Catechesi 79-2005 16114

Mercoledi 16 Novembre 1994: La castità consacrata nell'unione nuziale di Cristo e della Chiesa

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1. Tra i consigli evangelici, secondo il Concilio Vaticano II, eccelle il prezioso dono della "perfetta continenza per il Regno dei cieli": dono della grazia divina, "dato dal Padre ad alcuni (cfr.
Mt 19,11 1Co 7,7) perché più facilmente, con cuore indiviso (cfr. 1Co 7,32-34), si consacrino solo a Dio nella verginità e nel celibato... segno e stimolo della carità e speciale sorgente di spirituale fecondità nel mondo" (Costituzione LG 42). Tradizionalmente, si era soliti parlare dei "tre voti" - di povertà, castità e obbedienza - cominciando il discorso dalla povertà come distacco dai beni esterni, collocati a un gradino inferiore in rapporto ai beni del corpo e a quelli dell'anima (cfr. San Tommaso, II-II 186,3). Il Concilio invece nomina espressamente la "castità consacrata" prima degli altri due voti (cfr. LG 43, Decreto PC 12-14), perché la considera come l'impegno determinante per lo stato di vita consacrata. E anche il consiglio evangelico che mostra nella maniera più evidente la potenza della grazia, che eleva l'amore al di sopra delle inclinazioni naturali dell'essere umano.


2. La sua spirituale grandezza si rileva dal Vangelo, perché Gesù stesso ha fatto capire quale valore attribuiva all'impegno nella via del celibato. Secondo Matteo, l'elogio del celibato volontario viene fatto da Gesù dopo l'enunciazione sulla indissolubilità del matrimonio. Poiché Gesù ha vietato al marito di ripudiare la moglie, i discepoli reagiscono: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi". E Gesù risponde. dando al "non conviene sposarsi" un significato più alto: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca" (Mt 19,10-12).


3. Nell'affermare questa possibilità di capire una via nuova, che era quella praticata da lui e dai discepoli, e che forse suscitava le meraviglie o persino le critiche dell'ambiente, Gesù usa un'immagine che alludeva ad un fatto ben conosciuto, la condizione degli "eunuchi". Essi potevano essere tali per un'imperfezione nativa, oppure per un intervento umano: ma aggiungeva subito che ce n'era una nuova categoria - la sua! - "eunuchi per il Regno dei cieli". Era un trasparente riferimento alla scelta da lui fatta e suggerita ai suoi più stretti seguaci. Secondo la Legge mosaica, gli eunuchi erano esclusi dal culto (Dt 23,2) e dal sacerdozio (Lv 21,20). Un oracolo del Libro di Isaia aveva annunziato la fine di questa esclusione (Is 56,3-5). Gesù apre una prospettiva ancora più innovatrice: la scelta volontaria "per il Regno dei cieli" di questa situazione considerata indegna di un uomo. Ovviamente, la parola di Gesù non intende alludere ad una effettiva mutilazione fisica, che la Chiesa non ha mai permesso, ma alla libera rinuncia ai rapporti sessuali. Come ho scritto nell'Esortazione Apostolica Redemptionis Donum, si tratta di una "rinuncia, riflesso del mistero del Calvario, per trovarsi più pienamente in Cristo crocifisso e risorto; rinuncia, per riconoscere in lui fino in fondo il mistero della propria umanità e confermarlo sulla via di quel mirabile processo, del quale... l'Apostolo scrive: "Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno" (2Co 4,16)" (RD, 10).


4. Gesù è cosciente dei valori ai quali rinunciano coloro che vivono nel celibato perpetuo: egli stesso li ha affermati poco prima parlando del matrimonio come di una unione di cui Dio è l'autore e che per questo non può essere rotta. Impegnarsi nel celibato significa, si, rinunciare ai beni inerenti alla vita matrimoniale e alla famiglia, ma non cessare di apprezzarli nel loro reale valore. La rinuncia viene fatta in vista di bene più grande, di valori più elevati, riassunti nella bella espressione evangelica di "Regno dei cieli". Il dono completo di sé a questo Regno giustifica e santifica il celibato.


5. Gesù attira l'attenzione sul dono di luce divina necessario già per "comprendere" la via del celibato volontario. Non tutti la possono comprendere, nel senso che non tutti sono "capaci" di cogliere il suo significato, di accettarla, di metterla in pratica. Questo dono di luce e di decisione è concesso solo ad alcuni. E un privilegio concesso loro per un amore più grande. Non ci si può dunque stupire se molti, non comprendendo il valore del celibato consacrato, non ne sono attratti, spesso non sanno neppure apprezzarlo. Ciò significa che vi è una diversità di vie, di carismi, di funzioni, come riconosceva San Paolo, il quale avrebbe spontaneamente desiderato condividere con tutti il suo ideale di vita verginale. Scriveva infatti: "Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno - aggiungeva - ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro" (1Co 7,7). Del resto, come osservava San Tommaso, "dalla varietà degli stati deriva alla Chiesa bellezza" (II-II 184,4).


6. Da parte dell'uomo è richiesto un atto di volontà deliberata, consapevole dell'impegno e del privilegio del celibato consacrato. Non si tratta di una semplice astensione dal matrimonio, né di un'osservanza non motivata e quasi passiva delle regole imposte dalla castità. L'atto di rinuncia ha il suo aspetto positivo nella dedizione più totale al Regno, che comporta un assoluto attaccamento a Dio "sommamente amato" e al servizio, appunto, del suo Regno. La scelta perciò deve essere ben meditata e provenire da una decisione ferma e consapevole, maturata nell'intimo della persona.

San Paolo enuncia le esigenze e i vantaggi di questa dedizione al Regno: "Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come piacere alla moglie, e si trova diviso! così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo. come piacere al marito" (2Co 7,32-34). L'Apostolo non intende pronunciare condanne sullo stato coniugale (cfr. 1Tm 4,1-3), né "gettare un laccio" a qualcuno, come egli dice (1Co 7,35); ma col realismo di un'esperienza illuminata dallo Spirito Santo, parla e consiglia - come scrive - "per il vostro bene... per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni" (ibidem 1Co 7,35). E lo scopo dei "consigli evangelici". Anche il Concilio Vaticano II, fedele alla tradizione dei consigli.

afferma che la castità è "un mezzo efficacissimo offerto ai religiosi per potersi dedicare generosamente al servizio divino e alle opere di apostolato" (PC 12).


7. Le critiche al "celibato consacrato" si sono ripetute spesso nella storia, e la Chiesa ha dovuto più volte richiamare l'attenzione sull'eccellenza dello stato religioso sotto questo aspetto: basta ricordare qui la Dichiarazione del Concilio di Trento (cfr. DS 1810), rievocata da Pio XII nella Enciclica Sacra virginitas per il suo valore magisteriale (cfr. AAS 46(1954), 174). Ciò non significa gettare un'ombra sullo stato matrimoniale. Bisogna invece aver presente ciò che afferma il Catechismo della Chiesa cattolica. "Entrambi, il sacramento del Matrimonio e la verginità per il Regno di Dio, provengono dal Signore stesso. E Lui che dà loro il senso e concede la grazia indispensabile per viverli conformemente alla sua volontà. La stima della verginità per il Regno e il senso cristiano del Matrimonio sono inseparabili e si favoriscono reciprocamente" (CEC 1620, cfr. Esort. Ap Redemptionis Donum, 11).

Il Concilio Vaticano II ammonisce che l'accettazione e l'osservanza del consiglio evangelico della verginità e del celibato consacrati richiede "una conveniente maturità psicologica ed affettiva" (PC 12). Questa maturità è indispensabile.

Le condizioni dunque per una sequela fedele di Cristo su questo punto sono: la fiducia nell'amore divino e la sua invocazione stimolata dalla coscienza della debolezza umana; un comportamento prudente ed umile; e, soprattutto, una vita di intensa unione con Cristo.

In quest'ultimo punto, che è la chiave di tutta la vita consacrata, è il segreto della fedeltà a Cristo come Sposo unico dell'anima, unica ragione di vita.


(Ai giovani, ai malati e agli sposi novelli:)

Il mio pensiero va, quindi, ai giovani presenti, ed in modo singolare a quelli della Diocesi di Teramo-Atri, venuti a Roma per iniziare la preparazione della prossima giornata mondiale della gioventù. A voi tutti, cari giovani, auguro di accogliere sempre il materno invito di Maria: "Fate quello che il Signore vi dice".

Con viva amicizia saluto voi, cari malati. invitandovi a guardare fiduciosi a Colui che regna dall'albero della Croce. Sappiate offrire a Lui con grande fede le vostre sofferenze.

E voi, cari sposi novelli, che saluto con tanta cordialità, alimentate la vostra vita grazie all'incontro quotidiano con Cristo, principio e sorgente dell'autentico amore.

Vi accompagni tutti la mia Benedizione!






24 novembre 94

La castità consacrata nell'unione nuziale di Cristo e della Chiesa


1. I religiosi, secondo il Decreto conciliare Perfectae Caritatis, "davanti a tutti i fedeli sono un richiamo di quel mirabile connubio operato da Dio, e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, per cui la Chiesa ha Cristo come suo unico Sposo" (PC 12). E in questo connubio che si scopre il valore fondamentale della verginità o celibato in ordine a Dio. E per questa ragione che si parla di "castità consacrata".

La verità di questo connubio si rivela da non poche affermazioni del Nuovo Testamento. Ricordiamo che già il Battista designa Gesù come lo sposo che possiede la sposa, cioè il popolo che accorre al suo battesimo; mentre lui, Giovanni, vede se stesso come "l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta", e che "esulta di gioia alla voce dello sposo" (Jn 3,29). E un'immagine nuziale, che già nell'Antico Testamento era usata per indicare lo stretto rapporto tra Dio e Israele: specialmente i profeti, dopo Osea (Os 1,2ss), se ne servirono per esaltare quel rapporto e per richiamarvi il popolo se lo tradiva (cfr. Is 1,21 Jr 2,2 Jr 3,1 Jr 3,6-12 Ez 16 Ez 23). Nella seconda parte del Libro di Isaia, la restaurazione di Israele viene presentata come la riconciliazione della sposa infedele con lo sposo (cfr. Is 50,1 Is 54,5-8 Is 62,4-5). La presenza di questa immagine nella religiosità di Israele appare anche dal Cantico dei Cantici e dal Salmo 45, canti nuziali prefigurativi delle nozze col Re-Messia, come sono stati interpretati dalla tradizione giudaica e cristiana.


2. In questo contesto della tradizione del suo popolo, Gesù si appropria dell'immagine. per dire che Lui stesso è lo Sposo preannunciato e atteso: lo Sposo-Messia (cfr. Mt 9,15 Mt 25,1). Egli insiste su questa analogia e terminologia anche per spiegare che cos'è il "Regno" che è venuto a portare. "I1 Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Mt 22,2).

Egli paragona i suoi discepoli ai compagni dello sposo, che si rallegrano della sua presenza, e che digiuneranno quando sarà loro tolto lo sposo (cfr. Mc 2,19-20). Ben nota è pure l'altra parabola delle dieci vergini che aspettano la venuta dello sposo per una festa di nozze (cfr. Mt 25,1-13); come anche quella dei servi che devono essere vigilanti per accogliere il loro padrone quando torna dalle nozze (cfr. Lc 12,35-38) Si può dire che in questo senso e significativo anche il primo miracolo che Gesù compie a Cana, proprio per un banchetto di nozze (cfr. Jn 2,1-11).

Definendo se stesso col titolo di Sposo, Gesù ha espresso il senso del suo ingresso nella storia, dove è venuto per realizzare le nozze di Dio con l'umanità, secondo l'annuncio profetico, per stabilire la Nuova Alleanza di Jahvé col suo popolo, e riversare nel cuore degli uomini un nuovo dono di amore divino facendone gustar loro la gioia. Come Sposo invita a rispondere a questo dono di amore: tutti sono chiamati a rispondere con amore all'amore. Ad alcuni chiede una risposta più piena, più forte, più radicale: quella della verginità o celibato "per il Regno dei cieli".


3. E noto che anche San Paolo ha accolto e sviluppato l'immagine di Cristo Sposo, suggerita dall'Antico Testamento e fatta propria da Gesù nella sua predicazione e nella formazione dei discepoli che avrebbero costituito la prima comunità. A coloro che sono nel matrimonio l'Apostolo raccomanda di considerare l'esempio delle nozze messianiche: "Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa" (Ep 5,25). Ma anche al di fuori di questa applicazione speciale al matrimonio, egli considera la vita cristiana nella prospettiva di una unione sponsale con Cristo: "Vi ho promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Co 11,2).

E una presentazione al Cristo-Sposo, che Paolo desiderava fare per tutti i cristiani. Ma non c'è dubbio che l'immagine paolina della vergine casta trovi la sua più integrale attuazione e il suo massimo significato nella castità consacrata. Il modello più splendido di tale realizzazione è la Vergine Maria, che ha accolto in sé il meglio della tradizione sponsale del suo popolo, non limitandosi alla coscienza della sua speciale appartenenza a Dio sul piano socio-religioso, ma portando l'idea della nuzialità di Israele alla donazione totale della sua anima e del suo corpo "per il Regno dei cieli", in quella sua sublime forma di castità coscientemente scelta. Per questo il Concilio può affermare che nella Chiesa la vita consacrata si realizza in profonda sintonia con la Beata Vergine Maria (cfr. LG 41), la quale è presentata dal magistero della Chiesa come la "consacrata nel modo più perfetto" (cfr. ).


4. Nel mondo cristiano una nuova luce è scaturita dalla parola di Cristo e dall'esemplare oblazione di Maria, conosciuta ben presto dalle prime comunità. Il riferimento all'unione nuziale di Cristo e della Chiesa conferisce allo stesso matrimonio la sua più alta dignità: in particolare, il sacramento del Matrimonio fa entrare gli sposi nel mistero di unione del Cristo e della Chiesa. Ma la professione di verginità o celibato fa partecipare i consacrati al mistero di queste nozze in una maniera più diretta. Mentre l'amore coniugale va al Cristo-Sposo mediante un congiunto umano l'amore verginale va direttamente alla persona di Cristo tramite una unione immediata con Lui, senza intermediari: uno sposalizio spirituale veramente completo e decisivo. E così che nelle persone di coloro che professano e vivono la castità consacrata la Chiesa realizza al massimo la sua unione di Sposa con Cristo-Sposo. Per questo si deve dire che la vita verginale si trova al cuore della Chiesa.


5. Sempre sulla linea della concezione evangelica e cristiana, si deve aggiungere che questa unione immediata con lo Sposo costituisce un anticipo della vita celeste, che sarà caratterizzata da una visione o possesso di Dio senza intermediari. Come dice il Concilio Vaticano II, la castità consacrata è "un richiamo a quel mirabile connubio, operato da Dio, che si manifesterà pienamente nel secolo futuro" (PC 12). Nella Chiesa lo stato di verginità o celibato ha dunque un significato escatologico, come annuncio particolarmente espressivo del possesso di Cristo come unico Sposo, quale si effettuerà in pienezza nell'aldilà.

In questo senso si può leggere quella parola annunciata da Gesù sullo stato di vita che apparterrà agli eletti dopo la risurrezione dei corpi: essi "non prendono moglie né marito, e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli Angeli, e, essendo figli della risurrezione (= risuscitati), sono figli di Dio" (Lc 20,35-36). La condizione della castità consacrata, pur tra le oscurità e le difficoltà della vita terrena, prelude all'unione con Dio, in Cristo, che gli eletti avranno nella felicità celeste, quando la spiritualizzazione dell'uomo risuscitato sarà perfetta.


6. Se si considera questa meta dell'unione celeste con il Cristo-Sposo, si comprende la profonda felicità della vita consacrata. San Paolo accenna a questa felicità, quando dice che chi non è sposato si preoccupa in tutto delle cose del Signore e non si trova disunito tra il mondo e il Signore (cfr. 1Co 7,39-35). Ma si tratta di una felicità che non esclude e non dispensa affatto dal sacrificio, poiché il celibato consacrato comporta delle rinunce attraverso le quali chiama a conformarsi maggiormente a Cristo crocifisso. San Paolo ricorda espressamente che nel suo amore di Sposo Gesù Cristo ha offerto il suo sacrificio per la santità della Chiesa (cfr. Ep 5,25). Alla luce della Croce comprendiamo che ogni unione al Cristo-Sposo è un impegno di amore al Crocifisso, sicché coloro che professano la castità consacrata sanno di essere destinati a una partecipazione più profonda al sacrificio di Cristo per la redenzione del mondo (cfr. ).


7. Il carattere permanente dell'unione nuziale di Cristo e della Chiesa si esprime nel valore definitivo della professione della castità consacrata nella vita religiosa: "La consacrazione sarà tanto più perfetta, quanto per mezzo di più solidi e stabili vincoli è meglio rappresentato Cristo indissolubilmente unito alla Chiesa sua Sposa" (LG 44). L'indissolubilità dell'alleanza della Chiesa con Cristo-Sposo, partecipata nell'impegno del dono di sé a Cristo nella vita verginale, fonda il valore permanente della professione perpetua. Si può dire che essa è un dono assoluto a Colui che è l'Assoluto. Lo fa capire Gesù stesso quando dice che "nessuno che ha messo mano all'aratro, e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio" (Lc 9,62). La permanenza, la fedeltà nell'impegno della vita religiosa si illumina alla luce di questa parola evangelica.

Con la testimonianza della loro fedeltà a Cristo, i consacrati sostengono la fedeltà degli stessi sposi nel matrimonio. Il compito di dare questo sostegno soggiace alla dichiarazione di Gesù su coloro che si rendono eunuchi per il Regno dei cieli (cfr. Mt 19,10-12): con essa il Maestro vuole mostrare che l'indissolubilità del matrimonio - che ha appena enunciato - non è impossibile da osservare, come insinuavano i discepoli, perché ci sono persone che, con l'aiuto della grazia, vivono al di fuori del matrimonio in una continenza perfetta.

Si vede dunque che, lungi dall'essere opposti l'uno all'altro, celibato consacrato e matrimonio sono uniti nel disegno divino. Insieme, essi sono destinati a manifestare meglio l'unione di Cristo e della Chiesa.


(Ai giovani, ai malati e agli sposi novelli:)

Rivolgo infine un cordiale saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli.

Seguire Cristo, cari giovani, vi renda sempre più autentici testimoni del suo amore ed intrepidi missionari della sua verità; abbracciare la sua Croce aiuti voi, cari malati, a dare senso soprannaturale alla vostra sofferenza; ascoltare la Parola del Signore stimoli voi, cari sposi novelli a tradurre in programma di vita coniugale l'esigente messaggio evangelico.

Di cuore vi benedico tutti.



Mercoledi 30 Novembre 1994: La povertà evangelica condizione essenziale della vita consacrata

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1. Nel mondo contemporaneo, dove è così stridente il contrasto tra le forme antiche e nuove di cupidigia e le esperienze di inaudita miseria vissuta da fasce di popolazione di enorme ampiezza, si rivela sempre più chiaramente già sul piano sociologico il valore della povertà liberamente scelta e coerentemente praticata.

Dal punto di vista cristiano poi, la povertà è stata da sempre sperimentata come condizione di vita che rende più facile seguire Cristo nell'esercizio della contemplazione, della preghiera, della evangelizzazione. E importante per la Chiesa che molti cristiani abbiano preso più viva coscienza dell'amore di Cristo per i poveri e sentano l'urgenza di portar loro soccorso. Ma è altrettanto vero che le condizioni della società contemporanea pongono in evidenza con maggior crudezza la distanza che esiste tra il Vangelo dei poveri e un mondo spesso così accanito nel perseguire gli interessi legati alla bramosia della ricchezza, diventata idolo che domina tutta la vita. Ecco perché la Chiesa sente sempre più forte la spinta dello Spirito ad essere povera tra i poveri, a ricordare a tutti la necessità di conformarsi all'ideale della povertà predicata e praticata da Cristo, e a imitarlo nel suo amore sincero e fattivo per i poveri.


2. In particolare, si è ravvivata e consolidata nella Chiesa la coscienza della posizione di frontiera che in questo campo dei valori evangelici hanno i religiosi e tutti coloro che vogliono seguire Cristo nella vita consacrata, chiamati come sono a riflettere in se stessi e a testimoniare al mondo la povertà del Maestro e il suo amore per i poveri. Egli stesso ha legato il consiglio della povertà sia all'esigenza dello spogliamento personale dall'ingombro dei beni terreni per avere il bene celeste, sia alla carità verso i poveri: "Va', vendi quello che hai, e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi" (
Mc 10,21).

Nel chiedere quella rinuncia, Gesù poneva al giovane ricco una condizione previa per una sequela che comportava la partecipazione più stretta allo spogliamento della Incarnazione. Lo avrebbe ricordato Paolo ai cristiani di Corinto, per incoraggiarli a essere generosi con i poveri, portando l'esempio di Colui che, "da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (2Co 8,9). San Tommaso commenta: Gesù "sostenne la povertà materiale per donare a noi le ricchezze spirituali" (III 40,3). Tutti coloro che, accogliendo il suo invito volontariamente seguono la via della povertà, da Lui inaugurata, sono condotti ad arricchire spiritualmente l'umanità. Lungi dall'aggiungere semplicemente la loro povertà a quella degli altri poveri che riempiono il mondo, essi sono chiamati a procurar loro la vera ricchezza, che è d'ordine spirituale. Come ho scritto nell'Esortazione apostolica Redemptionis Donum, Cristo "è il maestro e il portavoce della povertà che arricchisce" (RD, 12).


3. Se guardiamo a questo Maestro, impariamo da Lui il vero senso della povertà evangelica e la grandezza della vocazione a seguirlo sulla via di questa povertà.

E anzitutto vediamo che Gesù è vissuto veramente da povero. Secondo San Paolo, egli, Figlio di Dio, ha abbracciato la condizione umana come una condizione di povertà, e in questa condizione umana ha seguito una vita di povertà. La sua nascita è stata quella di un povero, come indica la capanna dove è nato e la mangiatoia dove è stato deposto da sua Madre. Per trent'anni è vissuto in una famiglia in cui Giuseppe guadagnava il pane quotidiano col suo lavoro di carpentiere, lavoro poi condiviso da Lui stesso (cfr. Mt 13,55 Mc 6,3). Nella sua vita pubblica ha potuto dire di sé: "Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" (Lc 9,58), come per indicare la sua totale dedizione alla missione messianica in condizioni di povertà. Ed è morto da schiavo e da povero, spogliato letteralmente di tutto, sulla croce. Aveva scelto di essere povero fino in fondo.


4. Gesù ha proclamato la beatitudine dei poveri: "Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio" (Lc 6,20). A questo proposito dobbiamo ricordare che già nell'Antico Testamento si era parlato dei "poveri del Signore" (cfr. Ps 74,19 149,4s), oggetto della benevolenza divina (Is 49,13 Is 66,2). Non si trattava semplicemente di coloro che si trovavano in uno stato d'indigenza, ma piuttosto degli umili che cercavano Dio e si mettevano con fiducia sotto la sua protezione.

Queste disposizioni d'umiltà e di fiducia chiariscono l'espressione impiegata nella versione che della beatitudine dà l'evangelista Matteo: "Beati i poveri in spirito" (Mt 5,3). Sono "poveri in spirito" tutti coloro che non pongono la loro fiducia nel denaro o nei beni materiali, e si aprono invece al Regno di Dio. Ma è proprio questo il valore della povertà che Gesù loda e consiglia come scelta di vita, che può includere una volontaria rinuncia ai beni, e proprio in favore dei poveri. E un privilegio di alcuni essere scelti e chiamati da Lui su questa via.


5. Gesù afferma pero per tutti la necessità di una scelta fondamentale circa i beni della terra: liberarsi dalla loro tirannia. Nessuno - egli dice - può servire due padroni. O si serve Dio o si serve mammona (cfr. Lc 16,13 Mt 6,24).

L'idolatria di mammona, ossia del denaro, è incompatibile col servizio a Dio. Gesù fa notare che i ricchi si attaccano più facilmente al denaro (chiamato col termine aramaico "mamona", che significa "tesoro"), e hanno difficoltà a rivolgersi a Dio: "Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio! E più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno di Dio" (Lc 18,24-25 par).

Gesù ammonisce sul duplice pericolo dei beni della terra: cioè che con la ricchezza, il cuore si chiuda a Dio, e si chiuda anche al prossimo, come si vede nella parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (cfr. Lc 16,19-31).

Tuttavia Gesù non condanna in modo assoluto il possesso dei beni terreni: a lui preme piuttosto ricordare, a coloro che li posseggono, il duplice comandamento dell'amore verso Dio e dell'amore verso il prossimo. Ma, a chi può e vuole capirlo, chiede molto di più.


6. Il Vangelo è chiaro su questo punto: a coloro che chiamava e invitava a seguirlo, Gesù chiedeva di condividere la sua stessa povertà mediante la rinuncia ai beni, pochi o tanti che fossero. Abbiamo già citato il suo invito al giovane ricco: "Vendi quello che hai e dallo ai poveri" (Mc 10,21). Era un'esigenza fondamentale, ripetuta tante volte, si trattasse dell'abbandono della casa e dei campi (cfr. Mc 10,29 par), o della barca (cfr. Mt 4,22), o addirittura di tutto: "Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (Lc 14,33). Ai suoi "discepoli", cioè ai chiamati a seguirlo con un dono totale delle loro persone, Gesù diceva: "Vendete ciò che avete e datelo in elemosina" (Lc 12,33).


7. Questa povertà è chiesta a coloro che accettano di seguire Cristo nella vita consacrata. La loro povertà si concretizza anche in fatto giuridico, come ricorda il Concilio. Esso può avere espressioni varie: dalla rinuncia radicale alla proprietà di beni, come negli antichi "Ordini mendicanti" e come è oggi ammesso anche per i membri delle altre Congregazioni religiose (cfr. Decreto PC 13) ad altre possibili forme che il Concilio incoraggia a cercare (cfr. ibidem PC 13). Ciò che importa è che la povertà sia realmente vissuta come partecipazione alla povertà di Cristo: "Per quanto riguarda la povertà religiosa, non basta essere soggetti ai Superiori nell'uso dei beni, ma occorre che i religiosi pratichino una povertà esterna ed interna, ammassando tesori in cielo (cfr. Mt 6,20)" (PC 13).

Gli Istituti stessi sono chiamati ad una testimonianza collettiva della povertà. Il Concilio dando nuova autorevolezza alla voce di tanti maestri della spiritualità e della vita religiosa, ha sottolineato in modo particolare che gli Istituti "sono tenuti ad evitare ogni apparenza di lusso, di lucro eccessivo e di accumulazione di beni" (PC 13). E ancora, che la loro povertà deve essere animata da uno spirito di condivisione tra le diverse province e case, e di generosità "per le necessità della Chiesa e per il sostentamento dei poveri" (ibidem PC 13).


8. Un altro punto, che sta riemergendo sempre più nello sviluppo recente delle forme di povertà, si manifesta nella raccomandazione del Concilio concernente "la comune legge del lavoro" (PC 13). In precedenza esisteva una scelta e una prassi di mendicità, segno di povertà, di umiltà e di carità benefica verso gli indigenti. Oggi è piuttosto col loro lavoro che i religiosi "si procurano i mezzi necessari al loro sostentamento e alle loro opere". E una legge di vita e una prassi di povertà. Abbracciarla liberamente e gioiosamente significa accogliere il consiglio e credere alla beatitudine evangelica della povertà. E il servizio maggiore che, sotto questo aspetto, i religiosi possono rendere al Vangelo: testimoniare e praticare lo spirito di abbandono fiducioso nelle mani del Padre, da veri seguaci di Cristo, che quello spirito ha vissuto, ha insegnato, ha lasciato in eredità alla Chiesa.

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Ai fedeli di lingua italiana

Il mio cordiale benvenuto va ora a tutti i pellegrini di lingua italiana. Saluto in particolare i fedeli della Parrocchia di S. Maria delle Grazie in S. Pio V, in Bologna, che, accompagnati dal loro Parroco, sono venuti a Roma per prepararsi alla prossima “Decennale Eucaristica”.

Saluto inoltre il gruppo delle Focolarine, provenienti da diverse parti del mondo, che stanno seguendo un corso di approfondimento sulla loro spiritualità. Auspico, carissime, che la consacrazione perpetua a Dio, a cui vi state preparando in questi giorni, sia ricca di frutti spirituali per una sempre più incisiva testimonianza del valore evangelico dell’unità nella Chiesa e con il Successore di Pietro.

Saluto ancora gli Ufficiali, i Sottufficiali e gli Allievi della Scuola delle Trasmissioni e del 44o Reggimento Trasmissioni del presidio Militare della Cecchignola.

Carissimi, siete venuti accompagnati dal vostro Cappellano, e so che avete voluto partecipare alla celebrazione della Santa Messa prima dell’Udienza, per vivere ancora più intensamente questo incontro. Auguro a tutti voi, in special modo a quanti si stanno preparando a ricevere il Sacramento della Confermazione, di essere sempre veri “soldati di Cristo”, pronti ad offrire una convinta e concreta testimonianza di fede.

Ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli

Il mio pensiero si rivolge infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Il tempo liturgico dell’Avvento, da poco iniziato, ci invita ad andare incontro al Signore che viene con la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Voi, cari giovani, preparatevi a celebrare la nascita di Gesù con l’ascolto assiduo della Parola di Dio e la generosa risposta alla sua grazia. Voi, cari malati, sappiate scoprire nella sofferenza un mezzo privilegiato per contribuire all’instaurazione del Regno di Dio. Voi, cari sposi novelli, imparate ad accogliere ed educare con amore i figli che Dio vorrà affidarvi, sapendo che lo stesso Salvatore si è fatto bambino per redimere l’umanità tutt’intera.

Al termine dell’Udienza generale Giovanni Paolo II rivolge “un pensiero di speciale affetto” al Patriarca Bartolomaios I e all’intera Chiesa di Costantinopoli.

Celebriamo oggi la Festa dell’apostolo Sant’Andrea, fratello di Simon Pietro, Patrono della Chiesa che è in Costantinopoli, dove si è recata, come di consueto, una Delegazione della Santa Sede.

Desidero esprimere un pensiero di speciale affetto a Sua Santità il Patriarca Bartolomaios I e all’intera Chiesa di Costantinopoli.

Preghiamo insieme lo Spirito Santo affinché, per intercessione dei Santi fratelli apostoli Pietro e Andrea, conceda presto alla Chiesa di godere pienamente della sua unità.







Mercoledi 7 Dicembre 1994: L'obbedienza evangelica nella vita consacrata

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1. Quando Gesù ha chiamato dei discepoli a seguirlo, ha loro inculcato la necessità di una obbedienza votata alla sua persona. Non si trattava soltanto della comune osservanza della legge divina e dei dettami della coscienza umana retta e verace, ma di un impegno ben maggiore. Seguire Cristo significava accettare di compiere quanto lui personalmente comandava e di mettersi sotto la sua direzione a servizio del Vangelo, per l'avvento del Regno di Dio (cfr.
Lc 9,60 Lc 9,62).

perciò, oltre l'impegno nel celibato e nella povertà, col suo "Seguimi" Gesù chiedeva anche quello di una obbedienza che costituiva l'estensione ai discepoli della sua obbedienza al Padre, nella condizione di Verbo incarnato, divenuto il "Servo di Jahvè" (cfr. Is 42,1 52,13-53,12; Ph 2,7). Come la povertà e la castità, così l'obbedienza caratterizzava il compimento della missione di Gesù e ne era anzi il principio fondamentale, tradotto nel sentimento vivissimo che lo portava a dire: "Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera" (Jn 4,34 cfr. RD, Jn 13). Noi sappiamo dal Vangelo che in forza di questo atteggiamento Gesù giunge con piena dedizione di sé al sacrificio della Croce, quando - come scrive San Paolo - Lui che era di natura divina "umilio se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (Ph 2,8).

La Lettera agli Ebrei sottolinea che Gesù Cristo, "pur essendo Figlio, imparo tuttavia l'obbedienza dalle cose che pati" (He 5,8).

Gesù stesso rivelo che il suo animo tendeva alla oblazione totale di sé, quasi per un misterioso pondus Crucis, una sorta di legge di gravità della vita immolata, che avrebbe avuto la sua suprema manifestazione nella preghiera del Getsemani: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a Te: allontana da me questo calice! Pero, non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36).


2. Eredi dei discepoli direttamente chiamati da Gesù a seguirlo nella sua missione messianica, i religiosi - dice il Concilio - "con la professione di obbedienza offrono a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi, e per mezzo di questo sacrificio in maniera più costante e sicura si uniscono alla volontà salvifica di Dio" (PC 14). E nella rispondenza alla volontà divina di salvezza, che si giustifica la rinuncia alla propria libertà. Come apertura al disegno salvifico di Dio sull'immenso orizzonte, nel quale il Padre abbraccia tutte le creature, l'obbedienza evangelica va ben oltre il destino individuale del discepolo: è una partecipazione all'opera della Redenzione universale.

Questo valore salvifico è stato sottolineato da San Paolo a proposito dell'obbedienza di Cristo. Se il peccato aveva invaso il mondo per un atto di disobbedienza, la salvezza universale è stata ottenuta con l'obbedienza del Redentore: "Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti" (Rm 5,19). Nella patristica dei primi secoli è ripreso e sviluppato il parallelo tra Adamo e Cristo, fatto da San Paolo; come pure il riferimento a Maria, in rapporto a Eva, sotto l'aspetto dell'obbedienza. così Sant'Ireneo scrive: "Il nodo della disobbedienza di Eva è stato sciolto dall'obbedienza di Maria" (Adversus Haereses, 3,22,4). "Come quella era stata sedotta in modo da disobbedire a Dio, così questa si lascio persuadere a obbedire a Dio" (Ibidem).

Per questo Maria è diventata cooperatrice della salvezza: Causa salutis (Ibidem).

Con la loro obbedienza anche i religiosi sono profondamente coinvolti nell'opera della salvezza.


3. San Tommaso vede nell'obbedienza religiosa la forma più perfetta dell'imitazione di Cristo, del quale dice San Paolo che "si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (Ph 2,8). Essa ha quindi il primo posto nell'olocausto della professione religiosa (cfr. II-II 186,5 II-II 186,7-8).

Sulla scia di questa bella e forte tradizione cristiana, il Concilio sostiene che "ad imitazione di Gesù Cristo... i religiosi, mossi dallo Spirito Santo, si sottomettono in spirito di fede ai Superiori che fanno le veci di Dio, e tramite loro si pongono al servizio di tutti i fratelli in Cristo, come Cristo stesso per la sua sottomissione al Padre venne per servire i fratelli e diede la sua vita in riscatto di molti" (PC 14). L'obbedienza al Padre fu da Gesù attuata senza escludere le mediazioni umane. Nella sua infanzia Gesù obbediva a Giuseppe e Maria: dice San Luca che "stava loro sottomesso" (Lc 2,51).

Così Gesù è il modello di coloro che obbediscono a un'autorità umana discernendo in questa autorità un segno della volontà divina. E dal consiglio evangelico dell'obbedienza i religiosi sono chiamati a obbedire ai Superiori in quanto rappresentanti di Dio. Per questo San Tommaso, spiegando un testo (c. 68) della Regola di San Benedetto, sostiene che il religioso deve attenersi al giudizio del Superiore (cfr. I-II 13,5 ad 3).


4. E facile capire che nel discernimento di questa rappresentanza divina in una creatura umana si trova spesso la difficoltà dell'obbedienza. Ma se qui si affaccia il mistero della Croce, non bisogna perderlo di vista. Sarà sempre da ricordare che l'obbedienza religiosa non è semplicemente sottomissione umana a un'autorità umana. Colui che obbedisce si sottomette a Dio, alla volontà divina espressa nella volontà dei Superiori. E una questione di fede. I religiosi devono credere a Dio che comunica loro il suo volere mediante i Superiori. Anche nei casi in cui appaiono i difetti dei Superiori, la loro volontà, se non contraria alla legge di Dio o alla Regola, esprime la volontà divina. Persino quando dal punto di vista di un giudizio umano la decisione non sembra saggia, un giudizio di fede accetta il mistero del volere divino: mysterium Crucis.

Del resto, la mediazione umana, anche se imperfetta, porta un sigillo autentico: quello della Chiesa che con la sua autorità approva gli Istituti religiosi e le loro leggi, come vie sicure della perfezione cristiana. A questa ragione di ecclesialità se ne aggiunge un'altra: quella che deriva dalla finalità degli Istituti religiosi, che è di "dare la propria collaborazione alla edificazione del Corpo di Cristo secondo il piano di Dio" (PC 14). Per il religioso che così concepisce e pratica l'obbedienza, questo diventa il segreto della vera felicità data dalla cristiana certezza di non aver seguito il proprio volere, ma quello divino, con un intenso amore verso Cristo e la Chiesa.

Ai Superiori, peraltro, il Concilio raccomanda di essere per primi docili alla volontà di Dio; di prendere coscienza della loro responsabilità; di sviluppare lo spirito di servizio; di esprimere la carità verso i loro fratelli; di rispettare la persona dei sudditi; di promuovere un clima di cooperazione; di ascoltare volentieri i loro fratelli, pur rimanendo ferma la loro autorità di decidere (cfr. PC 14).


5. L'amore alla Chiesa è stato all'origine delle Regole e Costituzioni delle Famiglie religiose, che a volte dichiaravano espressamente l'impegno di sottomissione all'autorità ecclesiale. così si spiega l'esempio di Sant'Ignazio di Loyola. che, per servire meglio Cristo e la Chiesa, diede alla Compagnia di Gesù il famoso "quarto voto"! quello di "speciale obbedienza al Papa circa le missioni". Questo voto specifica una norma, che era ed è implicita in qualsiasi professione religiosa. Anche altri istituti hanno esplicitato questa norma in un modo o nell'altro. Oggi il Codice di Diritto Canonico la mette in risalto, conformemente alla migliore tradizione di dottrina e di spiritualità derivate dal Vangelo: "Gli istituti di vita consacrata, in quanto dediti in modo speciale al servizio di Dio e di tutta la Chiesa, sono per un titolo peculiare soggetti alla suprema autorità della Chiesa stessa" (CIC 590, § 1). "I singoli membri (degli Istituti) sono tenuti a obbedire al Sommo Pontefice come loro supremo Superiore, anche in forza del vincolo sacro di obbedienza" (Ibidem, CIC 590§ 2). Sono norme di vita che, abbracciate e seguite con fede, portano i religiosi ben al di là di una concezione giuridica di collocazione di rapporti nella comunità cristiana: essi sentono il bisogno di inserirsi quanto più possono nelle propensioni spirituali e nelle iniziative apostoliche della Chiesa, nei vari momenti della sua vita, con la loro azione o almeno con la loro preghiera, e sempre con il loro affetto filiale.

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Ai visitatori giapponesi

Rendiamo grazie a Dio!

Cari pellegrini del Giappone, benvenuti! Avvicinandosi al Terzo Millennio la povera umanità ha bisogno di pace. Quindi noi, tutti, con un’anima sola operiamo per la pace del mondo. Rendiamo grazie a Dio!

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(Ai pellegrini croati:)

Saluto cordialmente il gruppo di pellegrini di Split.

Allo stesso modo saluto pure i membri del Coro misto "Trebevic" dell'Associazione Culturale Croata "Napredak" di Sarajevo. Carissimi, non cessate di infondere il messaggio della speranza con il vostro canto presso i vostri concittadini, come lo avete fatto finora durante questi lunghi giorni di guerra a Sarajevo, impegnandovi per la giusta pace. La vostra presenza qui è un invito a un'urgente solidarietà tra gli uomini di buona volontà per porre fine ad una guerra così disumana e per risparmiare ulteriori sofferenze a tutte le care popolazioni delle zone coinvolte dalla guerra in Bosnia Erzegovina e in Croazia.

Imparto la mia Benedizione Apostolica a voi qui presenti, alle vostre famiglie e all'intera Bosnia Erzegovina.

Siano lodati Gesù e Maria!

Ai fedeli italiani

Porgo un cordiale benvenuto a tutti i pellegrini di lingua italiana, in particolare al gruppo della Parrocchia romana delle Sante Perpetua e Felicita, che, in occasione del 25o di fondazione, ospita alcuni membri della “Fraternité Sainte Perpétue et Félicite” di Vierzon, in Francia. Questo “gemellaggio” spirituale porti frutti di fede e di carità!

Saluto le Suore ed il personale della Clinica Psichiatrica di Colle Cesarano, in diocesi di Tivoli, come pure i dipendenti dell’Ospedale “SS.ma Annunziata” di Cento, in diocesi di Bologna, e il pellegrinaggio organizzato dall’AIAS di Pistoia, in modo speciale i portatori di handicap: il Signore doni a ciascuno pace e conforto.

Un saluto va poi ai giovani del Rotaract Club, che incoraggio a svolgere con spirito di autentica dedizione le loro iniziative di solidarietà e di promozione culturale.

(Ai giovani, ai malati e agli sposi novelli:)

A tutti i giovani presenti, ai malati e agli sposi novelli, rivolgo infine un pensiero ispirato alla Solennità dell'Immacolata, che si celebra domani.

A voi, giovani, dico: con lo sguardo rivolto alla Vergine Madre, siate sempre audaci nel promuovere gli autentici valori dello spirito. Indicando a voi, cari ammalati, come conforto la tenerezza materna di Maria, vi esorto ad offrire la vostra preziosa sofferenza con generosità per la salvezza del mondo. A voi, sposi novelli, auguro di fondare una famiglia che sia comunità di fede e di amore nella consapevolezza di essere progetto di Dio.

A tutti la mia Apostolica Benedizione.









Catechesi 79-2005 16114