Catechesi 79-2005 11112

Mercoledì, 11 novembre 1992

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1. Parlando delle funzioni del Vescovo, il Concilio Vaticano II attribuisce al Vescovo stesso un bel titolo, preso dalla preghiera di consacrazione episcopale nel rito bizantino: “Il Vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell’Ordine, è «l’economo della grazia del supremo sacerdozio»” (
LG 26). È il tema che svolgeremo nella catechesi odierna. Esso è collegato a quello della catechesi precedente sui “Vescovi araldi della fede”. Infatti il servizio dell’annuncio del Vangelo è ordinato al servizio della grazia dei santi sacramenti della Chiesa. Come ministro della grazia, il Vescovo attua nei sacramenti il “munus sanctificandi” a cui mira il “munus docendi”, che svolge in mezzo al popolo di Dio a lui affidato.

2. Al centro di questo servizio sacramentale del Vescovo, vi è l’Eucaristia, “che offre egli stesso o fa offrire” (LG 26). Insegna il Concilio: “Ogni legittima celebrazione dell’Eucaristia è diretta dal Vescovo, al quale è commesso l’ufficio di prestare e regolare il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa, ulteriormente determinate per la diocesi dal suo particolare giudizio” (LG 26). Così il Vescovo appare agli occhi del suo popolo soprattutto come l’uomo del nuovo ed eterno culto a Dio, istituito da Gesù Cristo col sacrificio della Croce e dell’Ultima Cena; come il “Sacerdos et Pontifex”, dal quale traspare la figura stessa di Cristo, il Principale Agente del sacrificio eucaristico, che il Vescovo, e con lui il presbitero, compie “in persona Christi” (cf. S. Tommaso, Summa theologiae, III 78,1 III 82,1); come il Gerarca, occupato nell’operare i sacri misteri dell’altare, che annuncia e spiega con la predicazione (cf. Dionigi Pseudo Areopagita, De ecclesiastica hierarchia, P. III, 7; PG 3,513; S. Tommaso, Summa theologiae, II-II 184,5).

3. Nella sua funzione di operatore dei sacri misteri, il Vescovo è il costruttore della Chiesa come comunione in Cristo. Infatti l’Eucaristia è il principio essenziale della vita non solo dei semplici fedeli, ma della stessa comunità in Cristo. I fedeli, radunati con la predicazione del Vangelo di Cristo, formano delle comunità nelle quali è veramente presente la Chiesa di Cristo, perché trovano e dimostrano la loro piena unità nella celebrazione del Sacrificio eucaristico. Leggiamo nel Concilio: “In ogni comunità che partecipa all’altare, sotto la sacra presidenza del Vescovo, viene offerto il simbolo di quella carità e “unità del Corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza” (cf. Summa theologiae, III 73,3). In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa Una, Santa, Cattolica e apostolica. Infatti “la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che prendiamo” (S. Leone M., Serm. 63,7; PL 54,357C)” (LG 26).

4. Ne consegue che tra i compiti fondamentali del Vescovo vi è quello di provvedere alla celebrazione eucaristica nelle varie comunità della sua diocesi, secondo le possibilità dei tempi e dei luoghi, ricordando l’affermazione di Gesù: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (Jn 6,53). Sono note le difficoltà che oggi si incontrano in molti territori sia delle nuove, sia delle antiche Chiese cristiane, a soddisfare questa necessità, per mancanza di sacerdoti e per altre ragioni. Ma ciò rende il Vescovo, che conosce il proprio compito di organizzare il culto della diocesi, ancora più attento al problema delle vocazioni e della saggia distribuzione del clero disponibile. È necessario, infatti, far sì che il più grande numero dei fedeli possa accedere al corpo e al sangue di Cristo nella celebrazione eucaristica, culminante nella comunione. Spetta al Vescovo preoccuparsi anche degli ammalati o handicappati, che possono ricevere l’Eucaristia solo a domicilio o là dove si trovano riuniti per ragioni di cura. Tra tutte le esigenze del ministero pastorale, l’impegno per la celebrazione e per quello che possiamo chiamare l’apostolato dell’Eucaristia è il più cogente e importante.

5. Ciò che abbiamo detto riguardo alla Santissima Eucaristia, si può ripetere per l’insieme del servizio sacramentale e della vita sacramentale della diocesi. Come leggiamo nella costituzione Lumen gentium, i Vescovi “regolano l’amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Essi sono i ministri naturali della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono i loro popoli, affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della Messa compiano la loro parte con fede e devozione” (LG 26).

6. In questo testo conciliare viene fatta una distinzione tra il battesimo e la confermazione, due sacramenti la cui differenza ha fondamento nel fatto, narrato dagli Atti degli Apostoli, secondo cui i Dodici, ancora riuniti a Gerusalemme, sentendo che “la Samaria aveva accolto la parola di Dio”, vi inviarono Pietro e Giovanni, i quali vi “discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo: non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo” (Ac 8,14-17 cf. Ac 1,5 Ac 2,38). L’imposizione delle mani da parte dei due Apostoli per il “dono dello Spirito”, che gli Atti chiamano anche “dono di Dio” (Ac 8,20 cf. Ac 2,38 Ac 10,45 Ac 11,17 cf. Lc 11,9-13), è all’origine della tradizione della Chiesa occidentale che conserva e riserva al Vescovo il ruolo ministeriale nella confermazione. Come successore degli Apostoli, il Vescovo è ministro ordinario di questo sacramento, e ne è anche ministro originario, perché il crisma (la materia), che è un elemento essenziale del rito sacramentale, può essere consacrato soltanto dal Vescovo. Quanto al battesimo, che abitualmente il Vescovo non amministra personalmente, bisogna ricordare che anche questo sacramento rientra sotto la regolazione pratica da lui data.

7. Altro compito dei Vescovi è di essere “dispensatori degli ordini e moderatori della disciplina penitenziale”, come dice il Concilio nel delineare il quadro della loro responsabilità pastorale. Secondo questo testo conciliare, il Vescovo è dispensatore degli ordini sacri nel senso che ha il potere di “ordinare”. Ma poiché questo potere è legato alla missione pastorale del Vescovo, ne consegue che egli ha anche la responsabilità, come s’è detto, di favorire lo sviluppo delle vocazioni sacerdotali e di provvedere alla buona disciplina dei candidati al sacerdozio. Come moderatore della disciplina penitenziale, il Vescovo regola le condizioni dell’amministrazione del sacramento del perdono. In modo particolare ricordiamo che ha il compito di procurare ai fedeli l’accesso a questo sacramento con la disponibilità dei confessori.

8. Il Concilio infine pone davanti ai Vescovi la necessità di essere esempi e modelli di vita cristiana: essi “devono . . . con l’esempio della loro vita aiutare quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per quanto possono, con l’aiuto di Dio, mutandoli in bene, onde possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna” (LG 26). Si tratta dell’esempio di una vita pienamente orientata secondo le virtù teologali: fede, speranza e carità. Si tratta di tutto un modo di vivere e di agire basato sulla potenza della grazia divina: un modello che contagia, che attrae, che persuade, che veramente risponde alle raccomandazioni della Prima Lettera di Pietro: “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate ma facendovi modelli del gregge” (1P 5,2-3).

9. È particolarmente importante quest’ultimo punto, che riguarda il disinteresse personale, la sollecitudine per i poveri, la totale dedizione al bene delle anime e della Chiesa. È l’esempio che, secondo gli Atti degli Apostoli, dava Paolo, che poteva dire di sé: “Vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Ac 20,35). Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi egli inoltre scriveva: “Abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare” (2Th 3,8-9). Egli poteva infine esortare i Corinzi: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Co 11,1).

10. È una grande e ardua missione quella del Vescovo “economo della grazia”. Egli non può assolverla senza la preghiera. Concludiamo dunque col dire che la vita del Vescovo è fatta di preghiera. Si tratta non soltanto di dare la “testimonianza della preghiera”, ma di una vita interiore animata dallo spirito di preghiera come fonte di tutto il ministero. Nessuno come il Vescovo è consapevole del significato delle parole di Cristo agli Apostoli, e per essi ai loro successori: “Senza di me non potete far nulla” (Jn 15,5).

Ai fedeli di lingua francese

Ai fedeli di lingua inglese

Ai pellegrini di espressione tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai fedeli di lingua portoghese

Ai fedeli polacchi

Ai pellegrini italiani

Rivolgo ora il mio cordiale benvenuto a tutti i pellegrini italiani. In particolare, saluto le Suore Capitolari di Santa Elisabetta, riunite a Roma per il Capitolo Generale: lo Spirito Santo illumini le vostre menti e sostenga il vostro lavoro per un sempre più generoso servizio ai fratelli ammalati o bisognosi.

Accolgo, inoltre, con gioia i membri della Pia Opera “La Piccola Casetta di Nazareth”, nel ricordo della mia visita, due anni or sono, al Santuario mariano di Casapesenna. Maria Santissima e San Giuseppe assistano sempre la vostra attività in favore dei bambini più disagiati.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Carissimi giovani, malati e sposi novelli. Oggi la Liturgia celebra la memoria di San Martino, Vescovo di Tours. Desidero richiamare alla vostra mente la figura di questo grande Pastore della Chiesa antica, il quale si distinse per l’evangelica carità verso i poveri e gli emarginati. San Martino insegni a voi, giovani, ad essere sempre più generosi e coraggiosi nella fede; lui, che operò tante guarigioni, conforti e sostenga voi, malati; e illumini anche voi, sposi novelli, per costruire la vostra famiglia sul fondamento della verità e della carità. A tutti imparto la mia Benedizione.



Mercoledì, 18 novembre 1992

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1. Oltre al servizio profetico e a quello sacramentale dei Vescovi, a cui abbiamo dedicato le catechesi precedenti, vi è un servizio pastorale, circa il quale nel Concilio Vaticano II leggiamo: “I Vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate, come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per elevare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cf.
Lc 22,26-27)” (LG 27). È un insegnamento mirabile, che si svolge sul cardine di questo principio fondamentale: nella Chiesa l’autorità ha come scopo l’edificazione. Così la concepiva San Paolo, che scrivendo ai Corinzi parlava de “la nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina” (2Co 10,8). E sempre ai membri di questa sua Chiesa molto cara, manifestava la speranza di non dover agire severamente “con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere” (2Co 13,10). Questo scopo di edificazione richiede da parte del Vescovo pazienza e indulgenza. Si tratta di “edificare il proprio gregge nella verità e nella santità”, come dice il Concilio: verità della dottrina evangelica e santità come è stata vissuta, voluta e proposta da Cristo.

2. Si deve insistere sul concetto di “servizio”, che vale per ogni “ministero” ecclesiastico, a cominciare da quello dei Vescovi. Sì, l’episcopato è più un servizio che un onore. E se anche è un onore, lo è quando il Vescovo, successore degli Apostoli, serve in spirito di umiltà evangelica, sull’esempio del Figlio dell’uomo che ammonisce i Dodici: “Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa, come colui che serve” (Lc 22,26). “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,44-45 cf. Mt 20,27-28).

3. Nel decreto Christus Dominus il Concilio aggiunge: “Nell’esercizio del loro ufficio di padri e pastori, i Vescovi in mezzo ai loro fedeli si comportino come coloro che prestano servizio; come buoni pastori che conoscono le loro pecorelle e sono da esse conosciuti; come veri padri che eccellono per il loro spirito di carità e di zelo verso tutti: di modo che tutti ben volentieri si sottomettano alla loro autorità ricevuta da Dio. Raccolgano intorno a sé l’intera famiglia del loro gregge, e diano ad essa una tale formazione che tutti, consapevoli dei loro doveri, vivano e operino in comunione di carità” (CD 16).

4. In questa luce del servizio “come buoni pastori”, va intesa l’autorità, che il Vescovo possiede in proprio, anche se è sempre sottoposta a quella del Sommo Pontefice. Leggiamo nella costituzione Lumen gentium che “questa potestà, che (i Vescovi) personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa ed entro certi limiti, in vista dell’utilità della Chiesa e dei fedeli, possa essere circoscritto. In virtù di questa potestà, i Vescovi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all’apostolato” (LG 27). Si tratta certo di vera autorità, che deve essere circondata di rispetto, e alla quale devono essere docili e ubbidienti sia il clero sia i fedeli nel campo del governo ecclesiale. Ma pur sempre un’autorità in funzione pastorale.

5. Di questa cura pastorale del loro gregge, che comporta una correlativa responsabilità personale per lo sviluppo della vita cristiana del popolo loro affidato, il Concilio dice che ai Vescovi “è pienamente affidato l’ufficio pastorale, ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge, né devono essere considerati vicari dei Romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti sovrintendenti dei popoli che governano” (LG 27). Come si vede, il Concilio non esita ad affermare che a ogni Vescovo appartiene una vera autorità sulla propria diocesi, o Chiesa locale. Ma esso sottolinea con vigore anche l’altro punto fondamentale per l’unità e la cattolicità della Chiesa: cioè la comunione “cum Petro” di ogni singolo Vescovo e di tutto il “corpus Episcoporum”, che è anche comunione “sub Petro”, in forza del principio ecclesiologico (che a volte si tende a ignorare), secondo il quale il ministero del successore di Pietro appartiene all’essenza di ogni Chiesa particolare come “dal di dentro”, ossia come un’esigenza della stessa costituzione della Chiesa, e non come qualcosa sovrapposto dall’esterno, magari per ragioni storiche, sociologiche, pratiche. Non è una questione di adattamento alle condizioni dei tempi, ma di fedeltà alla volontà di Cristo circa la sua Chiesa. La fondazione della Chiesa su Pietro-Roccia, l’attribuzione a Pietro di un primato, che si prolunga nei suoi successori come Vescovi di Roma, comporta il collegamento con la Chiesa universale e col suo centro nella Chiesa romana, come elemento costitutivo della Chiesa particolare e condizione del suo stesso essere Chiesa. Questo è il cardine fondamentale di una buona teologia della Chiesa locale.

6. D’altra parte la potestà dei Vescovi non è minacciata da quella del Romano Pontefice. Come dice il Concilio, “la loro potestà non è annullata dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché lo Spirito Santo conserva invariata la forma di governo stabilita da Cristo Signore nella sua Chiesa” (LG 27). Ne deriva che i rapporti tra i Vescovi e il Papa non possono che essere rapporti di cooperazione e di aiuto reciproco, in un clima di amicizia e di fiducia fraterna, quale si può scoprire - e anzi sperimentare - nella realtà ecclesiale odierna.

7. All’autorità del Vescovo corrisponde la responsabilità di Pastore, per la quale egli si sente impegnato, sull’esempio del Buon Pastore, a dare la propria vita, ogni giorno, per il bene del gregge. Associato alla croce di Cristo, è chiamato a offrire molti sacrifici personali per la Chiesa. In questi sacrifici si concretizza quell’impegno di carità perfetta, al quale è chiamato dallo stesso status in cui l’ha posto la consacrazione episcopale. In ciò consiste la specifica spiritualità episcopale, quale suprema imitazione di Cristo Buon Pastore, e partecipazione massima alla sua carità. Il Vescovo è dunque chiamato a imitare Cristo Pastore, col lasciarsi guidare dalla carità nei riguardi di tutti. Il Concilio raccomanda in modo particolare la disposizione all’ascolto: “Non rifugga dall’ascoltare i sudditi, che cura come veri figli suoi ed esorta a cooperare alacremente con lui” (LG 27). Devono spiccare nel Vescovo tutte le qualità richieste per la comunicazione e la comunione con i suoi figli e fratelli: la comprensione e compassione per le miserie spirituali e corporali; la volontà di aiutare e di soccorrere, di stimolare e sviluppare la cooperazione; e soprattutto l’amore universale, senza eccezioni, senza restrizioni o riserve.

8. Tutto ciò, secondo il Concilio, deve attuarsi specialmente nell’atteggiamento del Vescovo verso i suoi fratelli nel sacerdozio ministeriale: “Trattino sempre con particolare carità i sacerdoti, come coloro che, nella sfera dei loro poteri, si assumono i loro ministeri e le loro preoccupazioni, e li attuano nella vita quotidiana con tanta premura. Li considerino come figli e amici, e perciò siano disposti ad ascoltarli e a trattarli con fiducia e benevolenza, allo scopo di incrementare l’attività pastorale in tutta la diocesi” (CD 16). Ma il Concilio ricorda anche i compiti dei pastori nei riguardi dei laici: “Nell’esercizio di questa attività pastorale, rispettino i compiti spettanti ai loro diocesani nelle cose della Chiesa, riconoscendo loro anche il dovere e il diritto di collaborare attivamente all’edificazione del Corpo mistico di Cristo” (CD 16). E aggiunge una nota sulla dimensione universale di quest’amore che deve animare il ministerium episcopale: “Amino i fratelli separati e raccomandino anche ai loro fedeli di trattarli con grande cortesia e carità, favorendo così l’ecumenismo, inteso nel senso insegnato dalla Chiesa. Estendano il loro zelo anche verso i non battezzati, affinché anche ad essi si manifesti la carità di Cristo, di cui i Vescovi sono testimoni davanti a tutti” (CD 16).

9. Dai testi del Concilio si rileva dunque un’immagine del Vescovo che spicca nella Chiesa per la grandezza del suo ministero e per la nobiltà del suo spirito di buon pastore. Questa sua condizione lo impegna a doveri esigenti e ardui, e ad alti sentimenti di amore a Cristo e ai suoi fratelli. È una missione e una vita difficile, sicché anche per questo ci deve essere verso il Vescovo, da parte di tutti i diocesani, amore, docilità, collaborazione per l’avvento del Regno di Dio. Ben conclude, a questo proposito, il Concilio: “I fedeli . . . devono aderire al Vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose siano d’accordo nell’unità, e crescano per la gloria di Dio (cf. 2Co 4,15)” (LG 27).

Ai pellegrini francesi

Ai pellegrini di lingua inglese

Ai fedeli di lingua tedesca

Ai pellegrini di lingua spagnola

Ai pellegrini di lingua portoghese

Ai fedeli polacchi

Ai fedeli di lingua italiana

Saluto tutti i pellegrini di lingua italiana. Rivolgo un pensiero speciale ai fedeli provenienti dalla Diocesi di Fidenza che, insieme al loro Vescovo, Monsignor Carlo Poggi, e ad un gruppo di Presbiteri, sono venuti a visitare la tomba degli Apostoli in occasione dell’inizio delle celebrazioni del diciassettesimo centenario del martirio di San Donnino, patrono della Diocesi. Carissimi, vi esorto a fare in modo che questa lieta ricorrenza diventi occasione propizia per un cammino spirituale di rinnovamento e di ripresa nella vita delle vostre Comunità cristiane, in fedele adesione alle sane tradizioni religiose della vostra Terra.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Nel salutare cordialmente i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli, desidero richiamare il valore che, in modo speciale, assume la pubblicazione del “Catechismo della Chiesa Cattolica”, che ho avuto la gioia di promulgare con la Costituzione Apostolica “Fidei Depositum”.

Il Catechismo aiuterà voi, giovani, ad approfondire le vostre convinzioni di fede e a rafforzarvi nelle scelte morali secondo l’insegnamento della Chiesa.

Per voi, ammalati, esso sarà di grande aiuto a comprendere il valore della sofferenza accettata per amore.

A voi, sposi novelli, esso offrirà dei saldi punti di riferimento per le scelte su cui si fonda la vita della nuova famiglia che avete formato.

A tutti la mia Benedizione!

Per Croazia e Bosnia ed Erzegovina

Cari fedeli della Missione Cattolica Croata di Stuttgart, vi saluto cordialmente! La rinnovata fede in Gesù Cristo aiuti voi e i vostri connazionali in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, terre da dove provenite, a superare le prove e le conseguenze dell’immane guerra che imperversa in quelle regioni. A voi tutti e ai vostri cari, specialmente a coloro che soffrono, imparto ben volentieri la mia benedizione apostolica. Siano lodati Gesù e Maria.




Mercoledì, 25 novembre 1992

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1. Abbiamo visto che secondo l’insegnamento del Concilio, riassuntivo della dottrina tradizionale della Chiesa, esiste un “ordine dei Vescovi, il quale succede al collegio degli Apostoli nel magistero e nel regime pastorale”; e che, anzi, questo collegio episcopale come “continuazione del corpo apostolico, insieme col suo capo, il Romano Pontefice, e mai senza questo capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene questa potestà non possa essere esercitata se non consenziente il Romano Pontefice” (
LG 22). Questo testo del Concilio Vaticano II ci parla del ministero petrino del Vescovo di Roma nella Chiesa, in quanto Capo del collegio episcopale. A questo punto importante e suggestivo della dottrina cattolica dedicheremo il gruppo di catechesi che oggi cominciamo, proponendoci di farne una esposizione chiara e ragionata, in cui il sentimento della pochezza personale si associ a quello della responsabilità derivante dal mandato di Gesù a Pietro e, in particolare, dalla risposta del Maestro divino alla sua professione di fede nei pressi di Cesarea di Filippo (Mt 16,13-19).

2. Riesaminiamo il testo e il contesto dell’importante dialogo, trasmessoci dall’evangelista Matteo. Dopo aver chiesto: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16,13), Gesù fa una domanda più diretta ai suoi Apostoli: “Voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15). È già significativo il fatto che sia Simone a rispondere in nome dei Dodici: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,13-16). Si potrebbe pensare che Simone si faccia portavoce dei Dodici, in forza di una propria personalità più vigorosa e impulsiva. Può darsi che, in qualche misura, anche questo fattore entri in gioco. Ma Gesù attribuisce la risposta a una rivelazione speciale fatta dal Padre celeste: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). Al di là e al di sopra di tutti gli elementi legati al temperamento, al carattere, all’appartenenza etnica, alla condizione sociale (“la carne e il sangue”), Simone beneficia di una illuminazione e ispirazione dall’alto, che Gesù qualifica come “rivelazione”. È in virtù di questa rivelazione che Simone fa la professione di fede in nome dei Dodici.

3. Ed ecco la dichiarazione di Gesù, che nella stessa solennità della forma lascia trasparire il significato impegnativo e costitutivo che il Maestro intende darle: “E io ti dico: tu sei Pietro” (Mt 16,18). Sì, la dichiarazione è solenne: “Io ti dico”. Essa impegna l’autorità sovrana di Gesù. È una parola di rivelazione, e di rivelazione efficace, che compie ciò che dice. Un nuovo nome è dato a Simone, segno di una nuova missione. L’imposizione di questo nome viene confermata da Marco (Mc 3,16) e Luca (Lc 6,14), nel racconto della scelta dei Dodici. Anche Giovanni ne parla, precisando che Gesù ha adoperato la parola aramaica “Kefa”, che viene tradotta in greco “Petros” (Jn 1,42). Teniamo presente che il termine aramaico “Kefa” (Cefa), adoperato da Gesù, come anche il termine greco “petra” che lo traduce, significano “roccia”. Nel Discorso della montagna Gesù aveva preso l’esempio dell’“uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,24). Rivolgendosi adesso a Simone, Gesù gli dichiara che, grazie alla sua fede, dono di Dio, egli ha la saldezza della roccia, sulla quale è possibile costruire un edificio incrollabile. Gesù esprime poi la propria decisione di costruire su questa roccia un tale edificio, cioè la sua Chiesa. In altri brani del Nuovo Testamento, troviamo immagini analoghe, anche se non identiche. In alcuni testi Gesù stesso viene chiamato, non la “roccia” sulla quale si costruisce, ma la “pietra” con la quale si fa la costruzione: “pietra angolare” che assicura la coesione dell’edificio. Il costruttore allora non è Gesù, bensì Dio Padre (cf. Mt 12,10-11 1P 2,4-7). Le prospettive sono quindi diverse. Ancor altra è la prospettiva in cui si pone l’apostolo Paolo quando ricorda ai Corinzi che “da sapiente architetto” egli ha “posto il fondamento” della loro Chiesa e precisa poi che questo fondamento è “Gesù Cristo” (cf. 1Co 3,10-11). Attraverso la diversità delle prospettive particolari è tuttavia possibile avvertire una parentela di fondo, la quale permette di concludere che Gesù, con l’imposizione di un nuovo nome, ha reso Simon Pietro partecipe della propria qualità di fondamento. Vi è tra Cristo e Pietro un rapporto istituzionale che ha radice nella realtà profonda dove la vocazione divina si traduce in missione specifica conferita dal Messia.

4. Gesù continua affermando: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Sono parole che attestano la volontà di Gesù di edificare la sua Chiesa con un essenziale riferimento alla missione e al potere specifici che Egli a suo tempo conferirà a Simone. Gesù definisce Simon Pietro come fondamento sul quale sarà costruita la Chiesa. Il rapporto Cristo-Pietro si riflette così sul rapporto Pietro-Chiesa. Lo carica di valore e ne dischiude il significato teologico e spirituale, che oggettivamente ed ecclesialmente è alla base di quello giuridico. Matteo è il solo evangelista che ci riporta queste parole, ma a tale proposito occorre ricordare che Matteo è anche l’unico che ha raccolto dei ricordi di particolare interesse su Pietro (cf. Mt 14,28-31), forse in riferimento alle comunità per le quali scriveva il suo Vangelo, e alle quali voleva inculcare il concetto nuovo dell’“assemblea convocata” nel nome di Cristo, presente in Pietro. D’altra parte il “nome nuovo” di Pietro, dato da Gesù a Simone, è confermato dagli altri evangelisti, senza alcun contrasto col significato del nome spiegato da Matteo. Né, del resto, si vede quale altro significato esso potrebbe avere.

5. Il testo dell’evangelista Matteo (Mt 16,15-18), che presenta Pietro come fondamento della Chiesa, è stato oggetto di molte discussioni, che sarebbe lungo riferire, e anche di negazioni, le quali, più che da prove basate sui codici biblici e sulla tradizione cristiana, derivano dalla difficoltà di capire la missione e il potere di Pietro e dei suoi successori. Senza addentrarci nei particolari ci contentiamo qui di far osservare che le parole di Gesù riportate da Matteo hanno un timbro indubbiamente semitico, avvertibile anche nelle traduzioni greca e latina; e che inoltre comportano una novità inspiegabile proprio nel contesto culturale e religioso giudaico in cui le presenta l’evangelista. Infatti a nessun capo religioso del giudaismo contemporaneo venne attribuita la qualità di pietra fondamentale. Gesù invece l’attribuisce a Pietro. Questa è la grande novità introdotta da Gesù. Non poteva essere il frutto di una invenzione umana, né in Matteo, né in autori posteriori.

6. Dobbiamo anche precisare che la “Pietra” di cui parla Gesù è propriamente la persona di Simone. Gesù gli dice: “Tu sei Kefa”. Il contesto di questa dichiarazione ci fa capire ancora meglio il senso di quel “Tu-persona”. Dopo che Simone ha detto chi è Gesù, Gesù dice chi è Simone, secondo il suo progetto di edificazione della Chiesa. È vero che Simone viene detto Pietra dopo la professione di fede, e che ciò implica una relazione tra la fede e il ruolo di pietra conferito a Simone. Ma la qualità di pietra è attribuita alla persona di Simone, non a un suo atto, sia pure nobilissimo e gradito a Gesù. La parola pietra esprime un essere permanente, sussistente; quindi si applica alla persona, piuttosto che a un suo atto, necessariamente passeggero. Lo confermano le successive parole di Gesù, il quale proclama che le porte degli inferi, cioè le potenze di morte, non prevarranno “contro di essa”. Questa espressione può riferirsi alla Chiesa o alla pietra. In ogni modo, secondo la logica del discorso, la Chiesa fondata sulla pietra non potrà essere distrutta. La permanenza della Chiesa è legata con la pietra. Il rapporto Pietro-Chiesa ripete in sé il legame tra la Chiesa e Cristo. Gesù dice infatti: “La mia Chiesa”. Il che significa che la Chiesa sarà sempre Chiesa di Cristo, Chiesa che appartiene a Cristo. Essa non diventa la Chiesa di Pietro. Ma, come Chiesa di Cristo, è edificata su Pietro, che è Kefa nel nome e per virtù di Cristo.

7. L’evangelista Matteo riporta un’altra metafora a cui ricorre Gesù per spiegare a Simon Pietro - e agli altri Apostoli - ciò che vuol fare di lui: “A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16,19). Anche qui notiamo subito che, secondo la tradizione biblica, è il Messia che possiede le chiavi del regno. L’Apocalisse, infatti, riprendendo espressioni del profeta Isaia, presenta Cristo come “il Santo, il verace, Colui che ha le chiavi di Davide; quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre” (Ap 3-7). Il testo di Isaia (Is 22,22), che riguarda un certo Eliakim, è visto come un’espressione profetica dell’era messianica, nella quale la “chiave” serve per aprire o chiudere non la casa di Davide (come edificio o come dinastia), ma il “regno dei cieli”: questa nuova, trascendente realtà annunciata e portata da Gesù. Gesù, infatti, è Colui che, secondo la Lettera agli Ebrei, con il suo sacrificio “è entrato nel santuario celeste” (He 9,24): ne possiede le chiavi e ne apre la porta. Queste chiavi Gesù le consegna a Pietro, che dunque riceve il potere sul regno, potere che eserciterà nel nome di Cristo, come suo maggiordomo e capo della Chiesa, casa che raccoglie i credenti in Cristo, i figli di Dio.

8. A Pietro dice infatti Gesù: “Tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato nei cieli; e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). È un’altra similitudine usata da Gesù per manifestare la sua volontà di conferire a Simon Pietro un potere universale e completo, garantito e autenticato da una approvazione celeste. Non si tratta solo del potere di enunciare punti di dottrina o direttive generali di azione: secondo Gesù, è potere “di sciogliere e di legare”, ossia di prendere tutte le misure richieste dalla vita e dallo sviluppo della Chiesa. L’opposizione “legare-sciogliere” serve a mostrare la totalità del potere.

Ma bisogna subito aggiungere che lo scopo di questo potere è di aprire l’accesso al regno, non di chiuderlo: “aprire”, cioè rendere possibile l’ingresso nel regno dei cieli, e non opporvi ostacoli che equivarrebbero a una “chiusura”. Tale è la finalità propria del ministero Petrino, radicato nel sacrificio redentivo di Cristo, venuto per salvare ed essere Porta e Pastore di tutti nella comunione dell’unico Ovile (cf. Jn 10,7 Jn 10,11 Jn 10,16). Mediante il suo sacrificio, Cristo è diventato “la porta delle pecore”, di cui era figura quella costruita da Eliasib, sommo sacerdote, con i suoi fratelli sacerdoti, impegnati a rialzare le mura di Gerusalemme, a metà del V secolo avanti Cristo (cf. Ne Ne 3,1). Il Messia è la vera Porta della Nuova Gerusalemme, costruita col suo sangue versato sulla croce. Di questa Porta Egli ha affidato le chiavi a Pietro, perché sia il ministro del suo potere salvifico nella Chiesa.

Saluto a un gruppo di vietnamiti

Ecco le parole del Papa in una nostra traduzione in italiano.

Questa mattina, sono presenti fra noi alcuni importanti rappresentanti della Chiesa cattolica in Vietnam. Il gruppo di pellegrini Vietnamiti è accompagnato da due vescovi: Monsignor François Xavier Nguyen Van Thuan, Arcivescovo coadiutore dell’Arcidiocesi di Hochiminh Ville, e Monsignor Etienne Nguyen Nhu The, che svolge il suo ministero episcopale nell’Arcidiocesi di Hue.

La vostra presenza, cari fratelli e sorelle del Vietnam, è particolarmente significativa, dal momento che proprio ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica dei Martiri Vietnamiti; centodiciassette martiri, di cui otto vescovi, cinquanta sacerdoti, cinquantanove laici, e tra loro una donna, Agnès Le Thi Thanh, madre di sei figli. Questi cristiani hanno testimoniato la loro fedeltà a Cristo fino al sacrificio supremo della propria vita, nel periodo compreso tra il 1745 e il 1862. Su di essi, come su un fondamento solido, la Chiesa in Vietnam si è sviluppata. Che la loro testimonianza e la loro intercessione siano un incoraggiamento e un sostegno per tutti i cristiani Vietnamiti, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici, che si adoperano per vivere il Vangelo nella situazione sociale di questo amato paese, o che scelgono l’esperienza dell’esilio e della separazione vivendo in tutti i continenti. Sono consapevole delle difficoltà e dei sacrifici che i cattolici del Vietnam devono affrontare nella vita di tutti i giorni. Voglio assicurare a voi e a loro che vi sono vicino col pensiero, con l’affetto e con la preghiera. La vostra fedeltà a Cristo e alla persona del Successore di Pietro è motivo d’onore per tutta la Chiesa e motivo di grande gioia per me. Per questo, rendo grazie al Signore con tutto il cuore. Che il Dio della speranza vi colmi di gioia e di pace nello Spirito Santo e vi aiuti a percorrere con fiducia le vie che la Provvidenza indica alla Chiesa nella vostra Patria!

La presenza di Monsignor The ci fa ricordare il santuario Mariano di La-Vang, che appartiene all’Arcidiocesi di Hue, nel Vietnam centrale. Alla Regina dei Martiri, la Beata Vergine Maria venerata in questa città da ormai duecento anni, noi affidiamo tutta la comunità cattolica Vietnamita, affinché essa possa vivere e crescere in un clima di libertà e di pace e possa portare il suo contributo specifico allo sviluppo civile e al progresso morale del Paese.

Ai fedeli di lingua francese

Ai fedeli di lingua inglese

Ai fedeli giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Dilettissimi pellegrini di Sendai, a voi che concludete l’anno liturgico pellegrinando fino al centro della cristianità, auguro di trascorrere la vita pellegrinando verso il Cielo.

E a voi che allietate gli animi con l’armonia degli strumenti musicali auguro che il canto della pace risuoni sempre nella vostra vita. Vi benedico tutti di cuore.

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai pellegrini di espressione tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai pellegrini di lingua portoghese

Ai fedeli polacchi

Ai pellegrini di lingua italiana

Rivolgo ora il mio cordiale saluto a tutti i pellegrini di lingua italiana, in particolare ai sacerdoti e fedeli della Parrocchia romana del Corpo e Sangue di Cristo, che ho avuto la gioia di visitare lo scorso anno, proprio in questa data. Grazie per la vostra presenza qui, ed auguri vivissimi, che la missione popolare, recentemente conclusa, continui a portare copiosi frutti per un sempre più impegnativo cammino di perfezione cristiana.

Saluto, inoltre, gli Allievi della Scuola del Genio, Battaglione “Tobruk”, da Roma, e gli Istruttori del Centro Nazionale di Specializzazione e di Perfezionamento tiro della Polizia di Stato, da Nettuno. A tutti voi, carissimi, auguro che l’esperienza che state vivendo contribuisca ad una vostra ulteriore maturazione personale alla luce anche dei perenni valori del messaggio evangelico.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Un pensiero, infine, ai giovani, agli ammalati ed alle coppie di sposi novelli: esso si ispira alla festa di Cristo Re, che abbiamo celebrato domenica, a conclusione dell’anno liturgico. Siate consapevoli, voi giovani, che Cristo vi ha liberati dal potere delle tenebre, per inserirvi nel suo Regno, e fare di voi testimoni credibili della Verità salvifica. Il Cristo, che regna dalla Croce, conforti voi tutti, cari malati, con la certezza che nella sua passione il Signore si è fatto solidale con tutto il dolore umano. Cristo Re sia per voi, giovani sposi, il centro della vostra famiglia, Colui che guida i vostri passi verso l’adempimento pieno della vocazione coniugale. A tutti la mia Benedizione Apostolica.






Catechesi 79-2005 11112