamente voi conoscete.

In questi giorni ho seguito, momento per momento, con particolare attenzione lo svolgersi degli avvenimenti.

Profondamente turbato da tanta sofferenza delle popolazioni libanesi e preoccupato per la stessa sopravvivenza del loro Paese, ieri sera ho inviato un messaggio personale al Presidente degli Stati Uniti d’America, per partecipargli le mie apprensioni e chiedergli di usare della sua influenza per far innanzitutto cessare i bombardamenti e le uccisioni e per favorire una immediata tregua, che permetta la ricerca di una giusta soluzione politica.

Sempre sulla questione del Libano mi rivolgo ugualmente al Presidente Assad di Siria, e lo stesso farò con altri Capi responsabili.

Rivolgo ora a voi e a tutta la Chiesa un pressante invito alla preghiera.

Il dolore dei libanesi, di cui il Papa e tutti gli uomini di buona volontà non possono non sentirsi partecipi, divenga una invocazione a Dio misericordioso, per la salvezza di tanta gente coinvolta nel conflitto e, particolarmente, per tutte le vittime di questi orrori.

Rinnovo ancora l’invito rivolto Domenica scorsa a tutti i responsabili delle parti che si combattono, perché vogliano raggiungere una tregua immediata, la quale permetta un dialogo leale con la volontà di pervenire ad una giusta, effettiva e stabile soluzione politica.



Mercoledì, 15 febbraio 1984

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1. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela” (
Gn 1,28). La Parola di Dio creatore assegna all’uomo un compito insostituibile per lo sviluppo delle potenzialità insite nell’universo. Egli è chiamato a partecipare all’opera del Creatore, significativamente definita dalla Bibbia con la parola “lavoro”. Secondo le proprie capacità, egli prosegue, sviluppa e completa quanto Dio ha iniziato.

Ma il significato del lavoro umano non si esaurisce in questo compito. Esso è insostituibile anche per l’edificazione di una società più giusta, dove regni la verità e l’amore, e si manifesti quindi visibilmente la promessa del Regno contenuta nella Redenzione di Cristo. “Per questo - dicevo a Guadalajara, durante il viaggio apostolico in Messico - il lavoro non deve essere una pura necessità, ma deve essere considerato come un’autentica vocazione, una chiamata di Dio a costruire un mondo nuovo nel quale coabitino la giustizia e la fratellanza, anticipo del Regno di Dio, nel quale non vi saranno né carenze, né limitazioni. Il lavoro deve essere il mezzo affinché tutta la creazione sia sottomessa alla dignità dell’essere umano e figlio di Dio” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 281).

2. Spingendo a fondo la nostra riflessione sulla scorta del Concilio Vaticano II, noi “sappiamo per fede che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l’uomo si associa all’opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità lavorando con le proprie mani a Nazaret” (Gaudium et Spes GS 67). Infatti il lavoro, redento da Cristo, diventa per l’uomo espressione della propria vocazione, quella di un essere chiamato a conformarsi a Cristo, a vivere in profonda, intima unione con il Figlio di Dio. Nella prospettiva aperta dalla Redenzione, il lavoro diviene una delle modalità fondamentali attraverso le quali l’uomo si apre a se stesso e, in Cristo, a Dio Padre.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II ci ha insegnato altresì che uno dei principali frutti di questa unione con Cristo è la partecipazione alla sua regalità, cioè al suo destino di Signore del cosmo e della storia (cf. Lumen Gentium LG 36). Cristo ha vissuto la sua regalità soprattutto nel servizio ai fratelli, ispirato dall’amore (cf. Mt 20,28 Mc 10,45). Partecipando a tale regalità, l’uomo acquista una rinnovata libertà di porsi generosamente al servizio del prossimo nella quotidiana fatica del lavoro, sentito e vissuto come una dimostrazione e una testimonianza d’amore.

Latente in un lavoro a volte pesante e faticoso, l’amore non rivela immediatamente e sempre la sua presenza; poco alla volta, però, se chi lavora ha fede e costanza, l’amore comincia a manifestarsi nella solidarietà che si crea tra uomo e uomo. Fatto con e per amore, il lavoro è una grande occasione di crescita per l’uomo, a cui assicura, come diceva il mio venerato predecessore Pio XII, “un campo di giusta libertà non solo economica, ma anche politica, culturale e religiosa” (Pio XII, Nuntius, 1° settembre 1944).

Il lavoro inoltre implica un “servizio regale”, perché sopportandone la fatica “in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualunque modo col Figlio di Dio alla Redenzione dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere”, (Ioannis Pauli PP. II, Laborem Exercens LE 27).

Nel lavoro così concepito si realizza, in continuità con la missione di Cristo, la capacità dell’uomo di trasformare il mondo, rendendolo omogeneo alla sua sublime dignità di redento. La redenzione del lavoro mette l’uomo in condizione di esercitare il suo “munus regale”, cioè di rispondere al comando del Creatore di soggiogare e dominare la terra (cf. Gn 1,28). Perciò la Gaudium et Spes (GS 67) può affermare che il lavoro “procede immediatamente dalla persona, la quale imprime nella natura quasi il suo sigillo e la sottomette alla sua volontà”.

3. Il lavoro ha un grande valore creativo anche perché conduce l’individuo a impegnarsi con tutta la comunità familiare, sociale e politica.

Ogni uomo, infatti, riceve incessantemente aiuto da coloro che gli sono prossimi, come da quelli più lontani. Si avvantaggia dei beni materiali, morali, culturali e religiosi, creati da intere generazioni, delle quali forse non ha mai sentito parlare. Vive del lavoro, dello sforzo, del fervore, della devozione, del sacrificio che altri hanno compiuto. Nessuno dei beni, frutto di questo enorme lavoro, gli è estraneo. Sarebbe perciò da egoisti accettare passivamente tutta questa ricchezza senza impegnarsi a corrispondervi, recando col proprio lavoro un fattivo contributo alla soluzione della drammatica situazione sociale in cui oggi viviamo.

Da questa elementare considerazione prende luce la dimensione di partecipazione insita nel lavoro umano. Essa spalanca all’uomo la strada dell’autorealizzazione, offrendogli la possibilità impareggiabile di comunicare se stesso all’altro, dentro rapporti stabili e solidali, attenti ai bisogni reali, soprattutto a quello supremo di trovare un significato per la propria esistenza. Tale dimensione, aperta dalla Redenzione di Cristo, si rivela in tal modo come un ottimo antidoto alla situazione di alienazione in cui sovente versa il lavoro umano.


L’Anno Santo della Redenzione è un invito per ciascuno di noi a ritrovare in Cristo redentore il significato più profondo del lavoro e, con esso, la gioia che scaturisce dalla consapevolezza di recare un personale contributo all’edificazione di un mondo rinnovato.

Ai pellegrini francesi

Ai fedeli di lingua inglese

Ai pellegrini austriaci


Ai fedeli di lingua spagnola

Ai diversi gruppi di pellegrini polacchi

Ai vari gruppi italiani

Rivolgo ora un saluto speciale ai rappresentanti dei gruppi locali aderenti al Sindacato Nazionale dei Pensionati coltivatori Diretti, che, in occasione di un loro Convegno, celebrano l’Anno Giubilare della Redenzione. Vi ringrazio per questo vostro attaccamento al Successore di Pietro e per questa pubblica manifestazione di fede cristiana. Il Signore dia merito e ricompensa alla benemerita attività da voi svolta nel lavoro dei campi, e vi conceda la grazia di celebrare il vostro Giubileo con devozione e con frutto per le vostre anime. Da parte mia, vi benedico e vi esprimo la mia benevolenza.
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Sono di salutare i ragazzi qui presenti, specie gli alunni della seconda elementare di Vigna Murata, in Roma, con la loro insegnante e i genitori; e, con essi, saluto i giovani che affollano quest’aula, tra cui sono un gruppo di ragazzi del Movimento dei Focolari, provenienti da tutta Europa. Carissimi, a mano a mano che vi affacciate sulla ribalta della società, fate sentire la vostra presenza ed abbiate una coscienza sempre più chiara del ruolo che siete chiamati a svolgere in seno alle vostre famiglie, alla scuola e all’ambiente in cui vivete; portate dappertutto il vostro ottimismo, la vostra gioia e la vostra speranza, mostrando una grande apertura verso i valori dello spirito e verso i problemi di quanti vivono ai margini della società ed attendono il vostro aiuto, la vostra amicizia e il vostro amore. Vi sia di conforto in questa vostra missione la mia Benedizione.
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Saluto pure gli ammalati, che, con la loro venuta qui in mezzo a noi, ci hanno portato come in dono i meriti delle loro sofferenze. Carissimi, nelle vostre prove e nei momenti di più acuto abbandono, ricordatevi che - come ho già detto nella recente Lettera “Salvifici Doloris” - “Cristo, operando la redenzione mediante la sofferenza, ha elevato la sofferenza umana a livello di redenzione . . . Così ogni uomo può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo” (Ioannis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, 19). Voi dunque, uniti alla croce di Cristo, non soffrite invano, ma contribuite all’opera stessa della redenzione del mondo: a questo vertice si eleva la virtù del dolore cristianamente sofferto ed offerto! Vi assicuro la mia preghiera e vi imparto una speciale Benedizione.
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Rivolgo infine un pensiero beneaugurante agli sposi novelli, presenti a questa udienza. Il Signore vi conceda una vita serena e la gioia di vederla ogni giorno pienamente realizzata nella totale unità, nell’amore perfetto e nella reciproca dedizione, a cui la grazia del Sacramento vi ha abilitati. E’ questo l’augurio che vi lascio e che avvaloro con la mia Benedizione.




Mercoledì, 22 febbraio 1984

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Carissimi fratelli e sorelle.

1. Oggi, la festa della Cattedra di san Pietro apostolo, che celebriamo nell’Anno della Redenzione, acquista un significato tutto particolare. Ci ricorda il compito che la Chiesa ha nel perdono dei peccati.

Il brano del Vangelo di Matteo, che abbiamo ascoltato, contiene quella che viene spesso chiamata la “promessa” del ministero di Pietro e dei suoi successori a favore del popolo di Dio: “E io ti dico - afferma Gesù - : tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.

Noi sappiamo che Cristo diede compimento a questa “promessa” dopo la sua risurrezione, quando ordinò a Pietro: “Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle” (cf.
Jn 21,15-17). Sappiamo pure che il Signore Gesù affidò in modo singolare, “insieme con Pietro e sotto la guida di Pietro” (Ad Gentes AGD 38) il potere di “legare” e di “sciogliere” anche agli apostoli e ai loro successori, i vescovi (cf. Mt 18,18); e tale potere è connesso in qualche misura, e per partecipazione, anche ai sacerdoti.

Tale “ufficio” comprende campi vastissimi di applicazione, quali l’impegno di tutelare e di annunciare, con “un carisma certo di verità” (Dei Verbum DV 8), la parola di Dio; l’impegno di santificare soprattutto attraverso la celebrazione dei sacramenti; l’impegno di guidare la comunità cristiana sul cammino della fedeltà a Cristo nei diversi tempi e nei diversi ambienti.

2. Mi preme, ora, sottolineare il compito della remissione dei peccati.

Spesso, nell’esperienza dei fedeli, proprio il dover presentarsi al ministro del perdono costituisce una difficoltà rilevante. “Perché - si obietta - rivelare a un uomo come me la mia situazione più intima e anche le mie colpe più segrete?”. “Perché - si obietta ancora - non rivolgermi direttamente a Dio o a Cristo, e dovere, invece, passare attraverso la mediazione di un uomo per ottenere il perdono dei peccati?”.

Queste e simili domande possono avere una loro plausibilità per la “fatica” che richiede un po’ sempre il sacramento della Penitenza. Esse, però, nel loro fondo, pongono in evidenza una non comprensione o una non accoglienza del “mistero” della Chiesa.

È vero: l’uomo che assolve è un fratello che si confessa lui pure, perché, nonostante l’impegno di santificazione personale, resta soggetto ai limiti dell’umana fragilità. L’uomo che assolve, tuttavia, non offre il perdono delle colpe in nome di doti umane peculiari di intelligenza, o di penetrazione psicologica, o di dolcezza e di affabilità; egli non offre il perdono delle colpe nemmeno in nome della propria santità. Egli, auspicabilmente, è sollecitato a divenire sempre più accogliente e capace di trasmettere la speranza che deriva da una totale appartenenza a Cristo (cf. Ga 2,20 1P 3,15). Ma quando alza la mano benedicente e pronuncia le parole dell’assoluzione, egli agisce “in persona Christi”: non solo come “rappresentante”, ma anche e soprattutto come “strumento” umano in cui è presente, in modo arcano e reale, e agisce il Signore Gesù, il “Dio-con-noi”, morto e risorto e vivente per la nostra salvezza.


3. A ben considerare, nonostante il senso di disagio che può provocare la mediazione ecclesiale, essa è un metodo umanissimo, perché il Dio che ci libera dalle nostre colpe non si stemperi in un’astrazione lontana, che alla fine diverrebbe una scialba, irritante e disperante immagine di noi stessi. Mediante la mediazione del ministro della Chiesa questo Dio si rende “prossimo” a noi nella concretezza di un cuore pure perdonato.

In questa prospettiva vien fatto di domandarsi se la strumentalità della Chiesa, invece che contestata, non dovrebbe, piuttosto, essere desiderata, poiché risponde alle attese più profonde che si nascondono nell’animo umano quando si avvicina a Dio e si lascia da lui salvare. Il ministro del sacramento della Penitenza ci appare così - entro la totalità della Chiesa - come un’espressione singolare della “logica dell’Incarnazione”, mediante la quale il Verbo fatto carne ci raggiunge e ci libera dai nostri peccati.

“Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, dice Cristo a Pietro. Le “chiavi del regno dei cieli” non sono affidate a Pietro e alla Chiesa perché se ne servano a proprio arbitrio o per manipolare le coscienze, ma perché le coscienze siano liberate nella verità piena dell’uomo, che è Cristo, “pace e misericordia” (cf. Ga 6,16) per tutti.

Ai fedeli di lingua francese

Ai fedeli di espressione inglese

Ai pellegrini provenienti dalla Germania e dall’Austria


Ai fedeli di lingua spagnola

Ai fedeli polacchi

Ai pellegrini italiani

Rivolgo il mio saluto ai pellegrini italiani, ringraziando cordialmente tutti per la loro gradita presenza.

In particolare saluto affettuosamente il gruppo dei sacerdoti delle diocesi di Padova e di Rovigo, uniti nel ricordo del 40° anniversario della loro ordinazione. Saluto anche il gruppo di sacerdoti milanesi, i quali, insieme ai loro familiari, sono presenti a questa Udienza per ricordare il 25° della loro ordinazione sacerdotale.

Carissimi, mentre mi compiaccio vivamente per questi traguardi, raggiunti nella generosa corrispondenza alla vocazione sacerdotale, e con voi ne ringrazio il Signore, vi auguro ancora lunghi anni di vita e di attività pastorale e di gran cuore imparto a ciascuno di voi, ed ai fedeli ai quali dedicate con amore e zelo encomiabili le vostre migliori energie, una particolare Benedizione.
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Ho il piacere di salutare ora il Pellegrinaggio diocesano di Verona, accompagnato a Roma dal proprio Vescovo, Monsignor Giuseppe Amari, per celebrare il Giubileo della Redenzione. Cari veronesi, la vostra presenza a questa Udienza è una chiara testimonianza della vostra fede che avete voluto confermare sulla Tomba del Principe degli Apostoli, in adesione alle finalità di conversione e di riconciliazione, a cui la Chiesa chiama i suoi figli durante questo anno di grazia e di perdono. Vi auguro che l’incontro col Redentore divino, vissuto in modo personale e vivo in questo Giubileo, contribuisca a rinforzare in voi la visione cristiana della vostra vita e del vostro operare in seno alla Chiesa e alla società. Vi sia di conforto a tal fine la mia Benedizione Apostolica.
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Un pensiero particolarmente affettuoso va pure ai membri del Consiglio di Presidenza dell’Unione Apostolica del Clero ed ai Religiosi aderenti al Movimento dei Focolari e appartenenti a 80 Istituti diversi, venuti a Roma per un loro convegno.
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Saluto i fedeli della Parrocchia San Filippo Neri, di Castel Giuliano, i quali, nel 25° della loro Parrocchia, sono venuti in Udienza per far benedire dal Papa la Statua della Vergine Immacolata. Carissimi, volentieri benedico voi tutti e l’immagine della Madonna Santissima.
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Cari ammalati, ora è per voi il mio affettuoso saluto. La festività odierna ha da dire una parola anche a voi, anzi, soprattutto a voi. L’ufficio del Successore di Pietro è come una croce da portare ogni giorno al seguito di Gesù. Questo mi fa sentire particolarmente vicino a voi. Grazie per l’aiuto che date alla Chiesa! Le croci possono essere molto diverse, ma non dimentichiamoci delle confortanti parole del divino Maestro: “Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30). Vi benedico tutti di cuore.
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Infine rivolgo a voi, cari sposi novelli, il mio cordiale pensiero. L’itinerario di vita che avete appena intrapreso sia sotto la protezione del Principe degli Apostoli. Voglia egli dare al vostro amore quella saldezza che la Bibbia rappresenta con l’immagine della “pietra”, della “roccia”. Sia il vostro futuro focolare domestico fondato sulle incrollabili ed invincibili certezze della fede. Impegnate senza timore la vostra vita per queste certezze e - superando ogni prova - giungerete nella vita futura a quell’amore che non conoscerà più né dubbi né incrinature. Vi accompagna la mia affettuosa Benedizione.





Mercoledì, 29 febbraio 1984

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1. “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (
2Co 5,20). Nella preghiera comune di mercoledì scorso abbiamo riflettuto sul significato e sul valore anche umano del perdono, in quanto offerto dalla Chiesa attraverso il ministro del sacramento della Penitenza.

Oggi, e nelle prossime settimane, vorrei continuare nella considerazione dei gesti, a cui siamo chiamati quando ci accostiamo al sacramento del perdono. Si tratta di azioni molto semplici, di parole molto usuali, che però nascondono tutta la ricchezza dalla presenza di Dio ed esigono da noi la disponibilità a lasciarci formare secondo la pedagogia di Cristo, continuata e applicata dalla saggezza materna della Chiesa.

2. Quando noi credenti ci stacchiamo dalle nostre case e dalla vita di ogni giorno per avviarci a ricevere la misericordia del Signore, che ci libera dalle nostre colpe nel sacramento della Riconciliazione, quali sono le convinzioni e i sentimenti che dobbiamo nutrire nell’animo?


In primo luogo dobbiamo essere certi che la nostra è già una “risposta”. Ad uno sguardo superficiale questo rilievo può sembrare strano. Ci si può domandare: non siamo noi - solamente noi - ad assumere l’iniziativa del richiedere il perdono dei peccati? Non siamo noi - solamente noi - ad avvertire il peso delle nostre colpe e delle storture della nostra vita, a renderci conto dell’offesa recata all’amore di Dio, e dunque a determinarci nella scelta di aprirci alla misericordia?

Certo, si esige anche la nostra libertà. Dio non impone il suo perdono a chi si rifiuta di accettarlo. E tuttavia questa libertà ha radici più profonde e mete più alte di quanto la nostra coscienza riesca a comprendere. Dio, che in Cristo è la vivente e suprema misericordia, sta “prima” di noi e della nostra invocazione ad essere riconciliati. Ci attende. Noi non ci smuoveremmo dal nostro peccato, se Dio non ci avesse già offerto il suo perdono. “È stato Dio infatti - afferma san Paolo - a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Co 5,19). Di più: non ci determineremmo ad aprirci al perdono, se Dio, mediante lo Spirito che Cristo ci ha donato, non avesse già operato in noi peccatori un avvio di cambiamento di esistenza qual è, appunto, il desiderio e la volontà di conversione. “Vi supplichiamo - soggiunge san Paolo - : lasciatevi riconciliare con Dio” (2Co 5,20). Siamo all’apparenza noi a muovere i primi passi; in realtà, all’inizio della nostra riforma di vita sta il Signore che ci illumina e ci sollecita. È lui che seguiamo, alla sua iniziativa ci adeguiamo. La gratitudine deve riempirci il cuore, ancor prima d’essere liberati dalle nostre colpe mediante l’assoluzione della Chiesa.

3. Una seconda certezza deve animarci quando ci avviamo al sacramento della Penitenza. Siamo sollecitati ad accogliere un perdono che non si limita a “dimenticare” il passato, quasi stendendovi sopra un effimero velo, ma ci provoca a un mutamento radicale della mente, del cuore e del comportamento, così da diventare, per mezzo di Cristo, “giustizia di Dio” (2Co 5,21).

Dio, infatti, è un dolcissimo ma anche un esigentissimo amico. Quando lo si incontra, non è più concesso di continuare a vivere come se non lo si fosse incontrato. Richiede che lo si segua non per le strade che noi abbiamo stabilito di percorrere, ma per quelle che egli ha segnato per noi. Gli si dà un lembo d’esistenza e via via ci si accorge che ce la sta domandando tutta.

Una religione unicamente consolatoria è una favola, condivisa soltanto da chi non ha ancora sperimentato la comunione con Dio. Tale comunione offre pure le sue profondissime gratificazioni, ma le offre dentro un impegno inesausto di conversione.

4. In particolare - ed è un terzo aspetto dell’avviarsi al sacramento della Riconciliazione - il Signore Gesù ci chiede di essere pronti a perdonare, a nostra volta, i fratelli, se intendiamo ricevere il suo perdono. L’uso di certe tradizioni cristiane di scambiarsi tra i fedeli più vicini il segno di pace prima di avviarsi al sacramento della misericordia di Dio, traduce in un gesto l’imperativo evangelico: “Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).

Questo rilievo assume tutta la sua importanza, se si pensa che il peccato anche più segreto e personale è sempre una ferita provocata alla Chiesa (cf. Lumen Gentium LG 11), e se si pensa che la concessione del perdono di Dio, pur essendo in modo peculiare e indelegabile atto del ministro del sacramento della Penitenza - il sacerdote -, avviene sempre nel contesto di una comunità che aiuta e sostiene e riaccoglie il peccatore con la preghiera, con l’unione alla sofferenza di Cristo e con lo spirito di fraternità che deriva dalla morte e risurrezione del Signore Gesù (Ivi).

Ascoltiamo, dunque, carissimi fratelli e sorelle, l’invito dell’Apostolo Paolo, come se Dio stesso ci esortasse per mezzo suo: “Lasciamoci riconciliare con Dio!”.

A vari gruppi

Desidero rivolgere ora parola di saluto ad alcuni gruppi particolarmente numerosi. Ricordo, innanzitutto, i pellegrinaggi provenienti dalle diocesi di Firenze, di Ferrara e Comacchio, di Trieste, di Piacenza e di Cremona. Carissimi fratelli e sorelle, sono lieto di accogliervi, insieme con i vostri rispettivi Pastori, in questa Basilica che custodisce il sepolcro di Pietro, l’Apostolo che Cristo volle porre a fondamento della sua Chiesa. Esprimo l’augurio cordiale che questa visita, nella quale a motivo del Giubileo straordinario è data a ciascuno la possibilità di attingere con particolare abbondanza alle sorgenti della grazia, contribuisca a ravvivare la vostra fede e susciti rinnovati propositi di generosa coerenza con le esigenze che da essa promanano. Vi impegnano a ciò le nobili tradizioni cristiane, di cui vanno fiere le vostre rispettive Chiese locali: da quella di Trieste, tra i cui vescovi vi fu anche un futuro Papa, Pio II; a quella di Ferrara, splendida per monumenti rinascimentali, già sede di un conclave e di un Concilio ecumenico; da quella di Piacenza, “città tra le più celebri dei contorni del Po”, come la qualifica l’antico storico romano, ma città celebre, altresì, per gli uomini che ha dato nei secoli alla Chiesa; a quella di Cremona, feconda di santi in ogni epoca della sua lunga storia, come testimoniano i santi Silvino, Omobono, Antonio Maria Zaccaria; fino alla chiesa di Firenze, della quale il solo nome evoca il ricordo di glorie impareggiabili in ogni campo dell’umano, primo fra tutti quello della santità. Nel rivolgere a tutti ed ciascuno la mia calda esortazione ad emulare il patrimonio di virtù ereditato dagli avi, imparto di cuore, in pegno della costante assistenza divina, l’Apostolica Benedizione.
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Voglio ancora salutare Gruppi di Volontariato Vincenziano, i membri dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, i rappresentanti dell’istituto di Vigilanza Città di Roma e i Maestri Calzaturieri di Fossò. Carissimi fratelli e sorelle, la vostra presenza è per me motivo di intima gioia, perché leggo in essa la manifestazione di una fede sincera che si sforza di crescere in profondità di convincimenti e in fattiva testimonianza di opere. Vi confermo in ciò il mio cordiale incoraggiamento e l’Apostolica Benedizione che vi imparto con affetto.
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Carissimi ammalati, eccomi ora a voi. Voi sapete di essere i più vicini al mio cuore. E’ pensando a voi che, nella Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”, ho cercato di penetrare il mistero della sofferenza umana, per riscoprirne l’eccezionale valore salvifico. A voi affido questo messaggio; a voi auguro anche di esperimentare, come San Paolo, la gioia che deriva dal dolore accolto e offerto a Dio quale vostro personale sacrificio.

Siate consapevoli di essere collaboratori diretti e preziosissimi dell’opera redentrice del Cristo. Vi chiedo di offrire generosamente la vostra sofferenza per il buon esito spirituale dell’Anno della Redenzione. E vi benedico di cuore.
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Cari sposi novelli, desidero unirmi al coro di quanti partecipano alla vostra gioia. Anch’io vi auguro di essere felici, di volervi bene, di crescere nell’affetto e nella donazione vicendevole.

Ma soprattutto vi auguro di scoprire la grandezza del dono che il Signore vi ha fatto elevando a sacramento il vostro patto d’amore e affidandovi il compito di essere immagine luminosa del suo amore per gli uomini. Vivete bene questa missione. Aiutatevi, sostenetevi, pregate insieme ogni giorno, ponete in Dio tutta la vostra fiducia. Così, ne sono certo, la vostra famiglia vivrà nella pace, nonostante le eventuali prove, e sarà anche felice! A tutti la mia Benedizione.

Al pellegrinaggio ufficiale della Diocesi di Boston

Ai fedeli di espressione tedesca



Ai gruppi di espressione spagnola

Ai polacchi

Ai gruppi di giovani italiani

Il mio più cordiale saluto, ora, ai numerosi giovani italiani qui convenuti. In modo particolare, sono lieto di accogliere i pellegrinaggi degli Istituti romani di istruzione “Cardinal Francesco Marmaggi”, “San Filippo Neri”, “Cor Iesu” delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, e gli studenti delle Suore dell’Immacolata Concezione d’Ivrea.

Carissimi, resto sempre colpito dal vostro entusiasmo. Voi volete vivere, vivere pienamente, e per questo nutrite ideali molto grandi. Sappiate che nel Signore Gesù si trova la risposta a quanto portate nel cuore. Non a caso avete scelto per la vostra formazione culturale degli Istituti di chiara ispirazione cristiana: vi raccomando di coltivare attentamente quegli ideali religiosi che i vostri educatori vi propongono con tanta dedizione.

In quest’anno giubilare della Redenzione siete chiamati anche voi ad un più serio lavoro di conversione. E’ un impegno necessario, anche se arduo: è per una vita più valida e più ricca di opere buone. Lasciatevi afferrare dall’amore esigente di Dio, e siate certi che non resterete delusi!

Con questo pensiero mi rivolgo infine a voi, studenti del Pontificio Collegio Beda. Consapevoli del dono che il Signore vi ha fatto, rispondete offrendovi senza condizioni a Cristo e alla Chiesa. Vi chiedo di perseverare nel bene, per donare alla società di oggi una sempre più convincente testimonianza di vita evangelica.

Vi accompagno tutti con la mia Benedizione.
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Domenica prossima, 4 marzo, ricorre il V centenario della morte di San Casimiro, Patrono della Lituania.

Figlio del Re di Polonia e Granduca di Lituania, Casimiro è vissuto solo 26 anni, ma giunse in breve tempo alla perfezione. Da Vilnius, ove è custodita e venerata la sua tomba, il culto di San Casimiro si è largamente diffuso nei Paesi dell’Europa centro-orientale.

Per ricordare degnamente l’anniversario e per manifestare la profonda solidarietà nella comunione di fede e di carità della Chiesa di Roma con la Chiesa che è in Lituania, Domenica prossima presiederò nella Basilica di San Pietro una solenne concelebrazione insieme a rappresentanti delle Conferenze Episcopali d’Europa.

Invito tutti a elevare a Dio preghiere in favore del cattolico popolo lituano, perché sappia perseverare nella fedeltà all’eredità spirituale lasciata da San Casimiro.




Catechesi 79-2005 8284