Catechesi 2005-2013 11068

Mercoledì, 11 giugno 2008: San Colombano

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo “europeo”, perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione “totius Europae – di tutta l’Europa”, con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).

Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.

All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della “peregrinatio pro Christo”, del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.

A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum - per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un'altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza “tariffata” per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, “ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese” (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).

Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.

Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.

Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: “Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo” (cfr Instr. XI). Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Do il benvenuto ai pellegrini provenienti dalla Polonia. Vi auguro che la visita alle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e agli altri luoghi santificati dalle generazioni dei martiri e dei confessori approfondisca la fede e susciti l’amore per Cristo e per la Chiesa. Dio benedica voi e le vostre famiglie. Sia lodato Gesù Cristo.

Saluto in lingua slovacca:

Saluto con affetto i pellegrini slovacchi provenienti dalla parrocchia Tajov come pure gli allievi e gli insegnanti del Ginnasio di Pezinok e del Ginnasio “San Vincenzo de Paul” di Topolcany.
Fratelli e sorelle, cari giovani, auguro che la vostra visita ai luoghi sacri di Roma rappresenti per ciascuno di voi il rinnovamento della fede cristiana. Di cuore benedico voi e le vostre famiglie.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

Con gioia saluto e benedico i pellegrini croati, particolarmente i fedeli di Kaštel Štafilic. A Dio misericordioso, che per il Sacratissimo Cuore di Cristo ci ha manifestato il suo amore infinito, ricambiamo con fiducia nell’abbandono totale del nostro cuore. Siano lodati Gesù e Maria!

* * *


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto voi, Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, che state celebrando il vostro Capitolo e vi esorto a trasmettere sempre con la vita la gioia della corrispondenza generosa e fedele alla divina chiamata. Saluto i fedeli della Diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, qui convenuti con l’Arcivescovo Mons. Domenico Sorrentino e il Vescovo emerito Mons. Sergio Goretti, ad un anno dalla visita che ho avuto la gioia di compiere ad Assisi. Cari amici, vi ringrazio ancora una volta per la calorosa accoglienza che mi avete riservato in quella giornata ricca di fede e di spiritualità. Anche in virtù di quel nostro incontro, possa la vostra Comunità diocesana conoscere una rinnovata vitalità spirituale e operare con ogni energia nel programma pastorale che, ad ottocento anni dalla “conversione” di san Francesco, vi vede impegnati a vivere ora l’anno della “comunione”, in preparazione all’anno della “missione”. Con particolare affetto saluto i Bambini missionari delle Diocesi di Castellaneta, Taranto e Bari, qui convenuti con il Vescovo Mons. Pierino Fragnelli, come pure le Bambine del Movimento dei Focolari, partecipanti al congresso GEN 4. Cari piccoli amici, vi ringrazio per la vostra presenza e vi auguro di trovare nell’amicizia con Gesù la forza necessaria per annunciarlo con gioia ed entusiasmo ai vostri coetanei, preparandovi così ad assumere i compiti che vi attendono nella Chiesa e nella società.

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. La testimonianza dell’apostolo san Barnaba, di cui oggi celebriamo la festa, sia per voi, cari giovani, incoraggiamento a camminare sempre secondo lo Spirito di Gesù Risorto; sia per voi, cari malati, sostegno nell’aderire alla volontà di Dio; aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere generosi testimoni dell’amore di Cristo.



Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 giugno 2008: Sant'Isidoro di Siviglia

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare di sant’Isidoro di Siviglia: era fratello minore di Leandro, Vescovo di Siviglia e grande amico del Papa Gregorio Magno. Il rilievo è importante, perché permette di tenere presente un accostamento culturale e spirituale indispensabile alla comprensione della personalità di Isidoro. Egli deve infatti molto a Leandro, persona molto esigente, studiosa e austera, che aveva creato intorno al fratello minore un contesto familiare caratterizzato dalle esigenze ascetiche proprie di un monaco e dai ritmi di lavoro richiesti da una seria dedizione allo studio. Inoltre Leandro si era preoccupato di predisporre il necessario per far fronte alla situazione politico-sociale del momento: in quei decenni infatti i Visigoti, barbari e ariani, avevano invaso la penisola iberica e si erano impadroniti dei territori appartenuti all’Impero romano. Occorreva conquistarli alla romanità e al cattolicesimo. La casa di Leandro e di Isidoro era fornita di una biblioteca assai ricca di opere classiche, pagane e cristiane. Isidoro, che si sentiva attratto simultaneamente sia verso le une che verso le altre, fu educato perciò a sviluppare, sotto la responsabilità del fratello maggiore, una disciplina molto forte nel dedicarsi al loro studio, con discrezione e discernimento.

Nell’episcopio di Siviglia si viveva, perciò, in un clima sereno ed aperto. Lo possiamo dedurre dagli interessi culturali e spirituali di Isidoro, così come essi emergono dalle sue stesse opere, che comprendono una conoscenza enciclopedica della cultura classica pagana e un’approfondita conoscenza della cultura cristiana. Si spiega così l’eclettismo che caratterizza la produzione letteraria di Isidoro, il quale spazia con estrema facilità da Marziale ad Agostino, da Cicerone a Gregorio Magno. La lotta interiore che dovette sostenere il giovane Isidoro, divenuto successore del fratello Leandro sulla cattedra episcopale di Siviglia nel 599, non fu affatto leggera. Forse si deve proprio a questa lotta costante con se stesso l’impressione di un eccesso di volontarismo che s’avverte leggendo le opere di questo grande autore, ritenuto l’ultimo dei Padri cristiani dell’antichità. Pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 636, il Concilio di Toledo del 653 lo definì: “Illustre maestro della nostra epoca, e gloria della Chiesa cattolica”.

Isidoro fu senza dubbio un uomo dalle contrapposizioni dialettiche accentuate. E, anche nella sua vita personale, sperimentò un permanente conflitto interiore, assai simile a quello che avevano avvertito già san Gregorio Magno e sant’Agostino, fra desiderio di solitudine, per dedicarsi unicamente alla meditazione della Parola di Dio, ed esigenze della carità verso i fratelli della cui salvezza si sentiva, come Vescovo, incaricato. Scrive per esempio a proposito dei responsabili delle Chiese: “Il responsabile di una Chiesa (vir ecclesiasticus) deve da una parte lasciarsi crocifiggere al mondo con la mortificazione della carne e dall’altra accettare la decisione dell’ordine ecclesiastico, quando proviene dalla volontà di Dio, di dedicarsi al governo con umiltà, anche se non vorrebbe farlo” (Sententiarum liber III, 33, 1: PL 83,
Col 705 B). Aggiunge poi appena un paragrafo dopo: “Gli uomini di Dio (sancti viri) non desiderano affatto di dedicarsi alle cose secolari e gemono quando, per un misterioso disegno di Dio, vengono caricati di certe responsabilità… Essi fanno di tutto per evitarle, ma accettano ciò che vorrebbero fuggire e fanno ciò che avrebbero voluto evitare. Entrano infatti nel segreto del cuore e là dentro cercano di capire che cosa chieda la misteriosa volontà di Dio. E quando si rendono conto di doversi sottomettere ai disegni di Dio, umiliano il collo del cuore sotto il giogo della decisione divina” (Sententiarum liber III, 33, 3: PL 83, coll. 705-706).

Per capire meglio Isidoro occorre ricordare, innanzitutto, la complessità delle situazioni politiche del suo tempo, a cui ho già accennato: durante gli anni della fanciullezza aveva dovuto sperimentare l’amarezza dell’esilio. Ciò nonostante era pervaso di entusiasmo apostolico: sperimentava l’ebbrezza di contribuire alla formazione di un popolo che ritrovava finalmente la sua unità, sul piano sia politico che religioso, con la provvidenziale conversione dell’erede al trono visigoto Ermenegildo dall’arianesimo alla fede cattolica. Non si deve tuttavia sottovalutare l’enorme difficoltà di affrontare in modo adeguato problemi assai gravi come quelli dei rapporti con gli eretici e con gli Ebrei. Tutta una serie di problemi che appaiono molto concreti anche oggi, soprattutto se si considera ciò che avviene in certe regioni nelle quali sembra quasi di assistere al riproporsi di situazioni assai simili a quelle presenti nella penisola iberica in quel sesto secolo. La ricchezza delle conoscenze culturali di cui disponeva Isidoro gli permetteva di confrontare continuamente la novità cristiana con l’eredità classica greco-romana, anche se più che il dono prezioso della sintesi sembra che egli avesse quello della collatio, cioè della raccolta, che si esprimeva in una straordinaria erudizione personale, non sempre ordinata come si sarebbe potuto desiderare.

Da ammirare è, in ogni caso, il suo assillo di non trascurare nulla di ciò che l’esperienza umana aveva prodotto nella storia della sua patria e del mondo intero. Isidoro non avrebbe voluto perdere nulla di ciò che era stato acquisito dall’uomo nelle epoche antiche, fossero esse pagane, ebraiche o cristiane. Non deve stupire pertanto se, nel perseguire questo scopo, gli succedeva a volte di non riuscire a far passare adeguatamente, come avrebbe voluto, le conoscenze che possedeva attraverso le acque purificatrici della fede cristiana. Di fatto, tuttavia, nelle intenzioni di Isidoro, le proposte che egli fa restano sempre in sintonia con la fede cattolica, da lui sostenuta con fermezza. Nella discussione dei vari problemi teologici, egli mostra di percepirne la complessità e propone spesso con acutezza soluzioni che raccolgono ed esprimono la verità cristiana completa. Ciò ha consentito ai credenti nel corso dei secoli di fruire con gratitudine delle sue definizioni fino ai nostri tempi. Un esempio significativo in materia ci è offerto dall’insegnamento di Isidoro sui rapporti tra vita attiva e vita contemplativa. Egli scrive: “Coloro che cercano di raggiungere il riposo della contemplazione devono allenarsi prima nello stadio della vita attiva; e così, liberati dalle scorie dei peccati, saranno in grado di esibire quel cuore puro che, unico, permette di vedere Dio” (Differentiarum Lib II, 34, 133: PL 83, col 91A). Il realismo di un vero pastore lo convince però del rischio che i fedeli corrono di ridursi ad essere uomini ad una dimensione. Perciò aggiunge: “La via media, composta dall’una e dall’altra forma di vita, risulta normalmente più utile a risolvere quelle tensioni che spesso vengono acuite dalla scelta di un solo genere di vita e vengono invece meglio temperate da un’alternanza delle due forme” (o.c., 134: ivi, col 91B).

La conferma definitiva di un giusto orientamento di vita Isidoro la cerca nell’esempio di Cristo e dice: “Il Salvatore Gesù ci offrì l’esempio della vita attiva, quando durante il giorno si dedicava a offrire segni e miracoli in città, ma mostrò la vita contemplativa quando si ritirava sul monte e vi pernottava dedito alla preghiera” (o.c. 134: ivi). Alla luce di questo esempio del divino Maestro, Isidoro può concludere con questo preciso insegnamento morale: “Perciò il servo di Dio, imitando Cristo, si dedichi alla contemplazione senza negarsi alla vita attiva. Comportarsi diversamente non sarebbe giusto. Infatti come si deve amare Dio con la contemplazione, così si deve amare il prossimo con l’azione. E’ impossibile dunque vivere senza la compresenza dell’una e dell’altra forma di vita, né è possibile amare se non si fa esperienza sia dell’una che dell’altra” (o.c., 135: ivi, col 91C). Ritengo che questa sia la sintesi di una vita che cerca la contemplazione di Dio, il dialogo con Dio nella preghiera e nella lettura della Sacra Scrittura, come pure l’azione a servizio della comunità umana e del prossimo. Questa sintesi è la lezione che il grande Vescovo di Siviglia lascia a noi, cristiani di oggi, chiamati a testimoniare Cristo all’inizio di un nuovo millennio.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Saluto i pellegrini Polacchi. Parlando dei Padri e dei Dottori della Chiesa, bisogna ricordare che erano uomini di preghiera. La loro attività, la loro creatività e le opere da loro realizzate derivavano dal loro spirito di contemplazione: un esempio edificante ne è sant’Isidoro di Siviglia. Che anche i nostri impegni quotidiani come la nostra attenzione ai bisogni dell’uomo si ispirino dalla nostra preghiera. Sia lodato Gesù Cristo.

Saluto in lingua ungherese:

Saluto con affetto i fedeli di lingua ungherese, specialmente gli studenti del Liceo Áron Tamási di Székelyudvarhely.
Questa visita romana alle tombe degli Apostoli sia per voi un tempo di rinnovamento della fede, spe e carità. Volentieri imparto a tutti voi la Benedizione Apostolica.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovacca:

Con affetto do il benvenuto ai pellegrini provenienti dalla Slovacchia: agli studenti ed agli insegnanti del Ginnasio “S. Nicola” di Stará Lubovna e del Ginnasio “František Hanák“ dei Padri Scolopi di Prievidza.
Cari giovani, vi ringrazio per le preghiere con le quali accompagnate il mio servizio di Successore di San Pietro e cordialmente benedico voi ed i vostri cari.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

Rivolgo ai pellegrini croati uno speciale saluto, particolarmente ai fedeli della parrocchia di San Giovanni Apostolo di Zagabria. Nell’imminente quinto anniversario della beatificazione di Ivan Merz, vi esorto che anche voi confermiate quotidianamente la vostra fede con la devozione e con le opere di carità. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua slovena:

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini del Vicariato Foraneo di Jarenina in Slovenia! Questo vostro pellegrinaggio e l’incontro con il Successore di Pietro vi siano di incoraggiamento affinché progrediate sempre di più nella letizia spirituale e nella fedeltà agli insegnamenti di Cristo. Vi accompagni la mia Benedizione!

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Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai sacerdoti novelli della diocesi di Brescia. Carissimi, mentre prego il Signore affinché vi sostenga nel vostro ministero, vi invito a diffondere intorno a voi quella gioia che nasce dalla generosa e fedele corrispondenza alla divina chiamata. Saluto poi voi, cari fedeli della parrocchia di San Pietro, in San Martino in Pensilis, ed auspico che questo incontro susciti in ciascuno un rinnovato slancio apostolico, per testimoniare ovunque Cristo e il Vangelo.

Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Siamo alle soglie del periodo estivo, tempo di turismo e di pellegrinaggi, di ferie e di riposo. Cari giovani, mentre penso ai vostri coetanei che stanno ancora affrontando gli esami, auguro a voi già in vacanza di profittare dell’estate per utili esperienze sociali e religiose. Auguro a voi, cari malati, di trovare conforto e sollievo nella vicinanza dei vostri familiari. E a voi, cari sposi novelli, rivolgo l’invito ad utilizzare questo periodo estivo per approfondire sempre più il valore della missione nella Chiesa e nella società.

Il mio pensiero va ora ai partecipanti al Congresso Eucaristico Internazionale, che si sta svolgendo in questi giorni nella città di Québec in Canada, sul tema “L’Eucaristia, dono di Dio per la vita del mondo”. Mi rendo spiritualmente presente in così solenne incontro ecclesiale, ed auspico che esso sia per le comunità cristiane canadesi e per la Chiesa universale un tempo forte di preghiera, di riflessione e di contemplazione del mistero della santa Eucaristia. Sia pure occasione propizia per riaffermare la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Preghiamo inoltre perché questo Congresso Eucaristico Internazionale ravvivi nei credenti, non solo del Canada ma di tante altre Nazioni nel mondo, la consapevolezza di quei valori evangelici e spirituali che hanno forgiato la loro identità lungo il corso della storia.




Piazza San Pietro

Mercoledì, 25 giugno 2008: San Massimo il Confessore

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Cari fratelli e sorelle,

vorrei presentare oggi la figura di uno dei grandi Padri della Chiesa di Oriente del tempo tardivo. Si tratta di un monaco, san Massimo, che meritò dalla Tradizione cristiana il titolo di Confessore per l’intrepido coraggio con cui seppe testimoniare – “confessare” – anche con la sofferenza l’integrità della sua fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Salvatore del mondo. Massimo Nacque in Palestina, la terra del Signore, intorno al 580. Fin da ragazzo fu avviato alla vita monastica e allo studio delle Scritture, anche attraverso le opere di Origene, il grande maestro che già nel terzo secolo era giunto a “fissare” la tradizione esegetica alessandrina.

Da Gerusalemme, Massimo si trasferì a Costantinopoli, e da lì, a causa delle invasioni barbariche, si rifugiò in Africa. Qui si distinse con estremo coraggio nella difesa dell’ortodossia. Massimo non accettava alcuna riduzione dell’umanità di Cristo. Era nata la teoria secondo cui in Cristo vi sarebbe solo una volontà, quella divina. Per difendere l’unicità della sua persona, negavano in Lui una vera e propria volontà umana. E, a prima vista, potrebbe apparire anche una cosa buona che in Cristo ci sia una sola volontà. Ma san Massimo capì subito che ciò avrebbe distrutto il mistero della salvezza, perché una umanità senza volontà, un uomo senza volontà non è un vero uomo, è un uomo amputato. Quindi l’uomo Gesù Cristo non sarebbe stato un vero uomo, non avrebbe vissuto il dramma dell’essere umano, che consiste proprio nella difficoltà di conformare la volontà nostra con la verità dell’essere. E così san Massimo afferma con grande decisione: la Sacra Scrittura non ci mostra un uomo amputato, senza volontà, ma un vero uomo completo: Dio, in Gesù Cristo, ha realmente assunto la totalità dell’essere umano – ovviamente, eccetto il peccato – quindi anche una volontà umana. E la cosa, detta così, appare chiara: Cristo o è uomo o non lo è. Se è uomo, ha anche una volontà umana. Ma nasce il problema: non si finisce così in una sorta di dualismo? Non si arriva ad affermare due personalità complete: ragione, volontà, sentimento? Come superare il dualismo, conservare la completezza dell’essere umano e tuttavia tutelare l’unità della persona di Cristo, che certo schizofrenico non era? E san Massimo dimostra che l’uomo trova la sua unità, l’integrazione di se stesso, la sua totalità, non chiudendosi in se stesso, ma superando se stesso, uscendo da se stesso. Così, anche in Cristo, uscendo da se stessa, l’umanità trova in Dio, nel Figlio di Dio, se stessa. Non si deve amputare l’uomo per spiegare l’Incarnazione; occorre solo capire il dinamismo dell’essere umano che si realizza solo uscendo da se stesso; solo in Dio troviamo noi stessi, la nostra totalità e completezza. Così si vede che non l’uomo che si chiude in sé è uomo completo, ma l’uomo che si apre, che esce da se stesso, diventa completo e trova se stesso, proprio nel Figlio di Dio trova la sua vera umanità. Per san Massimo questa visione non rimane una speculazione filosofica; egli la vede realizzata nella vita concreta di Gesù, soprattutto nel dramma del Getsemani. In questo dramma dell’agonia di Gesù, dell’angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della nostra redenzione. San Massimo ci dice, e noi sappiamo che questo è vero: Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il “no” fosse l’apice della libertà. Solo chi può dire “no” sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l’uomo deve dire “no” a Dio; solo così pensa di essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà. Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo, ma l’ha superata, perché Gesù ha visto che non il “no” è il massimo della libertà. Il massimo della libertà è il “sì”, la conformità con la volontà di Dio. Solo nel “sì” l’uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del “sì”, nella unificazione della sua volontà con la volontà divina, l’uomo diventa immensamente aperto, diventa “divino”. Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l’uomo che si chiude in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel “sì” che diventa libero; e questo è il dramma del Getsemani: non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la volontà umana nella volontà divina nasce il vero uomo, è così che siamo redenti. Questo, in brevi parole, è il punto fondamentale di quanto voleva dire san Massimo, e vediamo che qui è veramente in questione tutto l’essere umano; sta qui l’intera questione della nostra vita. San Massimo aveva già problemi in Africa difendendo questa visione dell’uomo e di Dio; poi fu chiamato a Roma. Nel 649 prese parte attiva al Concilio Lateranense, indetto dal Papa Martino I a difesa delle due volontà di Cristo, contro l’editto dell’imperatore, che – pro bono pacis – proibiva di discutere tale questione. Il Papa Martino dovette pagare caro il suo coraggio: benché malandato in salute, venne arrestato e tradotto a Costantinopoli. Processato e condannato a morte, ottenne la commutazione della pena nel definitivo esilio in Crimea, dove morì il 16 settembre 655, dopo due lunghi anni di umiliazioni e di tormenti.

Poco tempo più tardi, nel 662, fu la volta di Massimo, che – opponendosi anche lui all’imperatore – continuava a ripetere: “E’ impossibile affermare in Cristo una sola volontà!” (cfr PG 91, cc. 268-269). Così, insieme a due suoi discepoli, entrambi chiamati Anastasio, Massimo fu sottoposto a un estenuante processo, benché avesse ormai superato gli ottant’anni di età. Il tribunale dell’imperatore lo condannò, con l’accusa di eresia, alla crudele mutilazione della lingua e della mano destra – i due organi mediante i quali, attraverso le parole e gli scritti, Massimo aveva combattuto l’errata dottrina dell’unica volontà di Cristo. Infine il santo monaco, così mutilato, venne esiliato nella Colchide, sul Mar Nero, dove morì, sfinito per le sofferenze subite, all’età di 82 anni, il 13 agosto dello stesso anno 662.

Parlando della vita di Massimo, abbiamo accennato alla sua opera letteraria in difesa dell’ortodossia. Mi riferisco in particolare alla Disputa con Pirro, già patriarca di Costantinopoli: in essa egli riuscì a persuadere l’avversario dei suoi errori. Con molta onestà, infatti, Pirro concludeva così la Disputa: “Chiedo scusa per me e per quelli che mi hanno preceduto: per ignoranza siamo giunti a questi assurdi pensieri e argomentazioni; e prego che si trovi il modo di cancellare queste assurdità, salvando la memoria di quelli che hanno errato” (PG 91, c. 352). Ci sono poi giunte alcune decine di opere importanti, tra le quali spicca la Mistagoghía, uno degli scritti più significativi di san Massimo, che raccoglie in sintesi ben strutturata il suo pensiero teologico.

Quello di san Massimo non è mai un pensiero solo teologico, speculativo, ripiegato su se stesso, perché ha sempre come punto di approdo la concreta realtà del mondo e della sua salvezza. In questo contesto, nel quale ha dovuto soffrire, non poteva evadere in affermazioni filosofiche solo teoriche; doveva cercare il senso del vivere, chiedendosi: chi sono io, che cosa è il mondo? All’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, Dio ha affidato la missione di unificare il cosmo. E come Cristo ha unificato in se stesso l’essere umano, nell’uomo il Creatore ha unificato il cosmo. Egli ci ha mostrato come unificare nella comunione di Cristo il cosmo e così arrivare realmente a un mondo redento. A questa potente visione salvifica fa riferimento uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo, Hans Urs von Balthasar, che – “rilanciando” la figura di Massimo – definisce il suo pensiero con l’icastica espressione di Kosmische Liturgie, “liturgia cosmica”. Al centro di questa solenne “liturgia” rimane sempre Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. L’efficacia della sua azione salvifica, che ha definitivamente unificato il cosmo, è garantita dal fatto che egli, pur essendo Dio in tutto, è anche integralmente uomo – compresa anche l’“energia” e la volontà dell’uomo.

La vita e il pensiero di Massimo restano potentemente illuminati da un immenso coraggio nel testimoniare l’integrale realtà di Cristo, senza alcuna riduzione o compromesso. E così appare chi è veramente l’uomo, come dobbiamo vivere per rispondere alla nostra vocazione. Dobbiamo vivere uniti a Dio, per essere così uniti a noi stessi e al cosmo, dando al cosmo stesso e all’umanità la giusta forma. L’universale “sì” di Cristo, ci mostra anche con chiarezza come dare il collocamento giusto a tutti gli altri valori. Pensiamo a valori oggi giustamente difesi quali la tolleranza, la libertà, il dialogo. Ma una tolleranza che non sapesse più distinguere tra bene e male diventerebbe caotica e autodistruttiva. Così pure: una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe anarchia e distruggerebbe l’autorità. Il dialogo che non sa più su che cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota. Tutti questi valori sono grandi e fondamentali, ma possono rimanere veri valori soltanto se hanno il punto di riferimento che li unisce e dà loro la vera autenticità. Questo punto di riferimento è la sintesi tra Dio e cosmo, è la figura di Cristo nella quale impariamo la verità di noi stessi e impariamo così dove collocare tutti gli altri valori, perché scopriamo il loro autentico significato. Gesù Cristo è il punto di riferimento che dà luce a tutti gli altri valori. Questa è il punto di arrivo della testimonianza di questo grande Confessore. E così, alla fine, Cristo ci indica che il cosmo deve divenire liturgia, gloria di Dio e che la adorazione è l’inizio della vera trasformazione, del vero rinnovamento del mondo.

Perciò vorrei concludere con un brano fondamentale delle opere di san Massimo: “Noi adoriamo un solo Figlio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, come prima dei tempi, così anche ora, e per tutti i tempi, e per i tempi dopo i tempi. Amen!” (PG 91, c. 269).

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Do il benvenuto ai pellegrini provenienti dalla Polonia. Sabato, durante i vespri, inizieremo l’anno giubilare di S. Paolo Apostolo. Il suo lavoro apostolico, la biblica saggezza e la morte di martire sono diventati la semente della fede per molti popoli. La visita alla sua tomba sia per voi tempo di grazia e stimolo alla conoscenza della sua vita e dell’insegnamento. Sia lodato Gesù Cristo.

Saluto in lingua slovacca:

Do un cordiale benvenuto ai pellegrini provenienti da Tvrdošín, Tešmak, Spišská Nová Ves e Bratislava.
Fratelli e sorelle, domenica prossima celebreremo la festa dei santi Pietro e Paolo. La visita delle loro tombe approfondisca il vostro amore per la Chiesa di Cristo, fondata sugli apostoli.
Volentieri vi benedico.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua croata:

Saluto e benedico i cari pellegrini croati, specialmente i fedeli di Slavonski Brod. La vostra vita cristiana sia riconoscibile dai buoni frutti, innanzitutto dalla testimonianza autentica della fede in Dio e dall’amore operoso per il prossimo. Siano lodati Gesù e Maria!

* * *


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto il gruppo della Piccola Missione per i Sordomuti e quello del Complesso Penitenziario di Solliciano. Cari amici, vi ringrazio per la vostra visita e invoco su ciascuno di voi la continua assistenza divina per un fecondo itinerario di fedeltà al Vangelo. Con grande affetto saluto ora il folto gruppo della Famiglia Orionina, gioiosamente radunata attorno al Vicario di Cristo per celebrare la festa del Papa. L’inaugurazione della statua del vostro Fondatore costituisca, per tutti i suoi figli spirituali, un rinnovato stimolo a proseguire sul cammino tracciato da san Luigi Orione specialmente per portare al Successore di Pietro – come diceva lui stesso – “i piccoli, le classi umili, i poveri operai e i reietti della vita che sono i più cari a Cristo e i veri tesori della Chiesa di Gesù Cristo”.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Celebreremo domenica la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. L’esempio e la costante protezione di queste colonne della Chiesa sostengano voi, cari giovani, nello sforzo di seguire Cristo; aiutino voi, cari malati, nel vivere con pazienza e serenità la vostra situazione; spingano voi, cari sposi novelli, a testimoniare nella vostra famiglia e nella società l'adesione coraggiosa agli insegnamenti evangelici.


Aula Paolo VI

Mercoledì, 2 luglio 2008: San Paolo (1) - L'ambiente religioso-culturale


Catechesi 2005-2013 11068