Catechesi 2005-2013 17128

Mercoledì, 17 dicembre 2008

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Cari fratelli e sorelle!

Iniziano proprio oggi i giorni dell’Avvento che ci preparano immediatamente al Natale del Signore: siamo nella Novena di Natale che in tante comunità cristiane viene celebrata con liturgie ricche di testi biblici, tutti orientati ad alimentare l’attesa per la nascita del Salvatore. La Chiesa intera in effetti concentra il suo sguardo di fede verso questa festa ormai vicina predisponendosi, come ogni anno, ad unirsi al cantico gioioso degli angeli, che nel cuore della notte annunzieranno ai pastori l’evento straordinario della nascita del Redentore, invitandoli a recarsi nella grotta di Betlemme. Là giace l’Emmanuele, il Creatore fattosi creatura, avvolto in fasce e adagiato in una povera mangiatoia (cfr
Lc 2,13-14).

Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. E’ la festa che canta il dono della vita. La nascita di un bambino dovrebbe essere sempre un evento che reca gioia; l’abbraccio di un neonato suscita normalmente sentimenti di attenzione e di premura, di commozione e di tenerezza. Il Natale è l’incontro con un neonato che vagisce in una misera grotta. Contemplandolo nel presepe come non pensare ai tanti bambini che ancora oggi vengono alla luce in una grande povertà, in molte regioni del mondo? Come non pensare ai neonati non accolti e rifiutati, a quelli che non riescono a sopravvivere per carenza di cure e di attenzioni? Come non pensare anche alle famiglie che vorrebbero la gioia di un figlio e non vedono colmata questa loro attesa? Sotto la spinta di un consumismo edonista, purtroppo, il Natale rischia di perdere il suo significato spirituale per ridursi a mera occasione commerciale di acquisti e scambi di doni! In verità, però, le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera l’umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare così un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo.

Tutto questo però non basta per cogliere nella sua pienezza il valore della festa alla quale ci stiamo preparando. Noi sappiamo che essa celebra l’avvenimento centrale della storia: l’Incarnazione del Verbo divino per la redenzione dell’umanità. San Leone Magno, in una delle sue numerose omelie natalizie, così esclama: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, ed apriamo il nostro cuore alla gioia più pura. Perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso, all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine» (Homilia XXII). Su questa verità fondamentale ritorna più volte san Paolo nelle sue lettere. Ai Galati, ad esempio, scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…perché ricevessimo l’adozione a figli» (4,4). Nella Lettera ai Romani evidenzia le logiche ed esigenti conseguenze di questo evento salvifico: «Se siamo figli (di Dio), siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,17). Ma è soprattutto san Giovanni, nel Prologo del quarto Vangelo, a meditare profondamente sul mistero dell’Incarnazione. Ed è per questo che il Prologo fa parte della liturgia del Natale fin dai tempi più antichi: in esso si trova infatti l’espressione più autentica e la sintesi più profonda di questa festa e del fondamento della sua gioia. San Giovanni scrive: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis / E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Jn 1,14).

A Natale dunque non ci limitiamo a commemorare la nascita di un grande personaggio; non celebriamo semplicemente ed in astratto il mistero della nascita dell’uomo o in generale il mistero della vita; tanto meno festeggiamo solo l’inizio della nuova stagione. A Natale ricordiamo qualcosa di assai concreto ed importante per gli uomini, qualcosa di essenziale per la fede cristiana, una verità che san Giovanni riassume in queste poche parole: “il Verbo si è fatto carne”. Si tratta di un evento storico che l’evangelista Luca si preoccupa di situare in un contesto ben determinato: nei giorni in cui fu emanato il decreto per il primo censimento di Cesare Augusto, quando Quirino era già governatore della Siria (cfr Lc 2,1-7). E’ dunque in una notte storicamente datata che si verificò l’evento di salvezza che Israele attendeva da secoli. Nel buio della notte di Betlemme si accese realmente una grande luce: il Creatore dell’universo si è incarnato unendosi indissolubilmente alla natura umana, sì da essere realmente “Dio da Dio, luce da luce” e al tempo stesso uomo, vero uomo. Quel che Giovanni, chiama in greco “ho logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” - significa anche “il Senso”. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Jn 1,1). Il “Senso” che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una “Parola” rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo, ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.

A molti uomini, ed in qualche modo a noi tutti, questo sembra troppo bello per essere vero. In effetti, qui ci viene ribadito: sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono, che non va confuso con un qualche essere eccelso e lontano, a cui non sarebbe mai dato di arrivare, ma un Dio che si è fatto nostro prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi e che è venuto per rimanere con noi. E’ allora spontaneo domandarsi: “E’ mai possibile una cosa del genere? E’ cosa degna di Dio farsi bambino?”. Per cercare di aprire il cuore a questa verità che illumina l’intera esistenza umana, occorre piegare la mente e riconoscere la limitatezza della nostra intelligenza. Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile “infante” per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarlo.

Cari fratelli e sorelle, il Natale è un’opportunità privilegiata per meditare sul senso e sul valore della nostra esistenza. L’approssimarsi di questa solennità ci aiuta a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia nella quale gli uomini, feriti dal peccato, sono perennemente alla ricerca della felicità e di un senso appagante del vivere e del morire; dall’altra, ci esorta a meditare sulla bontà misericordiosa di Dio, che è venuto incontro all’uomo per comunicargli direttamente la Verità che salva, e per renderlo partecipe della sua amicizia e della sua vita. Prepariamoci, pertanto, al Natale con umiltà e semplicità, disponendoci a ricevere in dono la luce, la gioia e la pace, che da questo mistero si irradiano. Accogliamo il Natale di Cristo come un evento capace di rinnovare oggi la nostra esistenza. L’incontro con il Bambino Gesù ci renda persone che non pensano soltanto a se stesse, ma si aprono alle attese e alle necessità dei fratelli. In questa maniera diventeremo anche noi testimoni della luce che il Natale irradia sull’umanità del terzo millennio. Chiediamo a Maria Santissima, tabernacolo del Verbo incarnato, e a san Giuseppe, silenzioso testimone degli eventi della salvezza, di comunicarci i sentimenti che essi nutrivano mentre attendevano la nascita di Gesù, in modo che possiamo prepararci a celebrare santamente il prossimo Natale, nel gaudio della fede e animati dall’impegno di una sincera conversione.

Buon Natale a tutti!

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Do il benvenuto ai pellegrini polacchi. Nella solennità del Natale di nuovo viviamo il mistero dell’infinito amore di Dio. Anche noi partecipiamo alla gioia di Maria e di Giuseppe, allo stupore dei pastori, alla pace degli uomini di buona volontà. Tutte le preoccupazioni lasciano posto alla speranza. Auguro a voi e ai vostri cari questa speranza, gioia e pace, con le quali viene il Neonato. Il buon Dio vi benedica.

Saluto in lingua slovacca:

Con affetto do il benvenuto ai pellegrini provenienti dalla Slovacchia: agli studenti del Ginnasio Arcivescovile, dell’Accademia Pedagogica e sociale di Trnava come pure ai pellegrini della parrocchia di Cadca-Kýcerka. Fratelli e sorelle, cari giovani, in questo tempo di grazia di Avvento chiediamo allo Spirito Santo che ci trasformi in testimoni dell’amore di Dio e portatori di pace. Cordialmente benedico voi ed i vostri cari. Sia lodato Gesù Cristo!

* * *


Rivolgo il mio saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli di Vernole, accompagnati dal loro concittadino, il Cardinale Salvatore De Giorgi, benvenuti; saluto inoltre i rappresentanti dell’Undicesimo Battaglione Trasporti “Flaminia”, di Roma, e il gruppo Zampognari del Matese, di Boiano, ringraziando per la bella musica.

Desidero infine salutare i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari amici, vi ringrazio per la vostra partecipazione a questo incontro. Tra non molti giorni sarà Natale e immagino che nelle vostre case si stia ultimando l’allestimento del presepe, che costituisce una quanto mai suggestiva rappresentazione del Mistero della Natività di Cristo. Auspico che un elemento così importante, non solo della nostra fede, ma anche della cultura e dell’arte cristiana, continui a far parte di questa grande Solennità: in fondo è un semplice ed eloquente modo per ricordare Gesù che, facendosi uomo, è venuto “ad abitare in mezzo a noi” e col presepe realmente abita con noi. Grazie a voi tutti. Buon Natale ancora una volta.




Mercoledì, 7 gennaio 2009: San Paolo (17) - Il culto spirituale

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Cari fratelli e sorelle,

in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.

1. In
Rm 3,25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.

San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.

Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58 Gv 2,19ss ). Questo è il primo testo.

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1Co 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.

Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lv 1,13 Lv 1,17 Lv 23,18 Lv 26,31).

Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (ten logiken latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.

Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.

Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.

Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Ga 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.

Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas)redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10,6: CCL 47, 27 ss).

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Saluto cordialmente i Polacchi partecipanti a questa prima udienza del nuovo anno. Approfondendo l’insegnamento di San Paolo impariamo a vedere le cose di questo mondo attraverso la luce della fede e la nostra unione con Cristo. La benedizione del Figlio di Dio nato a Betlemme vi accompagni durante quest’anno!

* * *


Nel clima ancora del Natale, mi è gradito rivolgere un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto, in particolare, i sacerdoti novelli dei Legionari di Cristo con i loro familiari; le Suore Domenicane Ancelle del Signore e le Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, partecipanti ai rispettivi Capitoli Generali. Cari fratelli e sorelle, vi esorto tutti a crescere con sempre maggiore entusiasmo nel vostro generoso impegno di testimonianza evangelica.

Rivolgo, infine, il mio pensiero ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Ieri, solennità dell'Epifania del Signore, abbiamo ricordato il cammino dei Magi verso Cristo, guidati dalla luce della stella. Il loro esempio alimenti in voi, cari giovani, il desiderio di incontrare Gesù e di trasmettere a tutti la gioia che scaturisce dall’accoglienza del Vangelo; conduca voi, cari ammalati, ad offrire al Bambino di Betlemme, i vostri dolori e le sofferenze; costituisca per voi, cari sposi novelli, un costante stimolo a rendere le vostre famiglie "luogo" accogliente dei segni misteriosi di Dio e del dono della vita.




Aula Paolo VI

Mercoledì, 14 gennaio 2009: San Paolo (18) - La visione teologica delle Lettere ai Colossesi e agli Efesini

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Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a “esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori” (
Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di “parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore” (Ep 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto “codice domestico”, assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente 4,1 e 6,9).

Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di “capo”, kefalé,dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18, “Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa”; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col 2,19 bisogna “tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione”): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto.

In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano.

Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1Co 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” (4,11). Ed è da Lui che “tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, ... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (4,16). Cristo infatti è tutto teso a “farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ep 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.

Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo “ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale” di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro” (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui “ci ha amati e ha dato se stesso per noi” (Ep 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!

Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo.

Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra” (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che “per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (1,16) e che “con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ep 1,20 Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.

Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità di Cristo stesso.

C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di “mistero”. Una volta si parla del “mistero della volontà” di Dio (Ep 1,9) e altre volte del “mistero di Cristo” (Ep 3,4 Col 4,3) o addirittura del “mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza” (Col 3,2-3). Esso sta a significare l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del “mistero” e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata “la multiforme sapienza di Dio” (Ep 3,10), poiché in Lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in cui quel “mistero” si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la “ininvestigabile ricchezza di Cristo” (Ep 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di “quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” di questo mistero “che sorpassa ogni conoscenza” (Ep 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione.

Un'ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Co 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, “ha dato se stesso per lei” (Ep 5,25). Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, “senza ruga né macchia”, nel suo comportamento morale (cfr Ep 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4 Os 2,16 Os 2,21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9 Ap 21,9).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Saluto cordialmente i polacchi. San Paolo paragona l’amore coniugale con quello che unisce Cristo e la Chiesa, sua Sposa. Unendomi con le famiglie radunate in questi giorni a Messico, prego, perché tutte le famiglie in Polonia e nel mondo consolidi e santifichi l’amore di Cristo. Dio vi benedica.

Saluto in lingua slovacca:

Saluto di cuore i pellegrini slovacchi, particolarmente quelli dalla parrocchia di San Demetrio da Ražnany. Fratelli e sorelle, nel corso della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che inizia domenica prossima, vi invito ad elevare intense preghiere al Signore affinché si realizzi la parola di Cristo “Perché siano una cosa sola”. Con affetto vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!

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Mi rivolgo ora con affetto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i membri della Postulazione dei Carmelitani Scalzi e le Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Cari amici, possa il fervore apostolico e la fedeltà al Vangelo animare ogni vostra attività al servizio della Chiesa. Il mio saluto va pure ai rappresentanti della Guardia di Finanza di Roma e al Nono Reggimento di Fanteria “Bari”, proveniente da Trani. Tutti ringrazio per la gradita visita ed invoco su ciascuno la continua assistenza divina.

Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Ieri la liturgia ricordava Sant'Ilario, Vescovo di Poitiers, che "fu tenace assertore della divinità di Cristo" (cfr. Liturgia), difensore ardente della fede e maestro di verità. Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante e coraggiosa ricerca di Cristo; incoraggi voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vita familiare. Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per implorare l’abbondanza delle grazie divine sul VI Incontro Mondiale delle Famiglie che si sta svolgendo in questi giorni a Città del Messico. Possa questo importante evento ecclesiale manifestare ancora una volta la bellezza e il valore della famiglia, suscitando in tutti nuove energie in favore di questa insostituibile cellula fondamentale della società e della Chiesa.



Aula Paolo VI

Mercoledì, 21 gennaio 2009: Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani


Catechesi 2005-2013 17128