LA CONTROVERSIA ACCADEMICA



LA CONTROVERSIA ACCADEMICA

SANT'AGOSTINO





LIBRO PRIMO

IL DIALOGO INIZIATICO DI LICENZIO E TRIGEZIO:

IL FILOSOFARE E LA FILOSOFIA

A Romaniano: Esortazione alla filosofia (1, 1-4)

Fortuna, virtù, provvidenza nella vocazione alla filosofia.

#1001

1. 1. Voglia il Cielo, o Romaniano, che la virtù possa sottrarre alla fortuna, che le si oppone, l'uomo ben disposto verso di lei, come essa, a sua volta, non tollera che alcuno le sia sottratto dall'altra. Già ormai avrebbe steso le mani su di te dichiarandoti di suo diritto e avviandoti alla conquista di beni molto sicuri per non permettere che, neanche nella prosperità, tu rimanessi schiavo. Ma è stato cosi disposto, o per motivi dipendenti da noi o per condizioni naturali, che lo spirito immortale calato nelle cose mortali non sia accolto nel porto della filosofia, dove non sia mosso né dal vento favorevole né da quello contrario della fortuna, se non ve lo sospinge essa stessa o favorevole o apparentemente contraria. Non ci rimane altro dunque che rivolgere preghiere con cui ottenere, se possiamo, da Dio che a cio provvede, che ti restituisca a te stesso, e cosi forse ti restituirà anche a noi, e permetta che la nobile tua mente, la quale da tempo ne sente il desiderio, si levi nelle auree della vera libertà. Difatti quella che volgarmente si chiama fortuna è retta da un certo ordine occulto e noi non intendiamo per caso negli eventi se non qualche cosa, la cui spiegazione razionale ci è nascosta. Niente di conveniente o non conveniente avviene in una parte che non convenga e non si adatti al tutto. E la filosofia, alla quale ti esorto, promette di mostrare ai suoi veri amatori una simile verità esposta nel discorso di feconde dottrine e molto lontana dall'intendimento dei profani. E per questo, quando ti avvengono molte cose indegne del tuo animo, non ti abbattere. Infatti se la divina provvidenza si estende fino a noi, e non se ne deve dubitare, credimi, è opportuno che le cose vadano come vanno. Tu hai tante doti che io ammiro. Ma fin da quando nell'adolescenza sei entrato, col passo non dominato dalla ragione e vacillante, nella vita umana esposta a tutti gli errori, ti ha accolto l'abbondanza delle ricchezze. Esse avrebbero cominciato a sommergere nei gorghi del piacere l'animo giovanile, il quale seguiva avidamente le cose che apparivano belle e onorate, se non ti avessero salvato, ormai vicino a sprofondare, quei soffi, apparentemente contrari, della fortuna.

L'eccessiva prosperità ostacola la vocazione alla filosofia.

1002
1. 2. Ma supponi che ti avesse accolto il sempre più favorevole applauso in teatro se tu avessi finanziato i giuochi degli orsi o spettacoli mai visti dai tuoi concittadini, che tu fossi portato fino al cielo dalle parole concordi degli uomini stolti, il cui numero è infinito (
Qo 1,15), che nessuno osasse esserti nemico, che le tavole municipali ti designassero nel bronzo come protettore non solo dei concittadini ma anche dei villaggi limitrofi, che ti fossero innalzate delle statue, che affluissero gli onori e vi si aggiungessero anche cariche superiori al rango che occupi nel municipio, che ricche mense fossero imbandite per i pasti d'ogni giorno, che ciascuno dei tuoi potesse chiedere con sicurezza e con sicurezza ottenere non solo cio che gli fosse necessario ma anche cio che il desiderio del piacere richiedesse e che molte soddisfazioni fossero concesse anche senza richiesta, e la sostanza diligentemente e fedelmente amministrata dai tuoi si mostrasse idonea e sufficiente a sostenere il carico delle spese. Tu intanto avresti trascorso la vita in eleganti appartamenti, nello splendo re delle terme, nei giuochi consentiti dal rango, nelle cacce, nei festini e saresti vantato dalle voci dei clienti, dei concittadini ed anche di abitanti di altre città come il più munifico, liberale, retto e fortunato. Di fatto lo sei stato. Chi allora, o Romaniano, chi oserebbe richiamarti alla mente l'altra felicità che sola è felicità? Chi potrebbe convincerti che non solo non sei felice, ma tanto più infelice in quanto non ne sei affatto consapevole? Ora al contrario quanto in breve ti hanno reso più disposto ad essere ammonito le tante e gravi avversità che hai sopportato? Difatti non ti si deve dimostrare con gli esempi di altri quanto siano caduche, fragili e piene di sventure quelle cose che gli uomini reputano beni. Tu ne hai avuto tali esperienze che possiamo, sul tuo esempio, ammonire gli altri.

Le avversità dispongono al filosofare.

1003
1. 3. Ed ora un'occulta provvidenza ha stabilito di destare con varie e dure scosse il tuo nobile animo con cui hai sempre cercato la dignità e la virtù, con cui hai preferito esser piuttosto liberale che ricco, con cui non hai mai desiderato di essere potente anziché giusto, con cui non ti sei mai ritirato di fronte alle avversità e alle ingiustizie, quel tuo nobile animo, dico, che, pur essendo divino, è assopito in non so quale profondo sonno. Déstati, déstati, ti prego; credimi, molto ti rallegrerai che i doni di questo mondo non ti hanno lusingato con quei favori, da cui sono presi gli incauti. Essi stavano macchinando di accalappiare anche me, benché esaltassi ogni giorno questi valori, se il dolore di petto non mi avesse costretto ad abbandonare la tronfia professione e a rifugiarmi in grembo alla filosofia. Essa. ora mi nutre e mi riscalda nella libertà dello spirito che ho sempre ardentemente desiderato. Essa mi ha del tutto liberato da quella superstizione alla quale sconsideratamente m'ero dato assieme a te. Essa m'insegna, e secondo verità m'insegna, che non si. deve aver considerazione, ma soltanto disprezzare cio che si percepisce con gli occhi mortali, cio che è oggetto del senso. Ed essa promette di mostrare con evidenza Dio, sommamente vero e ineffabile, e già si degna di farlo apparire quasi attraverso nubi che lasciano trasparire la luce.

Occasione e circostanze del dialogo.

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1. 4. Ad essa attende con impegno, assieme a me, il nostro Licenzio. Vi si è dato tutto, abbandonando le lusinghe e i piaceri giovanili. Senza essere audace, potrei proporlo da imitare a suo padre. La filosofia è tale infatti che dai suoi seni nessuna età potrà lamentarsi d'essere esclusa. Per stimolarti a nutrirtene, sebbene conosca bene la tua sete, ho voluto anticipartene un assaggio e chiedo di non avere sperato invano che esso sia per te piacevole e, per cosi dire, efficace a farti decidere. Ti ho mandato infatti trascritta la disputa che Trigezio e Licenzio hanno tenuto. Il servizio delle armi, dopo aver trattenuto per un po' anche detto giovane, quasi ad eliminare da lui il rincrescimento per le discipline, ce lo ha restituito pieno d'ardore e d'impegno per le grandi arti liberali. Quindi passati pochissimi giorni del nostro soggiorno in campagna, li trovai, dopo averli esortati e stimolati allo studio, pronti e quasi ansiosi più di quanto avevo sperato. Volli allora provare di che cosa, data l'età, fossero capaci, soprattutto perché mi sembrava che un libro di Cicerone, L'Ortensio, li avesse abbastanza ben disposti alla filosofia. Fatto dunque venire uno stenografo perché il frutto del nostro lavoro non andasse al vento, non ho permesso che qualche cosa andasse perduto. In questo libro potrai leggere i loro discorsi e le loro opinioni, di me e di Alipio anche le parole.

Impostazione del problema (2,-5-6)

Nozioni fuori ipotesi: ricerca della verità, felicità, ragione egemonica.

1005
2. 5. Appena mi parve opportuno, ci adunammo tutti, per mio invito, in un luogo adatto. Chiesi: "Non avete dubbi che ci è indispensabile conoscere il vero?". "No, di certo", rispose Trigezio. Gli altri con l'espressione del viso fecero cenno di approvare. "E se, replicai, possiamo esser felici senza conoscere il vero, ritenete necessaria la conoscenza del vero?". Alipio intervenne: "Ritengo conveniente far da giudice in tale discussione ed è stato già prestabilito un mio viaggio in città. E opportuno dunque che io sia esonerato dall'incarico di difendere l'uno o l'altro punto della controversia, tanto più che posso più facilmente delegare a qualcuno l'ufficio di giudice che quello di difensore in un senso o nell'altro. Percio da questo momento non vi aspettate da me alcun intervento a favore dell'una o dell'altra parte". Glielo accordammo unanimemente. Ed io riproposi il problema. Rispose Trigezio: "E certo che vogliamo esser felici e se a tale stato possiamo giungere senza la verità, non dobbiamo ricercare la verità". "Che ne dite? soggiunsi. Pensate che possiamo esser felici anche senza il raggiungimento della verità?". Intervenne Licenzio: "Possiamo se ricerchiamo il vero". Con un cenno richiesi il parere degli altri. Disse Navigio: "Mi convince la tesi di Licenzio. Vivere nella felicità potrebbe esser proprio questo: vivere, cioè, nella ricerca della verità". "Definisci allora, disse Trigezio, che cos'è la felicità, affinché ne possa dedurre la risposta conveniente". "Che pensi, risposi, che sia vivere nella felicità se non vivere a norma di quella che nell'uomo è la parte migliore?". "Non mi pronuncero, rispose, senza riflettere; penso infatti che tu debba spiegare anche che cos'è la parte migliore". "Non si puo dubitare, replicai, che altro non è la parte migliore dell'uomo se non quella parte dello spirito, al cui dominio conviene che siano soggette tutte le altre facoltà che sono nell'uomo. E questa, perché tu non chieda un'altra definizione, si puo denominare mente o ragione. Che se non sei d'accordo, cerca i termini della definizione della felicità e della parte migliore dell'uomo". "Sono d'accordo", disse.

I rispettivi punti di vista: ricerca incessante e ricerca consummante.

1006
2. 6. "Ma per tornare all'argomento, soggiunsi, opini che, senza raggiungere il vero, purché si cerchi, si possa vivere nella felicità?". "Confermo, mi rispose, il parere già espresso; non mi sembra proprio". "E voi che ne pensate?", chiesi. "A me sembra di si, rispose Licenzio. Infatti i nostri predecessori, di cui abbiamo appreso che furono sapienti e felici, son vissuti bene e nella felicità per il solo fatto che ricercavano il vero". "Vi ringrazio, soggiunsi, perché mi avete costituito giudice assieme con Alipio che, confesso, cominciavo già ad invidiare. Dunque uno di voi ritiene che la felicità. possa consistere nella sola ricerca della verità e l'altro nel raggiungimento di essa. Navigio ha dianzi manifestato che intende parteggiare per te, o Licenzio. Attendo allora con impazienza di notare le vostre capacità come difensori delle rispettive opinioni. Il problema è importante e veramente degno di diligente discussione". "Se è un problema importante, disse Licenzio, esige uomini preparati". "Non cercare, risposi, soprattutto in questa casa di campagna, cio che è difficile trovare in qualsiasi parte del mondo. Esponi piuttosto il fondamento e la ragione per cui, non senza considerazione, come penso, ritieni l'opinione da te dichiarata. Difatti i problemi grandissimi, quando sono trattati da piccoli individui, di solito li rendono grandi".

La filosofia come ricerca ossia il filosofare (3, 7-5, 15)

a) La perfetta ricerca (3, 7-9)

Cicerone e l'argomento dell'autorità.

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3. 7. "Veggo che tu ci stimoli con insistenza al dibattito e ho fiducia che tu lo voglia per il nostro vantaggio. Chiedo dunque perché non puo esser beato chi cerca il vero anche se non lo raggiunge". "Perché, rispose Trigezio, desideriamo che il filosofo, raggiunta la beatitudine, sia perfetto in tutto. Ora chi ancora cerca non è perfetto. Non veggo affatto dunque come tu lo possa considerare beato". E quegli: "Puo da te essere accettata l'autorità dei predecessori?". "Non di tutti", rispose Trigezio. "E di quali allora?". "Di quelli soltanto che furono veri filosofi". Licenzio replico: "Carneade non ti sembra vero filosofo?". "Ma io non sono greco; non so chi sia codesto Carneade". E Licenzio: "E del nostro grande Cicerone che ne pensi?". Dopo un lungo silenzio Trigezio rispose: "Fu un vero filosofo". E quegli insisté: "La sua opinione ha per te autorità in materia?". "Si". "Eccotela dunque, giacché penso che l'hai dimenticata. Il nostro Cicerone ritiene dunque che è felice chi ricerca la verità anche se non puo giungere al suo possesso". "Ma dove, obietto l'altro, Cicerone ha espresso tale opinione?". E Licenzio: "Ma chi ignora che Cicerone ha affermato con vigore che nulla si puo apprendere con certezza dall'uomo e che unica competenza del filosofo è la ricerca, più diligente possibile, della verità? Ne è motivo che se si prestasse l'assenso a giudizi non certi, anche se per caso fossero veri, potrebbe non sfuggire l'errore ed esso è la maggiore colpa del filosofo (Cicerone, framm. 101 t. A.). E percio se si deve ritenere che il filosofo non puo non esser felice e che la sola ricerca della verità è il compito costitutivo del filosofare, non dovremmo ancor dubitare che la felicità puo consistere anche nella sola ricerca della verità".

Si vaglia l'autorità di Cicerone.

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3. 8. Trigezio chiese: "Si puo ritornare alle affermazioni che sono state concesse senza sufficiente discernimento?". A questo punto io intervenni: "Di solito non fanno tale concessione coloro che sono indotti alla disputa non dal desiderio di raggiungere il vero, ma dalla presuntuosità di una mente immatura. Pertanto alla mia scuola, soprattutto perché voi dovete istruirvi e formarvi ancora, non solo è ammesso, è anzi mio esplicito desiderio che riteniate come regola l'opportunità di tornare a discutere quanto abbiate potuto affermare senza sufficiente esame". E Licenzio aggiunse: "Penso che non sia un piccolo progresso nella filosofia quando da chi disputa non si tiene in conto la vittoria ma l'intento di raggiungere il ragionevole e il vero. Percio volentieri rispetto i tuoi ordini e il tuo parere e accordo, poiché tale concessione è di mia competenza, che Trigezio ritorni su quanto reputa di avere ammesso senza discernimento sufficiente". Alipio interloqui: "Voi stessi riconoscete, d'accordo con me, che non è ancora giunto il turno del ruolo da me assunto. E poiché la partenza già predisposta mi costringe a un rinvio, chi partecipa con me all'incarico di giudice non rifiuterà di assumersi, fino al mio ritorno e in sostituzione del mio compito, le due parti del potere. Sto osservando che la vostra disputa andrà per le lunghe". E se ne ando. Licenzio riprese: "Che cosa avevi ammesso senza riflessione? Parla". E quegli: "Ho accordato senza riflessione che Cicerone fu un vero filosofo". "Ma davvero Cicerone non fu vero filosofo, quando da lui, nella lingua latina, fu introdotto e perfezionato lo studio della filosofia?". "Pur ammettendo che fu filosofo, non potrei tuttavia accettare tutte le sue opinioni". "Ma ti è necessario riprovare molte altre sue opinioni per non sembrare che senza discernimento tu riprovi quella relativa all'argomento che stiamo trattando". "E se io fossi capace di provare che soltanto su tale argomento non ha visto giusto? A voi non importa, penso, altro che il valore delle ragioni che intendo allegare alla mia dimostrazione". "Va' avanti, rispose l'altro. Come potro ostacolare chi si professa avversario di Cicerone?".

Ricerca, fine, perfezione, felicità.

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3. 9. Trigezio riprese a dire: "Vorrei che tu, che sei nostro giudice, richiami l'attenzione a come hai definito, poco fa, la felicità. Hai affermato che è felice chi vive secondo quella facoltà dello spirito cui conviene regolare le altre. In quanto a te, o Licenzio, sappi che in virtù della libertà, che ci è ampiamente garantita dalla filosofia, ho scosso il giogo dell'autorità. Vorrei dunque che almeno adesso mi conceda che non è perfetto chi ancora cerca la verità". E quegli, dopo lungo silenzio: "Non te lo accordo", disse. E Trigezio: "Ma di perché, se non ti dispiace. Presto tutta l'attenzione e bramo udire a quali condizioni un uomo possa esser perfetto e andare ancora in cerca della verità". E l'altro: "Confesso che non è perfetto chi ancora non è giunto al fine. Reputo che Dio soltanto conosce la verità e forse anche l'anima dell'uomo, quando avrà abbandonato questo corpo che è un carcere tenebroso. Fine dell'uomo è la ricerca perfetta della verità. Noi cerchiamo un essere perfetto che rimane tuttavia uomo". "Ma allora, ribatté Trigezio, l'uomo non puo essere felice. E come lo potrebbe se non puo conseguire l'oggetto del suo più ardente desiderio? Ma l'uomo puo vivere nella felicità poiché puo vivere secondo quella facoltà dell'animo, cui nell'uomo spetta il dominio. Ne consegue che puo raggiungere il vero. Altrimenti si ripieghi su se stesso e non desideri il vero affinché, non potendolo raggiungere, non divenga, per necessaria conseguenza, infelice". "Ma questo appunto, replico l'altro, è esser beato per l'uomo: ricercare sino al fine la verità, quanto dire giungere a quel fine, oltre il quale non si puo più andare. Chi dunque ricerca la verità con minore assiduità di quanto sia necessario non consegue il fine dell'uomo. Chi poi tanto si applica a ritrovar la verità quanto l'uomo puo e deve, sebbene non la raggiunga, è felice poiché compie l'opera per la cui attuazione esiste. Se mancherà il conseguimento, mancherà cio che le doti naturali non comportano. Infine poiché è inevitabile che l'uomo sia felice o infelice, non è da pazzi dichiarare infelice colui che di giorno e di notte, per quanto puo, si applica alla ricerca della verità? Quindi sarà felice. La definizione data mi favorisce anche in un altro senso, a mio avviso. Se è beato, come lo è veramente, chi vive secondo quella facoltà dell'animo cui spetta l'impero sulle altre, la ragione appunto, domando se non vive secondo ragione chi ricerca sino al fine la verità. Se dunque è assurdo, perché continuare a dubitare che nella sola ricerca della verità l'uomo è felice?".

b) Il filosofare e l'errore (4, 10-12)

Se errare è sempre ricercare e mai trovare (Trigezio).

1010
4. 10. "Ma a me sembra, obietto Trigezio, che né vive secondo ragione né è veramente felice chi è nell'errore. Ed erra chi cerca sempre e non trova mai. Pertanto non ti rimane che l'alternativa: o che chi erra puo essere felice o che chi sempre cerca e non trova non erra". E l'altro: "L'uomo felice non puo essere nell'errore". E dopo un lungo silenzio riprese: "Non è in errore finché cerca, perché cerca sino al fine per non essere nell'errore". Ma Trigezio insisté: "Certamente ricerca per non errare, ma erra perché non trova. Tu hai pensato che venisse a tuo vantaggio il fatto che non vuol essere nell'errore nella supposizione che si erra contro il proprio volere o piuttosto che non si erra se non contro il proprio volere". Licenzio indugiava nella risposta. Allora io intervenni: "Dovete definire che cos'è l'errore. Potete più facilmente stabilirne i limiti dal momento che ne avete implicato a fondo il significato". "Io, disse Licenzio, non sono capace di definire sebbene, per quanto riguarda l'errore, è più facile definirlo che stabilirne i limiti". "Io invece, disse Trigezio, lo definiro; e mi è molto facile non per le mie capacità ma per la migliore efficienza del mio punto di vista. Errare è appunto sempre ricercare e mai trovare". "Io, rispose Licenzio, se potessi facilmente respingere tale definizione, non sarei mancato alla difesa del mio punto di vista. Ma poiché l'argomento è, o per natura sua o perché appare a me, difficile, vi chiedo che se non trovero nulla da rispondere, sebbene ci stia pensando insistentemente, la discussione sia rimandata a domani". Io non ero contrario a tale concessione e gli altri si dimostrarono favorevoli. Ci alzammo allora per andare a passeggio. E mentre noi discutevamo di molte e varie cose, Licenzio era immerso nella riflessione. Ma non venendone a capo, preferi distrarsi e partecipare ai nostri discorsi. E cadendo già la sera, finirono per tornare all'argomento. Ma io m'imposi e li convinsi a rimandarlo all'indomani. Quindi ce ne andammo alle terme.

Se l'errore sia l'affermazione del falso in luogo del vero (Licenzio).

1011
4. 11. L'indomani, appena ci fummo riuniti, ordinai: "Ricollegatevi al discorso che avevate cominciato ieri". Prese la parola Licenzio: "Abbiamo differito la disputa dietro mia richiesta, se non sono in errore, poiché mi rimaneva difficile la definizione dell'errore". "Su cio, gli risposi, non sei certamente in errore ed io ho vivo desiderio che sia per te buon auspicio per il resto". "Ascolta allora, disse, cio che avrei esposto anche ieri se tu non fossi intervenuto. Sono della opinione, che l'errore sia l'affermazione del falso in luogo del vero. In esso certamente non cade chi ritiene che la verità si deve sempre ricercare. Non afferma il falso chi nulla afferma, quindi non puo cadere in errore. Ed egli puo evidentemente essere felice. Infatti, per non andar lontano, se ci fosse consentito di vivere ogni giorno come siamo vissuti ieri, non mi si presenterebbe un motivo per dubitare di ritenerci felici. Siamo vissuti infatti con grande tranquillità di mente, distogliendo lo spirito da ogni contaminazione e lontani assai dagli ardori delle passioni, applicando, quanto è lecito all'uomo, la ragione, vivendo, cioè, secondo quella divina facoltà dello spirito in cui, secondo quanto abbiamo ieri stabilito d'accordo, consiste la felicità. Ora, a mio avviso, non abbiamo raggiunto una conclusione ma abbiamo soltanto ricercato la verità. La felicità puo dunque appartenere all'uomo per la sola ricerca della verità anche se non la puo raggiungere. Ed ora osserva con quanta facilità la tua definizione puo essere esclusa dal comune modo di intendere. Hai detto infatti che l'errore consiste nel cercare sempre e mai trovare. Che dire se qualcuno non ricerca e interrogato, ad esempio, se in quel momento è giorno, immediatamente senza riflettere supponga e risponda che è notte? Non ti sembra che cade in errore? La tua definizione dunque non include questo tipo, e piuttosto marchiano, d'errore. E se ha incluso anche coloro che non sono in errore, non puo darsi una definizione più difettosa. Difatti se qualcuno voglia andare ad Alessandria e vi si diriga per la giusta via, tu, ritengo, non puoi dire che è in errore. E se per vari impedimenti è costretto a ritardare il viaggio e, mentre esso dura ancora, è prevenuto dalla morte, ha sempre cercato, non ha mai trovato e tuttavia non ha errato". "Non sempre ha cercato", obietto Trigezio.

Nella sola ricerca si evita l'errore e si raggiunge felicità?

1012
4. 12. "Hai ragione", rispose Licenzio, "e me lo ricordi a proposito, poiché proprio per questo motivo la tua definizione non è pertinente al concetto definito. Io infatti non ho detto che è felice chi sempre cerca la verità. Non sarebbe neanche possibile: prima di tutto perché non da sempre un individuo esiste; in secondo luogo perché, da quando ha cominciato ad essere un uomo, non percio stesso, a causa dell'età, puo ricercare il vero. Che se per "sempre" intendi che non lascia andar perduto neanche un minuto del tempo in cui è divenuto capace di ricercare, ti tocca di bel nuovo tornare ad Alessandria. Supponi dunque che un tale, dal tempo in cui gli è permesso di viaggiare dall'età e dalle occupazioni, cominci a prendere la via e che, come dianzi ho detto, senza deviare in altra parte, prima di arrivare, muoia. Cadrai certamente in un grave errore se ritieni che questo tale sia incorso in errore, sebbene, per tutto il tempo che ha potuto, non ha cessato di cercare e comunque non ha potuto raggiungere la meta. E per questo se la descrizione, che ho dato dell'errore, è vera e in base ad essa non è in errore chi cerca sino al fine, sebbene non raggiunga la verità, è felice per il motivo che vive secondo ragione. La tua definizione, al contrario, è stata dimostrata insufficiente e, se non lo fosse, non dovrei preoccuparmene poiché, da quanto ho esposto, la mia opinione ha sufficiente fondamento. E allora, scusatemi, perché non viene ancora considerato come risolto questo nostro problema?".

c) Il filosofare come metodo (5, 13-15)

Filosofare come via conveniente della vita.

1013
5. 13. "Mi concedi, intervenne Trigezio, che il filosofare è la via doverosa della vita?". "Lo concedo senza esitare; ma vorrei che tu mi definisca il filosofare perché possa comprendere se ne abbiamo lo stesso concetto". "Non ammetti che sia stato sufficientemente definito dal concetto in base al quale ti ho rivolto la domanda? Tu stesso me lo hai accordato. Salvo errore, il filosofare si definisce la via doverosa della vita". Allora Licenzio replico: "Niente mi pare tanto degno di scherno come una simile definizione". "Forse, disse l'altro, ma, scusa, vacci adagio affinché la riflessione possa prevenire il tuo scherno. Niente è più vergognoso dello scherno degno di uno scherno maggiore". "E perché? replico Licenzio. Non sei d'accordo che la morte è contraria alla vita?". "D'accordo". "Dunque per quanto ne capisco io, riprese l'altro, non v'è altra via della vita che quella che ciascuno batte per non incorrere nella morte". Trigezio faceva cenni d'assenso. "Quindi [prosegui Licenzio] se un viandante, che evita una scorciatoia perché ha udito che essa è infestata dai briganti, va per la via dovuta e cosi evita la morte, è ovvio che egli ha battuto la via della vita e quella dovuta. Ma nessuno la chiama il filosofare. In che senso dunque il filosofare è l'unica via doverosa della vita?". "Ma io ho ammesso che è una via, non l'unica". "Ma la definizione non doveva includere alcunché d'estraneo. E allora, scusa, definisci ancora una volta che cosa opini sia il filosofare".

Filosofare come razionale procedimento nella ricerca.

1014
5. 14. Quegli tacque a lungo. Quindi disse: "Eccoti un'altra definizione del filosofare se hai giudicato che esso non abbia mai una fine. Il filosofare è la via doverosa che conduce alla verità". "Ma anche questa, rispose l'altro, si deve respingere. Difatti, in Virgilio, la madre dice ad Enea: Incàmminati adesso e drizza il passo per dove la via ti conduce (Virgilio, Aen. 1, 401). E quegli, seguendo tale via, giunse alla meta indicatagli, cioè alla vera meta. Provati un po' a dimostrare, se questo è il tuo pensiero, che si puo chiamare filosofare il luogo dove egli camminando pose il piede. Ma proprio da stolto mi sforzo di demolire questa tua descrizione. Nessun'altra favorisce di più la mia tesi. Infatti tu hai affermato che il filosofare non è la stessa verità, ma la via che vi conduce. Chiunque dunque batte tale via, certamente esercita il filosofare e chi esercita il filosofare è necessariamente filosofante. Filosofante sarà dunque quegli che ricercherà sino al fine la verità anche se ancora non la possiede. Difatti, secondo la mia opinione, non ha altro significato la via che conduce alla verità se non quello di una ricerca della verità sempre in atto. Sarà dunque filosofo anche chi soltanto percorre tale via. Ma il vero filosofo non puo essere infelice ed ogni uomo è o infelice o felice; quindi rende felici non soltanto il possesso, ma la ricerca, per se stessa, della verità".

Imprescindibilità del filsofare e conseguente sua aporeticità.

1015
5. 15. Allora Trigezio sorridendo disse: "Giustamente mi capitano tali situazioni. Sono troppo conciliante con l'avversario su concetti non pertinenti come se io sia molto capace di dar definizioni o che in una disputa ci sia qualche cosa cui passar sopra. Non sarebbe un buon sistema se io ti chiedessi per la seconda volta una definizione di qualche nozione e se, fingendo di non aver capito, insistessi che tu definisca di bel nuovo tutti i termini della definizione e, ad uno ad uno, tutti i concetti che ne conseguono. Alla fine perché, di pieno mio diritto, non dovrei chiedere la definizione del concetto più ovvio se giustamente mi si chiede la definizione del filosofare? Ed infatti quale nozione è più immediata nel nostro spirito che il filosofare? Ma, non so come, appena tale nozione abbandona il porto della nostra mente e innalza, per cosi dire, le vele del discorso, va incontro a mille naufragi di contrastanti interpretazioni. E quindi o non mi si chieda più la definizione del filosofare o il nostro giudice si degni intervenire in sua difesa". Ormai l'oscurità impediva il lavoro dello stilo. Ed io stavo riflettendo che emergeva un argomento assai importante, che doveva esser trattato a fondo. Rimandai quindi ad altro giorno tanto più che avevamo cominciato a disputare nel tardo pomeriggio poiché avevamo trascorso quasi tutta la giornata a sorvegliare i lavori di campagna e a recensire il primo libro di Virgilio.

La filosofia come scienza (6, 16-8, 23)

Filosofia come scienza di cose umane e divine.

1016
6. 16. L'indomani, appena fu giorno, ebbe subito inizio la disputa. Il giorno avanti, naturalmente, erano state disposte le faccende in maniera che rimanesse un largo spazio di tempo. "Tu, o Trigezio, cominciai, hai chiesto ieri che dall'incarico di giudice io scenda a quello di difensore della filosofia come se la filosofia dovesse temere, nel vostro colloquio, un avversario o fosse priva di qualche difensore sicché dovesse invocare un aiuto maggiore. Al contrario, nella vostra disputa non è sorto altro problema che quello del significato del filosofare e nessuno di voi ne nega i diritti poiché ambedue desiderate raggiungerlo. E se ritieni di non essere ben riuscito nella definizione del filosofare, non per questo devi tralasciare gli altri argomenti a difesa della tua tesi. Pertanto da me non avrai che la definizione della filosofia che non è mia né nuova, ma dei nostri antecessori e mi meraviglierei se non la ricordaste. Infatti non per la prima volta udite dire che la filosofia è scienza di cose umane e divine (Cicerone, Tusc. 4, 26, 27; De off. 2, 2, 5)".

Filosofia e mantica.

1017
6. 17. Pensavo che Licenzio dopo tale definizione avrebbe a lungo riflettuto sulla risposta da dare. Al contrario subito interloqui: "E allora, scusa, perché non denominiamo filosofo anche quel libertino, di cui noi stessi sappiamo che era solito darsi alle dissolutezze con un bel numero di meretrici? Intendo dire il celebre Albicerio che a Cartagine per molti anni diede responsi meravigliosi e certi a chi lo consultava. Potrei allegare innumerevoli casi se non ne parlassi a persone direttamente informate e se con pochi di tali casi non ne avessi abbastanza per il mio intento". E rivolgendosi a me, prosegui: "Ricordi che non trovandosi a casa un cucchiaio, io lo consultai dietro tuo consiglio ed egli indico subito e con certezza non solo l'oggetto che si cercava, ma anche il nome del proprietario e il luogo ove era nascosto. Un altro fatto avvenne alla mia presenza. Ometto che non prendeva abbagli sui casi presentatigli. Un giovane schiavo, che portava la borsa dei denari, aveva sottratto di essi una certa somma proprio mentre ci recavamo da lui. Ed egli, prima ancora che avesse visto i denari e avesse appreso da noi quanto gli era stato portato, gli ingiunse d'indicargli l'intera somma e lo costrinse davanti ai nostri occhi a rendere la parte che aveva sottratto.

Il mante Albicerio e le sue divinazioni.

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6. 18. E perché il dottissimo e illustre Flacciano se ne meravigliava molto? Lo abbiamo appreso da te. Egli infatti aveva manifestato l'intenzione di comprare un podere; rese noto l'affare all'indovino perché indicasse, se ne era capace, cio che aveva fatto. E quegli subito non solo indico il genere dell'affare, ma anche, e proprio questo lo fece uscire in esclamazioni di meraviglia, il nome del fondo. Era tanto inconsueto che lo stesso Flacciano appena se ne ricordava. Non posso rammentare senza stupore la risposta data ad un amico nostro e tuo discepolo. Questi intendeva metterlo alla prova e con arroganza gli aveva chiesto d'indicargli che cosa stesse pensando. Egli rispose che aveva in mente un verso di Virgilio. E quegli stupito, non avendolo potuto negare, continuo a chiedergli che verso fosse. E Albicerio, che aveva forse visto soltanto di passaggio una scuola di grammatica, non esito a indicargli con sicurezza e speditezza il verso. Or dunque non erano cose umane quelle di cui egli veniva interrogato, ovvero senza scienza di cose divine poteva dare notizie tanto certe e vere a chi lo interrogava? L'uno e l'altro è assurdo. Difatti le cose umane non sono altro che le cose degli uomini, come l'argento, i denari, il fondo, infine il pensiero stesso; e cose divine si potrebbero giustamente ritenere quelle per cui la divinazione stessa puo spettare all'uomo. Dunque filosofo fu Albicerio se per filosofia, in base a quella definizione, intendiamo la scienza di cose umane e divine".


LA CONTROVERSIA ACCADEMICA