Catechesi 79-2005 15492

Mercoledì, 15 aprile 1992

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Carissimi fratelli e sorelle,

Siamo entrati nella Settimana Santa. Nei prossimi giorni, guidati dalla Liturgia della Chiesa, rivivremo i misteri della nostra salvezza.

Il Triduo pasquale costituisce il vertice dell’anno liturgico. In esso ricordiamo con animo commosso e grato che Cristo, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ci ha ridonato la vita.

Apprestiamoci a vivere con intensità le prossime celebrazioni, ben sapendo che, se partecipiamo ora alle sofferenze di Cristo, potremo un giorno rallegrarci ed esultare nella rivelazione della sua gloria (cf.
1P 4,13).

Proseguiamo ora la nostra catechesi sulla Chiesa, comunità sacerdotale e sacramentale.

1. Come dice il Concilio Vaticano II, “l’indole sacra e organica della comunità sacerdotale viene attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù” (LG 11). Nell’odierna catechesi vogliamo scoprire il riflesso di questa verità nel sacramento della riconciliazione, che tradizionalmente viene chiamato sacramento della penitenza. In esso si ha un reale esercizio del “sacerdozio universale”, comune a tutti i battezzati, perché è compito fondamentale del sacerdozio eliminare l’ostacolo del peccato che impedisce la relazione vivificante con Dio. Orbene, questo sacramento è stato istituito per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo e in esso i battezzati svolgono un ruolo attivo. Essi non si limitano a ricevere un perdono rituale e formale, come soggetti passivi. Al contrario, con l’aiuto della grazia, prendono l’iniziativa di lottare contro il peccato, confessando le loro colpe e chiedendone il perdono. Essi sanno che il sacramento implica da parte loro un atto di conversione. E con questo intendimento partecipano attivamente e svolgono un loro ruolo nel sacramento, come risulta dallo stesso rito.

2. Bisogna riconoscere che nei tempi recenti si è manifestata in molti luoghi una crisi della frequenza dei fedeli al sacramento della penitenza. Le ragioni, che toccano le stesse condizioni spirituali e socioculturali di larghi strati dell’umanità nel nostro tempo, possono riassumersi in due. Da una parte, il senso del peccato si è indebolito nella coscienza anche di un certo numero di fedeli, che, sotto l’influsso del clima di rivendicazione di una libertà e indipendenza totale dell’uomo, vigente nel mondo odierno, provano difficoltà a riconoscere la realtà e la gravità del peccato e la propria colpevolezza persino dinanzi a Dio. Dall’altra, non mancano i fedeli che non vedono la necessità e utilità di ricorrere al sacramento, e preferiscono chiedere più direttamente a Dio il perdono: in questo caso provano difficoltà ad ammettere una mediazione della Chiesa nella riconciliazione con Dio.

3. A queste due difficoltà risponde brevemente il Concilio, che considera il peccato nel suo duplice aspetto di offesa a Dio e di ferita alla Chiesa. Leggiamo nella Lumen gentium: “Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a Lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato, e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera” (LG 11). Le parole del Concilio, sintetiche, meditate e illuminanti, offrono vari spunti importanti per la nostra catechesi.

4. Anzitutto il Concilio ricorda che carattere essenziale del peccato è quello di offesa a Dio. Fatto enorme, questo, che include l’atto perverso della creatura che scientemente e volontariamente si oppone alla volontà del suo creatore e signore, violando la legge del bene ed entrando per libera scelta sotto il giogo del male. È un atto di lesa maestà divina, dinanzi al quale San Tommaso d’Aquino non esita a dire che “il peccato commesso contro Dio ha una certa infinità, in virtù dell’infinità della maestà divina” (Summa theologiae, III 1,2 ad 2). Occorre dire che è anche un atto di lesa carità divina, in quanto infrazione della legge dell’amicizia e alleanza che Dio ha stabilito per il suo popolo e per ogni uomo nel sangue di Cristo: e dunque atto di infedeltà e in pratica di rifiuto del suo amore. Il peccato, perciò, non è un semplice errore umano, e non comporta soltanto un danneggiamento dell’uomo: è un’offesa fatta a Dio, in quanto il peccatore trasgredisce la sua legge di Creatore e Signore, e ferisce il suo amore di Padre. Non si può considerare il peccato esclusivamente dal punto di vista delle sue conseguenze psicologiche: il peccato trae il suo significato dalla relazione dell’uomo con Dio.

5. È Gesù che - specialmente nella parabola del figlio prodigo - fa capire che il peccato è offesa all’amore del Padre, col descrivere il disprezzo oltraggioso di un figlio verso l’autorità e la casa di suo padre. Sono ben tristi le condizioni di vita a cui si riduce il figlio: esse rispecchiano la situazione di Adamo e dei suoi discendenti dopo il primo peccato. Ma il grande dono che Gesù ci fa con la sua parabola è la rivelazione rassicurante e confortante dell’amore misericordioso di un Padre che rimane con le braccia aperte, in attesa che il figlio prodigo ritorni, per affrettarsi a stringerselo al petto, a perdonarlo, cancellando tutte le conseguenze del peccato e celebrando per lui la festa della nuova vita (cf. Lc 15,11-32). Quanta speranza ha acceso nei cuori, quanti ritorni a Dio ha facilitato nei secoli cristiani la lettura di questa parabola, riportata da Luca, che giustamente è stato definito come lo “scrivano della mitezza di Cristo” (“scriba mansuetudinis Christi”)! Il sacramento della penitenza appartiene alla rivelazione che Gesù ci ha fatto dell’amore e della bontà paterna di Dio.

6. Il Concilio ci rammenta che il peccato è anche una ferita inflitta alla Chiesa. Infatti, ogni peccato danneggia la santità della comunità ecclesiale. Siccome tutti i fedeli sono solidali nella comunità cristiana, non c’è mai un peccato che non abbia un effetto su tutta la comunità. Se è vero che il bene fatto da uno procura un beneficio e un aiuto a tutti, purtroppo lo è altrettanto che il male commesso da uno intralcia la perfezione a cui tutti tendono. Se ogni anima che si eleva solleva il mondo intero, come dice la Beata Elisabetta Leseur, è anche vero che ogni atto di tradimento dell’amore divino appesantisce la condizione umana e impoverisce la Chiesa. La riconciliazione con Dio è anche riconciliazione con la Chiesa, e in certo senso con tutto il creato, la cui armonia è violata dal peccato. La Chiesa è la mediatrice di questa riconciliazione. È un ruolo assegnatole dal suo stesso Fondatore, che le ha conferito la missione e il potere di “rimettere i peccati”. Ogni riconciliazione con Dio avviene dunque in relazione esplicita o implicita, consapevole o inconsapevole alla Chiesa. Come scrive San Tommaso, “non ci può essere salvezza senza l’unità del Corpo mistico: nessuno può salvarsi senza la Chiesa, come nel diluvio nessuno si salvò fuori dall’arca di Noè, simbolo della Chiesa, come insegna San Pietro (1P 3,20-21)” (Summa theologiae, III 73,3; cf. Suppl. III, P., q. 17, a. 1). Senza dubbio il potere di perdonare è di Dio e la remissione dei peccati è opera dello Spirito Santo: tuttavia il perdono proviene dall’applicazione al peccatore della Redenzione compiuta sulla Croce da Cristo (cf. Ep 1,7 Col 1,14 Col 1,20), che ha affidato alla sua Chiesa la missione e il ministero di portare in suo nome la salvezza a tutto il mondo (cf. III 84,1). Il perdono viene dunque chiesto a Dio, e concesso da Dio, ma non indipendentemente dalla Chiesa fondata da Gesù Cristo per la salvezza di tutti.

7. Sappiamo che il Cristo risorto, per comunicare agli uomini i frutti della sua passione e morte, ha conferito agli Apostoli il potere di rimettere i peccati: “A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a chi non li rimetterete, non saranno rimessi” (Jn 20,23). Come eredi della missione e del potere degli Apostoli, i presbiteri, nella Chiesa, rimettono i peccati in nome di Cristo. Ma si può dire che nel sacramento della riconciliazione il ministero specifico dei sacerdoti non esclude, ma comporta l’esercizio del “sacerdozio comune” dei fedeli, i quali confessano i loro peccati e chiedono il perdono sotto l’influsso dello Spirito Santo che li converte intimamente con la grazia del Cristo Redentore. San Tommaso, nell’affermare questo ruolo dei fedeli, cita le famose parole di Sant’Agostino: “Chi ha creato te senza di te, non ti giustificherà senza di te” (S. Agostino, Super Ioannem, serm. 169, c. 11; S. Tommaso, Summa theologiae, III 84,5 III 84,7). Il ruolo attivo del cristiano nel sacramento della Penitenza consiste nel riconoscere le proprie colpe con una “confessione” che, salvo casi eccezionali, è fatta individualmente al sacerdote; con l’esprimere il proprio pentimento per l’offesa fatta a Dio: “contrizione”; col sottoporsi umilmente al sacerdozio istituzionale della Chiesa, per ricevere il “segno efficace” del divino perdono; con l’offrire la “soddisfazione” imposta dal sacerdote come segno di partecipazione personale al sacrificio riparatore di Cristo che si è offerto al Padre come ostia per le nostre colpe e, infine, col rendere grazie per il perdono ottenuto.

8. È bene ricordare che tutto quanto abbiamo detto vale per il peccato che rompe l’amicizia con Dio e priva della “vita eterna”: e che per questo si chiama “mortale”. Il ricorso al sacramento è necessario quando è stato commesso anche un solo peccato mortale (cf. Concilio di Trento, Denz.-S. DS 1707). Ma il cristiano che crede nell’efficacia del perdono sacramentale ricorre al sacramento, anche fuori del caso di necessità, con una certa frequenza, e trova in esso la via di una crescente delicatezza di coscienza e di una sempre più profonda purificazione, una fonte di pace, un aiuto nella resistenza alle tentazioni e nello sforzo verso una vita sempre più rispondente alle esigenze della legge e dell’amore di Dio.

9. La Chiesa è accanto al cristiano, come comunità che “coopera - come dice il Concilio - alla conversione con la carità, l’esempio e la preghiera” (LG 11). Egli non è mai lasciato solo, nemmeno nello stato di peccato: fa sempre parte della “comunità sacerdotale”, che lo sostiene con la solidarietà della carità, della fraternità e della preghiera per ottenergli la reintegrazione nell’amicizia di Dio e nella compagnia dei “Santi”. La Chiesa, comunità dei Santi, nel sacramento della Penitenza si manifesta e opera come una comunità sacerdotale di Misericordia e di perdono.

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di espressione spagnola

Ai pellegrini polacchi

Ai pellegrini croati

Cari Croati, vi saluto tutti molto cordialmente! Domani avrà inizio il Triduo Pasquale della Passione e della Risurrezione del Signore, “culmine di tutto l’Anno Liturgico” e anche tempo di una speciale vicinanza salvifica di Dio agli uomini. La gravissima situazione nella vostra Patria non turbi la spirituale gioia pasquale e non oscuri la speranza che vi viene dalla fede, affinché dopo le sofferenze del momento attuale possa instaurarsi la gioia di vera pace delle intere popolazioni sofferenti. Prego ardentemente il Risorto, vincitore del male, affinché doni la sua pace a tutti gli abitanti della cara Croazia. Vi accompagni sempre l’intercessione e la protezione della Madre di Dio, Maria, la Regina della Pace, che voi chiamate anche la Regina dei Croati. Sia lodato Gesù e Maria!

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Mi rivolgo ora a tutti i pellegrini di lingua italiana che prendono parte a questa Udienza e che sono venuti a Roma per i riti della Settimana Santa. Saluto, in particolare, i numerosi ragazzi, ragazze e giovani, gli ammalati e le coppie di Sposi novelli.

Carissimi, è per me di grande conforto la vostra presenza durante la grande Settimana che ricorda gli avvenimenti fondamentali della nostra redenzione.

Esorto voi, giovani, mentre porto ancor vivi nel cuore i volti degli innumerevoli vostri coetanei da me incontrati nella recente Giornata Mondiale della Gioventù, a vivere nell’intensità e nella gioia il dinamismo dirompente della fede in Cristo morto e risorto, unica sorgente e speranza per la costruzione di un mondo nuovo. Esprimo un saluto agli Alunni della Scuola Media Statale di Andalo (Trento), ai quali auguro che la loro visita a Roma sia ricca di stimoli per il progresso della loro fede e della loro cultura.

A voi, cari ammalati, chiamati a condividere il dramma del Calvario, ricordo che l’offerta quotidiana della preghiera e della sofferenza è garanzia per giungere al gaudio certo della Pasqua di risurrezione.

E voi, sposi novelli, portate nel vostro nuovo focolare la “novità di vita” del sacramento che avete da poco ricevuto, radicando la vostra fede nella testimonianza convinta dell’amore cristiano.

A tutti la mia Benedizione.

Iraq: mettere fine alla triste situazione di sofferenza

Nei giorni scorsi si è recata in Iraq una Delegazione Pontificia, guidata da S.E. Mons. Alois Wagner, Vice Presidente del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, con lo scopo di partecipare ai tanto amati fratelli e sorelle iracheni l’espressione della mia solidarietà e del mio affetto.

Le popolazioni dell’Iraq e, in particolare, quelle comunità cristiane, hanno potuto esprimere la loro viva gratitudine per tutti coloro, persone e istituzioni, che stanno generosamente prodigandosi per alleviare le loro sofferenze, ma hanno anche implorato che sia messo fine al più presto alle condizioni che ne sono causa.

In questa Settimana Santa, che ci ricorda la Pasqua del Signore, noi chiediamo a Cristo di illuminare tutti i responsabili della vita internazionale, affinché adottino appropriate misure per mettere realmente fine alla triste situazione, in cui si dibatte il popolo iracheno.


Mercoledì, 22 aprile 1992

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1. In questa settimana di Pasqua celebriamo nella gioia il mistero della risurrezione di Cristo. In esso la vicenda del Figlio di Dio, incarnato in mezzo all’umanità, raggiunge il suo culmine. Il trionfo riportato dal Salvatore sulla morte è l’“evento” per eccellenza della rivelazione. Per questo, la festa di Pasqua è la più grande dell’anno liturgico. La risurrezione del Signore dà alla religione cristiana il caratteristico clima di gioia, che le è proprio. Gioia traboccante come quella delle donne e dei discepoli davanti al loro Maestro nuovamente vivo. È una gioia permanente, perché il Cristo risorto non può più morire, e gli effetti della sua risurrezione ormai non cesseranno più di manifestarsi. La gioia, sbocciata nel giorno della risurrezione, è stata trasmessa alla Chiesa come gioia inesauribile, destinata a crescere fino alla fine del mondo, e a colmare sempre più il cuore degli uomini. Tutti siamo chiamati ad accogliere questa gioia nella nostra vita. Essa ci è ridata ogni giorno nell’Eucaristia, in cui si rinnova il mistero pasquale: in maniera sacramentale, mistica, il sacrificio di Cristo vi è reso presente col suo coronamento nel mistero della risurrezione. La vita della grazia, che portiamo dentro di noi, è vita del Cristo risorto. Di conseguenza, con la grazia pulsa in noi una gioia che nulla ci può togliere, secondo la promessa di Gesù ai suoi discepoli: “Il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (
Jn 16,22).

2. Non possiamo tuttavia contemplare il mistero della risurrezione senza gettare uno sguardo su ciò che l’ha preceduto: la vittoria riportata a Pasqua ha il suo presupposto nel sacrificio redentore di Cristo. Il Maestro divino, che aveva annunciato a più riprese la sua risurrezione, aveva allo stesso tempo sottolineato che, prima di ciò, egli avrebbe dovuto percorrere la via del dolore: “Cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e dopo tre giorni risuscitare” (Mc 8,31). Dichiarando che la sua passione era necessaria, Gesù voleva insegnare che, secondo la volontà del Padre, la sua missione avrebbe dovuto compiersi per mezzo del sacrificio. Non possiamo dimenticare, nella gioia della Pasqua, le sofferenze del Salvatore, che mediante la croce ha meritato la salvezza dell’umanità. La croce ha avuto un ruolo essenziale nella missione salvifica del Cristo, come egli stesso ricorda dopo la risurrezione ai discepoli di Emmaus nella pagina di Vangelo della Messa odierna: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ai due discepoli, rattristati e sconcertati dall’evento della sua Passione, Gesù spiega il senso delle Scritture profetiche, mostrando che il Messia doveva giungere al suo trionfo glorioso attraverso la via della sofferenza. Come stupirci, dunque, se la legge della croce, così strettamente connessa con la vita e l’attività salvifica di Gesù, si applica anche alla nostra vita? A tutti coloro che ancora oggi sono tragicamente posti davanti al mistero della sofferenza, e potrebbero essere tentati dallo scoramento e dalla disperazione, conviene ricordare la verità insegnata e vissuta da Cristo: la croce è necessaria nella nostra vita, ma come cammino che conduce alla vittoria dell’amore. Tutti siamo chiamati a unirci all’offerta redentrice di Cristo, per condividere con lui la gioia della risurrezione. È dunque una parola piena di speranza quella che la Chiesa rivolge, in questa settimana pasquale, a tutti coloro che soffrono, a tutti coloro che gemono sotto il peso delle loro prove: “La vostra afflizione - secondo la promessa di Gesù - si cambierà in gioia” (Jn 16,20).

3. Ai discepoli di Emmaus Gesù rimprovera la mancanza di fede, che impedisce loro di riconoscerlo come il Salvatore risorto: “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!” (Lc 24,25). Nelle sue apparizioni, il Cristo risorto offre le prove della nuova vita che egli possiede, ma i suoi discepoli provano difficoltà a capire e ad accettare. La risurrezione è un mistero che richiede l’adesione della fede. Mentre Giovanni, il discepolo prediletto, quando scopre la tomba vuota, crede nel Maestro risorto (cf. Jn 20,8), Tommaso manifesta invece il suo scetticismo ed esige di mettere il dito nelle piaghe di Cristo. Quando alla fine s’arrenderà davanti all’evidenza esclamando: “Mio Signore e mio Dio!” (Jn 20,28), Gesù gli dirà con tono di amorevole rimprovero: “Perché mi hai veduto, hai creduto”; e aggiungerà: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Jn 20,29). Quelli che non hanno visto e che sono chiamati a credere, sono tutti coloro che non hanno avuto il privilegio di vedere Gesù nelle sue apparizioni di risorto. Siamo anche noi. Per questo siamo tutti invitati a credere nella risurrezione di Cristo: felici noi se sapremo esclamare con Tommaso, finalmente credente: “Mio Signore e mio Dio!”.

4. Che cosa si è verificato il terzo giorno? Nessuno ha visto il corpo del Salvatore riprendere vita, o meglio, passare direttamente dalla morte a una vita superiore, la vita celeste. È stato riempito della vita dello Spirito Santo. È così che è diventato un corpo glorioso. Era lo stesso corpo che era stato inchiodato alla croce, ma ormai possedeva delle proprietà superiori a quelle del corpo umano nella vita sulla terra. Gesù non ha più ripreso una esistenza terrestre dopo la sua risurrezione: egli è semplicemente apparso a coloro che erano disposti alla fede. Quando appariva, poteva spostarsi come voleva e anche entrare in una sala le cui porte erano chiuse (cf. Jn 20,19). Con ciò egli manifestava che la sua vera vita era d’ordine celeste. Dopo quaranta giorni di apparizioni, Cristo scomparirà definitivamente dalla terra, elevandosi in Cielo. È a partire da questo momento che Egli comincia a spargere nell’umanità la vita divina di cui il suo corpo è colmo. Egli è risorto per noi, per procurarci la salvezza e comunicarci la sua vita divina: “Io vivo e voi vivrete”, ha detto (Jn 14,19). Prima di lasciare la terra per stabilirsi nel suo potere celeste, Gesù annuncia l’invio dello Spirito Santo. Questa vita dello Spirito Santo, che riempie il suo corpo risorto, egli desidera che diventi la vita dell’umanità, perché tutti possano beneficiare del frutto della sua risurrezione.

5. Nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo, che era stato promesso, discenderà sulle donne e sui discepoli, per fare di essi dei testimoni del Cristo risorto. Nascerà così la Chiesa. Da allora, lo Spirito Santo fa vivere il Cristo risorto nei credenti. Più particolarmente, egli sviluppa in ciascuno di essi una vita “da figli”, che partecipano alla filiazione divina del Cristo. Egli suscita in essi la preghiera filiale, che fa loro gridare, come lo stesso Gesù: “Abbà! Padre!” (cf. Ga 4,6 Rm 8,15). D’altra parte, lo Spirito Santo riunisce nell’unità della Chiesa coloro che hanno la stessa fede nel Cristo risorto. Egli edifica e anima la comunità, sviluppando l’amore che Cristo è venuto ad accendere nel mondo, amore che ha raggiunto il culmine nell’offerta del Calvario e che è destinato ad alimentare le relazioni tra i suoi discepoli, che hanno ricevuto il nuovo comandamento di amarsi gli uni gli altri come lui stesso li ha amati (cf. Jn 13,34 Jn 15,12). L’entusiasmo, che si è impossessato degli apostoli quando si sono messi a proclamare le meraviglie di Dio, non è altro che la gioia pasquale nella sua pienezza, quale è rinnovata incessantemente e propagata dallo Spirito Santo.

6. In questo periodo pasquale, noi volgiamo lo sguardo verso il Cristo risorto. Sappiamo di essere chiamati a confermargli la nostra fede e la nostra volontà di rendergli testimonianza. Noi lo consideriamo come la sorgente della nostra speranza, sapendo che lo Spirito Santo, di cui Egli è colmo, si comunica a noi per compiere nuove meraviglie nel nostro mondo. Noi aspettiamo dal Cristo trionfante un nuovo impulso d’amore, di quell’amore, grazie al quale, egli ha vinto l’odio e l’ostilità col suo sacrificio. Noi attingiamo dal Cristo, pieno di vita, la gioia di cui abbiamo bisogno per vivere “da figli” e per perseverare nell’impegno di essere perfetti come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli (cf. Mt 5,48).

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai pellegrini giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Dilettissimi pellegrini della parrocchia Haciogi di Tokyo.

Vi auguro abbondanti frutti del mistero pasquale, ricordandovi che essi derivano dalla passione e dalla Risurrezione del Signore cui la Beata Vergine Maria partecipò pienamente. Imitate perciò la Madre del Signore per camminare sempre sulla terra orientati verso la Pasqua eterna.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai pellegrini di lingua spagnola

Ai fedeli di espressione portoghese
Ai pellegrini polacchi

Ai gruppi di lingua italiana

Rivolgo ora un cordiale augurio pasquale ai numerosi pellegrini di lingua italiana. Saluto il gruppo di fedeli della Comunità parrocchiale di Santa Maria Assunta di Caorso (Piacenza), accompagnati, oltre che dal loro arciprete, dal Signor Cardinale Opilio Rossi, al quale indirizzo un fraterno ed affettuoso pensiero.

Saluto, poi, i pellegrini della Diocesi di Saluzzo, guidati dal loro Pastore, il caro Monsignor Sebastiano Dho; e della Parrocchia dell’Ascensione di Napoli.

Formulo un augurio tutto i giovani scolastici della Compagnia di Gesù, provenienti da diversi Continenti ed ordinati diaconi proprio ieri. Assicurando loro un particolare ricordo nella preghiera, perché possano rispondere fedelmente alla chiamata del Signore, li saluto con affetto insieme ai loro familiari.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Con le parole di Cristo Risorto: “Pace a voi”, saluto i giovani, i malati e gli sposi novelli, presenti a questa Udienza. Carissimi, nel giorno di Pasqua abbiamo celebrato la vittoria di Cristo Redentore dell’uomo. Nello splendore del Mistero della sua morte e risurrezione, egli ci ha offerto in dono lo Spirito Consolatore. Il Risorto non mortifica l’esistenza, né il cuore umano, anzi solo Lui costituisce il fondamento sicuro, perenne e vivificante della nostra umana esistenza. Apriamo, pertanto, il cuore alla ricchezza della sua risurrezione. Essa è per chi crede sorgente di serenità e di pace, di gioia e di autentico rinnovamento interiore. La mia Benedizione Apostolica ottenga dal Signore semplicità e rettitudine per voi, giovani; vigore e conforto per voi, malati; e doni a voi, sposi, dedizione e perseveranza.


Mercoledì, 29 aprile 1992

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1. Si può dire che la realtà della comunità sacerdotale si attua e si manifesta in modo particolarmente significativo nel sacramento dell’Unzione degli infermi, del quale scrive San Giacomo: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa, ed essi preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (
Jc 5,14-15). Come si vede, la lettera di Giacomo raccomanda l’iniziativa del malato, che personalmente o per mezzo dei suoi cari chiede la venuta dei presbiteri. Si può dire che già in questo vi è l’esercizio del sacerdozio comune, in un atto personale di partecipazione alla vita della comunità dei “Santi”, ossia dei consacrati nello Spirito Santo, del quale si chiede l’unzione. Ma la lettera fa pure capire che il dare aiuto ai malati con l’unzione è un compito del sacerdozio ministeriale, svolto dai “presbiteri”. È un altro momento di realizzazione della comunità sacerdotale nell’armoniosa partecipazione attiva al sacramento.

2. Il primo fondamento di questo sacramento si può trovarlo nella sollecitudine e cura di Gesù per i malati. Gli evangelisti ci dicono che fin dall’inizio della sua vita pubblica egli trattava con grande amore e sincera compassione gli infermi e tutti gli altri bisognosi e tribolati che chiedevano il suo intervento. San Matteo attesta che “curava ogni malattia e infermità” (Mt 9,35). Per Gesù le innumerevoli guarigioni miracolose erano il segno della salvezza che voleva procurare agli uomini. Non di rado egli stabilisce chiaramente questa relazione di significanza, come quando rimette i peccati al paralitico, e solo dopo opera il miracolo, per dimostrare che “il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2,10). Il suo sguardo dunque non si fermava alla sola salute del corpo: mirava anche alla guarigione dell’anima, alla salvezza spirituale.

3. Questo comportamento di Gesù apparteneva all’economia della missione messianica, che la profezia del libro di Isaia aveva descritto in termini di risanamento dei malati e di soccorso dei poveri (cf. Is 61,1-2 Lc 4,18-19). È una missione che già durante la sua vita terrena Gesù volle affidare ai suoi discepoli, perché portassero il soccorso ai bisognosi, e particolarmente la guarigione ai malati. Ci attesta infatti l’evangelista Matteo che Gesù, “chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e infermità” (Mt 10,1). E Marco dice di essi che “scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,13). È significativo che già nella Chiesa primitiva venisse sottolineato non solo questo aspetto della missione messianica di Gesù, al quale sono dedicate molte pagine dei Vangeli, ma anche l’opera da lui affidata ai suoi discepoli e apostoli, in connessione con la sua missione.

4. La Chiesa ha fatto sua l’attenzione speciale di Gesù per i malati. Da una parte, essa ha suscitato tante iniziative di dedizione generosa alla loro cura. Dall’altra, col sacramento dell’unzione, essa ha procurato e procura loro il contatto benefico con la misericordia di Cristo stesso. Occorre notare in proposito che la malattia non è mai soltanto un male fisico; è simultaneamente un tempo di prova morale e spirituale. Il malato ha gran bisogno di forza interiore per uscire vittorioso dalla prova. Per mezzo dell’unzione sacramentale, Cristo gli manifesta il suo amore e gli comunica la necessaria forza interiore. Nella parabola del buon Samaritano, l’olio versato sulle ferite del malcapitato lungo la strada di Gerico serve come semplice mezzo di cura fisica. Nel sacramento, l’unzione con l’olio diventa segno efficace di grazia e di salvezza anche spirituale, mediante il ministero dei presbiteri.

5. Nella lettera di Giacomo leggiamo che l’unzione e la preghiera sacerdotale hanno come effetti la salvezza, il conforto, la remissione dei peccati. Il Concilio di Trento (Denz.-S. DS 1696) commenta il testo di Giacomo dicendo che in questo sacramento viene comunicata una grazia dello Spirito Santo, la cui unzione interna, da una parte, libera l’anima del malato dalle colpe e dai resti del peccato e, dall’altra, gli dà sollievo e conforto, ispirandogli grande fiducia nella bontà misericordiosa di Dio. Così egli è aiutato a sopportare più facilmente gli inconvenienti e le pene della malattia, a resistere con maggior energia alle tentazioni del demonio. Inoltre, l’unzione ottiene al malato, talvolta, anche la salute del corpo, quando essa conviene alla salvezza dell’anima. E questa è la dottrina della Chiesa, esposta da quel Concilio. Vi è dunque nel sacramento dell’Unzione una grazia di forza che sviluppa il coraggio e la capacità di resistenza del malato. Essa produce la guarigione spirituale, come remissione dei peccati, operata per virtù di Cristo dal sacramento stesso, se non c’è ostacolo nella disposizione dell’anima, e a volte anche la guarigione corporale. Questa non è lo scopo essenziale del sacramento, ma, quando si produce, manifesta la salvezza procurata da Cristo nella abbondanza della carità e misericordia verso tutti i bisognosi, che già rivelava nella sua vita terrena. Anche ora il suo cuore palpita di quell’amore, che perdura nella nuova vita in Cielo e si effonde nelle creature umane in virtù dello Spirito Santo.

6. Il sacramento dell’Unzione è dunque un intervento efficace di Cristo in ogni caso di malattia grave o di debolezza organica dovuta all’età avanzata, nel quale i “presbiteri” della Chiesa vengono chiamati ad amministrarlo. Nel linguaggio tradizionale esso è stato chiamato “estrema unzione”, perché veniva considerato come il sacramento dei moribondi. Il Concilio Vaticano II non ha più usato questa espressione, perché l’Unzione apparisse meglio, qual è, il sacramento dei malati gravi. Perciò non è giusto aspettare gli ultimi momenti per chiedere questo sacramento, privando così il malato dell’aiuto che l’Unzione procura all’anima e a volte anche al corpo. Gli stessi parenti e amici del malato devono tempestivamente farsi interpreti della sua volontà di riceverlo in caso di malattia grave. Questa volontà è da supporre, se non vi è stato un rifiuto, anche qualora il malato non sia più in grado di esprimerla formalmente. Fa parte della stessa adesione a Cristo con la fede nella sua parola e l’accettazione dei mezzi di salvezza da lui istituiti e affidati al ministero della Chiesa. Anche l’esperienza prova che il sacramento procura una forza spirituale, che trasforma l’animo del malato e gli dà sollievo anche nelle sue condizioni fisiche. Questa forza è utile specialmente nel momento della morte, perché contribuisce al passaggio sereno nell’aldilà. Preghiamo ogni giorno perché alla fine della vita ci sia concesso quel supremo dono di grazia santificante e, almeno in prospettiva, ormai beatificante!

7. Il Concilio Vaticano II sottolinea l’impegno della Chiesa che interviene nell’ora della malattia, della vecchiaia e infine della morte, con la santa Unzione. “Tutta la Chiesa”, dice il Concilio (LG 11), chiede al Signore un alleggerimento delle sofferenze dell’ammalato, manifestando così l’amore di Cristo per tutti gli infermi. Il presbitero, ministro del sacramento, esprime questo impegno di tutta la Chiesa, “comunità sacerdotale” della quale anche l’infermo è ancora membro attivo, partecipe e benefico. Per questo la Chiesa esorta coloro che soffrono a unirsi alla passione e morte di Gesù Cristo per ottenere da Lui la salvezza e una vita più abbondante per tutto il popolo di Dio. Lo scopo del sacramento, infatti, non è soltanto il bene individuale dell’ammalato, ma la crescita spirituale di tutta la Chiesa. Considerata in questa luce, l’Unzione appare, qual è, come una suprema forma di quella partecipazione all’offerta sacerdotale di Cristo, della quale diceva San Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi, e completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

8. Dev’essere dunque attirata sempre più l’attenzione sul contributo dei malati allo sviluppo della vita spirituale della Chiesa. Tutti - sia gli infermi, sia i loro cari, sia i loro medici e altri assistenti - si rendano sempre più conto del valore della malattia come esercizio del “sacerdozio universale” della Chiesa con l’offerta del loro “sacrificio spirituale”, ossia della sofferenza unita con la passione di Cristo. Tutti vedano in loro l’immagine del Cristo sofferente (“Christus patiens”), del Cristo che - secondo l’oracolo del libro di Isaia sul servo (cf. Is 53,4) - ha preso su di sé le nostre infermità.

Noi sappiamo, per fede e per esperienza, che l’offerta fatta dai malati è molto feconda per la Chiesa. Le membra sofferenti del Corpo Mistico sono quelle che più giovano all’intima unione di tutta la comunità col Cristo Salvatore. La comunità deve aiutare gli infermi in tutti i modi segnalati dal Concilio, anche per gratitudine verso i benefici che da essi riceve.

Ai fedeli di lingua francese

Ai fedeli di lingua inglese

Ad un gruppo di fedeli giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Un cordiale saluto al gruppo, composto da illustri personalità e guidato da Monsignor Stefano Fumio Hamao, vescovo di Yokohama.

Innanzitutto: “Buona Pasqua”! Vi ringrazio di cuore per questa vostra visita. In cambio elevo la preghiera: “Regina coeli, ora pro nobis, alleluia”, invocando su di voi la protezione della Vergine Maria e aggiungendo la mia Benedizione Apostolica.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai pellegrini di lingua portoghese

Ai pellegrini polacchi

Ai pellegrini di lingua italiana

Nel rivolgere ora un saluto ai pellegrini di lingua italiana, desidero ricordare il numeroso gruppo appartenente alla Società Operaia di Mutuo soccorso della città di Vasto. Sono lieto di salutare oggi tutti i membri di tale sodalizio, che, sorto per attuare la giustizia sociale secondo i principi cristiani, opera per la promozione dell’uomo e la solidarietà fraterna.

Rivolgo il mio pensiero anche agli Ufficiali e ai soldati del 235° Battaglione di Ascoli Piceno, guidati dal Colonnello Comandante e dal Cappellano. Auspico che il tempo del servizio militare offra a tutti una valida esperienza di vita comunitaria, insieme con opportune occasioni di dialogo e di testimonianze cristiane.

Saluto, infine, con particolare affetto i pellegrini della diocesi di Cuneo, che festeggiano con questo pellegrinaggio a Roma il loro XXV anno di Matrimonio. Vi esorto di cuore a continuare con fervore il vostro cammino di fede e di carità. Il Signore vi illumini sempre e vi sostenga con la Sua grazia.

Ai giovani, agli ammalati e agli Sposi novelli

Rivolgo ora un pensiero cordiale a tutti i Giovani qui presenti, tra i quali sono gli alunni ed i professori della Scuola Media Statale “Giuseppe Mazzini” di Minervino Murge, diocesi di Andria; saluto pure gli Ammalati e gli Sposi novelli, ai quali addito la grande figura di Santa Caterina da Siena, di cui oggi celebriamo la memoria liturgica.

Con coerenza cristiana Ella seppe unire un intenso amore e una profonda dedizione per la Chiesa ad una efficace sollecitudine in favore della comunità civile.

Voi, carissimi giovani, inseriti con differenti compiti e ruoli all’interno della società, siete chiamati a coniugare la professione della fede nel Signore risorto, con l’impegno della solidarietà, della condivisione, dell’aiuto reciproco, della mutua assistenza.

Voi, malati e sofferenti, siate testimoni del Cristo risorto il quale mostra ai discepoli le piaghe ormai gloriose della sua Passione.

E voi, sposi novelli, fate in modo che la fede della vostra famiglia si ispiri sempre alla mutua dedizione e all’amore fedele.

Con tali auspici, vi imparto volentieri la propiziatrice Benedizione Apostolica.





Catechesi 79-2005 15492