Catechesi 2005-2013 10212

Mercoledì, 1° febbraio 2012

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare della preghiera di Gesù al Getsemani, al Giardino degli Ulivi. Lo scenario della narrazione evangelica di questa preghiera è particolarmente significativo. Gesù si avvia al Monte degli Ulivi, dopo l'Ultima Cena, mentre sta pregando insieme con i suoi discepoli. Narra l’Evangelista Marco: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (14,26). Si allude probabilmente al canto di alcuni Salmi dell'hallèl con i quali si ringrazia Dio per la liberazione del popolo dalla schiavitù e si chiede il suo aiuto per le difficoltà e le minacce sempre nuove del presente. Il percorso fino al Getsemani è costellato di espressioni di Gesù che fanno sentire incombente il suo destino di morte e annunciano l'imminente dispersione dei discepoli.

Giunti al podere sul Monte degli Ulivi, anche quella notte Gesù si prepara alla preghiera personale. Ma questa volta avviene qualcosa di nuovo: sembra non voglia restare solo. Molte volte Gesù si ritirava in disparte dalla folla e dagli stessi discepoli, sostando «in luoghi deserti» (cfr
Mc 1,35) o salendo «sul monte», dice san Marco (cfr Mc 6,46). Al Getsemani, invece, egli invita Pietro, Giacomo e Giovanni a stargli più vicino. Sono i discepoli che ha chiamato ad essere con Lui sul monte della Trasfigurazione (cfr Mc 9,2-13). Questa vicinanza dei tre durante la preghiera al Getsemani è significativa. Anche in quella notte Gesù pregherà il Padre «da solo», perché il suo rapporto con Lui è del tutto unico e singolare: è il rapporto del Figlio Unigenito. Si direbbe, anzi, che soprattutto in quella notte nessuno possa veramente avvicinarsi al Figlio, che si presenta al Padre nella sua identità assolutamente unica, esclusiva. Gesù però, pur giungendo «da solo» nel punto in cui si fermerà a pregare, vuole che almeno tre discepoli rimangano non lontani, in una relazione più stretta con Lui. Si tratta di una vicinanza spaziale, una richiesta di solidarietà nel momento in cui sente approssimarsi la morte, ma è soprattutto una vicinanza nella preghiera, per esprimere, in qualche modo, la sintonia con Lui, nel momento in cui si appresta a compiere fino in fondo la volontà del Padre, ed è un invito ad ogni discepolo a seguirlo nel cammino della Croce. L’Evangelista Marco narra: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» (14,33-34).

Nella parola che rivolge ai tre, Gesù, ancora una volta, si esprime con il linguaggio dei Salmi: «La mia anima è triste», una espressione del Salmo 43 (cfr Ps 43,5). La dura determinazione «fino alla morte», poi, richiama una situazione vissuta da molti degli inviati di Dio nell’Antico Testamento ed espressa nella loro preghiera. Non di rado, infatti, seguire la missione loro affidata significa trovare ostilità, rifiuto, persecuzione. Mosè sente in modo drammatico la prova che subisce mentre guida il popolo nel deserto, e dice a Dio: «Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi» (Nb 11,14-15). Anche per il profeta Elia non è facile portare avanti il servizio a Dio e al suo popolo. Nel Primo Libro dei Re si narra: «Egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”» (19,4).

Le parole di Gesù ai tre discepoli che vuole vicini durante la preghiera al Getsemani, rivelano come Egli provi paura e angoscia in quell'«Ora», sperimenti l’ultima profonda solitudine proprio mentre il disegno di Dio si sta attuando. E in tale paura e angoscia di Gesù è ricapitolato tutto l'orrore dell'uomo davanti alla propria morte, la certezza della sua inesorabilità e la percezione del peso del male che lambisce la nostra vita.

Dopo l’invito a restare e a vegliare in preghiera rivolto ai tre, Gesù «da solo» si rivolge al Padre. L’Evangelista Marco narra che Egli «andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora» (14,35). Gesù cade faccia a terra: è una posizione della preghiera che esprime l’obbedienza alla volontà del Padre, l’abbandonarsi con piena fiducia a Lui. E’ un gesto che si ripete all’inizio della Celebrazione della Passione, il Venerdì Santo, come pure nella professione monastica e nelle Ordinazioni diaconale, presbiterale ed episcopale, per esprimere, nella preghiera, anche corporalmente, l’affidarsi completo a Dio, il confidare in Lui. Poi Gesù chiede al Padre che, se fosse possibile, passasse via da lui quest’ora. Non è solo la paura e l’angoscia dell’uomo davanti alla morte, ma è lo sconvolgimento del Figlio di Dio che vede la terribile massa del male che dovrà prendere su di Sé per superarlo, per privarlo di potere.

Cari amici, anche noi, nella preghiera dobbiamo essere capaci di portare davanti a Dio le nostre fatiche, la sofferenza di certe situazioni, di certe giornate, l’impegno quotidiano di seguirlo, di essere cristiani, e anche il peso del male che vediamo in noi e attorno a noi, perché Egli ci dia speranza, ci faccia sentire la sua vicinanza, ci doni un po’ di luce nel cammino della vita.

Gesù continua la sua preghiera: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). In questa invocazione ci sono tre passaggi rivelatori. All'inizio abbiamo il raddoppiamento del termine con cui Gesù si rivolge a Dio: «Abbà! Padre!» (Mc 14,36). Sappiamo bene che la parola aramaica Abbà è quella che veniva usata dal bambino per rivolgersi al papà ed esprime quindi il rapporto di Gesù con Dio Padre, un rapporto di tenerezza, di affetto, di fiducia, di abbandono. Nella parte centrale dell'invocazione c’è il secondo elemento: la consapevolezza dell'onnipotenza del Padre – «tutto è possibile a te» -, che introduce una richiesta in cui, ancora una volta, appare il dramma della volontà umana di Gesù davanti alla morte e al male: «allontana da me questo calice!». Ma c’è la terza espressione della preghiera di Gesù ed è quella decisiva, in cui la volontà umana aderisce pienamente alla volontà divina. Gesù, infatti, conclude dicendo con forza: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (). Nell'unità della persona divina del Figlio la volontà umana trova la sua piena realizzazione nell’abbandono totale dell’Io al Tu del Padre, chiamato Abbà. San Massimo il Confessore afferma che dal momento della creazione dell’uomo e della donna, la volontà umana è orientata a quella divina ed è proprio nel “sì” a Dio che la volontà umana è pienamente libera e trova la sua realizzazione. Purtroppo, a causa del peccato, questo “sì” a Dio si è trasformato in opposizione: Adamo ed Eva hanno pensato che il “no” a Dio fosse il vertice della libertà, l’essere pienamente se stessi. Gesù al Monte degli Ulivi riporta la volontà umana al “sì” pieno a Dio; in Lui la volontà naturale è pienamente integrata nell’orientamento che le dà la Persona Divina. Gesù vive la sua esistenza secondo il centro della sua Persona: il suo essere Figlio di Dio. La sua volontà umana è attirata dentro l’Io del Figlio, che si abbandona totalmente al Padre. Così Gesù ci dice che solo nel conformare la sua propria volontà a quella divina, l’essere umano arriva alla sua vera altezza, diventa “divino”; solo uscendo da sé, solo nel “sì” a Dio, si realizza il desiderio di Adamo, di noi tutti, quello di essere completamente liberi. E’ ciò che Gesù compie al Getsemani: trasferendo la volontà umana nella volontà divina nasce il vero uomo, e noi siamo redenti.

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica insegna sinteticamente: «La preghiera di Gesù durante la sua agonia nell'Orto del Getsemani e le sue ultime parole sulla Croce rivelano la profondità della sua preghiera filiale: Gesù porta a compimento il disegno d'amore del Padre e prende su di sé tutte le angosce dell'umanità, tutte le domande e le intercessioni della storia della salvezza. Egli le presenta al Padre che le accoglie e le esaudisce, al di là di ogni speranza, risuscitandolo dai morti» (n. 543). Davvero «in nessun'altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli Ulivi» (Gesù di Nazaret II, 177).

Cari fratelli e sorelle, ogni giorno nella preghiera del Padre nostro noi chiediamo al Signore: «sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Riconosciamo, cioè, che c'è una volontà di Dio con noi e per noi, una volontà di Dio sulla nostra vita, che deve diventare ogni giorno di più il riferimento del nostro volere e del nostro essere; riconosciamo poi che è nel “cielo” dove si fa la volontà di Dio e che la “terra” diventa “cielo”, luogo della presenza dell’amore, della bontà, della verità, della bellezza divina, solo se in essa viene fatta la volontà di Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre, in quella notte terribile e stupenda del Getsemani, la “terra” è diventata “cielo”; la “terra” della sua volontà umana, scossa dalla paura e dall’angoscia, è stata assunta dalla sua volontà divina, così che la volontà di Dio si è compiuta sulla terra. E questo è importante anche nella nostra preghiera: dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina, chiedere a Dio la forza di uscire da noi stessi per rinnovargli il nostro “sì”, per ripetergli «sia fatta la tua volontà», per conformare la nostra volontà alla sua. E’ una preghiera che dobbiamo fare quotidianamente, perché non sempre è facile affidarci alla volontà di Dio, ripetere il “sì” di Gesù, il “sì” di Maria. I racconti evangelici del Getsemani mostrano dolorosamente che i tre discepoli, scelti da Gesù per essergli vicino, non furono capaci di vegliare con Lui, di condividere la sua preghiera, la sua adesione al Padre e furono sopraffatti dal sonno. Cari amici, domandiamo al Signore di essere capaci di vegliare con Lui in preghiera, di seguire la volontà di Dio ogni giorno anche se parla di Croce, di vivere un’intimità sempre più grande con il Signore, per portare in questa «terra» un po’ del «cielo» di Dio. Grazie.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Saluto i pellegrini polacchi. La preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani è un’espressione della totale sottomissione della propria volontà e dell’affidamento della vita a Dio Padre. Tutti siamo invitati a tale fiducia e a compiere la volontà di Dio. Tuttavia i testimoni speciali di tale dedizione sono nella Chiesa le persone consacrate. Celebrando domani la loro giornata, chiediamo a Dio che con la potenza dello Spirito Santo li rafforzi nel cammino dell’adempimento della Sua volontà. Dio benedica tutti voi qui presenti!

* * *


Rivolgo un cordiale benvenuto a tutti i pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi amici della Comunità di Sant’Egidio, provenienti da vari Paesi dell'Europa, dell'Africa e dell'Asia, e li incoraggio ad operare con entusiasmo al servizio del Vangelo, nonostante le difficoltà che a volte possono incontrare nella loro missione. Saluto con affetto i rappresentanti della Marina Militare di Grottaglie; cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e vi esorto a vivere con fedeltà il vostro lavoro e ad arricchirlo con la vostra personale testimonianza cristiana.

Desidero rivolgere infine il mio saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. La figura di san Giovanni Bosco, che ieri abbiamo ricordato, ci porta a considerare quanto sia importante educare le nuove generazioni agli autentici valori umani e spirituali della vita. Cari giovani, invoco su di voi la particolare protezione del Santo della gioventù e vi auguro di trovare sempre educatori saggi e guide sicure. Cari ammalati, la vostra sofferenza, offerta con generosità al Signore, possa rendere fecondo l'impegno che la Chiesa dedica al mondo giovanile. E voi, sposi novelli, preparatevi ad essere i primi ed insostituibili educatori dei figli che il Signore vi donerà.





Aula Paolo VI

Mercoledì, 8 febbraio 2012: La preghiera di Gesù di fronte alla morte\i (MC e Mt)

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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei riflettere con voi sulla preghiera di Gesù nell’imminenza della morte, soffermandomi su quanto ci riferiscono san Marco e san Matteo. I due Evangelisti riportano la preghiera di Gesù morente non soltanto nella lingua greca, in cui è scritto il loro racconto, ma, per l'importanza di quelle parole, anche in una mescolanza di ebraico ed aramaico. In questo modo essi hanno tramandato non solo il contenuto, ma persino il suono che tale preghiera ha avuto sulle labbra di Gesù: ascoltiamo realmente le parole di Gesù come erano. Nel contempo, essi ci hanno descritto l’atteggiamento dei presenti alla crocifissione, che non compresero – o non vollero comprendere – questa preghiera.

Scrive san Marco, come abbiamo ascoltato: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (15,34). Nella struttura del racconto, la preghiera, il grido di Gesù si alza al culmine delle tre ore di tenebre che, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, calarono su tutta la terra. Queste tre ore di oscurità sono, a loro volta, la continuazione di un precedente lasso di tempo, pure di tre ore, iniziato con la crocifissione di Gesù. L'Evangelista Marco, infatti, ci informa che: «Erano le nove del mattino quando lo crocifissero» (cfr 15,25). Dall'insieme delle indicazioni orarie del racconto, le sei ore di Gesù sulla croce sono articolate in due parti cronologicamente equivalenti.

Nelle prime tre ore, dalle nove fino a mezzogiorno, si collocano le derisioni di diversi gruppi di persone, che mostrano il loro scetticismo, affermano di non credere. Scrive san Marco: «Quelli che passavano di là lo insultavano» (15,29); «così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui» (15,31); «e anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano» (15,32). Nelle tre ore seguenti, da mezzogiorno «fino alle tre del pomeriggio», l’Evangelista parla soltanto delle tenebre discese su tutta la terra; il buio occupa da solo tutta la scena senza alcun riferimento a movimenti di personaggi o a parole. Quando Gesù si avvicina sempre più alla morte, c’è solo l'oscurità che cala «su tutta la terra». Anche il cosmo prende parte a questo evento: il buio avvolge persone e cose, ma pure in questo momento di tenebre Dio è presente, non abbandona. Nella tradizione biblica, il buio ha un significato ambivalente: è segno della presenza e dell’azione del male, ma anche di una misteriosa presenza e azione di Dio che è capace di vincere ogni tenebra. Nel Libro dell'Esodo, ad esempio, leggiamo: «Il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube”» (19,9); e ancora: «Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio» (20,21). E nei discorsi del Deuteronomio, Mosè racconta: «Il monte ardeva, con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo, fra tenebre, nuvole e oscurità» (4,11); voi «udiste la voce in mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme» (5,23). Nella scena della crocifissione di Gesù le tenebre avvolgono la terra e sono tenebre di morte in cui il Figlio di Dio si immerge per portare la vita, con il suo atto di amore.

Tornando alla narrazione di san Marco, davanti agli insulti delle diverse categorie di persone, davanti al buio che cala su tutto, nel momento in cui è di fronte alla morte, Gesù con il grido della sua preghiera mostra che, assieme al peso della sofferenza e della morte in cui sembra ci sia abbandono, l’assenza di Dio, Egli ha la piena certezza della vicinanza del Padre, che approva questo atto supremo di amore, di dono totale di Sé, nonostante non si oda, come in altri momenti, la voce dall’alto. Leggendo i Vangeli, ci si accorge che in altri passaggi importanti della sua esistenza terrena Gesù aveva visto associarsi ai segni della presenza del Padre e dell’approvazione al suo cammino di amore, anche la voce chiarificatrice di Dio. Così, nella vicenda che segue il battesimo al Giordano, allo squarciarsi dei cieli, si era udita la parola del Padre: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (
Mc 1,11). Nella trasfigurazione, poi, al segno della nube si era affiancata la parola: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Invece, all’avvicinarsi della morte del Crocifisso, scende il silenzio, non si ode alcuna voce, ma lo sguardo di amore del Padre rimane fisso sul dono di amore del Figlio.

Ma che significato ha la preghiera di Gesù, quel grido che lancia al Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», il dubbio della sua missione, della presenza del Padre? In questa preghiera non c’è forse la consapevolezza proprio di essere stato abbandonato? Le parole che Gesù rivolge al Padre sono l’inizio del Salmo 22, in cui il Salmista manifesta a Dio la tensione tra il sentirsi lasciato solo e la consapevolezza certa della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il Salmista prega: «Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me. Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele» (vv. 3-4). Il Salmista parla di «grido» per esprimere tutta la sofferenza della sua preghiera davanti a Dio apparentemente assente: nel momento di angoscia la preghiera diventa un grido.

E questo avviene anche nel nostro rapporto con il Signore: davanti alle situazioni più difficili e dolorose, quando sembra che Dio non senta, non dobbiamo temere di affidare a Lui tutto il peso che portiamo nel nostro cuore, non dobbiamo avere paura di gridare a Lui la nostra sofferenza, dobbiamo essere convinti che Dio è vicino, anche se apparentemente tace.

Ripetendo dalla croce proprio le parole iniziali del Salmo, “Elì, Elì, lemà sabactàni?” – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), gridando le parole del Salmo, Gesù prega nel momento dell’ultimo rifiuto degli uomini, nel momento dell’abbandono; prega, però, con il Salmo, nella consapevolezza della presenza di Dio Padre anche in quest’ora in cui sente il dramma umano della morte. Ma in noi emerge una domanda: come è possibile che un Dio così potente non intervenga per sottrarre il suo Figlio a questa prova terribile? E’ importante comprendere che la preghiera di Gesù non è il grido di chi va incontro con disperazione alla morte, e neppure è il grido di chi sa di essere abbandonato. Gesù in quel momento fa suo l’intero Salmo 22, il Salmo del popolo di Israele che soffre, e in questo modo prende su di Sé non solo la pena del suo popolo, ma anche quella di tutti gli uomini che soffrono per l’oppressione del male e, allo stesso tempo, porta tutto questo al cuore di Dio stesso nella certezza che il suo grido sarà esaudito nella Risurrezione: «il grido nell'estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, certezza della salvezza – non soltanto per Gesù stesso, ma per “molti” » (Gesù di Nazaret II, 239-240). In questa preghiera di Gesù sono racchiusi l’estrema fiducia e l’abbandono nelle mani di Dio, anche quando sembra assente, anche quando sembra rimanere in silenzio, seguendo un disegno a noi incomprensibile. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo così: «Nell’amore redentore che sempre lo univa al Padre, Gesù ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”» (n. 603). Il suo è un soffrire in comunione con noi e per noi, che deriva dall’amore e già porta in sé la redenzione, la vittoria dell’amore.

Le persone presenti sotto la croce di Gesù non riescono a capire e pensano che il suo grido sia una supplica rivolta ad Elia. In una scena concitata, essi cercano di dissetarlo per prolungarne la vita e verificare se veramente Elia venga in suo soccorso, ma un forte urlo pone termine alla vita terrena di Gesù e al loro desiderio. Nel momento estremo, Gesù lascia che il suo cuore esprima il dolore, ma lascia emergere, allo stesso tempo, il senso della presenza del Padre e il consenso al suo disegno di salvezza dell’umanità. Anche noi ci troviamo sempre e nuovamente di fronte all’«oggi» della sofferenza, del silenzio di Dio - lo esprimiamo tante volte nella nostra preghiera - ma ci troviamo anche di fronte all’«oggi» della Risurrezione, della risposta di Dio che ha preso su di Sé le nostre sofferenze, per portarle insieme con noi e darci la ferma speranza che saranno vinte (cfr Lett. enc. Spe salvi ).

Cari amici, nella preghiera portiamo a Dio le nostre croci quotidiane, nella certezza che Lui è presente e ci ascolta. Il grido di Gesù ci ricorda come nella preghiera dobbiamo superare le barriere del nostro «io» e dei nostri problemi e aprirci alle necessità e alle sofferenze degli altri. La preghiera di Gesù morente sulla Croce ci insegni a pregare con amore per tanti fratelli e sorelle che sentono il peso della vita quotidiana, che vivono momenti difficili, che sono nel dolore, che non hanno una parola di conforto; portiamo tutto questo al cuore di Dio, perché anch’essi possano sentire l’amore di Dio che non ci abbandona mai. Grazie.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:


Saluto i polacchi qui presenti. Gesù che prega sulla croce ci insegna a intercedere con amore per tutti i fratelli e le sorelle che sentono il peso della vita quotidiana, che vivono momenti difficili di sofferenza, di dolore fisico e spirituale, di timore e isolamento, perché anch’essi possano sentire l’amore di Dio che non ci abbandona mai. La Sua benedizione vi accompagni sempre.

Saluto in lingua slovacca:

Saluto di cuore i pellegrini slovacchi, in particolare quelli provenienti dalla Parrocchia di Bratislava - Blumentál.
Fratelli e sorelle, il vostro pellegrinaggio alle tombe dei Santi Apostoli vi riempia di un nuovo zelo sulla via della testimonianza evangelica.
Volentieri benedico voi e le vostre famiglie.
Sia lodato Gesù Cristo!

APPELLO


Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime settimane un’ondata di freddo e di gelo si è abbattuta su alcune Regioni dell’Europa provocando forti disagi e ingenti danni, come sappiamo. Desidero manifestare la mia vicinanza alle popolazioni colpite da così intenso maltempo, mentre invito alla preghiera per le vittime e i loro familiari. Al tempo stesso incoraggio alla solidarietà affinché siano soccorse con generosità le persone provate da tali tragici avvenimenti.

* * *


Rivolgo adesso un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto la Delegazione del Consiglio di Stato, il Reparto Mobile della Polizia di Napoli e le varie associazioni. Un caloroso saluto ai Padri Stimmatini che celebrano il 36° Capitolo Generale e alle religiose, agli insegnanti e studenti dell’Istituto “San Francesco di Sales” di Via Portuense, per i 75 anni di presenza a Roma, di cui 50 di impegno educativo nella scuola. Un saluto anche ai sacerdoti che partecipano alla settimana di studio promossa dall’Ateneo della Santa Croce sull’importante tema del ministero pastorale della direzione nei Seminari.

Infine, un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. L’odierna memoria di San Girolamo Emiliani, patrono della gioventù abbandonata, stimoli voi, cari giovani, ad essere attenti ai vostri coetanei più svantaggiati e in difficoltà. Aiuti voi, cari ammalati ad offrire le vostre sofferenze per l’educazione cristiana delle nuove generazioni. E incoraggi voi, cari sposi novelli, ad avere sempre fiducia nella Provvidenza, e non solo nelle vostre proprie capacità.



Aula Paolo VI

Mercoledì, 15 febbraio 2012: La preghiera di Gesù nell'imminenza della morte - Lc

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Cari fratelli e sorelle,

nella nostra scuola di preghiera, mercoledì scorso, ho parlato sulla preghiera di Gesù sulla Croce presa dal Salmo 22: “Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” adesso vorrei continuare a meditare sulla preghiera di Gesù in croce, nell’imminenza della morte, vorrei soffermarmi oggi sulla narrazione che incontriamo nel Vangelo di san Luca. L'Evangelista ci ha tramandato tre parole di Gesù sulla croce, due delle quali – la prima e la terza – sono preghiere rivolte esplicitamente al Padre. La seconda, invece, è costituita dalla promessa fatta al cosiddetto buon ladrone, crocifisso con Lui; rispondendo, infatti, alla preghiera del ladrone, Gesù lo rassicura: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (
Lc 23,43). Nel racconto di Luca sono così intrecciate suggestivamente le due preghiere che Gesù morente indirizza al Padre e l'accoglienza della supplica che a Lui è rivolta dal peccatore pentito. Gesù invoca il Padre e insieme ascolta la preghiera di quest’uomo che spesso è chiamato latro poenitens, «il ladrone pentito».

Soffermiamoci su queste tre preghiere di Gesù. La prima la pronuncia subito dopo essere stato inchiodato sulla croce, mentre i soldati si stanno dividendo le sue vesti come triste ricompensa del loro servizio. In un certo senso è con questo gesto che si chiude il processo della crocifissione. Scrive san Luca: «Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte» (23,33-34). La prima preghiera che Gesù rivolge al Padre è di intercessione: chiede il perdono per i propri carnefici. Con questo, Gesù compie in prima persona quanto aveva insegnato nel discorso della montagna quando aveva detto: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27) e aveva anche promesso a quanti sanno perdonare: «la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo» (v. 35). Adesso, dalla croce, Egli non solo perdona i suoi carnefici, ma si rivolge direttamente al Padre intercedendo a loro favore.

Questo atteggiamento di Gesù trova un’«imitazione» commovente nel racconto della lapidazione di santo Stefano, primo martire. Stefano, infatti, ormai prossimo alla fine, «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì» (Ac 7,60): questa è stata la sua ultima parola. Il confronto tra la preghiera di perdono di Gesù e quella del protomartire è significativo. Santo Stefano si rivolge al Signore Risorto e chiede che la sua uccisione – un gesto definito chiaramente con l’espressione «questo peccato» – non sia imputata ai suoi lapidatori. Gesù sulla croce si rivolge al Padre e non solo chiede il perdono per i suoi crocifissori, ma offre anche una lettura di quanto sta accadendo. Secondo le sue parole, infatti, gli uomini che lo crocifiggono «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Egli pone cioè l’ignoranza, il «non sapere», come motivo della richiesta di perdono al Padre, perché questa ignoranza lascia aperta la via verso la conversione, come del resto avviene nelle parole che pronuncerà il centurione alla morte di Gesù: «Veramente, quest’uomo era giusto» (v. 47), era il Figlio di Dio. «Rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, sia a riguardo di coloro che veramente non sapevano – i carnefici – sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono – la vede come porta che può aprirci alla conversione» (Gesù di Nazaret, II, 233).

La seconda parola di Gesù sulla croce riportata da san Luca è una parola di speranza, è la risposta alla preghiera di uno dei due uomini crocifissi con Lui. Il buon ladrone davanti a Gesù rientra in se stesso e si pente, si accorge di trovarsi di fronte al Figlio di Dio, che rende visibile il Volto stesso di Dio, e lo prega: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). La risposta del Signore a questa preghiera va ben oltre la richiesta; infatti dice: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Gesù è consapevole di entrare direttamente nella comunione col Padre e di riaprire all’uomo la via per il paradiso di Dio. Così attraverso questa risposta dona la ferma speranza che la bontà di Dio può toccarci anche nell’ultimo istante della vita e la preghiera sincera, anche dopo una vita sbagliata, incontra le braccia aperte del Padre buono che attende il ritorno del figlio.

Ma fermiamoci sulle ultime parole di Gesù morente. L’Evangelista racconta: «Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo, spirò» (vv. 44-46). Alcuni aspetti di questa narrazione sono diversi rispetto al quadro offerto in Marco e in Matteo. Le tre ore di oscurità in Marco non sono descritte, mentre in Matteo sono collegate con una serie di diversi avvenimenti apocalittici, come il terremoto, l’apertura dei sepolcri, i morti che risuscitano (cfr Mt 27,51-53). In Luca, le ore di oscurità hanno la loro causa nell’eclissarsi del sole, ma in quel momento avviene anche il lacerarsi del velo del tempio. In questo modo il racconto lucano presenta due segni, in qualche modo paralleli, nel cielo e nel tempio. Il cielo perde la sua luce, la terra sprofonda, mentre nel tempio, luogo della presenza di Dio, si lacera il velo che protegge il santuario. La morte di Gesù è caratterizzata esplicitamente come evento cosmico e liturgico; in particolare, segna l’inizio di un nuovo culto, in un tempio non costruito da uomini, perché è il Corpo stesso di Gesù morto e risorto, che raduna i popoli e li unisce nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.

La preghiera di Gesù, in questo momento di sofferenza – «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» - è un forte grido di estremo e totale affidamento a Dio. Tale preghiera esprime la piena consapevolezza di non essere abbandonato. L’invocazione iniziale - «Padre» – richiama la sua prima dichiarazione di ragazzo dodicenne. Allora era rimasto per tre giorni nel tempio di Gerusalemme, il cui velo ora si è squarciato. E quando i genitori gli avevano manifestato la loro preoccupazione, aveva risposto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?» (Lc 2,49). Dall'inizio alla fine, quello che determina completamente il sentire di Gesù, la sua parola, la sua azione, è la relazione unica con il Padre. Sulla croce Egli vive pienamente, nell’amore, questa sua relazione filiale con Dio, che anima la sua preghiera.

Le parole pronunciate da Gesù, dopo l'invocazione «Padre», riprendono un'espressione del Salmo 31: «Alle tue mani affido il mio spirito» (Ps 31,6). Queste parole, però, non sono una semplice citazione, ma piuttosto manifestano una decisione ferma: Gesù si «consegna» al Padre in un atto di totale abbandono. Queste parole sono una preghiera di «affidamento», piena di fiducia nell’amore di Dio. La preghiera di Gesù di fronte alla morte è drammatica come lo è per ogni uomo, ma, allo stesso tempo, è pervasa da quella calma profonda che nasce dalla fiducia nel Padre e dalla volontà di consegnarsi totalmente a Lui. Nel Getsemani, quando era entrato nella lotta finale e nella preghiera più intensa e stava per essere «consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44), il suo sudore era diventato «come gocce di sangue che cadono a terra» (Lc 22,44). Ma il suo cuore era pienamente obbediente alla volontà del Padre, e per questo «un angelo dal cielo» era venuto a confortarlo (cfr Lc 22,42-43). Ora, negli ultimi istanti, Gesù si rivolge al Padre dicendo quali sono realmente le mani a cui Egli consegna tutta la sua esistenza. Prima della partenza per il viaggio verso Gerusalemme, Gesù aveva insistito con i suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44). Adesso, che la vita sta per lasciarlo, Egli sigilla nella preghiera la sua ultima decisione: Gesù si è lasciato consegnare «nelle mani degli uomini», ma è nelle mani del Padre che Egli pone il suo spirito; così – come afferma l’Evangelista Giovanni – tutto è compiuto, il supremo atto di amore è portato sino alla fine, al limite e al di là del limite.

Cari fratelli e sorelle, le parole di Gesù sulla croce negli ultimi istanti della sua vita terrena offrono indicazioni impegnative alla nostra preghiera, ma la aprono anche ad una serena fiducia e ad una ferma speranza. Gesù che chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo, ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro». Allo stesso tempo, Gesù, che nel momento estremo della morte si affida totalmente nelle mani di Dio Padre, ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele. Grazie.

Saluti:

Saluto in lingua polacca:

Do il benvenuto ai pellegrini polacchi. Le parole di Gesù agonizzante sono per noi una lezione della preghiera ispirata dallo spirito di perdono. Ripetendo quotidianamente: “rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ricordiamoci che il perdono delle colpe è un atto d’amore che ci unisce a Dio misericordioso e perdonante, libera dall’odio e guarisce tutte le ferite.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Saluto con grande affetto i fedeli di lingua ungherese, specialmente coloro che sono arrivati da Budapest, dall’Austria, dalla Germania e dalla Transilvania.
La visita dei luoghi sacri della città eterna approfondisca il vostro amore per la Chiesa, edificata sulla testimonianza degli Apostoli.
Volentieri imparto la Benedizione Apostolica a voi ed alle vostre intenzioni.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovacca:

Saluto con affetto i pellegrini slovacchi, particolarmente i delegati delle associazioni di fedeli laici.

Fratelli e sorelle, la Chiesa in Europa ha celebrato ieri la festa di suoi Compatroni, i Santi fratelli Cirillo e Metodio. Essi sono per voi modello di fedeltà a Cristo e al suo Vangelo. Siate fedeli a questo esempio. Con questo augurio vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!

* * *


Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Benvenuti! In particolare saluto voi, fedeli della diocesi di Pozzuoli, accompagnati dal vostro Pastore Mons. Gennaro Pascarella e, mentre vi ringrazio per la testimonianza della vostra fede, auguro che le vostre comunità parrocchiali e le varie realtà ecclesiali siano sempre più luoghi di formazione spirituale e di autentica fraternità. Saluto i Cardinali Stanislao Dziwisz e Stanislao Rylko e le altre Autorità con la Delegazione venuta a presentarmi la riproduzione della Porta Santa della Basilica di S. Pietro che sarà collocata nel museo del Beato Giovanni Paolo II a Wadowice. Saluto con affetto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose. Nell’odierno contesto sociale, i nuclei familiari con tanti figli costituiscono una testimonianza di fede, di coraggio e di ottimismo, perché senza figli non c’è futuro! Auspico che vengano ulteriormente promossi adeguati interventi sociali e legislativi a tutela e a sostegno delle famiglie più numerose, perché queste famiglie costituiscono una ricchezza e una speranza per l’intero Paese.

Saluto infine i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la festa dei Santi Cirillo e Metodio, primi diffusori della fede tra i popoli slavi. La loro testimonianza aiuti anche voi ad essere apostoli del Vangelo, fermento di autentico rinnovamento nella vita personale, familiare e sociale.





Aula Paolo VI

Mercoledì, 22 febbraio 2012: Mercoledì delle Ceneri


Catechesi 2005-2013 10212