Catechesi 79-2005 9992

Mercoledì, 9 settembre 1992

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1. “Signore, insegnaci a pregare!” (
Lc 11,1). Quando gli Apostoli, sulle pendici del Monte degli Ulivi, si rivolsero a Gesù con queste parole, non gli posero una domanda qualsiasi, ma espressero con spontanea confidenza uno dei bisogni più profondi del cuore umano. a un tale bisogno, per la verità, il mondo contemporaneo non fa molto spazio. Già lo stesso ritmo frenetico delle attività quotidiane, unitamente all’invadenza rumorosa e spesso frivola dei mezzi di comunicazione, non costituisce certo un elemento favorevole al raccoglimento interiore richiesto dalla preghiera. Ci sono poi difficoltà più profonde: nell’uomo moderno s’è andata sempre più attenuando la visione religiosa del mondo e della vita. Il processo di secolarizzazione sembra averlo persuaso che il corso degli eventi ha la sua spiegazione sufficiente nel gioco delle forze immanenti in questo mondo, indipendentemente da interventi superiori. Le conquiste della scienza e della tecnica, inoltre, hanno alimentato in lui la convinzione di potere già oggi in notevole misura, e ancor più domani, dominare le situazioni, orientandole secondo i propri desideri. Negli stessi ambienti cristiani, poi, è andata diffondendosi una visione “funzionale” della preghiera, che rischia di comprometterne il carattere trascendente. Il vero incontro con Dio, affermano alcuni, si attua nell’apertura verso il prossimo. La preghiera non sarebbe, perciò, un sottrarsi alla dissipazione del mondo per raccogliersi nel dialogo con Dio; essa si esprimerebbe piuttosto nell’impegno incondizionato di carità verso gli altri. Preghiera autentica sarebbero perciò le opere di carità ed esse soltanto.

2. In realtà, l’essere umano che, in quanto creatura è in se stesso incompleto e indigente, si volge spontaneamente verso Colui che è la sorgente di ogni dono, per lodarlo, supplicarlo e cercare in Lui l’appagamento della struggente nostalgia che brucia nel suo cuore. Lo aveva ben capito sant’Agostino quando annotava: “Ci hai fatto per te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te” (Confessioni, 1, 1). Proprio per questo l’esperienza della preghiera, come atto fondamentale del credente, è comune a tutte le religioni, anche a quelle in cui la fede in un Dio personale è piuttosto vaga o è offuscata da false rappresentazioni. In particolare, essa è propria della religione cristiana, nella quale occupa un posto centrale. Gesù esorta a “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1). Il cristiano sa che la preghiera gli è necessaria come il respiro e, una volta gustata la dolcezza del colloquio intimo con Dio, non esita a immergersi in esso con fiducioso abbandono.

Torneremo ancora su questo tema, tanto importante per la vita del singolo e dell’intera comunità cristiana.

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai fedeli di lingua tedesca
Ai pellegrini di espressione spagnola

Ai pellegrini polacchi

Ai fedeli di lingua italiana

Desidero salutare i numerosi seminaristi convenuti presso Roma per un corso promosso dall’Azione Cattolica sull’Esortazione Apostolica “Pastores Dabo Vobis”; saluto inoltre i Soci dell’Associazione Cardio-Trapiantati con i loro familiari. La preghiera sia per tutti voi la fonte viva a cui attingere ogni giorno la forza interiore per corrispondere generosamente alla volontà del Signore.




Mercoledì, 16 settembre 1992

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1. La preghiera cristiana, sulla quale vogliamo oggi soffermarci, affonda le sue radici nell’Antico Testamento. Essa infatti è intimamente collegata con l’esperienza religiosa del popolo d’Israele, al quale Dio ha voluto riservare la rivelazione del suo mistero. A differenza delle popolazioni pagane, il pio israelita conosce “il volto” di Dio e a lui può rivolgersi con fiducia in nome dell’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai. Jahvè è pregato in Israele come creatore dell’universo, padrone dei destini umani, operatore dei prodigi più straordinari, ma a Lui soprattutto ci si rivolge come al Dio dell’alleanza. Su tale consapevolezza poggia la confidenza con cui lo si invoca in ogni circostanza: “Ti amo, Signore, mia forza - professava col Salmista ogni buon ebreo - Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; / mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; / mio scudo e baluardo, mia potente salvezza” (
Ps 18,2-3).

2. Confidenza, dunque, ma anche profonda venerazione e rispetto. A Dio, infatti, è dovuta l’iniziativa dell’alleanza. Davanti a Lui l’atteggiamento di fondo dell’orante resta, perciò, quello dell’ascolto. Non comincia forse proprio con questa esortazione lo Shemà, la quotidiana professione di fede con cui l’israelita inizia ogni sua giornata? “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (Dt 6,4). Non a caso l’adorazione dell’unico Dio costituisce il primo comandamento della legge (cf. Dt 20,5), dal quale fluisce, come dalla sua fonte più alta, ogni altro dovere morale. Il patto d’alleanza col Dio “giusto” e “santo” non può non impegnare il credente a una condotta degna di un così eccelso Interlocutore. Nessuna preghiera potrebbe supplire alle carenze di una vita morale scorretta. Gesù ricorderà un giorno ai farisei, in proposito, un testo di Osea particolarmente significativo: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).

3. In quanto incontro col Dio dell’alleanza, la preghiera del fedele ebreo non è, come per i pagani, un monologo rivolto a idoli sordi e muti, ma un vero e proprio dialogo con un Dio che si è manifestato molte volte nel passato con parole e con fatti e che anche nel presente continua a far sentire in tanti modi la propria presenza salvifica. È inoltre una preghiera con connotazioni prevalentemente comunitarie: il singolo sente di poter parlare con Dio proprio perché appartiene al popolo da Lui prescelto. Non manca, tuttavia, la dimensione individuale: basta sfogliare il “manuale” della preghiera biblica, il Libro dei Salmi, per raccogliervi gli echi eloquenti della pietà personale del singolo israelita.

4. A tale pietà, del resto, esortano con insistenza i profeti. Di fronte alle ricorrenti tentazioni di formalismo e di vuota esteriorità, come pure alle situazioni di scoramento e di sfiducia, l’azione dei profeti è costantemente volta a richiamare gli israeliti a una devozione più interiore e spirituale, dalla quale soltanto può scaturire una vera esperienza di comunione con Jahvè.

Così, mentre la preghiera veterotestamentaria raggiunge il suo vertice, si prepara la forma definitiva, che essa assumerà con l’incarnazione della stessa Parola di Dio.

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai fedeli della Polonia

Ai pellegrini di lingua italiana

Saluto, infine, tutti i pellegrini di lingua italiana presenti, in parti colare i fedeli della Parrocchia “Madonna del Cuore”, in Rieti e della Parrocchia “Sacro Cuore di Gesù”, in Lecce, i membri dell’Associazione “Amici dell’arte”, di Faenza, e i ragazzi di Prima Comunione e Cresima di Monte san Giovanni Campano. Saluto anche i partecipanti al Corso dell’Istituto Nazionale per l’Istruzione Agricola, ed i giovani amici di Chernobyl, ospiti della diocesi di Terni. A tutti la mia Benedizione.




Mercoledì, 23 settembre 1992

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1. Con l’incarnazione del Verbo di Dio la storia della preghiera conosce una svolta decisiva. In Gesù Cristo il cielo e la terra si toccano, Dio si riconcilia con l’umanità, si riallaccia in pienezza il dialogo tra la creatura e il suo Creatore. Gesù è la proposta definitiva dell’amore del Padre e, al tempo stesso, la risposta piena ed irrevocabile dell’uomo alle attese divine. È perciò Lui, Verbo incarnato, l’unico Mediatore che presenta a Dio Padre ogni preghiera sincera che sale dal cuore umano. La domanda, che i primi discepoli rivolsero a Gesù, diventa quindi anche domanda nostra: “Signore, insegnaci a pregare!” (
Lc 11,1).

2. Come ad essi, così anche a noi Gesù “insegna”. Lo fa innanzitutto con l’esempio. Come non ricordare la toccante preghiera con cui Egli si rivolge al Padre già nel primo momento dell’incarnazione? “Entrando nel mondo, dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato . . . Allora ho detto: Ecco io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” (He 10,5). Successivamente non c’è momento importante della vita di Cristo che non sia accompagnato dalla preghiera. All’inizio della sua missione pubblica, lo Spirito Santo scende su di lui mentre “ricevuto il battesimo, stava in preghiera” (Lc 3,21 s). Dall’evangelista Marco sappiamo che, al momento di avviare la predicazione in Galilea, Gesù “al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e pregava” (Mc 1,35). Prima della elezione degli apostoli “se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione” (Lc 6,12). Prima della promessa del primato a Pietro Gesù, secondo il racconto di Luca, “si trovava in un luogo appartato a pregare” (Lc 9,18). Anche al momento della trasfigurazione, quando sul monte la sua gloria s’irradiò prima che sul Calvario s’addensasse la tenebra, Gesù pregava (cf. Lc 9,28-29). Particolarmente rivelatrice è la preghiera nella quale, durante l’ultima Cena, Gesù effonde verso il Padre i suoi sentimenti di amore, di lode, di supplica, di fiducioso abbandono (cf. Jn 17). Sono gli stessi sentimenti che riaffiorano nell’orto del Getsemani (cf. Mt 26,39 Mt 26,42) e sulla croce (cf. Lc 23,46), dall’alto della quale Egli ci offre l’esempio di quell’ultima, toccante invocazione: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

3. A pregare Gesù ci insegna anche con la sua parola. Per sottolineare la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi”, Egli racconta la parabola del giudice iniquo e della vedova (cf. Lc 18,1-5). Raccomanda poi: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41). Ed insiste: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Mt 7,7-8).

Ai discepoli, desiderosi di una guida concreta, Gesù insegna poi la formula sublime del Padre nostro (Mt 6,9-13 Lc 11,2-4), che diventerà nei secoli la preghiera tipica della comunità cristiana. Già Tertulliano la qualificava come “breviarium totius evangelii”, “un compendio di tutto il Vangelo” (De oratione, 1). In essa Gesù consegna l’essenza del suo messaggio. Chi recita in modo consapevole il Padre nostro “si compromette” col Vangelo: non può infatti non accettare le conseguenze che per la propria vita derivano dal messaggio evangelico, di cui la “preghiera del Signore” è l’espressione più autentica.

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di espressione spagnola

Ai fedeli polacchi

Ai fedeli di lingua italiana

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana e in particolare al gruppo di giovani e seminaristi del Cammino neocatecumenale. Sono 500 i seminaristi presenti. È questa la prova che le vocazioni non mancano, bisogna solo cercare bene. E qui si impone di nuovo il problema della preghiera. Saluto quindi le Suore Francescane di Cristo Re, e le socie del Movimento Italiano Casalinghe della città di Parma.

Saluto anche il gruppo di bambini di Chernobyl, ospiti dell’Arcidiocesi di Bologna e qui accompagnati dai responsabili della colonia e dai dirigenti dell’AGIP e dei Rotary Club, che hanno contribuito al loro soggiorno.

Carissimi, vi esprimo di cuore la mia gratitudine per la vostra partecipazione e vi auguro che questo incontro aiuti a rafforzare in voi i generosi propositi di testimonianza cristiana.

A tutti la mia Benedizione Apostolica.






Mercoledì, 30 settembre 1992

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1. Riprendiamo, dopo una lunga pausa, le catechesi sulla Chiesa, che abbiamo interrotto all’inizio di luglio. Stavamo allora parlando dei Vescovi quali successori degli Apostoli e annotavamo che tale successione comporta la partecipazione alla missione e ai poteri conferiti da Gesù agli Apostoli stessi. Trattando di questo argomento, il Concilio Vaticano II ha messo in luce il valore sacramentale dell’episcopato, che riflette in sé il sacerdozio ministeriale di cui vennero investiti gli Apostoli da Gesù stesso. Viene così specificata la natura dei compiti che i Vescovi hanno nella Chiesa.

2. Leggiamo infatti nella costituzione Lumen gentium che Gesù Cristo, “sedendo alla destra di Dio Padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici”, per mezzo dell’eccelso ministero dei quali: a) in primo luogo “predica la parola di Dio a tutte le genti” (
LG 21). È dunque il Cristo glorioso che, col suo potere sovrano di salvezza, agisce mediante i Vescovi, il cui ministero di evangelizzazione giustamente è definito “eccelso” (LG 21). La predicazione del Vescovo non solo prolunga la predicazione evangelica di Cristo, ma è predicazione di Cristo stesso nel suo ministero. b) Inoltre, per mezzo dei Vescovi (e dei loro cooperatori), Cristo “amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cf. 1Co 4,15) incorpora nuove membra, con la rigenerazione soprannaturale, al suo Corpo” (LG 21). Tutti i sacramenti sono amministrati in nome di Cristo. In modo particolare la paternità spirituale, significata e attuata nel sacramento del Battesimo, è legata alla rigenerazione che viene da Cristo. c) Infine, Cristo, “con la sapienza e prudenza (dei Vescovi) dirige e ordina il Popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine” (LG 21). La sapienza e la prudenza sono dei Vescovi, ma vengono da Cristo che governa, per loro mezzo, il Popolo di Dio.

3. A questo punto dobbiamo osservare che il Signore, quando opera per mezzo dei Vescovi, non toglie i limiti e le imperfezioni della loro condizione umana, quale si esprime nel temperamento, nel carattere, nel comportamento e nella dipendenza da forze storiche di cultura e di vita. Anche in questo possiamo ricorrere alle notizie che il Vangelo ci dà sugli Apostoli scelti da Gesù. Erano uomini che senza dubbio avevano dei difetti. Durante la vita pubblica di Gesù, essi litigavano per il primo posto, e tutti abbandonarono il loro Maestro al momento dell’arresto. Dopo la Pentecoste, con la grazia dello Spirito Santo, essi vissero nella comunione di fede e di carità. Ma ciò non significa che fossero spariti in loro tutti i limiti inerenti alla condizione umana. Com’è noto, Paolo rimproverò Pietro per il suo comportamento troppo cedevole verso coloro che volevano conservare nel Cristianesimo l’osservanza della legge giudaica (cf. Ga 2,11-14). Di Paolo stesso, sappiamo che non aveva un carattere facile e che ci fu un forte contrasto tra lui e Barnaba (Ac 15,39), benché questi fosse “uomo virtuoso, pieno di Spirito Santo e di fede” (Ac 11,24). Gesù conosceva l’imperfezione di coloro che aveva scelto, e mantenne la sua scelta anche quando l’imperfezione si manifestò in forme gravi. Gesù ha voluto operare per mezzo di uomini imperfetti e in certi momenti forse riprovevoli, perché al di sopra delle loro debolezze avrebbe trionfato la forza della grazia, data dallo Spirito Santo. Può accadere che, con le loro imperfezioni o addirittura le loro colpe, anche dei Vescovi vengano meno alle esigenze della loro missione e rechino danno alla comunità. Perciò dobbiamo pregare per i Vescovi affinché s’impegnino sempre a imitare il buon Pastore. E di fatto in molti di essi il volto di Cristo Pastore è apparso e appare in modo evidente.

4. Non è possibile qui fare un elenco dei Vescovi santi che sono stati le guide e i plasmatori delle loro Chiese nei tempi antichi e in tutti i tempi successivi, anche nei più recenti. Basti un accenno alla grandezza spirituale di qualche figura eminente. Si pensi allo zelo apostolico e al martirio di Sant’Ignazio di Antiochia; alla sapienza dottrinale e all’ardore pastorale di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino; all’impegno per la vera riforma della Chiesa di San Carlo Borromeo; al magistero spirituale e alla lotta per la preservazione della fede cattolica di San Francesco di Sales; all’attaccamento di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori alla santificazione del popolo e alla direzione delle anime; alla intemerata fedeltà al Vangelo e alla Chiesa di Sant’Antonio Maria Gianelli! Ma quanti altri pastori del Popolo di Dio si dovrebbero ricordare e celebrare, appartenenti a tutte le nazioni e a tutte le Chiese del mondo! Contentiamoci qui di rivolgere un pensiero di omaggio e di gratitudine per i tanti Vescovi di ieri e di oggi che con la loro azione, la loro preghiera e il loro martirio (spesso del cuore, a volte anche del sangue) continuano la testimonianza degli Apostoli di Cristo. Certo, alla grandezza del “ministero eccelso” ricevuto da Cristo come successori degli Apostoli, corrisponde la loro responsabilità di “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (cf. 1Co 4,1). Come amministratori che dispongono dei misteri di Dio per dispensarli in nome di Cristo, i Vescovi devono essere strettamente uniti e fermamente fedeli al loro Maestro, che non ha esitato a dare ad essi, come agli Apostoli, una missione decisiva per la vita della Chiesa in tutti i tempi: la santificazione del Popolo di Dio.

5. Il Concilio Vaticano II, dopo aver affermato la presenza attiva di Cristo nel ministero dei Vescovi, insegna la sacramentalità dell’episcopato. Per molto tempo questo punto era stato oggetto di controversia dottrinale. Il Concilio di Trento aveva affermato la superiorità dei Vescovi sui presbiteri: superiorità che si manifesta nel potere loro riservato di confermare e di ordinare (Denz.-S. DS 1777). Ma non aveva ancora affermato la sacramentalità dell’ordinazione episcopale. Possiamo dunque constatare il progresso dottrinale che su questo punto vi è stato con l’ultimo Concilio, che dichiara: “Insegna il Santo Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, somma del sacro ministero” (LG 21).

6. Per fare tale affermazione il Concilio si basa sulla Tradizione e indica i motivi per affermare che la consacrazione episcopale è sacramentale. Essa infatti conferisce la capacità di “rappresentare Cristo Maestro, Pastore e Sommo Sacerdote e di agire in sua persona” (LG 21). D’altra parte, il rito liturgico dell’ordinazione è sacramentale: “dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione la grazia dello Spirito Santo è così conferita, e così è impresso il sacro carattere” (LG 21). Già nelle Lettere pastorali (cf. 1Tm 4,14) tutto ciò veniva considerato come opera del sacramento che ricevono i Vescovi e, a loro volta, dalle mani dei Vescovi, i presbiteri e i diaconi: su quella base sacramentale si forma la struttura gerarchica della Chiesa, Corpo di Cristo.

7. Il Concilio attribuisce ai Vescovi il potere sacramentale di “assumere, col sacramento dell’Ordine, nuovi eletti nel corpo episcopale” (LG 21). È l’espressione massima del potere gerarchico, in quanto tocca i gangli vitali del Corpo di Cristo che è la Chiesa: la costituzione di capi e pastori che continuino e perpetuino l’opera degli Apostoli in unione con Cristo e sotto l’azione dello Spirito Santo. Qualcosa di simile si può dire anche circa l’ordinazione dei presbiteri, riservata ai Vescovi in base alla concezione tradizionale, legata al Nuovo Testamento, che fa di essi, come successori degli Apostoli, i detentori del potere di “imporre le mani” (cf. Ac 6,6 Ac 8,19 1Tm 4,14 2Tm 1,6), per costituire nella Chiesa dei ministri di Cristo strettamente congiunti ai titolari della missione gerarchica. Ciò significa che l’azione dei presbiteri si enuclea da un tutto unico, sacramentale, sacerdotale e gerarchico, entro il quale è destinata a svolgersi in comunione di carità ecclesiale.

8. Al vertice di questa comunione rimane il Vescovo, che esercita il potere conferitogli dalla “pienezza” del sacramento dell’Ordine da lui ricevuta come un servizio d’amore, partecipazione, secondo un modo proprio, della carità infusa nella Chiesa dallo Spirito Santo (cf. Rm 5,5). Mosso dalla coscienza di questa carità il Vescovo, imitato dal presbitero, agirà non in modo individualistico e assolutistico, ma “nella comunione gerarchica col Capo e con le membra del Collegio (episcopale)” (LG 21). È certo che la comunione dei Vescovi, uniti tra loro e con il Papa, e proporzionalmente quella dei presbiteri e dei diaconi, manifesta nel modo più alto l’unità di tutta la Chiesa, come comunità d’amore.

Ai pellegrini di espressione tedesca

Ai fedeli di lingua francese

Ai pellegrini di lingua inglese

Ai gruppi di lingua italiana

Rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini di lingua italiana e, in particolare, al gruppo dei Padri Capitolari della Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, che hanno voluto partecipare a questa Udienza Generale per rinnovare al Successore di Pietro i loro sentimenti di affetto e di profonda comunione ecclesiale. Esprimo auguri di ogni bene al Reverendo Padre Marcello Zago, che è stato confermato nell’incarico di Superiore Generale; invoco su tutti i membri della Congregazione, per intercessione di Maria Immacolata, un rinnovato e generoso impegno di testimonianza cristiana, specialmente in terra di missione.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Un pensiero particolare giunga, ora, ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Carissimi! Ciascuno, nella situazione in cui si trova, sappia essere generoso sia nell’impegno per un futuro migliore, sia nell’accettazione del dolore, sia nel mutuo amore per l’edificazione di una famiglia concorde e vera. La Vergine Santissima vi ottenga il bene che desidera il vostro cuore per voi stessi e per quanti vi sono vicini nel cammino della vita. A tutti imparto la mia Benedizione.





Mercoledì, 7 ottobre 1992

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1. Nella costituzione Lumen gentium il Concilio Vaticano II stabilisce una analogia tra il collegio degli Apostoli e quello dei Vescovi uniti col Romano Pontefice: “Come San Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, in pari modo il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti fra di loro” (
LG 22). È la dottrina sulla collegialità dell’Episcopato nella Chiesa. Essa ha il suo primo fondamento nel fatto che Cristo Signore, nel fondare la sua Chiesa, chiamò i Dodici, che costituì Apostoli, affidando loro la missione della predicazione del Vangelo e quella del governo pastorale del popolo cristiano, e costituendo perciò la struttura “ministeriale” della Chiesa. I dodici Apostoli ci appaiono come un “corpus” e un “collegium” di persone fra loro unite dalla carità di Cristo, che li ha posti sotto l’autorità di Pietro, al quale ha detto: “Tu sei Pietro (cioè roccia) e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Ma quel gruppo originario, avendo ricevuto la missione della evangelizzazione da svolgere sino alla fine dei tempi, doveva avere dei successori, che sono appunto i Vescovi. Secondo il Concilio, tale successione riproduce l’originale struttura del collegio dei Dodici uniti tra loro per volontà di Cristo sotto l’autorità di Pietro.

2. Il Concilio non presenta questa dottrina come una novità, se non forse nella formulazione, ma come il contenuto di una realtà storica di accoglimento e di attuazione della volontà di Cristo, che ci risulta dalla Tradizione. a)“Già nell’antica disciplina, i Vescovi di tutto il mondo - esso dice - comunicavano tra loro e col Vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità e della pace”. b)“E parimenti i Concili radunati per decidere con essi in comune qualsiasi argomento, anche di grande importanza, dopo aver ponderato la sentenza col consiglio di molti, indicano l’indole e la natura collegiale dell’ordine episcopale: la quale manifestamente confermano i Concili ecumenici tenuti lungo i secoli”. c)La collegialità “è pure suggerita dall’antico uso di convocare più Vescovi per partecipare all’elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra” (LG 22).

3. Il collegio - leggiamo ancora - “in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del Popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo” (LG 22). In unione col Successore di Pietro l’intero collegio dei Vescovi esercita la suprema autorità nella Chiesa universale. Rimandiamo alle catechesi successive la trattazione del “ministero petrino” nella Chiesa. Ma esso va tenuto presente anche quando si parla della collegialità dell’episcopato. Senza dubbio, secondo la Lumen gentium, “la suprema potestà, che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, viene esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico” (LG 22). Ma vi si legge pure che “è prerogativa del Romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli” (LG 22). Un Concilio non può essere veramente ecumenico, se non è confermato o almeno accettato dal Romano Pontefice. Gli mancherebbe il sigillo dell’unità garantita dal Successore di Pietro. Quando l’unità e la cattolicità siano assicurate, il Concilio ecumenico può anche definire in modo infallibile le verità nel campo della fede e della morale. Storicamente, i Concili ecumenici hanno avuto un ruolo molto importante e decisivo nella precisazione, nella definizione e nello sviluppo della dottrina: basti pensare ai Concili di Nicea, di Costantinopoli, di Efeso, di Calcedonia.

4. Oltre che ai Concili ecumenici, “la stessa potestà collegiale può essere esercitata insieme col Papa dai Vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami a una azione collegiale, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei Vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale” (LG 22). I Sinodi Episcopali, istituiti dopo il Concilio Vaticano II, hanno come scopo di attuare più concretamente la partecipazione del collegio episcopale al governo universale della Chiesa. Questi Sinodi studiano e discutono temi pastorali e dottrinali che sono di notevole importanza per la Chiesa universale; i frutti dei loro lavori, elaborati d’intesa con la Sede apostolica, sono raccolti in documenti che hanno una diffusione universale. I documenti emanati dopo gli ultimi Sinodi portano espressamente la qualifica di “postsinodali”.

5. E ancora: “L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli Vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa universale” (LG 23). “I singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano tutta la Chiesa in un vincolo di pace, di amore e di unità” (LG 23). Per questo i Vescovi, “in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli Apostoli, per istituzione e Precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale” (LG 23). “Tutti i Vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa; istruire i fedeli all’amore di tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente dei membri poveri, sofferenti, e di quelli che sono perseguitati a causa della giustizia (cf. Mt 5,10); e infine promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca, e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità” (LG 23).

6. A questo punto viene ricordato che “per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi fondate dagli Apostoli e loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio ordinamento liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra di esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generato altre a modo di figlie, con le quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri” (LG 23).

7. Come si vede, il Concilio mette in risalto - nell’ambito della dottrina sulla collegialità dell’episcopato - anche la verità fondamentale della mutua compenetrazione e integrazione della realtà particolare e della dimensione universale nella struttura della Chiesa. Da questo punto di vista va preso in considerazione anche il ruolo delle Conferenze Episcopali. La costituzione conciliare sulla Chiesa afferma: “Le Conferenze Episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo a far sì che l’affetto collegiale porti a concrete applicazioni” (LG 23). In modo più dettagliato si pronuncia su questo tema il decreto Christus Dominus, sull’ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa. Vi leggiamo: “La Conferenza Episcopale è una specie di organismo in cui i sacri pastori di una determinata nazione o territorio esercitano congiuntamente il loro ministero pastorale, per l’incremento del bene, che la Chiesa offre agli uomini, specialmente per mezzo di quelle forme di apostolato che sono appropriate alle circostanze dei nostri giorni” (CD 38,1). Da questi testi risulta che le Conferenze Episcopali possono affrontare i problemi del territorio di loro competenza, oltre i limiti delle singole diocesi, e proporre per essi risposte di ordine pastorale e dottrinale. Possono anche pronunciare pareri sui problemi che concernono la Chiesa universale. Soprattutto possono provvedere con autorità ai bisogni dello sviluppo della Chiesa secondo le esigenze e convenienze della mentalità e cultura nazionale. Possono prendere delle decisioni che, con il consenso dei Vescovi membri, avranno grande influsso sulle attività pastorali.

8. Le Conferenze Episcopali hanno la propria responsabilità nel territorio di loro competenza, ma le loro decisioni hanno riflessi immancabili nella Chiesa universale. Il ministero petrino del Vescovo di Roma rimane il garante della sincronizzazione della attività delle Conferenze con la vita e l’insegnamento della Chiesa universale. A questo proposito il decreto conciliare stabilisce: “Le decisioni della Conferenza Episcopale, purché siano state prese legittimamente e con almeno due terzi dei suffragi dei Presuli appartenenti alla Conferenza con voto deliberativo, e siano state sottoposte all’esame della Santa Sede, hanno forza di obbligare giuridicamente soltanto nei casi in cui ciò sia contenuto nel diritto comune, oppure sia stabilito da una speciale prescrizione della Santa Sede, impartita o motu proprio o dietro la domanda della stessa Conferenza” (CD 38,4). Il decreto stabilisce infine: “Se particolari circostanze lo richiedono, i Vescovi di più nazioni, con l’approvazione della Santa Sede, possono costituire un’unica Conferenza” (CD 38,5).

Qualcosa di simile può avvenire anche circa i Consigli e i raduni dei Vescovi a livello continentale, come per esempio sono i casi del Consiglio delle Conferenze dell’America Latina (Celam) o di quello delle Chiese Europee (CCEE). È tutto un ampio ventaglio di nuovi raggruppamenti e di organizzazioni, con cui l’unica Chiesa cerca di rispondere a istanze e problemi di ordine spirituale e sociale del mondo odierno. Segno di una Chiesa che vive, riflette, s’impegna nel lavoro come apostola del Vangelo in questo nostro tempo. In ogni caso essa sente il bisogno di presentarsi, di operare e di vivere nella fedeltà alle due note fondamentali della comunità cristiana di sempre e in particolare del collegio apostolico: l’unità e la cattolicità.

Ai pellegrini di lingua tedesca

Ai visitatori vietnamiti

Ai pellegrini di espressione inglese

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai pellegrini portoghesi

Ai gruppi provenienti da diverse diocesi italiane

Saluto ora i pellegrini di lingua italiana, ed in particolare il gruppo degli agenti di polizia che partecipano alla Conferenza Europea per esperti nelle perizie calligrafiche. A tutti esprimo l’augurio di un servizio compiuto sempre con vivo senso di responsabilità nella prospettiva del vero bene dei singoli e della comunità.

Il mio pensiero va, poi, a voi, membri del “Lions Club” di Bari, che ringrazio per il prezioso dono di un calice. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera.

Saluto, ancora, in modo speciale il piccolo gruppo degli “Spazzacamini”. Vi ringrazio per questa visita e per il premuroso pensiero di dedicare il guadagno di una giornata di lavoro alle opere di carità.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Il mio saluto cordiale va, ora, ai giovani, ai cari ammalati ed alle coppie di sposi novelli.

Carissimi, ricorre oggi la festa della Madonna del Rosario. Invito tutti a riscoprire, specialmente durante questo mese di ottobre, la bellezza della preghiera del Rosario, che ha alimentato, attraverso i secoli, la fede del popolo cristiano.

Esorto voi, giovani, a compiere con gioia il vostro generoso servizio a Cristo; voi, ammalati, ad offrire le vostre sofferenze per la buona riuscita del mio imminente viaggio pastorale nell’America Latina; voi, sposi novelli, a vivere in pienezza la vocazione alla santità, a cui siete stati chiamati con il sacramento da poco ricevuto.

A tutti imparto la mia Benedizione.



Catechesi 79-2005 9992