Catechesi 79-2005 21379

Mercoledì, 28 marzo 1979 - 1. “Paenitemini et date eleemosynam”

(cfr Mc 1,15 Lc 12,33).

La parola “elemosina” oggi non l’ascoltiamo volentieri. Sentiamo in essa qualcosa di umiliante. Questa parola sembra supporre un sistema sociale in cui regna l’ingiustizia, l’ineguale distribuzione dei beni, un sistema che dovrebbe essere cambiato con riforme adeguate. E se tali riforme non venissero compiute, si delineerebbe all’orizzonte della vita sociale la necessità di cambiamenti radicali, soprattutto nell’ambito dei rapporti tra gli uomini. La stessa convinzione troviamo nei testi dei Profeti dell’Antico Testamento, ai quali attinge spesso la Liturgia nel tempo di Quaresima. I Profeti considerano questo problema a livello religioso: non vi è vera conversione a Dio, non può esserci autentica “religione” senza riparare ingiurie e ingiustizie nei rapporti tra gli uomini, nella vita sociale. Eppure in tale contesto i Profeti esortano l’elemosina.

Non usano nemmeno la parola “elemosina” che del resto in ebraico è “sedaqah”, cioè proprio “giustizia”. Chiedono aiuto per quelli che subiscono ingiustizia e per i bisognosi: non tanto in virtù della misericordia, quanto piuttosto in virtù del dovere della carità operante. “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: / sciogliere le catene inique, / togliere i legami del giogo, / rimandare liberi gli oppressi / e spezzare ogni giogo? / Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, / nell’indurre in casa i miseri, senza tetto, / nel vestire uno che vedi nudo, / senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).

La parola greca “eleemosyne” si trova nei tardivi libri della Bibbia e la pratica dell’elemosina è una verifica di una autentica religiosità. Gesù fa dell’elemosina una condizione dell’accesso al suo regno (cfr Lc 12,32-33) e della vera perfezione (Mc 10,21). D’altra parte, quando Giuda – di fronte alla donna che ungeva i piedi di Gesù – pronunciò la frase: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari, per poi darli ai poveri?” (Jn 12,5), Cristo difese la donna rispondendo: “I poveri... li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Jn 12,8). L’una e l’altra frase offrono motivo di grande riflessione.

2. Che cosa significa la parola “elemosina”.

La parola greca “eleemosyne” proviene da “eleos” che vuol dire compassione e misericordia; inizialmente indicava l’atteggiamento dell’uomo misericordioso e, in seguito, tutte le opere di carità verso i bisognosi. Questa parola trasformata è rimasta quasi in tutte le lingue europee.

In francese: “aumône”; spagnolo: “limosna”; portoghese: “esmola”; tedesca: “Almosen”; inglese: “alms”. Perfino l’espressione polacca “jalmuzna” è la trasformazione della parola greca.

Dobbiamo qui differenziare il significato oggettivo di questo termine dal significato che gli diamo nella nostra coscienza sociale. Come risulta da ciò che abbiamo già detto in precedenza, al termine “elemosina” attribuiamo spesso, nella nostra coscienza sociale, un significato negativo. Diverse sono le circostanze che vi hanno contribuito e vi contribuiscono anche oggi. Invece, l’“elemosina” in se stessa, come aiuto a chi ne ha bisogno, come “il fare partecipare gli altri ai propri beni”, non suscita assolutamente simili associazioni negative. Possiamo non esser d’accordo con chi fa l’elemosina, per il modo in cui la fa. Possiamo anche non consentire con chi tende la mano chiedendo l’elemosina, in quanto non si sforza di guadagnarsi la vita da sé. Possiamo non approvare la società, il sistema sociale, in cui ci sia necessità di elemosina. Tuttavia il fatto stesso di prestare aiuto a chi ne ha bisogno, il fatto di condividere con gli altri i propri beni deve suscitare rispetto.

Vediamo quanto nell’intendere le espressioni verbali bisogna liberarsi dall’influsso delle varie circostanze accidentali: circostanze spesso improprie, che gravano sul loro significato ordinario. Queste circostanze sono del resto alle volte in se stesse positive (ad esempio, nel nostro caso: l’aspirazione ad una società giusta, in cui non vi sia necessità di elemosina, perché vi regni la giusta distribuzione dei beni).

Quando il Signore Gesù parla di elemosina, quando chiede di praticarla, lo fa sempre nel senso di portare aiuto a chi ne ha bisogno, di condividere i propri beni con i bisognosi, cioè nel senso semplice ed essenziale, che non ci permette di dubitare del valore dell’atto denominato con il termine “elemosina”, anzi ci sollecita ad approvarlo: come atto buono, come espressione di amore verso il prossimo e come atto salvifico.


Inoltre, in un momento di particolare importanza, Cristo pronuncia queste parole significative: “I poveri... li avete sempre con voi” (Jn 12,8). Con tali parole non intende dire che i cambiamenti delle strutture sociali ed economiche non valgano e che non si debba tentare diverse vie per eliminare l’ingiustizia, l’umiliazione, la miseria, la fame. Vuole soltanto dire che nell’uomo ci saranno sempre delle necessità, le quali non potranno essere altrimenti soddisfatte se non con l’aiuto al bisognoso e col far partecipare gli altri ai propri beni... Di quale aiuto si tratta? Di quale partecipazione? Forse soltanto di “elemosina”, intesa sotto forma di denaro, di soccorso materiale?

3. Certamente Cristo non toglie l’elemosina dal nostro campo visivo. Egli pensa anche all’elemosina pecuniaria, materiale, ma a modo suo. Più di ogni altro eloquente, a questo proposito, è l’esempio della vedova povera, che deponeva nel tesoro del tempio alcuni spiccioli: dal punto di vista materiale, un’offerta difficilmente paragonabile alle offerte che davano gli altri. Tuttavia Cristo disse: “Questa vedova... ha dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,3-4). Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono: la disponibilità a condividere tutto, la prontezza a dare se stessi.

Ricordiamo qui San Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze... ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Co 13,3). Anche Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps 125,5) scrive bene a questo proposito: “Se stendi la mano per donare, ma nel cuore non hai misericordia, non hai fatto nulla; se invece nel cuore hai misericordia, anche quando non avessi nulla da donare con la tua mano, Dio accetta la tua elemosina”.

Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”. Proprio tale atteggiamento è un fattore indispensabile della “metànoia”, cioè della conversione, così come sono anche indispensabili la preghiera e il digiuno. Infatti ben si esprime Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in ): “Quanto celermente sono accolte le preghiere di chi opera il bene! E questa è la giustizia dell’uomo nella vita presente: il digiuno, l’elemosina, l’orazione”: la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire “no” a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura “verso gli altri”. Tale quadro delinea chiaramente il Vangelo quando ci parla della penitenza, della “metànoia” Solo con un atteggiamento totale – nel rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo – l’uomo raggiunge la conversione e permane nello stato di conversione.

L’“elemosina” così intesa ha un significato in un certo senso decisivo per una tale conversione. Per convincersene, basta ricordare l’immagine del giudizio finale che Cristo ci ha dato: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-40). E i Padri della Chiesa diranno poi con San Pietro Crisologo (S. Pietro Crisologo, Sermo VIII, 4): “La mano del povero è il gazofilacio di Cristo, poiché tutto ciò che il povero riceve è Cristo che lo riceve”, e con San Gregorio di Nazianzo (S. Gregorio di Nazianzo, De pauperum amore, XI): “Il Signore di tutte le cose vuole la misericordia, non il sacrificio; e noi la diamo attraverso i poveri”.

Pertanto, questa apertura agli altri, che si esprime con l’“aiuto”, con il “dividere” il cibo, il bicchiere d’acqua, la buona parola, il conforto, la visita, il tempo prezioso, ecc., questo dono interiore offerto all’altro uomo giunge direttamente a Cristo, direttamente a Dio. Decide dell’incontro con lui. È la conversione.

Nel Vangelo, e anche in tutta la Sacra Scrittura, possiamo trovare molti testi che lo confermano. L’“elemosina” intesa secondo il Vangelo, secondo l’insegnamento di Cristo, ha nella nostra conversione a Dio un significato definitivo, decisivo. Se manca l’elemosina, la nostra vita non converge ancora pienamente verso Dio.

4. Nel ciclo delle nostre riflessioni quaresimali, occorrerà riprendere questo tema. Oggi, prima di concludere, fermiamoci ancora un momento sul vero significato dell’“elemosina”. È molto facile, infatti, falsificarne l’idea, come abbiamo già avvertito all’inizio. Gesù dava ammonimenti anche rispetto all’atteggiamento superficiale, “esteriore” dell’elemosina (cfr Mt 6,2-4 Lc 11,41). Questo problema è sempre vivo. Se ci rendiamo conto del significato essenziale che l’“elemosina” ha per la nostra conversione a Dio e per tutta la vita cristiana, dobbiamo evitare, ad ogni costo, tutto ciò che falsifica il senso dell’elemosina, della misericordia, delle opere di carità: tutto ciò che può deformarne l’immagine in noi stessi. In questo campo, è molto importante coltivare la sensibilità interiore verso i bisogni reali del prossimo, per sapere in che cosa dobbiamo aiutarlo, come agire per non ferirlo, e come comportarci, affinché ciò che diamo, che portiamo nella sua vita, sia un dono autentico, un dono non aggravato dal senso ordinario negativo della parola “elemosina”.

Vediamo dunque quale campo di lavoro – ampio e insieme profondo – si apre davanti a noi, se vogliamo mettere in pratica il richiamo: “Paenitemini et date eleemosynam” (cfr Mc 1,15 Lc 12,33). È un campo di lavoro non soltanto per la Quaresima, ma per ogni giorno. Per tutta la vita.

Ad alunni e alunne

Carissimi alunni e alunne delle Scuole Elementari e delle Scuole Medie di Roma, che siete venuti con i vostri condiscepoli di altre città italiane e insieme con altri ragazzi e ragazze appartenenti ad associazioni cattoliche! Il Papa vi accoglie con paterno affetto e vi ringrazia di tutto cuore per la visita che avete voluto rendergli. Questo incontro, come sapete, avviene nella stagione liturgica della Quaresima, che ha per scopo la fervorosa preparazione alla Pasqua. Sono sicuro che i vostri Insegnanti ed Assistenti vi hanno istruito circa l’importanza di questo periodo, esortandovi a meditare il mistero della nostra Redenzione: Gesù, nostro fratello, si è sostituito a noi per espiare il peccato, e per questo ha dovuto soffrire la passione e la morte di Croce. Vi auguro che, riflettendo sull’infinito amore di Dio, sia sempre più sentito, da parte vostra, il dovere della preghiera e della mortificazione, mediante le quali, purificati nello spirito e nel corpo, ci si unisce più intimamente al Padre celeste.


Ed ora bisogna compiere l’opera: rivivere nel modo più degno l’avvenimento unico e irripetibile della storia del genere umano – la Risurrezione del Divin Salvatore – avvalendosi dei mezzi da lui stesso messi a nostra disposizione, e cioè i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, che procurano l’ineffabile gioia di partecipare al trionfo di Cristo. Accoglierete così fedelmente l’invito di San Paolo: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1-2). E con questo augurio vi do la Benedizione Apostolica, che desidero estendere a tutti i vostri cari.

A vari gruppi di Religiosi e Religiose

Desidero ora estendere il mio benedicente saluto ai Religiosi e Religiose, che oggi sono particolarmente numerosi in quest’Aula.

– Una speciale menzione vada anzitutto ai sacerdoti ed alle suore che partecipano al XIX Convegno degli Economi cattolici d’Italia: vi sono molto grato, cari figli e figlie, per il vostro servizio talora misconosciuto, ma quanto mai prezioso, e meritorio davanti a Dio. Il Signore vi sostenga nella vostra opera.

– Alle Suore di Santa Dorotea Frassinetti, che in questi giorni sono qui a Roma per prendere parte al loro Capitolo Generale, auspico con le stesse parole del Concilio Vaticano II che possiate veramente “adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la vostra professione religiosa, e progredire nella gioia spirituale sulla via della carità” (cfr Lumen Gentium LG 43).

– Un pensiero beneaugurante rivolgo pure alle partecipanti al Convegno Nazionale sulle Comunicazioni Sociali e a quelle del Corso per “Maestre di formazione”: portate dappertutto il segno sorridente della vostra bontà operosa, che riverbera lo spirito stesso del Cristo e del suo Vangelo. Fate sentire ovunque la vostra presenza cristiana.

Ai partecipanti al convegno nazionale del Patronato per l’Assistenza Spirituale alle Forze Armate e al pellegrinaggio dell’Associazione dei Reduci dalla Prigionia

Anche ai partecipanti al Convegno delle Sezioni per l’“Assistenza Spirituale alle Forze Armate d’Italia”, auguro che il loro impegno per l’animazione cristiana e per la promozione dei supremi valori della pace e del rispetto reciproco tra gli individui sia coronato dal buon successo, che solo nella forza del Signore trova il suo pieno compimento. Riservo, infine, un saluto particolarmente affettuoso al pellegrinaggio dell’Associazione dei Reduci dalla Prigionia e dai campi di concentramento, qui presenti insieme con un gruppo di familiari e di congiunti di militari dispersi nella campagna di Russia. Carissimi, voi che portate ancora nelle vostre anime e nei vostri corpi i segni di antiche e tuttora doloranti ferite avete un posto del tutto speciale nel cuore del Papa, che non cessa di ricordarvi nella preghiera. A tutti voi imparto una speciale Benedizione.

Agli ammalati

Desidero assicurare a tutti gli ammalati e a quanti soffrono che io sono particolarmente vicino ad essi col cuore e con la preghiera. Carissimi, vi invito ad unire, soprattutto in questo periodo di Quaresima, le vostre sofferenze a quelle di Cristo, sospeso sulla croce, e di offrirle per la salvezza di tutti gli uomini. Vi accompagno col mio incoraggiamento e con la mia benedizione, che volentieri estendo ai vostri familiari e a quanti vi assistono.

Ai giovani sposi


Va ora a voi, sposi novelli, un particolare saluto e il paterno mio augurio: che la vostra vita matrimoniale, iniziata col sacro rito, di cui sono ancora pieni gli occhi e ancor più l’anima vostra, proceda ogni giorno migliore, rafforzata dall’amore vicendevole e da un mutuo, operoso senso di responsabilità. Mantenete a lungo, mantenete sempre la carica di vitalità, che oggi vi sorregge e vi fa guardare avanti con gioiosa speranza. Dio vi benedica, come io nel suo nome di cuore vi benedico.

Al Seguito del Presidente della Repubblica dello Zaïre

Qualche parola di benvenuto alle settanta persone che accompagnano il Presidente dello Zaïre durante la sua visita. Riceverò domani con molto piacere il Generale Mobuto Sese Seko, per dirgli la mia sollecitudine per il popolo dello Zaïre. A voi rivolgo i miei saluti più cordiali, assicurandovi le mie preghiere per voi, per le vostre famiglie e per tutti i vostri compatrioti.



Mercoledì, 4 aprile 1979

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Sorelle e Fratelli carissimi!

1. Desidero tornare oggi ancora una volta ai temi delle nostre tre meditazioni quaresimali: preghiera, digiuno, elemosina, e soprattutto a quest’ultima. Se la preghiera, il digiuno e l’elemosina formano la nostra conversione a Dio, conversione che viene espressa in modo più esatto dal termine greco “metànoia”, se esse costituiscono il principale tema della liturgia quaresimale, uno studio penetrante di questa liturgia ci persuade che l’“elemosina” vi occupa un posto particolare. Abbiamo cercato di spiegarlo brevemente mercoledì scorso, ricollegandoci all’insegnamento di Cristo e dei Profeti dell’Antico Testamento, che risuona spesso nella liturgia quaresimale.

Esiste però il bisogno di attualizzare questo tema, di tradurlo, per così dire, non soltanto in un linguaggio di termini moderni, ma anche in un linguaggio dell’attuale realtà umana: interiore e sociale insieme. Come si riferiscono alla realtà attuale le parole pronunciate migliaia di anni fa, in un contesto storico-sociale completamente diverso, parole rivolte ad uomini di una mentalità così diversa da quella di oggi? Come è possibile dunque applicarle a noi stessi? Quali punti nevralgici della nostra attuale ingiustizia, delle iniquità umane, delle varie disuguaglianze, che non sono per nulla sparite dalla vita dell’umanità – benché tante volte la parola d’ordine “uguaglianza” sia stata scritta su varie bandiere – debbono colpire queste parole?

Risuonano con forza insolita le discrete parole di Cristo rivolte un giorno all’apostolo traditore: “I poveri... li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (
Jn 12,8).

“Voi avrete sempre dei poveri fra di voi”. Dopo l’abisso di questa parola, nessun uomo ha mai potuto dire che cosa sia la povertà... Quando si interroga Dio, egli risponde che è proprio lui il Povero: “Ego sum pauper” (Léon Bloy, La donna povera, II, 1).

2. La chiamata alla penitenza, alla conversione significa chiamata all’apertura interiore “verso gli altri”. Nulla può sostituire, nella storia della Chiesa e nella storia dell’uomo, questa chiamata. Questa chiamata ha infinite destinazioni. È rivolta ad ogni uomo ed è rivolta a ciascuno per i motivi propri di ciascuno. Ognuno deve quindi vedersi nei due aspetti della destinazione di questa chiamata. Cristo esige da me un’apertura verso l’altro. Ma verso quale altro? Verso colui che è qui, in questo momento! Non si può “rimandare” questa chiamata di Cristo ad un momento indefinito, in cui apparirà quel mendicante “qualificato” e stenderà la mano.


Debbo essere aperto a ciascun uomo pronto a “prestarmi”. A prestarmi con che cosa? È noto che alle volte con una sola Parola possiamo “fare un dono” all’altro; ma con una sola parola possiamo anche colpirlo dolorosamente, ingiuriarlo, ferirlo; possiamo perfino “ucciderlo” moralmente. Bisogna quindi accogliere questa chiamata di Cristo in quelle ordinarie quotidiane situazioni di convivenza e di contatto, dove ciascuno di noi è sempre colui che può “dare” agli altri e, nello stesso tempo, colui che sa accettare ciò che gli altri possono offrirgli.

Realizzare la chiamata di Cristo ad aprirsi interiormente verso gli altri, significa vivere sempre con la prontezza di trovarsi dall’altra parte della destinazione di questa chiamata. Io sono colui che dà agli altri anche quando so accettare, quando sono riconoscente per ogni bene che mi viene dagli altri. Non posso essere chiuso e ingrato. Non posso isolarmi. Accettare la chiamata di Cristo all’apertura verso gli altri esige, come si vede, una rielaborazione di tutto lo stile della nostra vita quotidiana. Bisogna accettare questa chiamata nelle dimensioni reali della vita. Non rimandare a condizioni e a circostanze diverse, a quando se ne presenterà la necessità. Bisogna continuamente perseverare in tale atteggiamento interiore. Altrimenti, quando si presenterà quell’occasione “straordinaria” potrà capitarci che non avremo una disposizione adeguata.

3. Intendendo così, in modo pratico il significato della chiamata di Cristo a “prestarsi” agli altri nella vita di ogni giorno, non vogliamo restringere il senso di questa donazione soltanto ai fatti quotidiani, per così dire, di piccole dimensioni. Il nostro “prestarsi” deve riguardare anche i fatti lontani, le necessità del prossimo, con cui non siamo a contatto ogni giorno, ma della cui esistenza siamo consapevoli. Sì, oggi conosciamo molto meglio le necessità, le sofferenze, le ingiustizie degli uomini che vivono in altri paesi, in altri continenti. Siamo lontani da loro geograficamente, siamo divisi da barriere linguistiche, da frontiere poste dai singoli Stati... Non possiamo addentrarci direttamente nella loro fame, nella loro indigenza, nei maltrattamenti, nelle umiliazioni, nelle torture, nella prigionia, nelle discriminazioni sociali, nella loro condanna ad un “esilio interiore” o alla “proscrizione”; tuttavia sappiamo che soffrono, e sappiamo che sono uomini come noi, nostri fratelli. La “fratellanza” non è stata iscritta solo sulle bandiere e sugli stendardi delle moderne rivoluzioni. Già molto tempo fa l’ha proclamata Cristo: “...voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). E ancor più: a questa fratellanza egli ha dato un punto indispensabile di riferimento: ci ha insegnato a dire: “Padre nostro”. La fratellanza umana presuppone la paternità divina.

La chiamata di Cristo ad aprirsi “all’altro”, al “fratello”, proprio al fratello, ha un raggio d’estensione sempre concreto e sempre universale. Riguarda ciascuno perché si riferisce a tutti. La misura di questo aprirsi non è soltanto – e non tanto – la vicinanza dell’altro, quanto proprio le sue necessità: avevo fame, avevo sete, ero nudo, in carcere, ammalato... Rispondiamo a questa chiamata cercando l’uomo che soffre, seguendolo perfino oltre le frontiere degli stati e dei continenti. In questo modo si crea – attraverso il cuore di ciascuno di noi – quella dimensione universale della solidarietà umana. La missione della Chiesa è di custodire questa dimensione, non limitarsi ad alcune frontiere, ad alcuni indirizzi politici, ad alcuni sistemi. Custodire l’universale solidarietà umana soprattutto con coloro che soffrono; conservarla con riguardo a Cristo che proprio tale dimensione di solidarietà con l’uomo ha formato una volta per sempre. “Poiché l’amore del Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (). E ce l’ha data come compito una volta per sempre. L’ha data come compito alla Chiesa. L’ha data a tutti. L’ha data a ciascuno. “Chi è debole, che anche io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?” (2Co 11,29). Sono parole di San Paolo.

Quindi, nella nostra coscienza – nella coscienza individuale del cristiano – nella coscienza sociale dei vari ambienti, nelle nazioni, debbono formarsi, direi, delle zone particolari di solidarietà proprio con coloro che soffrono di più. Dobbiamo lavorare sistematicamente, affinché le zone dei particolari bisogni umani, delle grandi sofferenze, dei torti e delle ingiustizie, divengano zone di solidarietà cristiana di tutta la Chiesa e, attraverso la Chiesa, delle singole società e dell’intera umanità.

4. Se viviamo in condizioni di prosperità o di benessere, tanto più dobbiamo essere coscienti di tutta la geografia della fame sul globo terrestre; tanto più dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alla miseria umana, come fenomeno di massa: dobbiamo risvegliare la nostra responsabilità e stimolare la prontezza ad un aiuto attivo ed efficace. Se viviamo nelle condizioni di libertà, di rispetto dei diritti umani, tanto più dobbiamo soffrire per le oppressioni delle società che sono private della libertà, degli uomini che sono privati dei fondamentali diritti dell’uomo. E questo riguarda anche la libertà religiosa. In modo particolare là, dove c’è il rispetto della libertà religiosa, dobbiamo partecipare alle sofferenze degli uomini, alle volte di intere comunità religiose e di intere Chiese, a cui viene negato il diritto alla vita religiosa secondo la propria confessione o il proprio rito. Debbo chiamare col loro nome tali situazioni? Certamente. Questo è mio dovere. Ma non ci si può fermare soltanto a questo. Bisogna che noi tutti e in ogni luogo ci sforziamo di assumere un atteggiamento di solidarietà cristiana con i nostri fratelli nella fede, che subiscono discriminazioni e persecuzioni. Bisogna inoltre cercare forme, in cui questa solidarietà possa esprimersi. Questa è sempre stata, sin dai tempi più antichi, la tradizione della Chiesa. Difatti, è ben noto, che la Chiesa di Gesù Cristo non è entrata “in posizione di forza” nella storia dell’umanità, ma attraverso secoli di persecuzioni subite. E sono proprio questi secoli che hanno creato la più profonda tradizione della solidarietà cristiana.

Anche oggi tale solidarietà è la forza di un autentico rinnovamento. Essa è la via indispensabile per l’autorealizzazione della Chiesa nel mondo contemporaneo. È la verifica della nostra fedeltà a Cristo che ha detto: “I poveri... li avete sempre con voi” (Jn 12,8), e ancora: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). La nostra conversione a Dio si realizza soltanto sulla via di questa solidarietà.

Vi benedico con molto affetto.

Prima di indirizzare la mia parola ai pellegrini delle diverse Nazioni, nelle loro singole lingue, vorrei rivolgere il mio pensiero a una particolare situazione, che mi sta tanto a cuore.

Sono per me motivo di profondo dolore le gravi e preoccupanti notizie, che in questi giorni giungono dall’Uganda, Paese che, come sapete, ospitò calorosamente il mio Predecessore Paolo VI, nella sua storica visita in Africa. Esso è ora teatro di scontri sanguinosi, che causano vittime e distruzioni. Vi invito ad unirvi alla mia preghiera, affinché Iddio allevii le sofferenze di quelle provate popolazioni e assicuri ad esse e a tutto il Continente africano il dono auspicato di una giusta e stabile pace.

Ai giovani


Desidero ora rivolgere una particolare parola ai numerosissimi giovani, provenienti da varie parti, che partecipano a questo incontro. Siate i benvenuti, carissimi giovani!

In questa imponente udienza, che vuole essere anche una festa dei cuori, voi portate una nota singolare di allegria, di bontà e di speranza. Vi saluto cordialmente e vi esprimo la mia gratitudine.

Come già ho avuto occasione di dire molte volte, la Chiesa ha fiducia in voi e nel vostro entusiasmo per ogni causa nobile e grande; deve avere fiducia in voi, perché voi siete gli uomini del domani. Guardando i vostri volti, vediamo l’avvenire! Nella luce dei vostri occhi, risplende il duemila. È uno spettacolo impressionante ed esaltante, che, in pari tempo, è anche esigenza di autentica formazione umana e cristiana.

Nel guardarvi, penso a quello che sarete e mi è motivo di conforto il vostro generoso impegno.

Una sola raccomandazione voglio indirizzarvi quest’oggi: ricordatevi che il mondo ha bisogno di innocenza. Tutti i valori sono importanti e necessari per lo sviluppo della persona e della società e per il buon andamento della vita civile. Ma il cristiano sa che il valore principale e assoluto è la “grazia” di Dio, che è partecipazione alla vita stessa della Santissima Trinità e presenza di Dio nella propria anima; in una parola, il primo valore è per tutti l’innocenza di vita, mantenuta mediante l’osservanza dei Dieci Comandamenti, ossia della legge morale, e mediante la preghiera e i Sacramenti.

Infatti, Gesù stesso ci ha ammoniti: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché, chi vorrà salvar la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? (Mt 16,24-26).

E ancora Gesù ci scongiura di non distaccarci da lui, che è la “Vite vera”, e cioè di non perdere la “grazia”, per non diventare dei tralci secchi e inutili: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Jn 15,4-6).

Perciò vi esorto anch’io come Gesù: conservate l’innocenza! Vivete in grazia di Dio! Non lasciatevi attirare, avvolgere, trascinare, soffocare dal male, che – come sapete – esiste sempre nel mondo e anche in noi stessi, data la nostra natura, redenta sì, ma ferita dal peccato originale.

Vi affido a Maria Santissima, che vi invito a pregare ogni giorno, e di cuore tutti vi benedico!

A un pellegrinaggio della Diocesi di Forlì

Saluto con paterno affetto i parroci e i fedeli dei numerosi pellegrinaggi italiani provenienti dalle rispettive parrocchie vicine e lontane con i loro generosi propositi per la santa Pasqua. Un particolare benvenuto desidero dare al pellegrinaggio della diocesi di Forlì, composto di oltre mille fedeli, guidati dal loro Vescovo, Monsignor Giovanni Proni. Mi congratulo con loro per la fervida devozione alla Santissima Vergine, venerata sotto il titolo di “Madonna del Fuoco”; e la prego insieme con tutti voi affinché sostenga sempre le nobili tradizioni cristiane ricevute dai vostri padri, vi accenda di continuo amore verso Dio e verso il prossimo, e sia animatrice di fraterna coesione non solo in tutta la diocesi a lei consacrata, ma anche nell’intera regione di Romagna.

Agli infermi


Un particolare e affettuoso pensiero a voi tutti ammalati nel corpo e nello spirito, che da varie nazioni siete venuti a visitare il Papa. Quale incontro significativo, cordiale e interessante è questo, che avviene tra quanti rappresentano l’Umanità sofferente e il Vicario in terra di Colui, il quale ha voluto essere l’“Uomo dei dolori”, allo scopo di dare un valore, un conforto, una speranza al patire di ogni esistenza umana! Il presente tempo liturgico ci porta a considerare Cristo che, agonizzante nell’orto del Getsemani, ha accettato di essere soggetto al tedio, all’angoscia e alla tristezza profonda (cfr Mc 14,33).Egli pregò, si affidò totalmente alla volontà del Padre Celeste ed ebbe conforto e forza sufficiente per bere fino in fondo il calice del dolore (cfr Mc 14,36).

Carissimi infermi, tenete fisso lo sguardo a Cristo, vostro Amico, vostro Modello, vostro Consolatore! Seguendo il suo esempio, voi otterrete che il vostro tedio si cambi in serenità, la vostra angoscia si muti in speranza, la vostra tristezza si trasformi in letizia, la vostra sofferenza diventi purificazione e merito per le anime vostre, oltre che prezioso contributo al bene spirituale della Chiesa (cfr Col 1,24). Di cuore benedico voi, i vostri cari, e quanti amorevolmente vi assistono.

Agli sposi

Permettete infine che mi rivolga a voi, sposi novelli, che, come di consueto, siete numerosi e animati dal vivo desiderio di rendere filiale omaggio al Papa, di ascoltare la sua parola e di ricevere la sua benedizione. Con grande piacere scorgo tra voi il gruppo di coniugi aderenti al Movimento dei Focolari, che provengono da vari Paesi europei.

Figli carissimi, fate che le nuove famiglie, sorte dall’affetto del cuore e dal consenso libero della vostra volontà, suggellato dalla grazia divina del sacramento del Matrimonio, siano sempre e profondamente pervase di amore forte e fecondo, rimangano salde sulla roccia dell’unità e della fedeltà, e siano vivificate da quelle virtù cristiane che fondano e garantiscono la pace e la prosperità del focolare domestico, da voi appena acceso. Sulle vostre nascenti famiglie invoco la continua assistenza del Signore e a tutti imparto volentieri la mia speciale Benedizione.




Catechesi 79-2005 21379