Catechesi 79-2005 10791

Mercoledì, 10 luglio 1991

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1. Cominciamo oggi un nuovo ciclo di catechesi, dedicate alla Chiesa, della quale il Simbolo niceno-costantinopolitano ci fa dire: “Credo la Chiesa una santa cattolica e apostolica”. Questo Simbolo, come anche quello antecedente, detto degli Apostoli, unisce direttamente allo Spirito Santo la verità sulla Chiesa: “Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica”. Questo passaggio dallo Spirito Santo alla Chiesa ha una sua logica, che San Tommaso spiega all’inizio della sua catechesi sulla Chiesa scrivendo: “Come vediamo che in un uomo vi sono una sola anima e un solo corpo, e tuttavia vi sono diverse membra di questo corpo; così la Chiesa cattolica è un solo corpo, e ha molte membra. L’anima che vivifica questo corpo è lo Spirito Santo. E perciò, dopo la fede nello Spirito Santo, ci viene comandato di credere la Santa Chiesa cattolica” (cf. San Tommaso, In Symbolum Apostolorum expositio, art. 9).

2. Nel Simbolo niceno-costantinopolitano si parla di Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Sono le cosiddette “note” della Chiesa, che esigono una certa spiegazione introduttiva, anche se torneremo a parlare del loro significato in successive catechesi.

Sentiamo che cosa dicono in proposito i due ultimi Concili.

Il Concilio Vaticano I si pronuncia sull’unità della Chiesa con parole piuttosto descrittive: “L’eterno Pastore” . . . ha deciso di istituire la santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, i fedeli fossero uniti dai legami della stessa fede e carità” (cf. Denz.-S.,
DS 3050).

Il Concilio Vaticano II, a sua volta, afferma: “Cristo, unico Mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile”. E ancora: “. . . la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti . . . formano una sola complessa realtà di un duplice elemento, umano e divino . . . Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo” (Lumen gentium, LG 8). Di questa Chiesa il Concilio insegna pure che è “in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Ivi, LG 1)

È chiaro che l’unità della Chiesa che professiamo nel Credo è propria della Chiesa universale, e che le Chiese particolari (o locali) sono tali in quanto partecipano a questa unità. Essa era riconosciuta e predicata come una proprietà della Chiesa sin dall’inizio, cioè sin dai giorni della Pentecoste. È dunque una realtà primordiale e coessenziale alla Chiesa, non soltanto un ideale a cui mirare con la speranza di raggiungerlo in un futuro sconosciuto. Questa speranza e ricerca può riguardare l’attuazione storica di una riunificazione dei credenti in Cristo; ma senza annullare la verità enunciata nella Lettera agli Efesini: “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ep 4,3-4). Questa è la verità degli inizi, che professiamo nel Simbolo: “Credo unam . . . Ecclesiam”.

3. La storia della Chiesa si è svolta però sin dagli inizi tra tensioni e spinte che compromettevano l’unità, fino ad attirare i richiami e i rimproveri degli Apostoli, e in particolare di Paolo, che giunse a esclamare:“Cristo è forse diviso?” (1Co 1,13). È stata ed è la manifestazione dell’umana inclinazione a contrapporsi reciprocamente. È come se si dovesse - e volesse - fare la propria parte nella economia della dispersione, rappresentata efficacemente nelle pagine bibliche su Babele.

Ma i padri e pastori della Chiesa hanno sempre richiamato all’unità, alla luce della Pentecoste che è stata contrapposta a Babele. Il Concilio Vaticano II osserva: “Lo Spirito Santo, che abita nei credenti e tutta riempie e regge la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei fedeli, e tanto intimamente congiunge in Cristo, da essere il Principio dell’unità della Chiesa” (Unitatis redintegratio, UR 2). E non può non essere fonte di gioia, di speranza e di preghiera per la Chiesa riconoscere, soprattutto oggi, che dallo Spirito Santo provengono anche tutti i leali sforzi miranti al superamento di tutte le divisioni e alla riunificazione dei cristiani (ecumenismo).

4. Nella professione di fede del Simbolo è detto pure che la Chiesa è “santa”. Occorre precisare subito che lo è in virtù della sua origine ed istituzione divina. Santo è il Cristo che ha istituito la Chiesa, meritando per essa col sacrificio della Croce il dono dello Spirito Santo, il quale è la fonte inesauribile della santità della Chiesa, come è il principio e fondamento della sua unità. Santa è la Chiesa per il suo fine, la gloria di Dio e la salvezza degli uomini; santa è per i mezzi impiegati a questo fine, i quali contengono in sé la santità di Cristo e dello Spirito Santo. Essi sono: l’insegnamento di Cristo, riassunto nella rivelazione dell’amore di Dio per noi e nel duplice comandamento della carità; i sette sacramenti e tutto il culto (la liturgia), specialmente l’Eucaristia; la vita di preghiera. È tutto un divino ordinamento di vita, nel quale lo Spirito Santo opera mediante la grazia infusa e alimentata nei credenti e arricchita di multiformi carismi per il bene di tutta la Chiesa.

Anche questa è una verità di base, professata nel Credo, e già affermata nella Lettera agli Efesini, dove è spiegata la ragione di quella santità: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa” (Ep 5,25-26). L’ha resa santa con l’effusione del suo Spirito, come dice il Concilio Vaticano II: “Il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa” (Lumen gentium, LG 4). Questo è il fondamento ontologico su cui poggia la nostra fede nella santità della Chiesa. I numerosi modi in cui questa santità si manifesta nella vita dei cristiani e nello svolgimento dei fatti religiosi e sociali della storia, sono una continua conferma della verità contenuta nel Credo, è un modo empirico di scoprirla e, in qualche modo, di accertare una presenza nella quale crediamo. Sì, di fatto noi costatiamo che molti membri della Chiesa sono santi. Molti possiedono almeno quella santità ordinaria che deriva dallo stato di grazia santificante in cui vivono. Ma sempre più grande si rivela il numero di coloro che presentano i segni della santità in grado eroico. La Chiesa è ben felice di poter riconoscere ed esaltare tale santità di tanti servi e serve di Dio, rimasti fedeli fino alla morte. È come un compenso sociologico della presenza dei poveri peccatori, e un invito a loro - e quindi a noi tutti - perché ci mettiamo sulla via dei santi.

Ma resta vero che la santità appartiene alla Chiesa per la sua divina istituzione e per la continua effusione di doni che lo Spirito Santo compie nei fedeli e in tutto l’insieme del “corpo di Cristo” fin dalla Pentecoste. Ciò non esclude che, secondo il Concilio, essa sia per ciascuno e per tutti lo scopo da raggiungere con la sequela di Cristo (Lumen gentium, LG 40).

5. Altra nota della Chiesa nella quale professiamo la nostra fede è la “cattolicità”. La Chiesa, infatti, è per divina istituzione “cattolica”, cioè “universale” (greco kath’hólon = riguardante l’insieme). A quanto risulta, il termine è stato usato per la prima volta da Sant’Ignazio di Antiochia, quando ha scritto ai fedeli di Smirne: “Dov’è Gesù Cristo, ivi è la Chiesa cattolica” (Ad Smyrneos, 8). Tutta la tradizione dei Padri e Dottori della Chiesa ripete quella definizione di origine evangelica, fino al Concilio Vaticano II, che insegna: “Il carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio, è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità . . . in Cristo Capo nell’unità dello Spirito Santo di Lui” (Lumen gentium, LG 13).

Questa cattolicità è una dimensione profonda, fondata sul potere universale di Cristo risorto (cf. Mt 28,18) e sull’estensione universale dell’azione dello Spirito Santo (cf. Sg 1,7), e comunicata alla Chiesa per istituzione divina. Infatti la Chiesa era cattolica già al primo giorno della sua esistenza storica, la mattina di Pentecoste. “Universalità” significa per lei essere aperta a tutta l’umanità, a tutti gli uomini e a tutte le culture, ben al di là degli stretti limiti spaziali, culturali e religiosi a cui poteva essere legata la mentalità di alcuni suoi membri, detti giudaizzanti. Gesù aveva conferito agli Apostoli quel supremo mandato: “Andate . . . e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28,19); e aveva detto e promesso: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (Ac 1,8). Anche qui, si è di fronte a una forma costitutiva della missione e non al semplice fatto empirico della diffusione della Chiesa in mezzo a genti appartenenti a “ogni nazione”, e in definitiva a tutti gli uomini. L’universalità è un’altra proprietà che la Chiesa possiede per la sua stessa essenza, in virtù dell’istituzione divina. È una dimensione costitutiva, che possiede fin da principio come Chiesa una e santa, e che non può essere concepita come il risultato di una “somma” di tutte le Chiese particolari. Per quella sua dimensione di origine divina è oggetto della fede che professiamo nel Credo.

6. Con la stessa fede professiamo infine che la Chiesa di Cristo è “apostolica”, cioè edificata sugli Apostoli, dai quali ricevette la verità divina rivelata, da Cristo e in Cristo. La Chiesa è apostolica poiché conserva questa tradizione apostolica e la custodisce come il suo più prezioso deposito.

I custodi designati e autorevoli di questo deposito sono i successori degli Apostoli, assistiti dallo Spirito Santo. Ma non c’è dubbio che tutti i credenti, uniti ai loro legittimi Pastori, e quindi tutto l’insieme della Chiesa, partecipano all’apostolicità della Chiesa, cioè al suo legame con gli Apostoli e, attraverso di essi, con Cristo. Per questo la Chiesa non è riducibile alla sola gerarchia ecclesiastica. Questa ne è senza dubbio il cardine istituzionale. Ma tutti i membri della Chiesa - Pastori e Fedeli - appartengono e sono chiamati a svolgere un ruolo attivo nell’unico Popolo di Dio, che riceve da Lui il dono del vincolo con gli Apostoli e con Cristo, nello Spirito Santo. Come leggiamo nella Lettera agli Efesini: “Edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti e avendo come pietra angolare Cristo Gesù . . . venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ep 2,20-22).

Ai fedeli

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Ai gruppi di lingua italiana

Saluto tutti i pellegrini di lingua italiana che prendono parte a questa Udienza. Mi rivolgo specialmente ai Sacerdoti Oblati Figli della Madonna del Divino Amore, i quali sono riuniti a Roma per il loro Capitolo Generale.

Carissimi, vi assicuro la mia preghiera, affinché i lavori del vostro Capitolo apportino un valido contributo per una riaffermazione cosciente e vigorosa dei valori autentici della vita religiosa.

Affido voi e tutti gli appartenenti alla vostra Congregazione alla protezione della Beata Vergine, invocata sotto il titolo di Madonna del Divino Amore, perché vi insegni ad amare secondo il suo cuore e vi indichi la via sicura che conduce al suo Figlio Gesù.

Saluto anche le Suore Francescane Missionarie di Susa, che svolgono la loro attività in Brasile. Sono lieto di accogliervi e di esprimervi il mio apprezzamento per la vostra dedizione verso i più bisognosi.

Domenica prossima, 14 luglio, avrò la gioia di elevare agli onori degli altari, con la cerimonia della Beatificazione, il Servo di Dio Edoardo Giuseppe Rosaz, vostro venerato Fondatore, che ha istillato nel vostro cuore lo zelo missionario. Vi esprimo fin d’ora i miei rallegramenti.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Saluto, infine, i Giovani, gli Ammalati e gli Sposi Novelli.

In questo periodo estivo, in cui avete la possibilità di ritemprare le forze fisiche con un opportuno riposo e con un diretto contatto con la natura, cercate di rafforzare la vostra vita spirituale con la riflessione e la contemplazione delle bellezze naturali, che sono opera di Dio. Date anche spazio alla preghiera, che eleva l’anima a Dio e dona pace al vostro spirito.

A tutti imparto la mia benedizione, augurando buone vacanze!



Mercoledì, 20 luglio 1991

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1. Nella presente catechesi, sempre in fase introduttiva all’ecclesiologia, vogliamo fare una breve analisi del nome della Chiesa, quale ci proviene dal Vangelo, e anzi dalla parola stessa di Cristo. Seguiamo così un metodo classico di studio delle cose, nel quale il primo passo è l’esplorazione del significato dei termini impiegati per designarle. Per una istituzione grande ed antica come la Chiesa, che qui ci interessa, è importante sapere come la chiamò il fondatore: perché già quel nome dice il suo pensiero, il suo progetto, la sua concezione creativa.

Ora ci risulta dal Vangelo di Matteo che quando Gesù, in risposta alla confessione di fede di Pietro, annunciò l’istituzione della “sua Chiesa” (“Su questa pietra edificherò la mia Chiesa”:
Mt 16,18), si servì di un termine, del quale l’uso comune del tempo e la stessa presenza in vari passi dell’Antico Testamento ci permettono di scoprire il valore semantico. Bisogna dire che il testo greco del Vangelo di Matteo adopera qui l’espressione “mou ten ekklesían”. Questo vocabolo - ekklesía - è stato usato dai Settanta, ossia nella versione greca della Bibbia nel II secolo prima di Cristo, per tradurre il qahàl ebraico e il suo corrispondente aramaico qahalà, verosimilmente usato da Gesù nella sua risposta a Simon Pietro. E già questo fatto è il punto di partenza per la nostra analisi lessicale dell’annuncio di Gesù.

2. Sia il termine ebraico qahal sia quello greco ekklesía significano “raduno, assemblea”. Ekklesía ha un rapporto etimologico col verbo greco kalein, che significa “chiamare”. Nel linguaggio semitico la parola aveva praticamente il significato di “assemblea” (convocata), e nell’Antico Testamento veniva usata per designare la “comunità” del popolo eletto, specialmente nel deserto (cf. Dt 4,10 Ac 7,38).

Ai tempi di Gesù la parola rimaneva in uso. Si può notare in particolare che in uno scritto della setta di Qumran, che riguarda la guerra dei figli delle tenebre, l’espressione qehál ‘El, “assemblea di Dio”, viene adoperata, tra altre simili, sulle insegne militari (1 Qumran 5, 10). Anche Gesù usa quel termine per parlare della “sua” comunità messianica, quella nuova assemblea convocata per l’alleanza nel suo sangue, alleanza annunciata nel Cenacolo (cf. Mt 26,28).

3. Sia nel linguaggio semitico sia in quello greco, l’assemblea si caratterizzava in base alla volontà di colui che la convocava, e allo scopo per cui la convocava. Infatti sia in Israele, sia nelle antiche città-stato dei Greci (pòleis), si riunivano adunanze di vario tipo, anche di carattere profano (politiche, militari o professionali), accanto a quelle religiose e liturgiche. Anche l’Antico Testamento fa menzione di adunanze di diverso tipo. Ma quando parla della comunità del popolo eletto sottolinea il significato religioso, e anzi teocratico, del popolo eletto e convocato proclamando esplicitamente la sua appartenenza all’unico Dio. Perciò considera e chiama tutto il popolo d’Israele come qahal di Jahvè, proprio perché esso è una particolare “proprietà di Jahvè tra tutti i popoli” (Ex 19,5). È un’appartenenza e una relazione tutta particolare con Dio, fondata sull’Alleanza stretta con lui e sull’accettazione dei comandamenti consegnati mediante gli intermediari tra Dio e il popolo, al momento della sua chiamata che la Sacra Scrittura chiama appunto “il giorno dell’assemblea” (“jòm haqqahàl”: Dt 9,10 Dt 10,4). Il sentimento di questa appartenenza attraversa tutta la storia d’Israele e perdura nonostante i ripetuti tradimenti e le ricorrenti crisi e sconfitte. Si tratta di una verità teologica contenuta nella storia, alla quale possono fare appello i profeti nei momenti di desolazione, come Isaia (deutero), che dice a Israele, a nome di Dio, verso la fine dell’esilio: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni” (Is 43,1). Come ad annunciare che in forza dell’Antica Alleanza interverrà presto per liberare il suo popolo.

4. Questa Alleanza con Dio, dovuta ad una sua elezione, dà un carattere religioso a tutto il popolo di Israele e una finalità trascendente a tutta la sua storia, che pure si svolge tra vicende terrene ora felici, ora funeste, sicché si spiega il linguaggio della Bibbia quando chiama Israele “comunità di Dio” (“qehal Elohìm”: cf. Ne 13,1; e più spesso “qehal Jahwèh”: cf. Dt 23,2-4 Dt 23,9). È la coscienza permanente di una appartenenza fondata sull’elezione di Israele fatta da Dio in prima persona: “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli . . . Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Ex 19,5-6).

Qui è appena necessario ricordare, sempre in sede di analisi del linguaggio, che nel popolo dell’Antico Testamento, a motivo del grande rispetto per il nome proprio di Dio, “qehal Jahvè” veniva letto come “qehal Adonai”, ossia l’“assemblea del Signore”. Perciò anche nella versione greca dei Settanta si trova tradotta: “ekklesía Kyrìou”; noi diremmo “la Chiesa del Signore”.

5. È pure da notare che gli scrittori del testo greco del Nuovo Testamento seguivano la versione dei Settanta, e questo fatto serve a spiegarci perché essi chiamano “ekklesía” il nuovo Popolo di Dio (il nuovo Israele), come pure il loro riferimento della Chiesa a Dio. San Paolo parla spesso della “Chiesa di Dio” (cf. 1Co 1,2 1Co 10,32 1Co 15,9 2Co 1,1 Ga 1,13) oppure delle “Chiese di Dio” (cf. 1Co 11,16 1Th 2,14 2Th 1,4). Sottolineando per ciò stesso la continuità dell’Antico e del Nuovo Testamento, e questo fino al punto di chiamare la Chiesa di Cristo “l’Israele di Dio” (Ga 6,16). Ben presto, però, avviene in San Paolo il passaggio a una formulazione delle realtà della Chiesa fondata da Cristo: come quando parla della Chiesa “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo” (1Th 1,1), oppure della “Chiesa di Dio in Gesù Cristo” (1Th 2,14). Nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla addirittura delle “Chiese di Cristo” (Rm 16,16), al plurale, avendo in mente - e sotto gli occhi - le chiese locali cristiane, sorte in Palestina, Asia Minore e Grecia.

6. Questo progressivo sviluppo del linguaggio ci attesta che nelle prime comunità cristiane si chiarisce gradualmente la novità inclusa nelle parole di Cristo: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). A questa Chiesa si applicano ora in senso nuovo e con maggior profondità le parole della profezia di Isaia: “Non temere, perché ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni” (Is 43,1). La “convocazione divina” è opera di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato; Egli fonda ed edifica la “sua” Chiesa, come “convocazione di tutti gli uomini nella nuova Alleanza”. Di questa Chiesa egli sceglie il fondamento visibile e gli affida il mandato di reggerla. Questa Chiesa appartiene dunque a Lui e rimarrà sempre sua. Questa è la convinzione delle prime comunità cristiane, questa è la loro fede nella Chiesa di Cristo.

7. Come si vede, già dall’analisi terminologica e concettuale che si può condurre sui testi del Nuovo Testamento derivano alcuni risultati sul significato della Chiesa. Possiamo sintetizzarli fin d’ora nell’asserzione seguente: la Chiesa è la nuova comunità degli uomini, istituita da Cristo come una “convocazione” di tutti i chiamati a far parte del nuovo Israele per vivere la vita divina, secondo le grazie e le esigenze dell’Alleanza stabilita nel sacrificio della Croce. La convocazione si traduce per tutti e per ciascuno in una chiamata, che esige una risposta di fede e di cooperazione per il fine della nuova comunità, indicato da colui che chiama: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto . . .” (Jn 15,16). Di qui deriva il dinamismo connaturale alla Chiesa, che ha un campo d’azione immenso, perché è una convocazione ad aderire a Colui che vuole “ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ep 1,10).

8. Lo scopo della convocazione è l’essere introdotti nella comunione divina (cf. 1Jn 1,3). Per raggiungere questo scopo il primo mezzo consiste nell’ascolto della Parola di Dio, che la Chiesa riceve, legge e vive nella luce che le viene dall’alto, come dono dello Spirito Santo, secondo la promessa di Cristo agli Apostoli: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Jn 14,26). La Chiesa è chiamata e mandata per portare a tutti la parola di Cristo e il dono dello Spirito: a tutto il popolo che sarà il “nuovo Israele”, a cominciare dai bambini, dei quali Gesù disse: “Lasciate che vengano a me” (Mt 19,14). Ma tutti sono chiamati, piccoli e grandi; e tra i grandi, persone di ogni condizione: come dice San Paolo, “non c’è più né Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Ga 3,28).

9. Lo scopo della convocazione, infine, è un destino escatologico, perché il nuovo popolo è tutto orientato verso la comunità celeste, come sapevano e sentivano i primi cristiani: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (He 13,14). “La nostra patria . . . è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo” (Ph 3,20).

A questo vertice ultraterreno e sovrannaturale ci ha condotti l’analisi del nome dato da Gesù alla sua Chiesa: il mistero di una nuova comunità del popolo di Dio che comprende, nel vincolo della comunione dei santi, oltre ai fedeli che sulla terra seguono Cristo sulla via del Vangelo, coloro che completano la loro purificazione nel purgatorio, e i santi del cielo. Su tutti questi punti dovremo riprendere il discorso nelle successive catechesi.


Ai fedeli
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Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Nel porgere ora il mio saluto ai Giovani, ai Malati e alle coppie di Sposi Novelli, rivolgo anzitutto un pensiero grato agli Atleti della Parrocchia di Maria Santissima del Carmine in Preturo di Montoro Inferiore (Arcidiocesi di Salerno), che hanno compiuto un Pellegrinaggio a Lourdes, e ai ragazzi dell’“Unione Ciclistica Curnasco-Happy Car-Huni” della Parrocchia dei SS. Nazario e Celso in Curnasco (Diocesi di Bergamo).

Saluto, inoltre, i membri dell’Associazione Donatori di Sangue della Fincantieri di Castellammare di Stabia e la delegazione della Chiesa Matrice di Gela (Diocesi di Piazza Armerina), guidata dal Parroco, dal Sindaco, da alcuni Assessori del Comune e da membri del Consiglio Pastorale Parrocchiale, presenti in questa Udienza.

Cari giovani, il periodo estivo è tempo di viaggi, di turismo, di pellegrinaggio e spesso di campi-scuola o di lavoro.

Si tratta di momenti preziosi per conoscere e comunicare idee ed esperienze, e per testimoniare la propria fede in un dialogo aperto, cordiale, ispirato a carità.

Auguro ai malati che il tempo dell’estate porti conforto e sollievo, mentre invito ciascuno ad essere sempre consapevole della forza salvifica della sofferenza.

Ai giovani sposi esprimo l’auspicio che sappiano annunciare con gioia e convinzione la “buona novella” della famiglia cristiana, testimoniando l’importanza della sua missione nella Chiesa e nella società.

A tutti la mia benedizione apostolica.




Roma, Mercoledi 24 Luglio 1991

Si alla Chiesa è si a Cristo

1. Stiamo inoltrandoci verso il ciclo di catechesi dedicate alla Chiesa. Abbiamo già spiegato che la professione di questa verità nel Simbolo presenta un carattere specifico, in quanto la Chiesa non è soltanto oggetto della fede ma anche il suo soggetto: noi stessi siamo la Chiesa che professiamo di credere; noi crediamo nella Chiesa essendo contemporaneamente la Chiesa credente e orante. Noi siamo la Chiesa nella sua visibilità che esprime la propria fede nella sua stessa realtà di Chiesa, che è divina e umana: due dimensioni così inseparabili tra loro, che, se ne cadesse una, si annullerebbe tutta la realtà della Chiesa, così come l'ha voluta e fondata Gesù Cristo. Questa realtà divino-umana della Chiesa è organicamente congiunta alla realtà divino-umana di Cristo stesso. La Chiesa è in un certo senso la continuazione del mistero dell'Incarnazione. Difatti l'apostolo Paolo diceva della Chiesa che è il Corpo di Cristo (cfr. 1Co 12,27 Ep 1,23 Col 1,24), come Gesù paragonava il "tutto" cristico-ecclesiale all'unità della vite con i suoi tralci (cfr. Jn 15,1-5). Da questa premessa deriva che il credere nella Chiesa, il pronunciare nei suoi riguardi il "si" dell'accettazione di fede, è una logica conseguenza dell'intero "Credo", ed in particolare della professione di fede in Cristo, Uomo-Dio. E' una esigenza logica interna al Credo, che dobbiamo aver presente particolarmente ai nostri giorni, quando sentiamo molti fare la separazione, e persino la contrapposizione, tra Chiesa e Cristo, quando per esempio dicono: Cristo-si, la Chiesa-no. Una contrapposizione non del tutto nuova, ma rilanciata in alcuni ambienti del mondo contemporaneo. E' dunque bene dedicare l'odierna catechesi ad un sereno ed accurato esame del significato del nostro si alla Chiesa, anche in relazione alla contrapposizione appena menzionata.


2. Possiamo ammettere che questa contrapposizione Cristo-si, Chiesa-no nasce sul terreno di quella particolare complessità del nostro atto di fede, col quale diciamo: "Credo Ecclesiam". Ci si può chiedere se sia legittimo includere tra le verità divine da credere una realtà umana, storica, visibile come la Chiesa; una realtà che, come ogni cosa umana, presenta limiti, imperfezioni, peccaminosità nelle persone appartenenti a tutti i livelli della sua struttura istituzionale: sia nei laici che negli ecclesiastici, persino in noi pastori della Chiesa, senza che nessuno sia escluso da questa triste eredità di Adamo. Dobbiamo pero costatare che Gesù Cristo stesso ha voluto che la nostra fede nella Chiesa affronti e superi questa difficoltà, quando ha scelto Pietro come "pietra sulla quale edificare la sua Chiesa" (cfr. Mt 16,18). Si sa dal Vangelo, che riporta le stesse parole di Gesù, quanto fosse umanamente imperfetta e fragile la roccia prescelta, come Pietro dimostro al momento della grande prova. E tuttavia il Vangelo stesso ci attesta che la triplice negazione compiuta da Pietro, poco tempo dopo le assicurazioni di fedeltà date al Maestro, non ha cancellato la sua elezione da parte di Cristo (cfr. Lc 22,32 Jn 21,15-17). Si può invece notare che Pietro raggiunge una nuova maturità attraverso la contrizione per il suo peccato, così che, dopo la risurrezione di Cristo, può bilanciare la sua triplice negazione con la triplice confessione: "Signore, tu lo sai che io ti amo" (Jn 21,15), e può ricevere da Cristo risorto la triplice conferma del suo mandato di pastore della Chiesa: "Pasci le mie pecorelle" (Jn 21,15-17). Pietro, poi, diede prova di amare Cristo "più degli altri" (cfr. Jn 21,15) servendo nella Chiesa, secondo il suo mandato di apostolato e di governo, sino alla morte per martirio, questa sua definitiva testimonianza per l'edificazione della Chiesa. Riflettendo sulla vita e sulla morte di Simon Pietro, è più facile passare dalla contrapposizione Cristo-si, Chiesa-no alla convinzione Cristo-si e Chiesa-si, come prolungamento del si a Cristo.


3. La logica del mistero dell'Incarnazione - sintetizzata in quel "si a Cristo" - comporta l'accettazione di tutto ciò che nella Chiesa è umano, per il fatto che il Figlio di Dio assunse la natura umana, in solidarietà con la natura contaminata dal peccato nella stirpe di Adamo. Pur essendo assolutamente senza peccato, egli prese su di sé tutto il peccato dell'umanità: Agnus Dei qui tollit peccata mundi.

Il Padre "lo tratto da peccato in nostro favore", scriveva l'apostolo Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi (5,21). perciò la peccaminosità dei cristiani (dei quali si dice, a volte non senza ragione, che "non sono migliori degli altri"), la peccaminosità degli stessi ecclesiastici non deve suscitare un atteggiamento farisaico di separazione e di rifiuto, ma deve piuttosto spingerci a una più generosa e fidente accettazione della Chiesa, a un si più convinto e più meritorio in suo favore, perché sappiamo che proprio nella Chiesa e mediante la Chiesa questa peccaminosità diviene oggetto della potenza divina della redenzione, sotto l'azione di quell'amore che rende possibile e realizza la conversione dell'uomo, la giustificazione del peccatore, il cambiamento di vita e il progresso nel bene a volte sino all'eroismo, cioè alla santità. Come negare che la storia della Chiesa è piena di peccatori convertiti e penitenti, che, una volta tornati a Cristo, lo hanno seguito fedelmente sino alla fine? Una cosa è certa: la via che Gesù Cristo - e la Chiesa con lui - propone all'uomo è carica di esigenze morali, che impegnano al bene, fino alle vette dell'eroismo. Bisogna dunque fare attenzione se, quando si pronuncia un "no alla Chiesa", in realtà non si cerchi di sfuggire a quelle esigenze. In questo più che in ogni altro caso, il "no alla Chiesa" equivarrebbe a un "no a Cristo". Purtroppo l'esperienza dice che molte volte è così. D'altra parte non si può non osservare che se la Chiesa - nonostante tutte le debolezze umane e i peccati dei suoi membri - nel suo insieme rimane fedele a Cristo, e riporta a Cristo molti suoi figli venuti meno agli impegni del loro battesimo, ciò avviene grazie alla "potenza dall'alto" (cfr. Lc 24,49), lo Spirito Santo, che la anima e la guida nel suo periglioso cammino nella storia.


4. Dobbiamo pero aggiungere che il "no alla Chiesa" viene talvolta basato, non sui difetti umani dei membri della Chiesa, ma su un principio generale di rifiuto di mediazione. C'è infatti gente che, ammettendo l'esistenza di Dio, vuole instaurare con lui contatti esclusivamente personali, senza accettare nessuna mediazione tra la propria coscienza e Dio, e quindi rifiutando prima di tutto la Chiesa. Si badi, pero: la valorizzazione della coscienza sta a cuore anche alla Chiesa, che, sia nell'ordine morale, sia sul piano più specificamente religioso, ritiene di essere portavoce di Dio per il bene dell'uomo, e quindi illuminatrice, formatrice, ministra della coscienza umana. Il suo compito è di favorire l'accesso delle intelligenze e delle coscienze alla verità di Dio, che si è rivelata in Cristo, il quale ha affidato agli Apostoli e alla Chiesa questo ministero, questa diaconia della verità nella carità. Ogni coscienza, animata da un sincero amore della verità, non può non desiderare di sapere e quindi di ascoltare - almeno questo - ciò che il Vangelo predicato dalla Chiesa dice all'uomo per il suo bene.


5. Ma spesso il problema del si o del no alla Chiesa si complica proprio a questo punto, perché è la stessa mediazione di Cristo e del suo Vangelo che viene rifiutata: sicché si tratta di un no a Cristo, più ancora che alla Chiesa. Un tale fatto è da prendere in seria considerazione da parte di chi ritiene di essere e vuole essere cristiano. Egli non può ignorare il mistero dell'Incarnazione, per il quale Dio stesso ha concesso all'uomo la possibilità di stabilire un contatto con lui solo mediante il Cristo, Verbo Incarnato, del quale dice San Paolo: "Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" (1Tm 2,5). E che fin dall'inizio della Chiesa gli Apostoli predicavano che "non vi è (fuori di Cristo) altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (Ac 4,12). E che Cristo istitui la Chiesa come una comunità di salvezza, nella quale si prolunga sino alla fine dei secoli la sua mediazione salvifica in virtù dello Spirito Santo da lui mandato. Il cristiano dunque sa che secondo la volontà di Dio l'uomo - il quale, proprio come persona, è un essere sociale - è chiamato ad attuare il contatto con lui proprio nella comunità della Chiesa. E che non è possibile separare la mediazione dalla Chiesa, la quale partecipa della funzione di Cristo come mediatore tra Dio e gli uomini.


6. Non possiamo, infine, ignorare che il "no alla Chiesa" molto spesso ha radici ancora più profonde, sia nelle persone singole sia nei gruppi umani e negli ambienti - specialmente in certi settori di vera o presunta cultura - dove non è difficile, oggi come e forse più che in altri tempi, trovare atteggiamenti di rifiuto o addirittura di ostilità. In fondo si tratta di una psicologia caratterizzata dalla volontà di una totale autonomia, nascente dal senso dell'autosufficienza personale o collettiva, per cui ci si ritiene indipendenti dall'Essere sovraumano che viene proposto - o anche interiormente scoperto - come autore e signore della vita, della legge fondamentale, dell'ordine morale, e quindi come fonte della distinzione tra il bene e il male. C'è chi pretende di stabilire da sé ciò che è buono o cattivo, e rifiuta quindi di essere "eterodiretto", sia da un Dio trascendente sia da una Chiesa che lo rappresenta in terra. Questa posizione proviene generalmente da una grande ignoranza della realtà. Dio viene concepito come un nemico della libertà umana, come un padrone tirannico, mentre è proprio Lui ad aver creato la libertà e ad esserne il più autentico amico. I suoi comandamenti non hanno altro scopo se non di aiutare gli uomini a evitare la peggiore e più vergognosa delle schiavitù, quella dell'immoralità, e di favorire lo sviluppo della vera libertà. Senza una relazione fiduciosa con Dio non è possibile alla persona umana attuare pienamente la propria crescita spirituale.


7. Non c'è quindi da stupirsi quando si osserva che un atteggiamento di radicale autonomismo produce facilmente una forma di soggiogamento ben peggiore della paventata "eteronomia": cioè la dipendenza da opinioni altrui, da vincoli ideologici e politici, da pressioni sociali; o dalle proprie inclinazioni e passioni. Quante volte chi crede di essere e si vanta di essere un indipendente, un uomo libero da ogni servitù, si rivela poi così soggiacente all'opinione pubblica e alle altre forme antiche e nuove di dominio sullo spirito umano! E' facile constatare che ha un prezzo molto alto il tentativo di fare a meno di Dio, o la pretesa di prescindere dalla mediazione di Cristo e della Chiesa. Era necessario richiamare l'attenzione su questo problema per concludere la nostra introduzione al ciclo di catechesi ecclesiologiche a cui ora daremo inizio. Oggi ripetiamo ancora una volta: "si alla Chiesa", proprio in forza del nostro "si a Cristo".

Ad un gruppo di Croati

Cari giovani della Croazia, vi saluto di cuore! Mentre la vostra Patria è impegnata, nonostante le gravi difficoltà, a difendere la libertà e la democrazia, sappiate conservare la dignità umana e cristiana. Vogliate, pertanto, resistere alla tentazione della violenza e ad ogni forma di provocazione, che sono negazione di umanità e di civiltà. Unica strada che porta verso il futuro e la convivenza pacifica sono il rispetto reciproco, il sincero dialogo e la collaborazione fattiva nella soluzione dei problemi esistenti. E non cessate di pregare insieme Maria, Regina della Pace, poiché "nulla è impossibile a Dio!" (Lc 1,37). Invoco su di voi e sulla vostra Patria, Croazia, la benedizione e la pace di Dio. Siano lodati Gesù e Maria!





Roma, Mercoledi 31 Luglio 1991

Il mysterium Ecclesiae




1. La Chiesa è un fatto storico, di cui è documentabile e documentata l'origine, come vedremo a suo tempo. Ma nel dare inizio a un ciclo di catechesi teologiche sulla Chiesa, vogliamo partire dalla fonte più alta e più autentica della verità cristiana, la Rivelazione, come ha fatto anche il Concilio Vaticano II. Esso, infatti, nella Costituzione "Lumen Gentium", ha considerato la Chiesa nel suo fondamento eterno, che è il disegno salvifico concepito dal Padre nel seno della Trinità. Scrive appunto il Concilio che "l'Eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creo l'universo, decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina, e caduti in Adamo non li abbandono, ma sempre presto loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo Redentore" (LG 2). Nell'eterno disegno di Dio la Chiesa costituisce, in Cristo e con Cristo, una parte essenziale dell'economia universale di salvezza in cui si traduce l'amore di Dio.


2. In quel disegno eterno è contenuto il destino degli uomini, creati ad immagine e somiglianza di Dio, chiamati alla dignità di figli di Dio, adottati come figli dal Padre celeste in Gesù Cristo. Come leggiamo nella Lettera agli Efesini, Dio ci ha scelti "predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto" (1,4-6). E nella Lettera ai Romani: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli" (8,29). Per avere dunque una buona comprensione dell'inizio della Chiesa come oggetto della nostra fede (il "mistero della Chiesa"), occorre riallacciarci al programma di San Paolo, di "far risplendere agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio... perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che (Dio) ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore" (Ep 3,9-11). Come appare da questo testo, la Chiesa fa parte del piano cristocentrico che è nel disegno di Dio Padre da tutta l'eternità.


3. Gli stessi testi paolini riguardano il destino dell'uomo eletto e chiamato a essere figlio adottivo di Dio, non soltanto nella dimensione individuale, ma in quella comunitaria dell'umanità. Dio pensa, crea e chiama a sé una comunità di persone. Questo disegno di Dio è più esplicitamente enunciato in un passo importante della Lettera agli Efesini: "Secondo quanto nella sua benevolenza, aveva in lui (Cristo) prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (1,9-10). Dunque nell'eterno disegno di Dio la Chiesa come unità degli uomini in Cristo-Capo viene inserita in un piano che comprende tutto il creato, si può dire in un piano "cosmico", quello di unire tutto in Cristo-Capo.

Il primogenito di tutta la creazione diventa il principio di "ricapitolazione" di questa creazione, affinché Dio possa essere "tutto in tutti" (1Co 15,28). Cristo è dunque la chiave di volta dell'universo. La Chiesa, corpo vivente degli aderenti a lui nella risposta alla vocazione di figli di Dio, è associata a lui, come partecipe e ministra, al centro del piano redentivo universale.


4. Il Concilio Vaticano II colloca e spiega il "mistero della Chiesa" su questo sfondo della concezione paolina, in cui si riflette e precisa la visione biblica del mondo. Esso scrive: "I credenti in Cristo li ha voluti (il Padre) chiamare nella Santa Chiesa, la quale, già prefigurata sin da principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo di Israele e nell'antica Alleanza, e stabilita "negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto", saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale" (LG 2). Non si poteva concentrare meglio in poche righe tutta la storia della salvezza quale si vede svolgersi nei libri sacri, fissandone il significato ecclesiologico già formulato e interpretato dai Padri secondo le indicazioni degli Apostoli e dello stesso Gesù.


5. Vista nella prospettiva del disegno eterno del Padre, la Chiesa appare fin dall'inizio, nel pensiero degli Apostoli e delle prime generazioni cristiane, come frutto dell'amore divino infinito che unisce il Padre col Figlio nel seno della Trinità: è infatti in virtù di questo amore che il Padre ha voluto riunire gli uomini nel suo Figlio. Il mysterium Ecclesiae deriva così dal mysterium Trinitatis. Dobbiamo proprio esclamare, anche qui, come nella Messa quando si compie il rinnovamento del sacrificio eucaristico, dove a sua volta si raduna la Chiesa: mysterium fideli!


6. In quella fonte eterna è anche il principio del suo dinamismo missionario. La missione della Chiesa è come il prolungamento, o l'espansione storica, della missione del Figlio e dello Spirito Santo, e quindi si può dire una partecipazione vitale, in forma di associazione ministeriale, all'azione trinitaria nella storia umana. Nella Costituzione "Lumen Gentium" (cfr. LG 1-4) il Concilio Vaticano II parla diffusamente della missione del Figlio e dello Spirito Santo. Nel decreto "Ad gentes" precisa il carattere comunitario della partecipazione umana alla vita divina, quando scrive che il piano di Dio "scaturisce dalla "fonte d'amore", cioé dalla carità di Dio Padre, che essendo il Principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa misericordiosa benevolenza liberamente ci crea ed inoltre gratuitamente ci chiama a partecipare alla sua vita e alla sua gloria. Egli quindi per pura generosità ha effuso e continua ad effondere la sua divina bontà, sicché, come di tutti è il creatore, possa anche essere "tutto in tutti" (1Co 15,28), promuovendo insieme la sua gloria e la nostra felicità. Senonché piacque a Dio di chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita non tanto ad uno ad uno, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero in organica unità (cfr. Jn 11,52)" (AGD 2).


7. Il fondamento della comunità voluto da Dio nel suo eterno disegno è l'opera della Redenzione, che libera gli uomini dalla divisione e dalla dispersione prodotte dal peccato. La Bibbia ci fa conoscere il peccato come fonte di ostilità e di violenza, come appare già nel fratricidio commesso da Caino (cfr. Gn 4,8); e anche come fonte di quella frantumazione dei popoli, che negli aspetti negativi trova la sua espressione paradigmatica nella pagina sulla torre di Babele. Dio volle liberare l'umanità da questo stato per mezzo di Cristo. Questa sua volontà salvifica sembra echeggiare in quel discorso di Caifa nel sinedrio, del quale l'evangelista Giovanni scrive che "essendo sommo sacerdote profetizzo che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Jn 11,51-52). Caifa pronuncio quelle parole allo scopo di convincere il sinedrio a condannare a morte Cristo, per il preteso pericolo politico che faceva correre alla nazione di fronte ai Romani occupanti la Palestina. Ma Giovanni sapeva bene che Gesù era venuto per togliere il peccato dal mondo e salvare gli uomini (cfr. Jn 1,29), perciò non esita ad attribuire a quelle parole di Caifa un significato profetico, come rivelazione del disegno divino. Era infatti scritto in quel disegno che Cristo, mediante il suo sacrificio redentore, culminato nella morte in croce, diventasse la fonte di una nuova unità degli uomini, chiamati in lui, Cristo, a ricuperare la dignità di figli adottivi di Dio.

In quel sacrificio, su quella croce, è la genesi della Chiesa come comunità di salvezza.





Roma, Mercoledi 7 Agosto 1991

La speranza del Regno di Dio

1. La rivelazione dell'eterno disegno di Dio circa la comunità universale degli uomini, chiamati a essere - in Cristo - suoi figli adottivi, ha già i suoi preludi nell'Antico Testamento, prima fase della parola divina agli uomini e prima parte, per noi cristiani, della Scrittura Sacra. perciò la catechesi sulla genesi storica della Chiesa deve prima di tutto cercare nei libri sacri, che abbiamo in comune con l'antico Israele, i preannunci del futuro popolo di Dio. Lo stesso Concilio Vaticano II ci indica questa pista da seguire, quando scrive che la Santa Chiesa, nella quale il Padre ha deciso di radunare i credenti in Cristo, è stata "mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica Alleanza" (LG 2). Vedremo dunque nella presente catechesi come nell'Antico Testamento l'eterno disegno del Padre si faccia conoscere soprattutto come rivelazione di un futuro "Regno di Dio", che avrà luogo nella fase messianica ed escatologica dell'economia della salvezza.


2. "Il Signore regnerà su di voi", leggiamo nel Libro dei Giudici (8,23). Sono le parole che Gedeone, vittorioso sui Madianiti, rivolge a quella parte di abitanti israeliti, nella regione di Sichem, che avrebbero voluto averlo come sovrano e addirittura come fondatore di una dinastia (cfr. Jg 8,22). Quella risposta di Gedeone, col rifiuto della regalità, è forse da mettere in relazione con le correnti antimonarchiche di un'altra parte del popolo (cfr. 1S 8,4-20); ma è pur sempre molto eloquente come espressione del pensiero suo e di una buona parte di Israele sulla regalità di Dio solo: "Io non regnero su di voi né mio figlio regnerà; il Signore regnerà su di voi" (Jg 8,23). La duplice tendenza si ritroverà anche in seguito nella storia d'Israele, dove non mancheranno gruppi desiderosi di un regno in senso terreno e politico. Dopo il tentativo degli stessi figli di Gedeone (cfr. Jg 9,1ss), sappiamo dal primo libro di Samuele che gli anziani di Israele si rivolsero al giudice ormai anziano con la richiesta: "Dacci un re che ci governi" (1S 8,6). Samuele aveva stabilito come giudici i suoi figli, che pero abusavano del potere ricevuto (cfr. 1S 8,1-3). Ma Samuele si dolse soprattutto perché vedeva in quella richiesta un altro tentativo di togliere a Dio l'esclusività della regalità su Israele. perciò si rivolse a Dio per consultarlo nella preghiera. E, secondo il libro citato, "il Signore rispose a Samuele: "Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi"" (1S 8,7). Probabilmente si era di fronte a un nuovo caso di scontro tra le due tendenze - monarchica e antimonarchica - di quel periodo di formazione di Israele come popolo unito e costituito anche politicamente. Ma è interessante lo sforzo, in parte riuscito, che Samuele, non più giudice ma profeta, fa per conciliare la richiesta di una monarchia profana con le esigenze della regalità assoluta di Dio, di cui almeno una parte del popolo si dimenticava: egli unge i re dati a Israele, in segno della loro funzione religiosa, oltre che politica. Sarà Davide il re emblematico di questa conciliazione di aspetti e di ruoli, e anzi per la sua grande personalità diventerà l'Unto per eccellenza, figura del futuro Messia e del Re del nuovo popolo, Gesù Cristo.


3. Bisogna pero notare questo incrocio delle due dimensioni del regno e del regnare: la dimensione temporale e politica, e la dimensione trascendente e religiosa, che già si trova nell'Antico Testamento. Il Dio d'Israele è Re in senso religioso, anche quando coloro che reggono il popolo in suo nome sono capi politici. Il pensiero di Dio come Re e Signore di ogni cosa, in quanto Creatore, affiora nei libri sacri, sia in quelli storici, sia nei profeti e nei salmi. così nel profeta Geremia Dio viene nominato più volte il "Re, il cui nome è Dio degli eserciti" (Jr 46,18 Jr 48,15 Jr 51,57); e parecchi Salmi proclamano che "il Signore regna" (Ps 92/93,1; 95/96,10; 96/97,1; 98/99,1). Questa regalità trascendente e universale aveva avuto la sua prima espressione nell'Alleanza con Israele: vero atto costitutivo dell'identità propria e originale di questo popolo, che Dio ha scelto e col quale ha stretto l'alleanza. Come si legge nel libro dell'Esodo: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Ex 19,5-6). Tale appartenenza di Israele a Dio, come suo popolo, esige da esso obbedienza e amore in senso assoluto: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,5). Questo primo e supremo comandamento rappresenta il vero principio costituzionale dell'antica Alleanza. Con questo comandamento viene definito il destino e la vocazione di Israele.


4. Israele ha coscienza di ciò e vive il suo rapporto con Dio come una forma di sudditanza al proprio Re. Come si legge nel Salmo 47: "Il monte Sion... è la città del grande Sovrano" (Ps 47/48,3). Anche quando Jahwè acconsente all'istituzione in Israele del re e della dinastia in senso politico, Israele sa che tale istituzione conserva un carattere teocratico. Per ispirazione divina il profeta Samuele designa come re prima Saul (cfr. 1S 10,24), e poi Davide (cfr. 1S 16,12-13), dal quale ha inizio la dinastia davidica. Come si sa dai libri dell'Antico Testamento, i re di Israele, e poi di Giuda, molte volte trasgredirono i comandamenti, che erano i principi-base dell'Alleanza con Dio. Contro queste prevaricazioni intervengono i profeti con i loro ammonimenti e le loro rampogne.

Appare chiaro da quella storia che tra il regno in senso terreno e politico e le esigenze del regnare di Dio ci sono divergenze e contrasti. Si spiega allora che se Jahwè mantiene la sua fedeltà nei riguardi delle promesse fatte a Davide e alla sua discendenza (cfr. 2S 7,12), la storia descrive fatti di cospirazione per imporsi "sul regno di Dio che è nelle mani dei figli di Davide" (cfr. 2Ch 13,8).

E' un contrasto nel quale si delinea sempre meglio il senso messianico delle divine promesse.


5. Infatti, quasi per reazione alla delusione per i re politici, si rafforza in Israele la speranza di un re messianico, come sovrano ideale, di cui leggiamo nei profeti, specialmente in Isaia, che "grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre" (Is 9,6). Isaia. indugia nella previsione di quel sovrano, al quale dà i nomi di "Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace" (9,5), e ne descrive il regno come un'utopia di paradiso terrestre: "Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà. Il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto... Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno... perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare" (11,5-6.9). Sono metafore destinate a far emergere l'elemento essenziale delle profezie sul regno messianico: una nuova Alleanza in cui Dio stringerà a sé l'uomo in modo benefico e salvifico.


6. Dopo il periodo dell'esilio e della schiavitù babilonese, la visione di un re "messianico" assume ancora più nettamente il senso di una regalità diretta di Dio.

Quasi per superare tutte le delusioni che il popolo ha ricevuto dai suoi sovrani politici, la speranza di Israele, alimentata dai profeti, si rivolge a un regno in cui sarà re Dio stesso. Sarà un Regno universale: "Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome" (Za 14,9). Pur nella sua universalità quel regno conserverà il legame con Gerusalemme. Come predice Isaia: "Il Signore degli eserciti regna sul monte Sion e in Gerusalemme" (Is 24,23). "Preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, di cibi succulenti, di vini raffinati" (Is 25,6). Anche qui, come si vede, metafore di gioia nuova nel compimento di antiche speranze.


7. La dimensione escatologica del regno di Dio si accentua man mano che si avvicina il tempo della venuta di Cristo. Soprattutto il libro di Daniele, nelle visioni che descrive, dà rilievo a questo senso della futura età. così leggiamo: "Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto" (Da 7,13-14). Dunque secondo Daniele quel regno futuro è strettamente legato a una Persona, che viene presentata come simile ad un "figlio di uomo"; è l'origine del titolo che lo stesso Gesù attribuirà a sé. Nello stesso tempo Daniele scrive che "il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo" (Da 7,27). Testo che fa ricordare l'altro del Libro della Sapienza, secondo il quale "i giusti... governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà sempre su di loro" (Sg 3,1 Sg 3,8).



8. Sono tutti sguardi sull'avvenire, squarci aperti sul mistero verso il quale sta avanzando la storia dell'Alleanza antica, che sembra ormai matura per l'avvento del Messia, che le darà compimento. Al di là degli enigmi, dei sogni, delle visioni, si delinea sempre più un "mistero", verso il quale si appunta ogni speranza anche nelle ore più buie della sconfitta e addirittura della schiavitù e dell'esilio.

Ciò che più suscita interesse e ammirazione, in quei testi, è che la speranza del Regno di Dio si chiarifica e purifica sempre più verso un diretto regnare del Dio trascendente. Noi sappiamo che tale regno, includente la persona del Messia e la moltitudine dei credenti in lui, previsto dai profeti, ha trovato sulla terra una realizzazione iniziale imperfetta nelle sue dimensioni storiche, ma in continua tensione verso un adempimento pieno e definitivo nell'eternità divina. Verso tale pienezza finale si muove la Chiesa della nuova Alleanza, di cui sono chiamati a far parte tutti gli uomini, come figli di Dio, eredi del Regno e collaboratori della Chiesa fondata da Cristo nella realizzazione delle profezie e delle promesse antiche. Gli uomini dunque sono chiamati a partecipare a questo Regno, che è destinato ad essi e in certo senso si realizza anche per mezzo di essi: dunque anche di noi tutti, chiamati a essere artefici della edificazione del corpo di Cristo (cfr. Ep 4,12).

E' una grande missione!





Roma - Mercoledi 21 Agosto 1991

L'esperienza di fede vissuta a Jasna Gora ci invita a pregare per i giovani di tutto il mondo

Carissimi fratelli e sorelle, Ieri ho terminato un pellegrinaggio che era diviso in due parti. La prima parte era in Polonia, soprattutto per partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù. La seconda parte era in Ungheria. Oggi vorrei solamente toccare questa prima parte, perché i contenuti e quello che abbiamo vissuto è troppo abbondante per unire le due visite. Sulla visita in Ungheria parleremo mercoledi prossimo. Questa Giornata Mondiale dei giovani è già una tradizione, non lunga, ma vive già da parecchi anni, concretamente dall'anno 1984, quando si è celebrata qui a Roma la prima Giornata, dopo l'anno della Redenzione: da questa data si è deciso di celebrare ogni anno, la Domenica delle Palme come Giornata Mondiale della Gioventù, e questo ovunque nella Chiesa, a Roma come nelle altre diocesi.

Quando è più comodo, questa Giornata si celebra anche in altre date. Ma, già parecchie volte, si è celebrata una Giornata speciale con dimensione mondiale, internazionale. Prima a Roma, nel 1985, poi è a Buenos Aires - in Argentina - nel 1987, poi a Santiago de Compostela in Spagnas nel 1988, e quest'anno a Czestochowa.

Posso aggiungere che gli avvenimenti in Europa Centrale dell'anno 1989 hanno suggerito agli organizzatori di prevedere una tale Giornata Mondiale della Gioventù appunto nel Santuario di Jasna Gora in Polonia, a Czestochowa. E' stata un'esperienza di preghiera, un'esperienza spirituale, in cui si è rilevato un forte aumento dei partecipanti: si parla infatti di più di un milione di persone convenute al Santuario di Jasna Gora, provenienti da quasi 80 Paesi del mondo, naturalmente in proporzioni diverse, perché è più facile venire a Jasna Gora, in Polonia, dall'Europa che non da Australia, Asia, Africa, America Latina.

Sono venute pero persone anche da questi altri continenti. La novità è stata la presenza, per la prima volta, di tanti giovani dell'Europa dell'Est: sono venuti dall'Unione Sovietica, dalla Bielorussia, dall'Ucraina, Lituania, Lettonia, dalla Repubblica Russa stessa; e si sono ritrovati insieme, a pregare per il contenuto principale della Giornata. Dico "Giornata", ma in realtà sono state più giornate, concluse con la Veglia del 14 agosto e con la celebrazione del 15, Solennità dell'Assunta.

Sono state soprattutto giornate di preghiera e di riflessione, incentrate sulle parole di San Paolo che dice che quelli che sono guidati dallo Spirito Santo sono i figli di Dio. Abbiamo cercato di approfondire con questi giovani, la realtà di diventare figli di Dio attraverso l'opera dello Spirito Santo.

Abbiamo invitato i giovani a collaborare con lo Spirito Santo in questa trasformazione spirituale che fa di un uomo, di ciascuno di noi, di un giovane, il figlio di Dio, a somiglianza del Figlio Unigenito Gesù Cristo. Tutto questo è stato fatto in un ambiente mariano, nell'ambito della grande festa mariana e in questo grande Santuario Mariano. Tutto questo è stato fatto pregando e meditando intorno a tre parole che sono emblematiche soprattutto a Jasna Gora. La prima parola è "io sono con te, Maria" la seconda "mi ricordo" e la terza "sto vegliando"; naturalmente, le parole sono polacche e la traduzione non rende totalmente questa forza e incisività delle parole come sono usate nella lingua polacca.

Ora, queste tre parole si sono fatte preghiera: "Se io - un giovane, una giovane - "sono", sono grazie a te, sono, sono grazie a te, mio Dio, mio Creatore.

"Sono" grazie a te, Cristo, mio Redentore e chiedo a Te, Madre mia, che tu sia con me, che non dimentichi mai queste grandi opere di Dio che Lui ha compiuto nel mondo e soprattutto nella nostra umanità, nella storia dell'uomo: la creazione, la redenzione, la santificazione ad opera dello Spirito Santo. E poi prego, anche, dichiarando la disponibilità ad essere attento, a "vegliare". Dichiarando questo, prego che tu, Maria vegli anche con me e su di me, per non perdere la mia identità giovanile, la mia identità umana e cristiana". Devo dire che per questo incontro un milione di giovani ha invaso non solamente la città che conta 200 mila abitanti, ma anche i dintorni.

Questa preghiera è stata una cosa straordinaria nella sua semplicità, nella sua profondità, nella sua bellezza. E si deve ringraziare quelli che hanno preparato, sia spiritualmente che artisticamente, questa Giornata della Gioventù, con una tale caratteristica spirituale e, direi, artistica per questa grande preghiera.

Io ringrazio tutti quelli che hanno collaborato: sono stati tanti, qui a Roma, in Polonia, a Czestochowa ed anche in altri Paesi. Ringrazio anche le autorità che hanno reso possibile questo incontro, perché ci sono anche aspetti tecnici che si devono rispettare.

Soprattutto ringrazio Maria Assunta per la maniera in cui abbiamo potuto celebrare insieme il suo giorno, il giorno della sua Resurrezione, della sua Pasqua, la Pasqua Mariana.

E alla fine vorrei ancora chiedere a tutti i presenti di pregare per i giovani, dappertutto, nel mondo; perché da loro dipende il futuro dell'umanità, delle nazioni, dei popoli, il futuro della Chiesa: preghiamo per i giovani.

Grazie.




Roma, Mercoledi 28 Agosto 1991

Dall'eredità spirituale di Santo Stefano il compito delle nuove generazioni

"Gaude, Mater Hungaria"


1. "Gaude, Mater Hungaria". Esulta con queste parole la Chiesa di Ungheria nei solenni vespri della festa di Santo Stefano. Desidero anch'io esprimere quest'oggi la mia gioia per il fatto che mi è stato dato di essere presente in terra ungherese proprio nella solennità del Santo Patrono, il 20 agosto, e nei giorni che l'hanno preceduta. Si è realizzato, così, dopo tanti anni, il desiderio di questa visita ad una Nazione che, sin dall'inizio della sua recente storia, è strettamente legata alla Sede di Pietro da un particolare vincolo, del quale sono segno il battesimo e la corona reale che il sovrano di Ungheria, Santo Stefano, ricevette dal papa Silvestro II, nell'anno mille. Nella corona del Santo Re ungherese si è saldata, lungo tutta la storia del Paese, l'identità nazionale e politica, e l'unione con la Chiesa. Nei giorni dal 16 al 20 agosto il Successore di San Pietro ha potuto confermare questo legame, visitando l'eredità di Santo Stefano.

Il Card. Mindszenty simbolo della Chiesa e della Nazione


2. Tutto ciò mette in evidenza i mutamenti provvidenziali sopravvenuti nella società e nella Chiesa. La precedente situazione, che durava sin dalla fine della seconda guerra mondiale, era stata imposta agli Ungheresi con le decisioni di Jalta e non lasciava certo trasparire la possibilità di una simile visita, benché fosse certamente attesa. Il Cardinale Jozsef Mindszenty è il simbolo di quanto la Chiesa e la nazione ungherese hanno sperimentato dal 1945 in poi. Lo slancio della libertà nel 1956 si è infranto con l'entrata delle truppe d'occupazione e con il consolidamento di una condizione politica imposta. L'attività della Chiesa è rimasta successivamente limitata e sottomessa ai programmi dell'ateizzazione statale della società. Nel momento in cui il popolo è riuscito a liberarsi dal sistema impostogli, ritornando alla democrazia e ai normali diritti civili - incluso quello alla libertà religiosa - si sono aperte nuove possibilità per una attività regolare della Chiesa. Mi è stato dato, pertanto, di essere accolto nello splendido edificio del Parlamento a Budapest, sede del Governo della Repubblica, dove ho ringraziato per l'invito il Presidente dell'Ungheria, il Primo Ministro ed anche tutti i Rappresentanti del Governo. Ho inoltre espresso la mia gratitudine alle autorità locali, durante le varie tappe della mia visita a Pécs, Nyiregyhaza, Debrecen e Szombathely.

Un passato ricco di storia


3. Visitando l'Ungheria ci si rende conto di tutto il suo passato, un passato ricco di storia, che si spinge fino al tempo dei romani. Già prima dell'arrivo degli Ungheresi, questo Paese era nel raggio dell'evangelizzazione cristiana.

Basta ricordare che la pianura della Pannonia fu patria di San Martino, (poi vescovo di Tours), nel IV secolo. Nel periodo della dominazione della Grande Moravia vi giunsero i missionari del gruppo dei santi Cirillo e Metodio. Sulla presenza di abitanti slavi nella Regione situata lungo il Danubio testimonia il nome stesso della città di Visegrad (Wyszehrad). Già nel periodo in cui tale Regione andava strutturandosi come nazione ungherese sotto il governo della famiglia degli Arpadi (secc. X-XIII), San Gerardo e Sant'Adalberto, vescovo di Praga, vi svolgevano un attivo lavoro missionario. Ma il personaggio che indubbiamente ha esercitato l'influsso decisivo per l'intero millennio nella conversione degli Ungheresi e nella loro unione con la Chiesa Cattolica è stato Santo Stefano. Egli ha trasmesso la fede cristiana agli eredi immediati e lontani della corona, tra i quali troviamo una fila di santi personaggi. Sant'Emerico, Santo Stefano, San Ladislao, Santa Elisabetta e Santa Margherita. E' proprio a Santa Margherita che si sono rivolti i giovani, durante l'incontro nella serata del 19 agosto. Questa Santa, dopo l'invasione dei Tartari nel XIII secolo, è diventata il punto di riferimento spirituale della rinascita del paese. E guardando a lei i giovani hanno voluto mettere in luce il compito che sta davanti alla generazione contemporanea, dopo la distruzione spirituale e morale degli ultimi decenni.

Il tema ricorrente della preghiera


4. Questo compito è stato praticamente il tema principale e ricorrente della preghiera in tutte le fasi della mia visita pastorale in terra ungherese. E' stato espresso nella liturgia eucaristica, iniziando da Esztergom, prima capitale e, fino ad oggi, sede del Primate di Ungheria; è stato ripreso nell'incontro con il mondo della cultura e della scienza; è stato evidenziato, infine, in quello con la Conferenza Episcopale, con i sacerdoti diocesani e religiosi, ed anche con le giovani generazioni (con i seminaristi e le novizie) nella chiesa di San Mattia.

L'incontro con i malati ha fatto riferimento a tale compito perché il sacrificio della sofferenza insieme con la preghiera contribuiscono al rinnovamento spirituale, mediante una singolare comunione al mistero della Redenzione di Cristo. Numerosi sono stati coloro che hanno partecipato all'assemblea eucaristica e alla liturgia bizantina (nella lingua ungherese) nel santuario di Mariapocs.

Erano presenti, poi, cattolici di rito orientale venuti dai Paesi vicini, dalla Slovacchia, dalla Subcarpazia, dall'Ucraina e dalla Romania.

L'incontro di Debrecen centro storico del calvinismo


5. Nella vita della Chiesa e della società in Ungheria riveste indubbia rilevanza il problema dell'ecumenismo, avendo circa il 30 per cento della società accolto nel XVI secolo il Cristianesimo riformato, soprattutto il Calvinismo. Per questa ragione ha avuto notevole interesse, anche nella visita papale, l'incontro a Debrecen. Tale città è, in effetti, il centro storico del Calvinismo ungherese, che ha dato il proprio contributo alla storia della nazione e della cultura magiara particolarmente nella parte orientale. Numerose persone sono intervenute alla celebrazione ecumenica e alla preghiera per l'unità dei Cristiani.

Ringraziamo il Signore per questo avvenimento: in tempi non lontani un tale incontro sarebbe stato impossibile. Ricordo, inoltre, che nel programma dello stesso giorno, domenica 18, si è svolto a Budapest l'incontro con i rappresentanti della Comunità Ebraica.

La Messa celebrata nella piazza degli Eroi


6. In ogni fase del mio pellegrinaggio apostolico hanno preso parte alla liturgia pellegrini provenienti dalle Nazioni vicine: Cardinali e Vescovi, sacerdoti e laici giunti dall'Austria e Germania, dalla Slovacchia, dalla Iugoslavia: specialmente dalla Croazia e Slovenia, ma anche dalla Polonia. Particolarmente numerosa è stata la presenza di questi pellegrini alla festa di Santo Stefano e alla Santa Messa celebrata nella Piazza degli Eroi: è stata l'assemblea più folta di tutta la visita. Si è confermato, così, il fatto che la corona di Santo Stefano è rimasta eredità viva della nazione e della Chiesa ungherese. Abbraccio con la memoria e la preghiera tutto il popolo che vive in Patria ed anche quei milioni di Ungheresi che si trovano all'estero. Che tutti stringano al cuore l'eredità spirituale di Santo Stefano e, insieme con essa, accrescano nei loro spiriti l'amore e la venerazione per la beata Vergine: Magna Domina Hungarorum!





Roma, Mercoledi 4 Settembre 1991

Regno di Dio, Regno di Cristo

1. Leggiamo nella Costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II che "i credenti in Cristo (Dio) li ha voluti chiamare nella Santa Chiesa, la quale... preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica Alleanza... è stata manifestata dalla effusione dello Spirito (Santo)" (LG 2). A questa preparazione della Chiesa nell'antica Alleanza abbiamo dedicato la catechesi precedente, nella quale abbiamo visto che, nella progressiva coscienza che Israele prendeva del disegno di Dio attraverso le rivelazioni dei profeti e i fatti stessi della sua storia, si faceva sempre più chiaro il concetto di un futuro regno di Dio, ben più alto ed universale di ogni previsione circa le sorti della dinastia davidica. Oggi passiamo alla considerazione di un altro fatto storico, denso di significato teologico: Gesù Cristo dà inizio alla sua missione messianica con l'annuncio: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino" (Mc 1,15). Quelle parole segnano l'ingresso "nella pienezza del tempo", come dirà San Paolo (cfr. Ga 4,4), e preparano il passaggio alla Nuova Alleanza, fondata sul mistero dell'incarnazione redentrice del Figlio e destinata ad essere Alleanza eterna. Nella vita e nella missione di Gesù Cristo il regno di Dio non solo "è vicino" (Lc 10,9), ma è già presente nel mondo, già agisce nella storia dell'uomo. Lo dice Gesù stesso: "Il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17,21).


2. La differenza di livello e di qualità tra il tempo della preparazione e quello del compimento - tra l'antica e la nuova Alleanza - è fatta conoscere da Gesù stesso quando, parlando del suo precursore Giovanni Battista, così si esprime: "In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui" (Mt 11,11). Giovanni, dalle rive del Giordano (e dal suo carcere), certamente ha contribuito più di chiunque altro, anche più degli antichi profeti (cfr. Lc 7,26-27), alla immediata preparazione delle vie del Messia. Tuttavia egli rimane in un certo senso ancora sulla soglia del nuovo regno, entrato nel mondo con la venuta di Cristo e in via di manifestazione col suo ministero messianico. Soltanto per mezzo di Cristo gli uomini diventano i veri "figli del regno": cioè del nuovo regno ben superiore a quello di cui i giudei contemporanei si ritenevano gli eredi naturali (cfr. Mt 8,12).


3. Il nuovo regno ha un carattere eminentemente spirituale. Per entrarvi occorre convertirsi e credere al Vangelo, liberarsi dalle potenze dello spirito delle tenebre, sottomettendosi al potere dello Spirito di Dio che Cristo porta agli uomini. Come dice Gesù: "Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito Santo, è certo giunto tra voi il regno di Dio" (Mt 12,28 cfr. Lc 11,20). La natura spirituale e trascendente di questo regno è espressa anche nell'equivalente linguistico che troviamo nei testi evangelici: "Regno dei cieli". Stupenda immagine che lascia intravedere l'origine e il fine del regno - i "cieli" - e la stessa dignità divino-umana di Colui nel quale il Regno di Dio si concretizza storicamente con l'Incarnazione: Cristo.


4. Questa trascendenza del regno di Dio è data dal fatto che esso ha origine non da un'iniziativa soltanto umana, ma dal piano, dal disegno e dalla volontà di Dio stesso. Gesù Cristo, che lo rende presente e lo attua nel mondo, non è soltanto uno dei profeti mandati da Dio, ma il Figlio consostanziale al padre, che si è fatto uomo con l'Incarnazione. Il regno di Dio è dunque il regno del Padre e del suo Figlio. Il regno di Dio è il regno di Cristo; è il regno dei cieli che si sono aperti sulla terra per concedere agli uomini di entrare in questo nuovo mondo di spiritualità e di eternità. Afferma Gesù: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio, ... e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27). "Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso; e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell'uomo" (Jn 5,26-27). Insieme con il Padre e con il Figlio, anche lo Spirito Santo opera per l'attuazione del Regno già in questo mondo. Gesù stesso lo rivela: il Figlio dell'uomo "scaccia i demoni per virtù dello Spirito di Dio", e per questo "è certo giunto fra voi il regno di Dio" (Mt 12,28).


5. Ma pur attuandosi e sviluppandosi in questo mondo, il Regno di Dio ha la sua finalità nei "cieli". Trascendente nella sua origine, lo è anche nel suo fine, che si raggiunge nell'eternità, a condizione di essere fedeli a Cristo nella vita presente e lungo tutto il divenire del tempo. Ce ne avverte Gesù quando dice che, in conformità al suo potere di "giudicare" (Jn 5,27), il Figlio dell'uomo comanderà alla fine del mondo di raccogliere "dal suo regno tutti gli scandali", ossia tutte le iniquità commesse anche nell'ambito del regno di Cristo. E "allora - aggiunge Gesù - i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro" (Mt 13,41 Mt 13,43). Sarà allora la piena e definitiva realizzazione del "regno del Padre", al quale il Figlio rimetterà gli eletti da lui salvati in virtù della Redenzione e con l'opera dello Spirito Santo. Il regno messianico rivelerà allora la sua identità col Regno di Dio (cfr. Mt 25,34 1Co 15,24). Vi è dunque un ciclo storico del regno di Cristo, Verbo incarnato, ma l'alfa e l'omega di questo regno, e anzi si direbbe il fondo nel quale esso si apre, vive, si sviluppa e raggiunge il suo pieno compimento, è il mysterium Trinitatis. Abbiamo già detto, e ancora vedremo a suo tempo, che in questo mistero affonda le sue radici il mysterium Ecclesiae.


6. Punto di passaggio e di collegamento da un mistero all'altro è Cristo, che già nell'antica Alleanza era preannunciato e atteso come un Re-Messia col quale si identificava il Regno di Dio. Nella nuova Alleanza Cristo identifica il regno di Dio con la propria persona e con la propria missione. Infatti egli non solo proclama che, con lui, il regno di Dio è nel mondo, ma insegna a "lasciare per il regno di Dio" tutto ciò che è più caro all'uomo (cfr. Lc 18,29-30) e, in un altro punto, a lasciare tutto questo "per il suo nome" (cfr. Mt 19,29), oppure "a causa mia e a causa del Vangelo" (Mc 10,29). Il regno di Dio si identifica dunque con il regno di Cristo. E' presente in lui, e in lui si attua. E da lui passa, per sua stessa iniziativa, agli Apostoli, e per loro mezzo a tutti quelli che crederanno in lui: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me" (Lc 22,29). E' un regno che consiste in una espansione di Cristo stesso nel mondo, nella storia degli uomini, come vita nuova che si attinge da lui e che viene comunicata ai credenti in virtù dello Spirito Santo-Paraclito, mandato da lui (cfr. Jn 1,16 Jn 7,38-39, 15,26; Jn 16,7).


7. Il regno messianico, attuato da Cristo nel mondo, si rivela e precisa definitivamente il suo significato nel contesto della passione e morte in croce.

Già all'entrata in Gerusalemme avviene un fatto, disposto da Cristo, che Matteo presenta come realizzazione di una predizione profetica, quella di Zaccaria sul "re che cavalca un asino, un puledro figlio di asina" (Za 9,9 Mt 21,5). Nella mente del profeta, nell'intento di Gesù e nella interpretazione dell'evangelista, l'asinello significava mitezza e umiltà. Gesù era il re mite e umile che entrava nella città davidica, dove col suo sacrificio avrebbe realizzato le profezie sulla vera regalità messianica. Questa regalità diventa ben chiara durante l'interrogatorio subito da Gesù al tribunale di Pilato. Le accuse fatte a Gesù sono "che sobillava il... popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re" (Lc 23,2). perciò Pilato domanda all'Imputato se egli è re.

Ed ecco la risposta di Cristo: "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù". L'evangelista narra che "allora Pilato gli disse: - Dunque tu sei re? - Rispose Gesù: - Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce" (Jn 18,36-37).


8. E' una dichiarazione che conclude tutta l'antica profezia che scorre lungo la storia d'Israele e diventa fatto e rivelazione in Cristo. Le parole di Gesù ci fanno afferrare i bagliori di luce che solcano l'oscurità del mistero condensato nel trinomio: Regno di Dio, Regno messianico, Popolo di Dio convocato nella Chiesa. Su questa scia di luce profetica e messianica, possiamo meglio capire e ripetere, con più chiara comprensione delle parole, la preghiera insegnataci da Gesù (Mt 6,10): "Venga il tuo Regno". E' il regno del Padre, entrato nel mondo con Cristo; è il regno messianico che per opera dello Spirito Santo si sviluppa nell'uomo e nel mondo per risalire nel seno del Padre, nella gloria dei cieli.





Roma, Mercoledi 11 Settembre 1991

L'opera di Cristo nella fondazione della chiesa

1. Concepita e voluta nell'eterno disegno del Padre come regno di Dio e del suo Figlio Verbo incarnato Gesù Cristo, la Chiesa si attua nel mondo come un fatto storico, carica senza dubbio di mistero e accompagnata da miracoli nella sua origine e si può dire lungo tutta la sua storia, e che tuttavia rientra nell'ambito dei fatti constatabili, sperimentabili, documentabili. Sotto questo aspetto, la Chiesa ha inizio con il gruppo di dodici discepoli che Gesù stesso sceglie tra la moltitudine dei suoi seguaci (cfr. Mc 3,13-19 Jn 6,70 Ac 1,2) e che vengono denominati Apostoli (cfr. Mt 10,1-5 Lc 6,13). Gesù li chiama, li forma in modo tutto particolare e alla fine li manda nel mondo come testimoni e annunciatori del suo messaggio, della sua Passione e Morte e della sua Risurrezione, e, su questa base, fondatori della Chiesa come Regno di Dio, che tuttavia ha sempre il suo fondamento (cfr. 1Co 3,11 Ep 2,20) in lui, Cristo.

Dopo l'Ascensione, un gruppo di discepoli si trova riunito intorno agli Apostoli e a Maria in attesa dello Spirito Santo promesso da Gesù. Veramente dinanzi alla "promessa del Padre" enunciata ancora una volta da Gesù, mentre erano a tavola, promessa che riguardava un "battesimo nello Spirito Santo" (Ac 1,4-5), essi domandarono al Maestro risorto: "Signore, è questo il tempo in cui ristabilisci il regno per Israele?" (Ac 1,6). Evidentemente agivano ancora sulla loro psicologia le speranze di un regno messianico consistente nella restaurazione temporale del regno davidico (cfr. Mc 11,10 Lc 1,32-33), attesa da Israele. Gesù li aveva dissuasi da questa aspettativa, e aveva ribadito la promessa: "avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (Ac 1,8).


2. Nel giorno della Pentecoste, che, da primitiva festa della mietitura (cfr. Ex 23,16), per Israele era divenuta anche festa della rinnovazione dell'Alleanza (cfr. 2Ch 15,10-13), la promessa di Cristo si compie nel modo risaputo: e sotto l'azione dello Spirito Santo il gruppo degli Apostoli e dei discepoli si rassoda, e intorno ad essi si riuniscono i primi convertiti dall'annuncio degli Apostoli e specialmente di Pietro. così inizia la crescita della prima Comunità cristiana (Ac 2,41) e viene costituita la Chiesa di Gerusalemme (cfr. Ac 2,42-47), che ben presto si ingrandisce e si estende anche ad altre città, regioni, nazioni - fino a Roma! - sia in virtù del proprio dinamismo interno, impressole dallo Spirito Santo, sia per le circostanze che costringono i cristiani a fuggire da Gerusalemme e dalla Giudea e a spargersi in varie località, sia per l'impegno con cui specialmente gli Apostoli intendono eseguire il mandato di Cristo sulla evangelizzazione universale. Questo è il fatto storico delle origini, descritto da Luca negli Atti degli Apostoli e confermato dagli altri testi cristiani e non cristiani che documentano la diffusione del Cristianesimo e l'esistenza delle varie Chiese in tutto il bacino del Mediterraneo - ed oltre - entro gli ultimi decenni del primo secolo.


3. Nell'involucro storico di questo fatto, è contenuto l'elemento misterioso della Chiesa, di cui parla il Concilio Vaticano II quando scrive che "Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in questa terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di Lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in mistero, per virtù di Dio cresce visibilmente nel mondo" (LG 3). Queste parole sono la sintesi della precedente catechesi sull'inizio del regno di Dio sulla terra, in Cristo e per Cristo, e nello stesso tempo indicano che la Chiesa è chiamata da Cristo all'esistenza, affinché tale regno perduri e si sviluppi in essa e per essa nel corso della storia dell'uomo sulla terra. Gesù Cristo, che sin dall'inizio della sua missione messianica proclamava la conversione e chiamava alla fede: "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15), ha affidato agli Apostoli e alla Chiesa il compito di radunare gli uomini nell'unità di questa fede, invitandoli ad entrare nella comunità di fede da Lui fondata.


4. La comunità di fede è nello stesso tempo una comunità di salvezza. Gesù aveva ripetuto tante volte: "Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto" (Lc 19,10). Sapeva e dichiarava fin da principio che la sua missione era quella di "annunziare ai poveri un lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista" (cfr. Lc 4,18). Sapeva e dichiarava di essere stato mandato dal Padre come salvatore (cfr. Jn 3,17 Jn 12,47). Da qui derivava la sua particolare sollecitudine per i poveri e per i peccatori. Di conseguenza anche la sua Chiesa doveva sorgere e svilupparsi come una comunità di salvezza. Lo sottolinea il Concilio Vaticano II nel decreto Ad Gentes: "Ora tutto quanto il Signore ha una volta predicato o in lui si è compiuto per la salvezza del genere umano, deve essere annunziato e diffuso fino all'estremità della terra, a cominciare da Gerusalemme. In tal modo quanto una volta è stato operato per la comune salvezza, si realizza compiutamente in tutti nel corso dei secoli" (AGD 3).

Da questa esigenza di espansione della salvezza, espressa dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli, derivano la missione e le missioni della Chiesa nel mondo intero.


5. Gli Atti degli Apostoli ci attestano che nella prima Chiesa, la comunità di Gerusalemme, ferveva una vita di preghiera, e che i cristiani si riunivano per la "frazione del pane" (Ac 2,42ss): parola che nel linguaggio cristiano aveva il senso di un iniziale rito eucaristico (cfr. 1Co 10,16 1Co 11,24 Lc 22,19).

Infatti Gesù aveva voluto che la sua Chiesa fosse la comunità del culto di Dio in spirito e verità. Questo era il nuovo significato del culto da Lui insegnato: "E' giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché il Padre cerca tali adoratori" (Jn 4,23). Lo aveva detto Gesù nel colloquio con la Samaritana. Ma tale culto in spirito e verità non escludeva l'aspetto visibile, non escludeva quindi i segni e i riti liturgici, per i quali i primi cristiani si riunivano sia nel Tempio (cfr. Ac 2,46), sia nelle case (cfr. Ac 2,46 Ac 12,12). Gesù stesso, parlando con Nicodemo, aveva alluso al rito battesimale: "In verità, in verità ti dico; se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio" (Jn 3,5). Era il primo sacramento della nuova comunità, in cui avveniva la rinascita dallo Spirito Santo e l'entrata nel regno di Dio, significata dal rito visibile del lavacro con l'acqua (cfr. Ac 2,38 Ac 2,41).


6. Il momento culminante del nuovo culto - in spirito e verità - era l'Eucaristia.

L'istituzione di questo sacramento era stata il punto-chiave nella formazione della Chiesa. In relazione col banchetto pasquale di Israele, Gesù l'aveva concepita e attuata come un convito, nel quale egli si donava sotto le specie di cibo e bevanda: pane e vino, segni della condivisione della sua vita divina - vita eterna - con i partecipanti al banchetto. San Paolo esprime bene l'aspetto ecclesiale della partecipazione all'Eucaristia, quando scrive ai Corinzi: "Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane" (1Co 10,16-17). Fin dalle origini la Chiesa capi che l'istituzione del sacramento avvenuta nell'ultima Cena significava l'introduzione dei cristiani nel cuore stesso del regno di Dio, che Cristo con la sua incarnazione redentrice aveva iniziato e costituito nella storia dell'uomo. I cristiani sapevano fin dall'inizio che questo regno permane nella Chiesa, particolarmente mediante l'Eucaristia. E questa - come sacramento della Chiesa - era ed è anche l'espressione culminante di quel culto in spirito e verità, di cui Gesù aveva parlato nel colloquio con la Samaritana. Nello stesso tempo l'Eucaristia-Sacramen- to era ed è un rito che Gesù aveva istituito perché fosse celebrato dalla Chiesa. Infatti aveva detto nell'ultima Cena: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19 cfr. 1Co 11,24-25). Sono parole dette alla vigilia della passione e morte in croce, nel contesto di un discorso agli Apostoli con cui Gesù li istruiva e preparava al proprio sacrificio. Essi le capirono in questo senso. La Chiesa ne trasse la dottrina e la pratica dell'Eucaristia come rinnovamento incruento del sacrificio della Croce. Questo aspetto fondamentale del sacramento eucaristico è stato espresso da San Tommaso d'Aquino nella famosa antifona: O Sacrum Convivium, in quo Christus sumitur, recolitur memoria passionis eius; aggiungendovi ciò che l'Eucaristia produce nei partecipanti al banchetto, secondo l'annuncio di Gesù sulla vita eterna: mens impletur gratia, et futurae gloriae nobis pignus datur...


7. Il Concilio Vaticano II così riassume la Dottrina della Chiesa su questo punto: "Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (1Co 5,7), viene celebrato sull'altare, si rinnova l'opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1Co 10,17)" (LG 3).

Secondo il Concilio, l'ultima Cena è il momento in cui Cristo, anticipando la morte in croce e la risurrezione, dà inizio alla Chiesa: la Chiesa è generata insieme all'Eucaristia, in quanto chiamata "a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da Lui veniamo, per Lui viviamo, a Lui siamo diretti" (LG 3). Cristo è tale soprattutto nel suo sacrificio redentivo. E' allora che egli attua in pieno le parole dette un giorno: "Il Figlio dell'uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45 Mt 20,28). Attua allora l'eterno disegno del Padre, per il quale Cristo "doveva morire... per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Jn 11,51-52). E dunque il Cristo nel sacrificio della croce è il centro dell'unità della Chiesa, come aveva predetto: "Quando saro elevato da terra, attirero tutti a me" (Jn 12,32).

Il Cristo nel sacrificio della croce rinnovato sull'altare rimane il centro generatore perenne della Chiesa, nella quale gli uomini sono chiamati a partecipare alla sua vita eterna per raggiungere un giorno la partecipazione alla sua eterna gloria. Et futurae gloriae nobis pignus datur.





Roma, Mercoledi 18 Settembre 1991

Il significato del Regno di Dio nelle parabole evangeliche

1. I testi evangelici documentano l'insegnamento di Gesù sul Regno di Dio in relazione alla Chiesa. Documentano altresi come lo predicavano gli Apostoli, e come era concepito e creduto nella Chiesa delle origini. Da quei testi traspare il mistero della Chiesa come Regno di Dio. Scrive il Concilio Vaticano II: "Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio alla sua Chiesa predicando la buona novella, cioè l'avvento del Regno di Dio... Questo Regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo" (LG 5). A quanto abbiamo detto a questo riguardo nelle catechesi precedenti, specialmente nell'ultima, aggiungiamo oggi qualche altra riflessione sull'insegnamento che sul Regno di Dio imparte Gesù nelle parabole, specialmente in quelle che in modo particolare sono dedicate a far capire il suo significato, il suo valore essenziale.


2. Dice Gesù: "Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Mt 22,2). La parabola del banchetto nuziale presenta il Regno di Dio come un'iniziativa regale - e dunque sovra- na - di Dio stesso. Essa include anche il tema dell'amore, e precisamente dell'amore sponsale: il figlio per il quale il padre prepara il banchetto di nozze è lo sposo. Anche se in questa parabola non viene chiamata per nome la sposa, le circostanze indicano la sua presenza, e lasciano capire bene chi è. Ciò apparirà chiaramente in altri testi del Nuovo Testamento, che identificano la Chiesa con la Sposa (Jn 3,29 Ap 21,9 2Co 11,2 Ep 5,23-27 Ep 5,29).


3. Invece nella parabola è contenuta chiaramente l'indicazione dello Sposo, che è il Cristo, il quale attua l'Alleanza nuova del Padre con l'umanità. Questa è un'alleanza d'amore, e il Regno stesso di Dio appare come una comunione (comunità d'amore), che il Figlio attua per volere del Padre. Il "banchetto" è l'espressione di questa comunione. Nel contesto dell'economia della salvezza descritta dal Vangelo, non è difficile scorgere in questo banchetto nuziale in riferimento all'Eucaristia: il sacramento della nuova ed eterna Alleanza, il sacramento delle nozze sponsali di Cristo con l'umanità nella Chiesa.


4. Anche se la Chiesa come Sposa non è nominata nella parabola, si trovano nel contesto di questa altri elementi che richiamano ciò che il Vangelo ci dice sulla Chiesa come Regno di Dio. così l'universalità dell'invito divino: "Il Re dice ai suoi servi: "Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze"" (Mt 22,9). Tra gli invitati al banchetto nuziale del Figlio mancano quelli scelti per primi: quelli che dovevano essere ospiti secondo la tradizione dell'antica Alleanza.

Questi si rifiutano di andare al banchetto della nuova Alleanza, adducendo diversi pretesti. Allora Gesù fa dire al Re, padrone di casa: "Molti sono chiamati, ma pochi eletti" (Mt 22,14). Al loro posto l'invito viene rivolto a molti altri, che affollano la sala del banchetto. Il particolare fa pensare a quell'altra parola ammonitrice che aveva pronunciato Gesù: "Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori" (Mt 8,11-12). Qui si vede bene come l'invito diventa universale: Dio intende stringere la nuova Alleanza nel suo Figlio non più con il solo popolo eletto, ma con l'intera umanità.


5. Il seguito della parabola indica che la partecipazione definitiva al banchetto nuziale è legata a certe condizioni essenziali. Non basta essere entrati nella Chiesa per essere sicuri della salvezza eterna: "Amico, come hai potuto entrare qui senza abito nuziale?" (Mt 22,12), domanda il Re ad uno degli invitati. La parabola, che a questo punto sembra passare dal problema del rifiuto storico della elezione da parte del popolo d'Israele al comportamento individuale di chiunque sia chiamato e sul giudizio che su di lui sarà pronunciato, non precisa il significato di quell'"abito". Ma si può dire che la spiegazione si trova nell'insieme dell'insegnamento di Cristo. Il Vangelo, in particolare il discorso della montagna, parla del comandamento dell'amore, che è il principio della vita divina e della perfezione sul modello del Padre: "Siate... perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Si tratta di quel "comandamento nuovo", che, come insegna Gesù, consiste in questo: "Come io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Jn 13,34). Sembra dunque si possa concludere che l'"abito nuziale", come condizione per partecipare al banchetto, è proprio quest'amore. Il che viene confermato da un'altra grande parabola, riguardante il giudizio finale, e quindi di carattere escatologico. Soltanto coloro che attuano il comandamento dell'amore nelle opere di misericordia spirituale e corporale verso il prossimo possono prendere parte al banchetto del Regno di Dio: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo" (Mt 25,34).


6. Un'altra parabola ci fa capire che non è mai troppo tardi per entrare nella Chiesa. L'invito di Dio può essere rivolto all'uomo sino all'ultimo momento della vita. E' la nota parabola degli operai della vigna: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che usci all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna" (Mt 20,1). Usci poi ancora alcune volte in diverse ore del giorno, fino all'ultima ora. E a tutti fu dato un salario nel quale, oltre il limite del rapporto di stretta giustizia, il padrone volle manifestare tutto il suo generoso amore. Viene in mente, a questo riguardo, il commovente episodio, narrato dall'evangelista Luca, sul "buon ladrone" crocifisso accanto a Gesù sul Golgota. A lui l'invito si è manifestato come iniziativa misericordiosa di Dio, mentre diceva ormai quasi spirando: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Egli udi dalla bocca del Redentore-Sposo, condannato alla morte in croce: "In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,42-43).


7. Citiamo ancora una parabola di Gesù: "Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo" (Mt 13,44). Analogamente, anche il commerciante in cerca di belle perle, "trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra" (Mt 13,45). Questa parabola inculca ai chiamati una grande verità: per essere degni dell'invito al banchetto regale dello Sposo occorre dimostrare la comprensione del supremo valore di ciò che viene offerto. Da qui anche la disponibilità a sacrificare ogni cosa per il regno dei cieli, che vale più di tutto. Nessun prezzo di beni terreni gli è comparabile. Tutto si può abbandonare, senza rimetterci, pur di prendere parte al banchetto di Cristo-Sposo. E' l'essenziale condizione di distacco e di povertà, che con tutte le altre ci viene indicata da Gesù, sia quando chiama beati "i poveri in spirito", "i miti", "i perseguitati per causa della giustizia", perché "a tutti loro appartiene il regno dei cieli" (cfr. Mt 5,3 Mt 5,10); sia quando presenta un bambino come "il più grande nel regno dei cieli": "Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli" (Mt 18,2-4).


8. Col Concilio Vaticano II, possiamo concludere che nelle parole e nelle opere di Cristo, specialmente nell'insegnamento attraverso le parabole, "si è manifestato chiaramente agli uomini il Regno di Dio" (LG 5). Predicando l'avvento di quel Regno, Cristo fondo la sua Chiesa e manifesto ciò che era il suo intimo mistero divino (cfr. LG 5).

(Il Papa ha aggiunto queste parole, un appello per il "cessate il fuoco" in Jugoslavia:) Tra le ultime notizie che pervengono dalla Jugoslavia, ce n'è una che invita alla speranza: un Accordo di cessate il fuoco sarebbe stato raggiunto dalle parti interessate grazie al dedicato impegno di mediazione della comunità internazionale.

Desidero fare appello al senso di responsabilità di chi ha dato la propria parola perché non vengano deluse le aspettative delle popolazioni in preda alla paura e alla sofferenza.

Mentre ringraziamo il Signore per questi nuovi sviluppi, chiediamogli insieme di sostenere la buona volontà di tanti e di ispirare a tutti pensieri di pace.




Roma, Mercoledi 25 Settembre 1991

La crescita del Regno di Dio secondo le parabole evangeliche

1. Come abbiamo detto nella catechesi precedente, non è possibile capire l'origine della Chiesa senza tener conto di tutto quello che Gesù predico e opero (cfr. Ac 1,1). E proprio su questo tema egli ha rivolto ai suoi discepoli e ha lasciato a noi tutti un fondamentale insegnamento nelle parabole sul Regno di Dio. Tra queste, hanno particolare importanza quelle che enunciano e ci fanno scoprire il carattere di sviluppo storico e spirituale che è proprio della Chiesa secondo il progetto dello stesso suo Fondatore.


2. Gesù dice: "Il Regno di Dio è come un uomo che getta un seme nella terra: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura" (Mc 4,26-29). Dunque il Regno di Dio cresce qui sulla terra, nella storia dell'umanità, in virtù di una semina iniziale, cioè di una fondazione, che viene da Dio, e di un misterioso operare di Dio stesso, che continua a coltivare la Chiesa lungo i secoli. Nell'azione di Dio in ordine al Regno è presente anche la falce del sacrificio: lo sviluppo del Regno non si realizza senza sofferenza. Questo è il senso della parabola riportata dal Vangelo di Marco.


3. Ritroviamo lo stesso concetto anche in altre parabole, specialmente in quelle riunite nel testo di Matteo (13,3-50). "Il regno dei cieli - leggiamo in questo Vangelo - si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo si annidano fra i suoi rami" (Mt 13,31). E' la crescita del regno in senso "estensivo". Un'altra parabola invece ne mostra la crescita in senso "intensivo" o qualitativo, paragonandolo al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti" (Mt 13,32).


4. Nella parabola del seminatore e della semina la crescita del Regno di Dio appare certamente come frutto dell'operato del seminatore, ma è in rapporto al terreno e alle condizioni climatiche che la semina produce raccolto: "dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta" (Mt 13,8). Il terreno significa la disponibilità interiore degli uomini. Dunque, secondo Gesù, la crescita del Regno di Dio è condizionata anche dall'uomo. La libera volontà umana è responsabile di questa crescita. Per questo Gesù raccomanda a tutti di pregare: "Venga il tuo regno" (cfr. Mt 6,10 Lc 11,2): è una delle prime domande del Pater noster.


5. Una delle parabole narrate da Gesù sulla crescita del Regno di Dio sulla terra ci fa scoprire con molto realismo il carattere di lotta che il regno comporta, per la presenza e l'azione di un "nemico", che "semina la zizzania (o gramigna) in mezzo al grano". Dice Gesù che, quando "la messe fiori e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania". I servi del padrone del campo vorrebbero strapparla, ma il padrone non glielo consente, "perché non succeda che... sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura diro ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio" (Mt 13,24-30). Questa parabola spiega la coesistenza e spesso l'intreccio del bene e del male nel mondo, nella nostra vita, nella stessa storia della Chiesa. Gesù ci insegna a veder le cose con realismo cristiano e a trattare ogni problema con chiarezza di principi, ma anche con prudenza e con pazienza. Ciò suppone una visione trascendente della storia, nella quale si sa che tutto appartiene a Dio e ogni esito finale è opera della sua Provvidenza. Non è pero nascosta la sorte finale - di dimensione escatologica - dei buoni e dei cattivi: la simboleggiano la raccolta del grano nel deposito e la bruciatura della zizzania.


6. La spiegazione della parabola sulla semina la dà Gesù stesso, su richiesta dei discepoli (cfr. Mt 13,36-43). Nelle sue parole emerge la dimensione sia temporale che escatologica del Regno di Dio. Egli dice ai suoi: "A voi è stato confidato il mistero del Regno di Dio" (Mc 4,11). Su questo mistero li istruisce e, al tempo stesso, con la sua parola e la sua opera "prepara per loro un regno, così come a lui (Figlio) l'ha preparato il Padre" (cfr. Lc 22,29). Questa preparazione viene ripresa anche dopo la sua risurrezione: leggiamo infatti negli Atti degli Apostoli che "appariva loro per quaranta giorni e parlava del Regno di Dio" (cfr. Ac 1,3) sino al giorno in cui "fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio (Mc 16,19). Erano le ultime istruzioni e disposizioni agli Apostoli su ciò che dovevano fare dopo l'Ascensione e la Pentecoste per dare concreto inizio al Regno di Dio nella origine della Chiesa.


7. Anche le parole rivolte a Pietro a Cesarea di Filippo si inscrivono nell'ambito della predicazione sul regno. Gli dice infatti: "A te daro le chiavi del regno dei cieli" (Mt 16,19), subito dopo averlo chiamato pietra, sulla quale edificherà la sua Chiesa, che sarà invincibile per "le porte degli inferi" (cfr. Mt 16,18). E' una promessa espressa allora col verbo al futuro: "edifichero", perché la fondazione definitiva del Regno di Dio in questo mondo doveva ancora compiersi mediante il sacrificio della Croce e la vittoria della Risurrezione. Dopo di che Pietro, con gli altri Apostoli, avrà la coscienza viva della loro chiamata a "proclamare le opere meravigliose di colui che li ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce" (cfr. 1P 2,9). Al tempo stesso, tutti avranno altresi la coscienza della verità che emerge dalla parabola del seminatore, e cioè che, "né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere", come scriverà San Paolo (1Co 3,7).


8. L'autore dell'Apocalisse esprime questa stessa coscienza del regno quando riferisce il canto indirizzato all'Agnello: "Sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti" (Ap 5,9-10). L'apostolo Pietro precisa che sono stati costituiti tali "per offrire sacrifici graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo" (cfr. 1P 2,5). Sono tutte espressioni delle verità apprese da Gesù che, nelle parabole sul seminatore e sulla semina, sulla crescita del grano e dell'erba cattiva, sul granellino di senapa che viene seminato e diventa poi pianta abbastanza estesa, parlava di un Regno di Dio che, sotto l'azione dello Spirito, cresce nelle anime grazie alla forza vitale derivante dalla sua morte e dalla sua risurrezione: un regno che cresce sino al tempo previsto da Dio stesso.


9. "Poi sarà la fine - annuncia San Paolo - quando egli (Cristo) consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto a nulla ogni principato e ogni potestà e potenza" (1Co 15,24). Quando infatti "tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (1Co 15,28).

In mirabile prospettiva escatologica del Regno di Dio è inscritta l'esistenza della Chiesa dall'inizio sino alla fine, e si svolge la sua storia dal primo all'ultimo giorno.




Roma, Mercoledi 2 Ottobre 1991

Lo Spirito Santo nell'origine della Chiesa

1. Abbiamo accennato più volte, nelle precedenti catechesi, all'intervento dello Spirito Santo nella origine della Chiesa. E' bene che ora dedichiamo una speciale catechesi a questo tema così bello e importante.

E' Gesù stesso che prima di salire al Cielo dice agli Apostoli: "Io mandero su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siete rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,49). Gesù intende preparare direttamente gli Apostoli al compimento della "promessa del Padre".

L'evangelista Luca ripete la stessa ultima raccomandazione del Maestro anche nei primi versetti degli Atti degli Apostoli: "Mentre si trovava a tavola con essi, ordino loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre" (1,4). Durante tutta la sua attività messianica, Gesù, predicando sul Regno di Dio, preparava "il tempo della Chiesa", che doveva aver inizio dopo la sua dipartita. Quando questa era ormai vicina, egli annunzio che era prossimo il giorno in cui questo tempo doveva iniziare (cfr. Ac 1,5), cioè il giorno della discesa dello Spirito Santo. E spaziando con lo sguardo sul futuro, aggiungeva: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino agli estremi confini della terra" (Ac 1,8).


2. Quando venne il giorno della Pentecoste, gli Apostoli, i quali insieme alla Madre del Signore erano raccolti in preghiera, ebbero la dimostrazione che Gesù Cristo agiva in conformità con quello che aveva annunziato: cioè che si stava adempiendo "la promessa del Padre". Lo proclamo il primo tra gli Apostoli, Simon Pietro, parlando all'assemblea. Pietro parlo ricordando prima la morte in croce, e poi passo alla testimonianza della risurrezione e all'effusione dello Spirito Santo: "Questo Gesù Dio l'ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso" (Ac 2,32-33). Pietro asserisce fin dal primo giorno che la "promessa del Padre" si compie come frutto della redenzione, perché è in virtù della sua croce e risurrezione che Cristo, il Figlio innalzato "alla destra di Dio", manda lo Spirito, come aveva annunziato ancora prima della sua passione al momento dell'addio nel Cenacolo.


3. Lo Spirito Santo dava così inizio alla missione della Chiesa istituita per tutti gli uomini. Ma non possiamo dimenticare che lo Spirito Santo operava come "Dio ignoto" (cfr. Ac 17,23) anche prima della Pentecoste. Operava in modo particolare nell'antica Alleanza, illuminando e conducendo il popolo eletto sulla strada che portava la storia antica verso il Messia. Operava nei messaggi dei profeti e negli scritti di tutti gli autori ispirati. Opero soprattutto nell'incarnazione del Figlio, come testimoniano il Vangelo dell'annunciazione e la storia degli eventi successivi collegati alla venuta al mondo del Verbo eterno che aveva assunto la natura umana. Lo Spirito Santo opero nel Messia e intorno al Messia dal momento in cui Gesù diede inizio alla sua missione messianica in Israele, come risulta dai testi evangelici circa la teofania al momento del battesimo nel Giordano e le sue dichiarazioni nella sinagoga di Nazaret. Ma da quello stesso momento e lungo tutta la vita di Gesù si accentuava l'attesa e si rinnovavano le promesse di una futura, definitiva venuta dello Spirito Santo.

Giovanni Battista legava la missione del Messia a un nuovo battesimo "nello Spirito Santo". Gesù prometteva ai credenti in lui "fiumi di acqua viva": promessa riportata dal Vangelo di Giovanni, che la spiega così: "Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato" (Jn 7,39).

Il giorno di Pentecoste Cristo, essendo stato ormai glorificato dopo il compimento finale della sua missione, fece sgorgare dal suo seno i "fiumi di acqua viva" ed effuse lo Spirito per riempire di vita divina gli Apostoli e tutti i credenti.

Questi poterono così essere "battezzati in un solo Spirito" (cfr. 1Co 12,13). E fu l'inizio della crescita della Chiesa.


4. Come scrive il Concilio Vaticano II, "Cristo invio da parte del Padre lo Spirito Santo, perché compisse dal di dentro la sua opera di salvezza e stimolasse la Chiesa a svilupparsi. Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato. Ma fu nel giorno della Pentecoste che esso si diffuse sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, e la Chiesa appariva ufficialmente di fronte alla moltitudine ed ebbe inizio attraverso la predicazione, la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani, e finalmente fu prefigurata l'unione dei popoli nell'universalità della fede attraverso la Chiesa della nuova Alleanza, che in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell'amore intende e comprende, superando così la dispersione babelica" (AGD 4).

Il testo conciliare mette in rilievo in che cosa consiste l'azione dello Spirito Santo nella Chiesa, iniziando dal giorno della Pentecoste. Si tratta di un'azione salvifica, interiore, che nello stesso tempo si esprime all'esterno nel sorgere della comunità e istituzione di salvezza. Tale comunità - la comunità dei primi discepoli - è tutta pervasa dall'amore, che supera tutte le differenze e le divisioni di ordine terreno. Ne è segno l'evento pentecostale di una espressione di fede in Dio comprensibile a tutti, malgrado la diversità delle lingue. Ci attestano gli Atti degli Apostoli che la gente riunita intorno agli Apostoli, in quella prima manifestazione pubblica della Chiesa, diceva con meraviglia: "Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa" (Ac 2,7-8).


5. La Chiesa appena nata in quel modo nel giorno della Pentecoste, per opera dello Spirito Santo, si manifesta immediatamente al mondo. Non è una comunità chiusa, ma aperta - si direbbe spalancata - verso tutte le nazioni "fino agli estremi confini della terra" (Ac 1,8). Coloro che entrano in questa comunità, mediante il Battesimo, diventano in virtù dello Spirito Santo di verità testimoni della buona novella, pronti a trasmetterla agli altri. E' dunque una comunità dinamica, apostolica: la Chiesa "in stato di missione". Lo Spirito Santo stesso per primo "rende testimonianza" a Cristo (cfr. Jn 15,26), e questa testimonianza pervade l'anima e il cuore di coloro che partecipano alla Pentecoste, che diventano a loro volta testimoni e annunciatori. Le "lingue come di fuoco" (Ac 2,3) sopra la testa di ciascuno dei presenti costituiscono il segno esterno dell'entusiasmo acceso in loro dallo Spirito Santo. Questo entusiasmo si estende dagli Apostoli ai loro uditori, così come già il primo giorno dopo il discorso di Pietro "si unirono... circa tremila persone" (Ac 2,41).

6. Tutto il libro degli Atti degli Apostoli è una grande descrizione dell'azione dello Spirito Santo agli inizi della Chiesa, la quale - come leggiamo - "cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo" (Ac 9,31). Si sa che non mancavano le difficoltà interne e le persecuzioni, e che si ebbero i primi martiri. Ma gli Apostoli avevano la certezza che era lo Spirito Santo a guidarli. Questa loro consapevolezza si sarebbe in qualche modo formalizzata nella sentenza conclusiva del concilio di Gerusalemme, le cui risoluzioni iniziano con le parole: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi..." (Ac 15,28). La comunità attestava in tal modo la propria coscienza di muoversi sotto l'azione dello Spirito Santo.

(Il Papa ha poi ricordato l'entrata in vigore del nuovo Codice dei canoni delle Chiese orientali con queste parole:) Come è noto, ieri, festa in molte Chiese Orientali del patrocinio della Beata Vergine Maria, la "Theotokos", è entrato in vigore il nuovo Codice dei canoni delle Chiese Orientali, promulgato il 18 ottobre dell'anno scorso, durante il Sinodo dei Vescovi.

Auspico di cuore che questo Codice sia accolto nella sua globalità, come in ogni suo canone, con animo sereno e con la fiducia che la sua osservanza certamente non mancherà di attirare su tutte le Chiese Orientali quelle grazie celesti tanto necessarie per una sempre maggiore prosperità ed energia spirituali nell'impegno di testimonianza evangelica nel mondo.





Roma, Mercoledi 9 Ottobre 1991

La Chiesa e il mistero trinitario

1. Il Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen Gentium conclude la prima parte della sua esposizione sulla Chiesa con una frase di San Cipriano quanto mai sintetica e densa di mistero: "La Chiesa universale si presenta come "un popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"" (LG 4). Secondo il Concilio, dunque, la Chiesa è nella sua più intima essenza un mistero di fede, intimamente collegato con l'infinito mistero della Trinità. A questo mistero nel mistero dobbiamo ora dedicare le nostre considerazioni, dopo aver presentato, nelle precedenti catechesi, la Chiesa nell'insegnamento di Gesù e nell'opus paschale da lui compiuto con la Passione, Morte, Risurrezione, e coronato il giorno della Pentecoste con la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli. Secondo il magistero del Concilio Vaticano II, erede della tradizione, il mistero della Chiesa è radicato in Dio-Trinità e perciò ha come prima e fondamentale dimensione quella trinitaria, in quanto dalla sua origine alla sua conclusione storica e alla sua destinazione eterna la Chiesa ha consistenza e vita nella Trinità (cfr. San Cipriano, De oratione dominica, 23: PL 4,553).


2. Tale prospettiva trinitaria viene aperta sulla Chiesa da Gesù con le ultime parole dette agli Apostoli prima del suo definitivo ritorno al Padre: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). "Tutte le nazioni", invitate e chiamate ad unirsi in una sola fede, sono segnate dal mistero di Dio uno e trino. Tutte sono invitate e chiamate al battesimo che significa l'introduzione nel mistero della vita divina della Santissima Trinità, attraverso la Chiesa degli Apostoli e dei loro successori, cardine visibile della comunità dei credenti.


3. Tale prospettiva trinitaria, indicata da Cristo nell'inviare gli Apostoli a evangelizzare il mondo intero, trova la sua espressione nel saluto rivolto da Paolo alla comunità di Corinto: "La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi!" (2Co 13,13). E' il medesimo saluto che nella liturgia della Messa, rinnovata dopo il Concilio Vaticano II, il celebrante rivolge all'assemblea, come una volta faceva l'apostolo Paolo con i fedeli di Corinto. Esso esprime l'augurio che i cristiani diventino tutti partecipi dei doni attribuiti al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo: l'amore del Padre creatore, la grazia del Figlio redentore, l'unità nella comunione dello Spirito Santo vincolo d'amore della Trinità, della quale la Chiesa è fatta partecipe.


4. La stessa prospettiva trinitaria si trova ancora in un altro testo paolino di grande importanza dal punto di vista della missione della Chiesa: "Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti" (1Co 12,4-6). Senza dubbio l'unità della Chiesa rispecchia l'unità di Dio, ma nello stesso tempo attinge vitalità dalla Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che si rispecchia nella ricchezza della vita ecclesiale. L'unità è feconda di multiformi manifestazioni di vita. Su tutto il mistero della ricchissima unità della Chiesa si stende sovrano il mistero di Dio Uno e Trino.


5. Nella vita della Chiesa è possibile scoprire i riflessi dell'unità e della trinità divina. Nell'origine di questa vita si vede particolarmente l'amore del Padre, il quale ha l'iniziativa, come della creazione, così della redenzione, per la quale Egli raduna gli uomini come figli nel suo Figlio unigenito. perciò la vita della Chiesa è la vita di Cristo stesso, che vive in noi, dandoci la partecipazione alla propria figliolanza divina. E questa partecipazione viene operata dallo Spirito Santo, il quale fa si che, come Cristo e con Cristo, diciamo a Dio: "Abbà, Padre!" (Rm 8,15).


6. In questa invocazione trova una formulazione di origine divina - e trinitaria! - la nuova coscienza della partecipazione dell'uomo alla figliolanza del Figlio di Dio in forza dello Spirito Santo che dà la grazia. Lo stesso Spirito, con la grazia, attua la promessa di Cristo circa l'inabitazione di Dio-Trinità nei figli della divina adozione. Infatti, la promessa fatta da Gesù: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo da lui e prenderemo dimora presso di lui" (Jn 14,23), è illuminata nel Vangelo da una promessa precedente: "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti e io preghero il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre" (Jn 14,15-16). Un simile insegnamento ci viene dato da San Paolo, il quale dice ai cristiani che sono "tempio di Dio" e spiega questo stupendo privilegio dicendo: "Lo Spirito di Dio abita in voi" (1Co 3,16 cfr. Rm 8,9 1Co 6,19 2Co 6,16).

Ed ecco emergere da questi testi una grande verità: l'uomo-persona è, nella Chiesa, la dimora del Dio-Trinità, e tutta la Chiesa, composta di persone abitate dalla Trinità, è nel suo insieme la dimora, il tempio della Trinità.


7. In Dio-Trinità si trova anche la sorgente essenziale dell'unità della Chiesa.

Lo indica la preghiera "sacerdotale" di Cristo nel Cenacolo: "... perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me" (Jn 17,21-23). Ecco la sorgente, ed anche il modello per l'unità della Chiesa. Dice infatti Gesù: siano uno, "come noi". Ma l'attuazione di questa divina somiglianza avviene all'interno dell'unità della Trinità: "loro in noi". E in questa unità trinitaria permane la Chiesa, che vive della verità e della carità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E la sorgente di tutti gli sforzi miranti alla riunione dei cristiani nell'unità della Chiesa, ferita nella dimensione umana e storica dell'unità, è sempre in quella Trinità una e indivisibile. Alla base del vero ecumenismo c'è questa verità dell'unità ecclesiale che la preghiera sacerdotale di Cristo ci rivela come derivante dalla Trinità.


8. Anche la santità della Chiesa - e ogni santità nella Chiesa - ha la sua sorgente nella santità di Dio-Trinità. Il passaggio dalla santità trinitaria a quella ecclesiale avviene soprattutto nell'Incarnazione del Figlio di Dio, come traspare dalle parole dell'Annuncio a Maria: "Colui che nascerà sarà dunque santo" (Lc 1,35). Quel "santo" é Cristo, il Figlio consacrato con l'unzione dello Spirito Santo (cfr. Lc 4,18), il Figlio che con il suo sacrificio consacra se stesso per poter comunicare ai suoi discepoli la propria consacrazione e la propria santità: "Per loro consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità" (Jn 17,19). Glorificato dal Padre per mezzo di questa consacrazione (cfr. Jn 13,31 Jn 17,1-2), Cristo risorto comunica alla sua Chiesa lo Spirito Santo (cfr. Jn 20,22 Jn 7,39), che la rende santa (cfr. 1Co 6,11).


9. Voglio concludere col sottolineare che questa nostra Chiesa una e santa è chiamata ad essere ed è posta nel mondo come manifestazione di quell'amore che è Dio: "Dio è amore", scrive San Giovanni (1Jn 4,8). E se Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo, la vita infinita di conoscenza e d'amore delle divine Persone è la trascendente realtà della Trinità. Proprio questo "amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5,5).

La Chiesa - "un popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", come ci ha detto San Cipriano - è dunque il "sacramento" dell'amore trinitario. Proprio in questo consiste il suo profondissimo mistero.

(Il Papa ha coi proseguito:) Con tutto il cuore saluto tutti voi della Croazia! In questi giorni così tragici sono particolarmente vicino alle inermi popolazioni della vostra Patria e a tutte le vittime di una guerra assurda. Di fronte all'immane dramma che si compie agli occhi dell'Europa e del mondo intero, vi invito alla speranza cristiana e alla preghiera affinché cessi la violenza, si plachi l'odio ed il male possa essere vinto con il bene; affinché venga ristabilita la pace in Slovenia, in Croazia, in Bosnia Erzegovina, e tutti i popoli dell'intera area di Jugoslavia possano vivere nel mutuo rispetto ed in fraterna concordia.

Vi affido al Cuore materno della Madre di Dio che è la Regina della Pace, e che voi venerate come Regina dei Croati. Vi benedica tutti Dio onnipotente. Siano lodati Gesù e Maria!




Roma, Mercoledi 23 Ottobre 1991

Sul viaggio pastorale in Brasile

1. "Para onde vais?" (dove andate?). In questa domanda era racchiuso il filo conduttore del Congresso Eucaristico, che ha avuto luogo a Fortaleza nel 1980, quando ho avuto la gioia di visitare per la prima volta la Chiesa in terra brasiliana. Sebbene da quella visita sono passati già undici anni, occorre ritornare a quella domanda, dopo il viaggio pastorale di quest'anno in Brasile, che è durato dal 12 al 21 ottobre corrente. Desidero ringraziare per l'invito la Conferenza Episcopale del Brasile, come anche le Autorità civili: il Signor Presidente della Repubblica, il Signor Ministro degli Esteri e tutti coloro che, nel corso del pellegrinaggio del Papa, hanno mostrato espressioni di sincera ospitalità e di intensa collaborazione.

Desidero ringraziare, in modo particolare, i miei Fratelli nell'Episcopato, non soltanto per i vari incontri, ma anche per l'intero programma, il quale, nel suo insieme, è apparso come una risposta alla domanda fatta unidici anni fa: "para onde vais?" (dove andate?). I Pastori in terra brasiliana hanno mostrato la via sulla quale adesso la Chiesa sta camminando e sulla quale in modo decisivo vuole proseguire nell'adempimento della missione ricevuta da Cristo Redentore.


2. Questa missione si manifesta, in modo sintetico, nel filo conduttore del Congresso Eucaristico di quest'anno, che ha riunito tutta la Chiesa brasiliana nell'Arcidiocesi di Natal. Tale Arcidiocesi si è incaricata di organizzare quest'ultimo Congresso Eucaristico dopo quelli di Fortaleza (1980) e di Aparecida (1985). Il motto: "Eucaristia ed Evangelizzazione" ha costituito il punto di partenza a cui si sono ispirati ed hanno preso sviluppo i singoli temi della visita papale, trovando espressione soprattutto nelle omelie pronunciate durante la liturgia eucaristica (oppure durante la liturgia della parola) nelle rispettive tappe del viaggio.

Anche un solo sguardo ai temi ci permette di vedere i problemi piu importanti nel lavoro della Chiesa in terra brasiliana. Li vorrei ricordare nell'ordine in cui sono stati inseriti nella geografia del viaggio.

Così, dunque, a Sao Luis do Maranhao (Nord-Est) il tema dell'evangelizzazione si è concentrato su problemi di particolare urgenza: "terra - giustizia e riforma agraria". Da Nord-Est il cammino ci ha condotti al centro del Paese e, prima di tutto, alla Capitale, Brasilia, dove il tema dell'omelia riguardava il bisogno dell'educazione alla fede per una nuova societa". Durante la visita a Goiania è stato sottolineato un tema quasi simile: La Chiesa come comunità e partecipazione.


3. Il Brasile è un gigantesco Paese, uno dei più grandi sulla terra. La Chiesa qui vive e svolge la sua missione nelle duecentodieci Diocesi. Il programma "locale" del viaggio è stato pensato come complementare alla precedente visita del 1980.

Per la prima volta è stata inclusa nel programma la parte occidentale del Brasile, lo Stato del Mato Grosso, con le due Arcidiocesi di Cuiabà (a Nord, nelle vicinanze della zona amazzonica) e di Campo Grande (a Sud). Il tema delle omelie è stato: "Evangelizzazione: migranti ed ecologia" (a Cuiabà) e "La famiglia e vocazioni" (a Campo Grande). Lo Stato del Mato Grosso è la zona delle nuove migrazioni, principalmente di quelle interne, e della grande differenziazione etnica.

La Chiesa rimane per tutti i diversi gruppi un luogo d'incontro. Essa è luogo d'incontro anche e, direi, in modo notevole, per i primi abitanti di questo territorio, per gli Indios del Brasile, i quali stanno difendendo i loro diritti etnici e, prima di tutto, il diritto alla terra.

Lo svolgimento della visita, poi, ha condotto allo Stato di Santa Catarina, a Sud del Paese. Nella città di Florianopolis il tema dell'omelia è stato il seguente: "Vocazione cristiana alla santita", esso è stato svolto nel contesto della Beatificazione di Madre Paulina, fondatrice della Congregazione delle Piccole Sorelle dell'lmmacolata Concezione.


4. Da Florianopolis il pellegrinaggio si è diretto, negli ultimi due giorni, verso il Nord del Paese, lungo la Costa dell'Oceano Atlantico. L'omelia del sabato, pronunciata nell'Arcidiocesi di Vitoria (nello Stato di Espirito Santo), ha avuto come tema principale: "Maria nella vita della Chiesa". La Santa Messa è terminata con l'Atto di Affidamento alla Vergine Santissima.

Nella zona periferica della città di Vitoria è ritornato di nuovo il tema sociale, in occasione della visita alla "Favela do Lixao de Sao Pedro".

L'attenzione ivi portata sulla contrapposizione tra civiltà dell'amore e civiltà dell'egoismo, ha fatto registrare uno dei punti piu qualificanti del programma di evangelizzazione. Tale argomento è ritornato in occasione della visita all'Arcidiocesi di Maceio (nello Stato di Alagoas). La Chiesa, andando incontro alle necessità dei più poveri, affronta i problemi chiave del "lavoro e della casa", che in questa regione sono sentiti in modo particolarmente doloroso.

Allo stesso gruppo dei temi va aggiunta la catechesi pronunciata a Sao Salvador da Bahia durante l'incontro con l'infanzia. Anche i bambini, infatti, sono, purtroppo, vittime di tante ingiustizie che hanno il loro riflesso nella disordinata vita familiare e nella mancanza di una adeguata cura per la famiglia.

Sull'intera vita brasiliana pesa la disuguale distribuzione dei beni: vi è un abisso tra un piccolo gruppo di uomini molto ricchi e la stragrande maggioranza dei "diseredati". I bambini, che sono le vittime di questa ingiustizia, devono diventare un particolare obbiettivo nell'impegno per l'evangelizzazione della società.


5. Sao Salvador da Bahia, antica capitale del Brasile e sede primaziale della Chiesa in questo Paese, è stata l'ultima tappa di questo pellegrinaggio. In tale città, in cui tante splendide chiese testimoniano il passato della cultura brasiliana, occorreva toccare il tema dell'ormai vicino cinquecentesimo anniversario dell'evangelizzazione dell'America (1992).

Il tema dell'omelia: "Evangelizzazione e missione ad gentes" non soltanto ci ha ricordato il passato, ma ha anche indicato il processo della maturazione della Chiesa nel "Continente della Speranza", per quanto riguarda il dovere missionario. La Chiesa, infatti, è sempre e dappertutto un grande agente delle missioni. Il programma degli incontri previsti nell'itinerario della visita in Brasile era stato pensato in modo che, nell'ambito dei due poli: "missione e evangelizzazione", trovassero il loro posto i singoli agenti delle missioni si è incominciato con l'incontro con i Vescovi e, poi con i sacerdoti (a Natal) e le famiglie religiose, maschili e femminili (a Florianopolis), concentrandosi poi sul problema delle vocazioni e dei seminari (a Brasilia). Al tempo stesso le singole tappe offrivano l'opportunità per gli incontri con il laicato (a Campo Grande), con i giovani (a Cuiabà) e con il mondo della cultura (a Sao Salvador da Bahia).

Attraverso questi circoli passa la corrente dell'evangelizzazione che mira a trasformare "il mondo" brasiliano secondo lo spirito del Vangelo di Cristo.

L'evangelizzazione si realizza anche mediante il dialogo ecumenico questo ha trovato posto nel programma della visita in Brasile nella città di Florianopolis. C'è stato anche l'incontro con la comunità ebraica (a Brasilia).


6. così, dunque, la domanda "para onde vais?" (dove andate?), indirizzata al Brasile - alla società ed alla Chiesa - ha trovato, nel quadro di questa visita papale, una risposta meditata e sistematica.

Merita un rilievo particolare il fatto chce per la prima volta, in terra brasiliana è stata celebrata una Beatificazione.

La Beata Madre Paulina e il primo segno dell'evangelizzazione nella sua dimensione definitiva è più piena. Questa è la dimensione della vocazione alla santità. Mediante questa dimensione la Chiesa, in ogni Paese e Nazione, rivela la sua maturità evangelica il primo beato del Brasile è stato il missionario Jose de Anchieta (gesuita del sedicesimo secolo), che da Tenerife, dove era nato, arrivo nel nuovo Continente. La Beata Madre Paulina è maturata alla santità crescendo sul solo spirituale della Chiesa brasiliana. E' la prima Beata del Brasile! Non manca pero la speranza che questo grande è etnicamente differenziato Popolo di Dio in terra brasiliana nasconda in sè ancora molti altri frutti di matura santità, i quali si renderanno sempre più manifesti in futuro. In questo modo si compiranno le parole di Cristo agli Apostoli: "Andate e portate frutto e il vostro frutto rimanga" (cfr. Jn 15,16).

A questa meta, infatti, porta sempre e dappertutto la via dell'Eucaristia e dell'evangelizzazione.

(Il Papa si è poi rivolto ai pellegrini croati con queste parole:) Un cordiale, paterno saluto rivolgo a tutti voi, cari Croati! Anche oggi rinnovo il mio invito alla Comunità internazionale affinchè continui il suo impegno per fermare la guerra contro la vostra cara Patria, la Croazia, e per assicurare a tutti i popoli dei Balcani la vita in una pace stabile. La sanguinosa guerra che è in atto in Croazia, e le tensioni molto serie in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo, interpellano anche i cristiani, i quali non possono sottrarsi al grave compito di contribuire fattivamente alla soluzione di questa crisi e ad alleviare le tragiche conseguenze.

Dio benedica tutti coloro che si impegnano per la pace, e dia la consolazione agli affitti ed esiliati.

Siano lodati Gesù e Maria! (Il Papa ha quindi invitato i presenti a pregare per la Cambogia:) Vi invito ora a rivolgere una preghiera al Signore per la Cambogia, perchè oggi. dopo 12 anni di tragiche lotte fratricide, si firmano a Parigi gli Accordi di Pace, che dovrebbero segnare l'inizio di un nuovo periodo della storia di quel Paese.

Formulo l'auspicio che i responsabili sappiano essere fedeli agli impegni solennemente assunti e che, con l'aiuto della comunità internazionale, che li ha accompagnati in questo lungo e faticoso cammino di pace, affrontino con dedizione e coraggio la ricostruzione del loro amato Paese, superando nel dialogo e nella reciproca fiducia le molteplici difficoltà.

Mi è pure gradito inviare un fervido saluto a tutti i cambogiani, specialmente ai profughi, che, provati da tante sofferenze, possono guardare al futuro con una più sicura speranza.

Un saluto particolare va alla piccola e diletta comunità cattolica che, con l'aiuto del Signore, ha saputo superare le difficili prove e si prepara ad offrire il proprio generoso contributo per la rinascita del Paese.

Affidiamo queste preghiere e questi voti a Maria Regina della Pace.





Roma, Mercoledi 30 Ottobre 1991

Il popolo di Dio nell'Antico Testamento

1. Secondo il Concilio Vaticano II, che riporta il testo di San Cipriano sul quale abbiamo riflettuto nella precedente catechesi, "la Chiesa universale si presenta come "un popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"" (LG 4 cfr. San Cipriano, De oratione dominica, 23: PL 4,553). Come abbiamo spiegato, con quelle parole il Concilio insegna che la Chiesa è soprattutto un mistero radicato in Dio-Trinità. Un mistero la cui prima e fondamentale dimensione è quella trinitaria. E' in relazione alla Trinità, eterna sorgente da cui scaturisce, che la Chiesa "si presenta come un popolo" (LG 4). Essa dunque è il popolo di Dio. Di Dio Uno e Trino. A questo tema vogliamo ora dedicare la presente e le successive catechesi, sempre seguendo come filo conduttore l'insegnamento del Concilio, tutto ispirato alla Sacra Scrittura.


2. Il Concilio appunto dichiara che "Dio non volle santificare e salvare gli uomini individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse" (LG 9).

Questo disegno di Dio comincio a manifestarsi sin dalla storia di Abramo, con le prime parole rivoltegli da Dio: "Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese... verso il paese che io ti indichero. Faro di te un gran popolo e ti benediro" (Gn 12,1-2). Questa promessa venne poi confermata con una alleanza (Gn 15,18 Gn 17,1-14) e proclamata solennemente dopo il sacrificio d'Isacco. Abramo, seguendo la richiesta di Dio, era pronto a sacrificargli l'unico figlio che il Signore aveva dato a lui e alla sua sposa Sarah nella loro vecchiaia. Ma ciò che Dio intendeva era solo mettere alla prova la sua fede. Isacco quindi, in questo sacrificio, non subi la morte, ma rimase vivo. Abramo aveva pero acconsentito al sacrificio nel suo cuore e questo sacrificio del cuore, prova di una magnifica fede, gli ottenne la promessa di una discendenza innumerevole: "Giuro per me stesso, gli disse Dio, perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benediro con ogni benedizione e rendero molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare" (Gn 22,16-17).


3. L'attuazione di questa promessa doveva comprendere diverse tappe. Abramo, infatti, era destinato a diventare "padre di tutti i credenti" (cfr. Gn 15,6 Ga 3,6-7 Rm 4,16-17). La prima tappa si realizzo in Egitto, dove "i figli d'Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno" (Ex 1,7). Ormai la stirpe di Abramo era diventata "il popolo dei figli d'Israele" (Ex 1,9). Si trovava pero in una situazione umiliante di schiavitù.

Fedele alla sua alleanza con Abramo, Dio chiamo Mosè e gli disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido... Sono sceso per liberarlo... Ora va'!... Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo..." (Ex 3,7-10).

Così Mosè fu chiamato per condurre quel popolo fuori dall'Egitto. Mosè pero era solo l'esecutore del piano di Dio, lo strumento della sua potenza: perché secondo la Bibbia è Dio stesso a condurre Israele fuori dalla schiavitù d'Egitto. "Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio", leggiamo nel libro del profeta Osea (11,1). Israele dunque è il popolo di predilezione divina: "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri" (Dt 7,7-8). Del fatto che Israele è il Popolo di Dio decidono non le sue qualità umane, ma soltanto l'iniziativa di Dio.


4. L'iniziativa divina, quella scelta sovrana del Signore, assume forma di alleanza. così è avvenuto nei riguardi di Abramo. così avviene dopo la liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana. Il mediatore di quell'alleanza ai piedi del monte Sinai è Mosè: "Mosè ando a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: "Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo". Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzo di buon mattino e costrui un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele". Poi furono offerti sacrifici e Mosè verso sull'altare una parte del sangue delle vittime. "Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo", ricevendo ancora una volta dai presenti la promessa dell'obbedienza alle parole di Dio. Infine con l'altra parte del sangue asperse il popolo (cfr. Ex 24,3-8).


5. Nel libro del Deuteronomio viene spiegato il significato di quell'evento: "Tu hai sentito oggi il Signore dichiarare che Egli sarà il tuo Dio, ma solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e obbedirai alla sua voce. Il Signore ti ha fatto oggi dichiarare che tu sarai per Lui un popolo particolare" (Dt 26,17-18). L'alleanza con Dio è per Israele una particolare "elevazione". In questo modo Israele diventa "un popolo consacrato al Signore suo Dio" (cfr. Dt 26,19). Ciò significa una particolare appartenenza a Dio. Di più: si tratta di un'appartenenza reciproca: "Allora io saro il vostro Dio e voi sarete il mio popolo" (Jr 7,23). Questa è la disposizione divina. Dio impegna se stesso nell'alleanza. Tutte le infedeltà da parte del popolo, nelle varie tappe della sua storia, non intaccano la fedeltà all'alleanza da parte di Dio. Si può dire semmai che esse aprono in certo senso la strada alla nuova alleanza, preannunciata nel libro del profeta Geremia: "L'alleanza che io concludero con la casa d'Israele dopo quei giorni... Porro la mia legge nel loro animo, la scrivero sul loro cuore" (Jr 31,33).


6. In virtù dell'iniziativa divina nell'alleanza, un popolo diventa il Popolo di Dio, e come tale è santo, cioè consacrato a Dio-Signore: "Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio" (Dt 7,6 cfr. Dt 26,19). Nel senso di questa consacrazione vengono chiarite anche le parole dell'Esodo: "Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Ex 19,6). Anche se nel corso della sua storia quel popolo commette molti peccati, non cessa di essere Popolo di Dio. Per questo, richiamandosi alla fedeltà del Signore all'alleanza da lui stesso stabilita, Mosè si volge a lui con la supplica commovente: "Non distruggere il tuo popolo, la tua eredità", come leggiamo nel Deuteronomio (9,26).


7. A sua volta Dio non cessa di rivolgersi al popolo eletto con la sua parola. Gli parla molte volte per mezzo dei profeti. Il principale comandamento rimane sempre quello dell'amore di Dio sopra ogni cosa: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,5). A questo comandamento è collegato il comandamento dell'amore per il prossimo: "Io sono il Signore. Non opprimerai il tuo prossimo... Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso" (Lv 19,13 Lv 19,18).


8. Un altro elemento emerge dai testi biblici: il Dio che stringe l'alleanza con Israele vuole essere presente in mezzo al suo popolo: presente in un modo particolare. Tale presenza si esprime durante la peregrinazione attraverso il deserto mediante la tenda del convegno. In seguito si esprimerà mediante il tempio, che il re Salomone costruirà a Gerusalemme.

Riguardo alla tenda del convegno, leggiamo nell'Esodo: "Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda, tutto il popolo si alzava in piedi, stando ciascuno all'ingresso della sua tenda: guardavano passare Mosè, finché fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all'ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube che stava all'ingresso, e tutti si alzavano e si prostravano, ciascuno all'ingresso della propria tenda. così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro" (Ex 33,8-11).

Il dono di una tale presenza era un segno particolare di elezione divina, che si manifestava in forme simboliche e quasi in presagi di una realtà futura: l'alleanza di Dio col suo nuovo popolo nella Chiesa.





Roma, Mercoledi 6 Novembre 1991

La Chiesa, popolo di Dio

1. Possiamo cominciare anche questa catechesi, secondo il programma e il metodo che ci siamo proposti, con la lettura di un passo della costituzione conciliare Lumen gentium, che suona: "Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse... Stabili con essi un'alleanza, e lo formo lentamente manifestando nella sua storia Se stesso e i suoi disegni e santificandolo per Sé" (LG 9). Oggetto della precedente catechesi era questo Popolo di Dio dell'Antica Alleanza. Ma il Concilio aggiunge subito che "tutto questo avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da compiersi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere fatta per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo" (LG 9). Tutto il passo citato dalla costituzione conciliare sulla Chiesa si trova all'inizio del capitolo II, intitolato "Il Popolo di Dio". Secondo il Concilio, infatti, la Chiesa è il popolo di Dio della Nuova Alleanza. E' il pensiero consegnato già da San Pietro alle prime comunità cristiane: "Voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete Popolo di Dio" (1P 2,10).


2. Nella sua realtà storica e nel suo mistero teologico la Chiesa emerge dal Popolo di Dio dell'Antica Alleanza. Anche se si designa con il nome qahal (=assemblea), tuttavia nel Nuovo Testamento risulta chiaramente che essa è Popolo di Dio costituito in modo nuovo per opera di Cristo e in virtù dello Spirito Santo. San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi, scrive: "Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abitero in mezzo a loro e con loro camminero e saro il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo" (2Co 6,16). Il popolo di Dio viene costituito in modo nuovo, perché ne fanno parte tutti i credenti in Cristo, senza "nessuna discriminazione" tra Giudei e non-giudei (cfr.

Ac 15,9). Lo dice chiaramente, negli Atti degli Apostoli, San Pietro, il quale riferisce in proposito "come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome" (Ac 15,14). E San Giacomo dichiara che "con questo si accordano le parole dei profeti" (Ac 15,15). Un'altra conferma di questa prospettiva viene data da San Paolo, durante il suo primo soggiorno nella città pagana di Corinto, quando ode queste parole di Cristo: "Non aver paura, ma continua a parlare... perché io ho un popolo numeroso in questa città" (Ac 18,9-10). Infine nell'Apocalisse si proclama: "Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro"" (Ap 21,3). Da tutto ciò traspare la consapevolezza che fin da principio vi è nella Chiesa circa la continuità e nello stesso tempo la novità della propria realtà di Popolo di Dio.


3. Già nell'Antico Testamento Israele dovette ad una scelta ed iniziativa divina l'essere il Popolo di Dio. Era pero limitato ad una sola nazione. Il nuovo Popolo di Dio supera questo confine. Comprende in sé uomini di tutte le nazioni, lingue e razze. Ha carattere universale, cioè cattolico. Come dice il Concilio, "Cristo istitui questo nuovo patto, cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1Co 11,25), chiamando gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo Popolo di Dio" (LG 9). Il fondamento di questa novità - l'universalismo - è la redenzione operata da Cristo. Egli infatti, "per santificare il popolo con il proprio sangue, pati fuori della porta della città" (He 13,12). "perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo" (He 2,17).


4. così si è formato il Popolo della Nuova Alleanza. Tale alleanza era stata annunciata dai profeti dell'Antico Testamento, in particolare da Geremia e da Ezechiele. Leggiamo in Geremia: "Ecco, verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d'Israele (e con la casa di Giuda) io concludero una alleanza nuova" (Jr 31,31). "Questa sarà l'alleanza che io concludero con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porro la mia legge nel loro animo, la scrivero sul loro cuore. Allora io saro il loro Dio ed essi il mio popolo" (Jr 31,33). Il profeta Ezechiele lascia trasparire ancor più la prospettiva di una effusione dello Spirito Santo, nella quale la nuova alleanza troverà il suo compimento: "Vi daro un cuore nuovo (dice il Signore), mettero dentro di voi uno spirito nuovo, togliero da voi il cuore di pietra e vi daro un cuore di carne. Porro il mio spirito dentro di voi e vi faro vivere secondo i miei precetti e vi faro osservare e mettere in pratica le mie leggi" (Ez 36,26-27).


5. Il Concilio attinge soprattutto alla prima lettera di Pietro il suo insegnamento sul popolo di Dio della Nuova Alleanza, erede di quello dell'Antica: "I credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non da seme corruttibile, ma da uno incorruttibile, per la gloria di Dio vivo (cfr. 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Jn 3,5-6), costituiscono "una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo tratto in salvo... Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è Popolo di Dio"" (LG 9). Come si vede, questa dottrina conciliare sottolinea, con San Pietro, la continuità del Popolo di Dio con quello dell'Antica Alleanza, ma fa anche risaltare la novità in un certo senso assoluta del nuovo popolo, istituito in virtù della Redenzione di Cristo, tratto in salvo (=acquistato) con il sangue dell'Agnello.


6. Il Concilio descrive questa novità del "popolo messianico", che "ha per capo Cristo "dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra purificazione" (Rm 4,25)... Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Jn 13,34). E finalmente, ha per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da Lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4), e "anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio" (Rm 8,21)" (LG 9).


7. E' la descrizione della Chiesa come Popolo di Dio della Nuova Alleanza (cfr. LG 9), nucleo centrale della nuova umanità, chiamata nella sua interezza a far parte del nuovo popolo. Aggiunge infatti il Concilio che "il popolo messianico, pur non comprendendo in atto tutti gli uomini, e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l'umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da Lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo" (LG 9).

A questo tema fondamentale e affascinante dedicheremo la prossima catechesi.




Mercoledì, 13 novembre 1991

13111
Catechesi 79-2005 10791