Catechesi 79-2005 11479

Mercoledì, 11 aprile 1979

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1. Durante la quaresima, la Chiesa, riferendosi alle parole di Cristo, all’insegnamento dei profeti dell’Antico Testamento, alla propria tradizione secolare, ci esorta ad una particolare solidarietà con tutti coloro che soffrono, e che, in qualsiasi modo, sperimentano la povertà, la miseria, l’ingiustizia, la persecuzione. Ne abbiamo parlato mercoledì scorso, continuando le nostre riflessioni quaresimali sull’attuale significato della penitenza, che si esprime attraverso la preghiera, il digiuno e l’elemosina. L’esortazione alla solidarietà, in nome di Cristo, con tutte le tribolazioni e le necessità dei nostri fratelli, e non soltanto con quelli che entrano nel raggio del nostro occhio e della nostra mano, ma con tutti, perfino con le grida delle anime e dei corpi tormentati, è quasi l’essenza stessa del vivere spiritualmente il periodo della Quaresima nell’esistenza della Chiesa. Nell’ultima settimana di Quaresima – dopo tale preparazione (e soltanto dopo di essa!) – la Chiesa ci esorta ad una particolare ed eccezionale solidarietà con lo stesso Cristo sofferente. Sebbene l’essere coscienti della passione di Cristo ci accompagni lungo tutte le settimane di questo periodo, tuttavia soltanto questa settimana, l’unica nel senso pieno della parola, è la settimana della Passione del Signore. È la Settimana Santa. Il richiamo ad una particolare ed eccezionale solidarietà con Cristo sofferente si fa sentire verso la fine del periodo quaresimale. Si fa sentire quando è già maturato in noi l’atteggiamento di conversione spirituale, e specialmente il senso di solidarietà con tutti i nostri fratelli che soffrono. Ciò corrisponde alla logica della rivelazione: l’amore di Dio è il primo e il più grande comandamento, ma non può adempiersi fuori dell’amore dell’uomo. Non si adempie senza di esso.

2. Nello stesso tempo i più profondi e i più potenti impulsi dell’amore debbono scaturire da questa Settimana, nella quale siamo chiamati ad una particolare, ed eccezionale, solidarietà con Cristo, nella sua passione e morte in Croce. “Dio infatti ha tanto amato il mondo” – l’uomo nel mondo – “da dare il suo figlio unigenito” (
Jn 3,16). L’ha dato alla passione e alla morte. Contemplando questa rivelazione d’amore che parte da Dio e va verso l’uomo nel mondo, non possiamo fermarci, ma dobbiamo riprendere la via “del ritorno”: via del cuore umano che va verso Dio, la via dell’amore. La Quaresima – e soprattutto la Settimana Santa – deve essere, in ogni anno della nostra vita nella Chiesa, un nuovo inizio di questa “via dell’amore”. La Quaresima si identifica, come vediamo, col punto culminante della rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo.

Pertanto la Chiesa ci esorta a soffermarci in modo del tutto particolare ed eccezionale accanto a Cristo, solo presso di lui. Ci esorta a sforzarci – come San Paolo – (almeno in questa settimana) a “non sapere altro... se non Gesù Cristo e questi crocifisso” (1Co 2,2). Tale esortazione, la Chiesa la rivolge a tutti: non soltanto a tutta la comunità dei credenti, a tutti i seguaci di Cristo, ma anche a tutti gli altri. Fermarsi davanti a Cristo che soffre, ritrovare in se stesso la solidarietà con lui: ecco il dovere e il bisogno di ogni cuore umano, ecco la verifica della sensibilità umana. In ciò si manifesta la nobiltà dell’uomo. La Settimana Santa è quindi il tempo della più ampia apertura della Chiesa verso l’umanità e insieme il tempo-vertice dell’evangelizzazione: attraverso tutto ciò che durante questi giorni la Chiesa pensa e dice di Cristo, attraverso il modo in cui vive la sua passione e morte, attraverso la sua solidarietà con lui, la Chiesa ritorna, anno dopo anno, alle stesse radici della sua missione e del suo salvifico annunzio. E se in questa Settimana Santa la Chiesa, più che parlare, tace, lo fa perché tanto più possa parlare il Cristo stesso. Quel Cristo che Papa Paolo VI chiamò primo e perenne Evangelizzatore (cfr Paolo VI, Evangelii Nuntiandi EN 7).

3. L’evangelizzazione si attua con l’aiuto delle parole. Proprio le parole di Cristo pronunciate durante la sua passione hanno una enorme forza di espressione. Si può anche dire che esse sono luogo di particolare incontro con ogni uomo; esse sono l’occasione e la ragione per manifestare una grande solidarietà. Quante volte torniamo a quel che gli Evangelisti hanno registrato come filo conduttore della preghiera di Cristo nell’orto degli Olivi? “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice” (Mt 26,39). Non dice così ogni uomo? Non sente così ogni uomo nella sofferenza, nella tribolazione, di fronte alla croce? “Passi da me...”. Quanta profonda verità umana è contenuta in questa frase! Cristo, come vero uomo, ha sentito ripugnanza di fronte alla sofferenza: “Cominciò a provare tristezza e angoscia” (Mt 26,37) e disse: “Passi da me...”, non venga, non mi raggiunga! Bisogna accettare tutta l’espressione umana, tutta la verità umana di queste parole, per saperle congiungere con quelle di Cristo: “Se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39). Ogni uomo, trovandosi di fronte alla sofferenza, sta davanti ad una sfida... È questa soltanto una sfida della sorte? Cristo dà la risposta, dicendo: “come vuoi tu”. Non si rivolge ad una sorte, ad una “cieca sorte”. Parla a Dio. Al Padre. Alle volte questa risposta non ci basta, perché essa non è l’ultima parola, ma la prima. Non possiamo comprendere né Getsemani, né Calvario se non nel contesto dell’intero evento pasquale. Di tutto il mistero.

4. Nelle parole della passione di Cristo vi è un incontro particolarmente intenso dell’“umano” col “divino”. Lo dimostrano già le parole del Getsemani. In seguito Cristo piuttosto tacerà. Dirà una frase a Giuda. Poi a coloro che Giuda ha condotto nell’orto del Getsemani per arrestarlo. Poi ancora a Pietro. Davanti al Sinedrio non si difende, ma rende testimonianza. Così anche davanti a Pilato. Invece davanti ad Erode “non rispose nulla” (Lc 23,9). Durante il supplizio si avverano le parole di Isaia: “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Le sue ultime parole cadono dall’alto della Croce. Esse si spiegano nel loro insieme col decorso dell’evento, con l’orribile supplizio e, nello stesso tempo, attraverso di esse, nonostante la loro brevità e concisione, traspare ciò che è “divino” e “salvifico”. Risentiamo il senso “salvifico” delle parole rivolte alla Madre, a Giovanni, al buon ladrone, come pure delle parole che si riferivano ai crocifissori. Sconvolgenti sono le ultime parole rivolte al Padre: ultima eco ed insieme quasi continuazione della preghiera del Getsemani. Cristo dice: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), ripetendo le parole del Salmista (cfr Ps 22,1). Nel Getsemani aveva detto: “Se è possibile, passi da me questo calice” (Mt 26,39). Ed ora, dall’alto della croce, ha pubblicamente confermato che il “calice” non è stato allontanato, che deve berlo fino in fondo. Tale è la volontà del Padre. Difatti, l’eco della preghiera del Getsemani è quest’ultima parola: “Tutto è compiuto” (Jn 19,30). E infine soltanto queste: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).


L’agonia di Cristo. Prima quella morale nel Getsemani. Poi quella morale e fisica insieme, sulla Croce. Nessuno, come Cristo, ha così profondamente manifestato il tormento umano del morire, proprio perché era Figlio di Dio; perché l’“umano” e il “divino” costituivano in lui una misteriosa unità. Perciò anche quelle parole della Passione di Cristo, così penetrantemente umane, rimarranno per sempre una rivelazione della “divinità” che in Cristo si è legata all’umanità, nella pienezza dell’unità personale. Si può dire: era necessaria la morte di Dio-Uomo, affinché noi, eredi del peccato originale, vedessimo che cosa è il dramma nella morte dell’uomo.

Dobbiamo, in questa Settimana Santa, pervenire ad una particolare solidarietà con Cristo sofferente, crocifisso e agonizzante, per ritrovare nella nostra vita la vicinanza di ciò che è “divino” e di ciò che è “umano”. Dio ha deciso di parlarci col linguaggio dell’amore che è più forte della morte.

Accogliamo questo messaggio.

Ai giovani

Mi rivolgo ora, in modo particolare, a voi ragazzi e ragazze, adolescenti e giovani, che vedo così festanti e numerosi, come sempre a questa udienza. Vi saluto con profondo affetto e vi ringrazio per la vostra presenza, piena di vita e di entusiasmo. E insieme con voi, intendo salutare e ringraziare i vostri genitori e i vostri insegnanti. Siamo nella Settimana santa e meditiamo la passione di Gesù, che si risolverà con la sua risurrezione gloriosa; e perciò possiamo anche dire di essere nella “Settimana della speranza”.

Il mondo di oggi ha bisogno di speranza, è sempre più alla drammatica ricerca della “speranza che non delude”. Tocca a voi, cari giovani, di essere nel mondo moderno i messaggeri della vera speranza che è Cristo. Ognuno di voi dica a se stesso: voglio essere un apostolo della speranza! Con questi voti, giunga a voi tutti il mio augurio più affettuoso e la mia benedizione apostolica.

Agli infermi

In questo incontro della Settimana santa, voglio soprattutto salutare i malati e i sofferenti, quelli che sono in questa piazza e quelli – tutti carissimi al mio cuore – che vivono, in gran numero e spesso in solitudine, sulla faccia della terra. Su di essi posa il suo sguardo Gesù paziente, Gesù crocifisso, per infondere conforto e coraggio, per rendere preziosa la loro croce, non solo per la loro personale purificazione e santificazione, ma anche per il bene della Chiesa e della tribolata umanità. Questo, amati figlioli, vi dice oggi il Papa pregando per voi.

Agli sposi

Un momento di particolare e affettuosa attenzione desidero poi dedicare agli sposi qui presenti. Grazie per essere venuti dal Papa: è un segno di fede, e la fede accompagni sempre voi e le vostre famiglie; perché la fede è presenza di Dio, e Dio è la fonte della gioia, dell’amore e soprattutto di quelle virtù che rendono e renderanno sempre salda, sicura, serena la vostra unione.




Mercoledì, 18 aprile 1979

18479

1. “Haec dies quam fecit Dominus”.

Tutti questi giorni, fra la Domenica di Pasqua e la Domenica seconda dopo Pasqua “in Albis”, costituiscono in un certo senso l’Unico Giorno. La liturgia si concentra su un Avvenimento, sull’unico Mistero. “È risorto, non è qui” (
Mc 16,6). Compì la Pasqua. Rivelò il significato del Passaggio. Confermò la verità delle sue parole. Disse l’ultima parola del suo messaggio: messaggio di Buona Novella del Vangelo. Dio stesso, che è Padre cioè datore della vita, Dio stesso che non vuole la morte (cfr Ez 18,23 Ez 18,32) e “ha creato tutto per l’esistenza” (Sg 1,14), ha manifestato fino in fondo, in lui e per lui, il suo Amore. L’amore vuol dire la Vita.

La Risurrezione è la definitiva testimonianza della Vita cioè dell’Amore.

“Mors et vita duello / conflixere mirando. / Dux vitae mortuus / regnat Vivus!”.

“Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa (Sequenza di Pasqua).

“Ecco il Giorno fatto dal Signore” (Ps 118,24): “Excelsior cunctis, lucidior universis, in quo Dominus resurrerit, in quo sibi novam plebem... regenerationis spiritu conquisivit, in quo singulorum mentes gaudio et exsultatione perfudit” (“più sublime di tutti, più luminoso di tutti; nel quale il Signore è risorto; nel quale si è conquistato un nuovo popolo... mediante lo spirito di rigenerazione; nel quale ha riempito di gaudio e di esultanza l’anima di tutti” (S. Agostino, Sermo 168 in Pascha, X, 1; PL 39,2070).

Questo Unico Giorno corrisponde, in un certo modo, a tutti i sette giorni, di cui parla il libro della Genesi, e che erano i giorni della creazione (cfr Gn 1-2). Perciò li festeggiamo tutti in questo unico giorno. Per questi giorni durante l’ottava celebriamo il mistero della nuova Creazione. Questo mistero si esprime nella Persona di Cristo Risorto. Egli stesso è già questo Mistero e costituisce per noi il suo annunzio, l’invito ad esso. Il lievito. In virtù di questo invito diventiamo tutti in Gesù Cristo la “nuova creatura”.

“Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio... ma con azzimi di sincerità e di verità” (1Co 5,8).

2. Cristo, dopo la sua risurrezione, ritorna nello stesso posto dal quale era andato alla Passione e alla Morte. Ritorna nel cenacolo, dove si trovavano gli apostoli. Mentre erano chiuse le porte egli venne, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”. E continua: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Jn 20,19-23).

Come sono significative queste prime parole di Gesù dopo la sua Risurrezione! In esse si racchiude il messaggio del Risorto. Quando egli dice: “Ricevete lo Spirito Santo”, ci viene in mente lo stesso cenacolo nel quale Gesù ha pronunciato il discorso d’addio. Allora egli ha proferito le parole cariche del mistero del suo cuore: “È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Jn 16,7). Ha detto così pensando allo Spirito Santo.

Ed ecco adesso, dopo aver compiuto il suo sacrificio, la sua “partenza” attraverso la Croce, egli viene di nuovo nel cenacolo per portare a loro Colui che ha promesso. Dice il Vangelo: “E alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Jn 20,22). Enunzia la parola matura della sua Pasqua. Porta ad essi il Dono della Passione e il Frutto della Risurrezione. Con questo dono li plasma di nuovo. Dona a loro il potere di svegliare gli altri alla Vita, anche quando questa Vita sia in essi morta: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi” (Jn 20,23).


Dalla Risurrezione alla Pentecoste passeranno cinquanta giorni. Però già in questo Unico Giorno fatto dal Signore (cfr Ps 118,24) sono racchiusi l’essenziale Dono e il Frutto della Pentecoste. Quando Cristo dice: “Ricevete lo Spirito Santo”, annunzia fino alla fine il suo mistero pasquale.

“Hoc autem est mysticum et secretissimum, quod nemo novit, nisi qui accipit, nec accipit nisi qui desiderat, nec desiderat, nisi quem ignis Spiritus Sancti medullitus inflammat, quem Christus misit in terram” (“È una realtà, questa, misteriosa e nascosta, che nessuno conosce se non chi la riceve, né la riceve se non chi la desidera, né la desidera se non chi è infiammato nel fondo del cuore dallo Spirito Santo, che Cristo ha inviato sulla terra” (S. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, 7,4).

3. Il Concilio Vaticano II ha illuminato di nuovo il mistero pasquale nella terrestre peregrinazione del Popolo di Dio. Ha ricavato da esso la piena immagine della Chiesa, che sempre mette le sue radici in questo salvifico mistero, e da esso attinge succo vitale. “Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e risurrezione, ha redento l’uomo e l’ha “trasformato in una nuova creatura” (cfr ). Comunicando infatti il suo Spirito, fa sì che i suoi fratelli, chiamati tra tutte le genti, costituiscano il suo corpo mistico. In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso” (Lumen Gentium LG 7).

La Chiesa permane incessantemente nel mistero del Figlio che si è compiuto con la discesa dello Spirito, la Pentecoste.

L’ottava pasquale è Giorno della Chiesa!

Vivendo questo Giorno, dobbiamo accettare, insieme ad esso, le parole che per la prima volta risuonarono nel cenacolo ove apparve il Risorto: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Jn 20,21).

Accettare Cristo Risorto vuol dire accettare la missione, così come l’hanno accettata coloro che in quel momento erano radunati nel cenacolo: gli apostoli.

Credere in Cristo risorto vuol dire prendere parte alla stessa missione salvifica, che egli ha compiuto col mistero pasquale. La fede è convinzione dell’intelletto e del cuore.

Tale convinzione acquista il suo pieno significato quando da essa nasce la partecipazione a questa missione, che Cristo ha accettato dal Padre. Credere vuol dire accettare conseguentemente questa missione da Cristo.

Tra gli apostoli, Tommaso era assente quando per la prima volta Cristo Risorto venne al cenacolo. Questo Tommaso, che ad alta voce dichiarava ai suoi fratelli “Se non vedo... non crederò” (Jn 20,25), si è convinto con la successiva venuta del Cristo Risorto. Allora, come sappiamo, sono svanite tutte le sue riserve, ed egli ha professato la sua fede con queste parole: “Mio Signore e mio Dio” (Jn 20,28). Assieme all’esperienza del mistero pasquale, egli ha riconfermato la sua partecipazione alla missione di Cristo. Come se, dopo otto giorni, giungessero anche a lui queste parole di Cristo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando te” (cfr Jn 20,21).

Tommaso diventò maturo testimone di Cristo.


4. Il Concilio Vaticano II insegna la dottrina sulla missione di tutto il Popolo di Dio, che è stato chiamato a partecipare alla missione del Cristo stesso (cfr Lumen Gentium LG 10-12). È la triplice missione. Cristo-Sacerdote, Profeta e Re ha espresso fino alla fine la sua missione nel mistero pasquale, nella Risurrezione.

Ognuno di noi in questa grande comunità della Chiesa, del Popolo di Dio, partecipa a questa missione mediante il sacramento del Battesimo. Ognuno di noi è chiamato alla fede nella Risurrezione come Tommaso. “Metti qua il tuo dito e guarda la mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente” (Jn 20,27).

Ognuno di noi ha il dovere di definire il senso della propria vita mediante questa fede. Questa vita ha una forma molto diversa. Siamo noi stessi a darle una determinata forma. E proprio la nostra fede fa sì che la vita di ognuno di noi sia penetrata in qualche parte da questa missione, che Gesù Cristo, nostro Redentore, ha accettato dal Padre e ha condiviso con noi. La fede fa sì che qualche parte del mistero pasquale penetri la vita di ognuno di noi. Una certa sua irradiazione.

Bisogna che ritroviamo questo raggio per viverlo ogni giorno per tutto questo tempo, di nuovo incominciato nel Giorno che ha fatto il Signore.

Ai giovani

Un saluto particolarmente affettuoso va ora ai ragazzi, alle ragazze e a tutti i giovani venuti così numerosi ad allietare questa udienza generale. Carissimi, vi ringrazio di cuore per questa vostra significativa presenza e per la gioia che mi procurate col dono della vostra giovinezza e della vostra fede in Cristo risorto. In questo tempo pasquale, vi dirò con l’Apostolo Paolo: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1-2).Cari giovani, in alto i cuori e sempre avanti nel nome del Signore!

Ai malati

Un pensiero, ormai consueto, ma sempre nuovo e vivamente sentito, desidero rivolgere a quanti di voi sono sofferenti. Le piaghe gloriose di Cristo risorto valgano ad illuminare e sanare le vostre ferite, fisiche e morali, tuttora aperte e doloranti. Ricordate la massima ascetica: “Per crucem ad lucem”, cioè: attraverso le sofferenze della Croce si giunge alla beatitudine della luce. Sappiate che Cristo con la sua Risurrezione ha riscattato e redento il dolore, il quale ha così acquistato la sua dignità, essendo stato chiamato ad uscire dalla sua inutilità e a diventare fonte positiva di bene e segno luminoso di speranza non fallace. Vi conforti sempre la mia speciale Benedizione Apostolica.

Agli sposi

Agli sposi novelli auguro che la gioia pasquale, che in questi giorni irradia nei nostri cuori, li accompagni per tutta la loro vita, e li aiuti a vincere i pericoli, sempre insorgenti, dell’egoismo, il grande male della vita familiare. Vi accompagni anche, lungo il corso della vostra vita, il canto dell’“alleluia”, che in questi giorni risuona nelle nostre chiese. Questo canto liturgico, che significa “Lodate il Signore”, risuoni sempre nelle vostre case e nei vostri cuori a testimonianza della letizia cristiana. Vi benedico di cuore.


APPELLO


Ancora una parola per invitarvi alla preghiera. Abbiamo gioito insieme per la vittoria di Cristo sulla morte, gustando la sovrabbondanza di grazia e di vita che ci è stata comunicata da lui. Pasqua è veramente una festa di gioia e di vita.


Eppure non possiamo dimenticare il dolore, la mestizia che hanno avvolto, proprio in questi giorni, con la perdita di vite umane, con sofferenze e privazioni di ogni genere, i popoli di alcune regioni del mondo: per un improvviso cataclisma, come il terremoto che ha colpito, la mattina di Pasqua, numerosi centri abitati in Jugoslavia e in Albania; oppure a causa dell’aggravarsi di tensioni politiche e sociali, di lotte armate, in Rhodesia, in Uganda, in Nicaragua; o per il riaccendersi di fiammate punitive, doloroso strascico di precedenti rivolgimenti.

Vorrei che la preghiera che insieme rivolgiamo al Signore, con l’intercessione di Maria regina dei cieli, potesse implorare pace ai morti, sollievo ai feriti e ai senza tetto, protezione alle popolazioni minacciate da incursioni o rappresaglie, umanità per i prigionieri e clemenza per i vinti, perdono e riconciliazione per tutti.


Mercoledì, 25 aprile 1979

25479

Natale di Roma.

1. Molto ci dice questa parola che, qualche giorno fa, è stata ricordata alla Città e al mondo! Essa dice molto anche ad ogni singolo uomo. Perché l’uomo è un “essere storico”. Ciò non significa soltanto che egli è sottoposto al tempo, come tutti gli altri esseri viventi di questo nostro mondo. L’uomo è un essere storico, perché è capace di fare del tempo, del transitorio, del passato un particolare contenuto della propria esistenza, una particolare dimensione della propria “temporaneità”. Tutto ciò avviene nei vari settori della vita umana. Ognuno di noi, a cominciare dal giorno della nascita, ha una propria storia. Contemporaneamente ognuno di noi, attraverso la storia, fa parte della comunità. L’appartenenza di ognuno di noi, come “essere sociale”, ad un certo gruppo e ad una determinata società si realizza sempre mediante la storia. Si realizza in una certa scala storica.

In questo modo hanno la loro storia le famiglie. E hanno la loro storia anche le nazioni. Uno dei compiti della famiglia è di attingere alla storia e alla cultura della nazione, e nello stesso tempo di prolungare questa storia nel processo educativo.

Quando parliamo del Natale di Roma incontriamo una realtà ancora più vasta. Certamente, un particolare diritto e dovere di riferirsi a questo evento, a questa data, hanno le persone per le quali la Roma di oggi costituisce la loro Città, la loro Capitale. Nondimeno tutti i Romani del nostro tempo sanno perfettamente che il carattere eccezionale di questa Città, di questa Capitale consiste nel fatto che essi non possono limitare Roma solo alla loro propria storia. Bisogna qui risalire ad un passato molto più lontano nel tempo e rievocare non soltanto i secoli dell’antico Impero, ma tempi ancor più remoti, fino ad arrivare a quella data che ci ricorda il “Natale di Roma”.

Un immenso patrimonio di storia, varie epoche di cultura umana e di civiltà, diverse trasformazioni socio-politiche ci dividono da quella data ed insieme ci uniscono ad essa. Direi ancora di più: questa data, il Natale di Roma, non segna unicamente l’inizio di un succedersi di generazioni umane che hanno abitato in questa Città, e insieme in questa penisola; il Natale di Roma costituisce anche un inizio per popoli e per nazioni lontane, che sentono un legame e una unità particolare con la tradizione culturale latina, nei suoi più profondi contenuti.

Anch’io, benché sia venuto qui dalla lontana Polonia, mi sento legato dalla mia genealogia spirituale al Natale di Roma, così come tutta la nazione dalla quale provengo, e molte altre nazioni dell’Europa contemporanea, e non solo di essa.

2. Il Natale di Roma ha una eloquenza tutta particolare per noi che crediamo che la storia dell’uomo sulla terra – la storia di tutta l’umanità – abbia raggiunto una nuova dimensione attraverso il mistero dell’Incarnazione. Dio è entrato nella storia dell’uomo diventando Uomo. Questa è la verità centrale della fede cristiana, il contenuto fondamentale del Vangelo e della missione della Chiesa.

Entrando nella storia dell’uomo, facendosi Uomo, Dio ha fatto di questa storia, in tutta la sua estensione, la storia della salvezza. Ciò che si è compiuto a Nazaret, a Betlemme e a Gerusalemme è storia e, nello stesso tempo, è fermento della storia. E benché la storia degli uomini e dei popoli si sia svolta e continui a svolgersi per strade proprie, benché la storia di Roma – allora al vertice del suo antico splendore – sia passata quasi inavvertitamente accanto alla nascita, alla vita, alla passione, alla morte e alla risurrezione di Gesù di Nazaret, tuttavia questi eventi salvifici sono diventati nuovo lievito nella storia dell’uomo. Sono diventati nuovo lievito particolarmente nella storia di Roma. Si può dire che nel tempo in cui è nato Gesù, nel tempo in cui egli è morto in croce e risorto, l’antica Roma, allora capitale del mondo, ha conosciuto una nuova nascita. Non a caso noi la troviamo già inserita così profondamente nel Nuovo Testamento. San Luca, che imposta il suo Vangelo come il cammino di Gesù verso Gerusalemme dove si compie il mistero pasquale, pone, negli Atti degli Apostoli, come punto d’arrivo dei viaggi apostolici, Roma, dove si manifesterà il mistero della Chiesa.


Il resto ci è ben noto. Gli apostoli del Vangelo, e primo tra essi Pietro di Galilea, poi Paolo di Tarso, sono venuti a Roma ed hanno anche qui impiantato la Chiesa. Così nella capitale del mondo antico ha iniziato la sua esistenza la Sede dei successori di Pietro, dei vescovi di Roma. Ai Romani, ancora prima di venire qui, scrisse San Paolo la sua lettera magistrale, a loro indirizzò il suo testamento spirituale il Vescovo di Antiochia, Ignazio, alla vigilia del martirio. Ciò che era cristiano ha messo le sue radici in ciò che era romano, e nello stesso tempo, dopo avere attecchito nell’humus romano, ha cominciato a germogliare con nuova forza. Col cristianesimo ciò che era “romano” ha iniziato a vivere una nuova vita, non cessando però di rimanere autenticamente “indigeno”.

Giustamente scrive M. C. D’Arcy (M. C. D’Arcy, The Sense of History Secular and Sacred, London 1959, p. 275): “C’è nella storia una presenza, che fa di essa qualcosa di più di un semplice “susseguirsi di avvenimenti”. Come in un palinsesto, il nuovo si sovrappone su quanto già sta scritto in modo incancellabile e ne allarga indefinitivamente il significato”. Roma deve al cristianesimo una nuova universalità della sua storia, della sua cultura, del suo patrimonio. Questa universalità cristiana (“cattolica”) di Roma dura fino ad oggi. Essa non ha soltanto dietro di sé duemila anni di storia, ma continua incessantemente a svilupparsi: arriva a nuovi popoli, a nuove terre. E quindi la gente da tutte le parti del mondo si riversa ben volentieri a Roma, per ritrovarsi, come a casa propria, in questo centro sempre vivo di universalità.

3. Non dimenticherò mai gli anni, i mesi, i giorni in cui sono stato qui per la prima volta. Luogo a me prediletto, nel quale tornavo forse più spesso, era l’antichissimo Foro Romano, ancor oggi così ben conservato. Quanto era per me eloquente, al lato di questo Foro, il tempio di Santa Maria Antiqua, che sorge direttamente su di un antico edificio romano.

Il cristianesimo è entrato nella storia di Roma non con la violenza, non con la forza militare, non per conquista o invasione, ma con la forza della testimonianza, pagata al caro prezzo del sangue dei martiri, lungo oltre tre secoli di storia. È entrato con la forza del lievito evangelico che, rivelando all’uomo la sua ultima vocazione e la sua suprema dignità in Gesù Cristo (cfr Lumen Gentium
LG 40 Gaudium et Spes GS 22), ha iniziato ad agire nel più profondo dell’animo, per poi penetrare nelle istituzioni umane e in tutta la cultura. Perciò questa seconda nascita di Roma è così autentica ed ha in sé tanta carica di verità interiore e tanta forza di irradiazione spirituale!

Accettate, voi, Romani di antica data, questa testimonianza di un uomo che è venuto qui a Roma per diventare, per volontà di Cristo, alla fine del secondo millennio, il vostro Vescovo. Accettate questa testimonianza e inseritela nel vostro magnifico patrimonio, al quale partecipiamo noi tutti. L’uomo viene su dalla storia. È figlio della storia, per diventarne poi l’artefice responsabile. Perciò il patrimonio di questa storia lo impegna profondamente. È un grande bene per la vita dell’uomo, da ricordare non soltanto nelle festività, ma ogni giorno! Possa questo bene trovare sempre un posto adeguato nella nostra coscienza e nel nostro comportamento! E cerchiamo di essere degni della storia, della quale rendono qui testimonianza i templi, le basiliche e più ancora il Colosseo e le catacombe dell’antica Roma.

Per la festa del Natale di Roma, questi auguri vi rivolge, cari Romani, il vostro Vescovo, che, sei mesi fa, avete accolto con tanta apertura d’animo, come successore di San Pietro e testimone di quella missione universale, che la Provvidenza divina ha iscritto nel libro della storia della Città Eterna.

A pellegrini di lingua inglese

Cari fratelli e sorelle, siate tutti benvenuti a Roma. Saluto in particolare a seminaristi americani che domani saranno ordinati diaconi, e prego perché Dio benedica abbondantemente voi e il vostro futuro ministero. I miei saluti vanno anche a tutti e a ciascuno di voi, da qualunque paese o continente siate venuti.

Al Consiglio per la Catechesi

Desidero ora rivolgere un saluto particolare ai membri del Consiglio Internazionale per la Catechesi, formato da Vescovi, Sacerdoti, Religiose ed Esperti laici, i quali in questi giorni si sono dati convegno qui a Roma per esaminare l’importante tema della “Formazione dei Catechisti”, e che, insieme con i Superiori ed alcuni Officiali della Sacra Congregazione per il Clero, che ha organizzato l’incontro, sono venuti qui per esprimere al Papa la loro comunione ecclesiale.

Vi ringrazio, cari Fratelli, per questa vostra significativa presenza e, ancor più, per l’impegno fattivo che voi ponete nell’aggiornamento del delicato e grave settore della Catechesi, la quale senza dubbio costituisce l’“opus princeps” della missione della Chiesa, il tema da voi prescelto è troppo vasto ed impegnativo, perché io possa in questa sede farvi un cenno: mi limiterò, perciò, ad una breve e semplice esortazione. Ritengo che nella formazione del Catechista, al di là di ogni problematica circa il contenuto e il metodo d’insegnamento, siano necessarie la probità della vita e la sincerità della fede cristiana. Non basta la preparazione culturale, né l’arte pedagogica per rendere le verità rivelate accessibili alla mentalità dell’uomo d’oggi. Sono cose queste doverose, ma non bastano: occorre che il Catechista abbia un’anima, che viva e vivifichi tutto ciò che professa.


A questo proposito mi piace lasciarvi, come motivo ispiratore, alcune espressioni di San Bonaventura da Bagnoregio, il quale, nel suo “Itinerarium mentis in Deum” (S. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, Introd., 4), così ammoniva, con scultorea limpidezza, gli insegnanti del suo tempo: “Nemo credat quod sibi sufficiat lectio sine unctione, speculatio sine devotione, investigatio sine admiratione, circumspectio sine exsultatione, industria sine pietate, scientia sine caritate, intellegentia sine humilitate, studium absque divina gratia, speculum absque sapientia divinitus inspirata”. Tutto ciò naturalmente esige dal Catechista un grande amore per Gesù Cristo, nostro Maestro. Esige disponibilità di ascolto della sua voce e di sequela quotidiana per poter apprendere come egli parlava, nella sua continua catechesi, ai fanciulli, ai giovani, ai dotti e agli indotti.

Ecco, cari Fratelli, il breve pensiero che desideravo manifestarvi. Vi sostenga nel vostro lavoro lo Spirito Santo e vi incoraggi nelle difficoltà la Vergine Santissima, “Sedes Sapientiae”. A tutti voi la mia paterna Benedizione, che partecipo di cuore anche a quanti sono impegnati a vario titolo nel delicato campo della catechesi.

Ai Sacerdoti Delegati diocesani per la pastorale del lavoro

Un saluto cordiale va ora al folto gruppo dei Sacerdoti, Delegati diocesani per la pastorale del lavoro, i quali concludono oggi a Roma il loro Convegno annuale, promosso dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale nel Mondo del Lavoro della Conferenza Episcopale Italiana. Carissimi Sacerdoti, vi esprimo il mio vivo compiacimento per il programma interessante che voi avete svolto in questi giorni per una efficace “Pastorale del Lavoro nelle Chiese d’Italia”.

Come voi ben sapete, la Chiesa segue con ogni cura e trepidazione la vasta, varia e, talvolta, drammatica, questione sociale riguardante i lavoratori. Essa, non potendo “rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell’uomo, così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis RH 13), non cessa di salvaguardare il senso cristiano del lavoro e insieme la dignità inviolabile del lavoratore, la quale tanto più è sacra, quanto più le viene riconosciuto il primo posto, che nella scala dei valori occupa l’uomo. Il lavoro, infatti, è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro. Esso deve tendere a servire l’uomo e non ad assoggettarlo: se così non fosse, l’uomo ritornerebbe schiavo e la sua statura sarebbe misurata – ahimè! – col solo parametro del soffocante materialismo.

Bisogna riconsiderare la figura e la situazione del lavoratore, affinché gli sia consentito di essere più uomo e di riacquistare la sua vera grandezza di collaboratore nell’opera creativa di Dio, quando egli imprime sulla materia il segno del suo ingegno operoso. Sta a voi, cari sacerdoti, di adoperarvi in ogni modo perché questo auspicio si avveri, perché lo spazio tra la Chiesa e la fabbrica si accorci e il fumo dell’incenso si fonda, nell’ascesa al cielo, con quello delle industrie. Abbiate cura, anzitutto, nella vostra azione pastorale per quanti ancora soffrono a causa della pesantezza e della insalubrità del loro lavoro, della insicurezza della loro occupazione, della insufficienza delle loro abitazioni e delle loro retribuzioni. Ma abbiate anche e soprattutto cura perché i lavoratori sappiano riscoprire ed assecondare la tendenza nativa verso i valori più alti dello spirito, della fede, della speranza e della giustizia. Sappiate, in una parola, proiettare la luce del Vangelo nel difficile, ma attraente mondo del lavoro.

E per voi sacerdoti e per quanti vi sono di aiuto in codesta opera di umana e cristiana solidarietà, innalzo al Padre Celeste la mia preghiera, implorando da lui, auspice la Vergine Santissima, Madre del divin lavoratore, una speciale Benedizione Apostolica.

A numerosi ministranti

Un paterno, affettuoso saluto desidero ora rivolgere agli ottomila Ministranti, provenienti da tutte le Regioni d’Italia. Grazie, grazie, carissimi, per la vostra presenza, ma soprattutto per il servizio, che con tanto impegno prestate all’Altare del Signore nelle vostre parrocchie. La Chiesa, il Papa, i vostri Sacerdoti, i Fedeli tutti apprezzano ed ammirano la vostra opera, che contribuisce ad accrescere al decoro delle cerimonie liturgiche.

Da parte vostra fate che tutta la vostra vita sia un esemplare servizio al Signore mediante la preghiera assidua, la carità operosa verso gli altri, la purezza luminosa. E se Gesù farà sentire nel cuore di qualcuno di voi le parole che rivolse agli apostoli ed ai discepoli: “Vieni e seguimi! (cfr Mt 4,19 Mt 9,9 Mt 19,21 Mc 1,17 Mc 2,14 Lc 5,10 Lc 5,27), siate generosi e pronti ad accogliere l’invito che vi chiama a salire all’Altare, domani, come Sacerdoti e Ministri di Cristo! Su voi tutti e sui vostri cari invoco l’abbondanza dei favori celesti e vi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.

Alle diocesi italiane


Oggi i pellegrini italiani sono veramente tanti: la giornata, che in Italia è festiva, ha loro permesso di essere presenti in numero particolarmente elevato a questo appuntamento col Papa, per recargli la testimonianza della loro devozione e del loro entusiasmo. Io vi sono sinceramente grato, figli carissimi, di questa nuova prova di affettuoso attaccamento e colgo volentieri l’occasione per rinnovare a voi e a tutti gli abitanti di questa gloriosa terra l’espressione del mio amore paterno e l’augurio di una convivenza concorde ed operosa, che consolidi e promuova le conquiste civili e sociali, germinate dalla sofferenza e dal sacrificio di tanti connazionali.

A tutti porgo il benvenuto più cordiale. Purtroppo, non mi è possibile dire una parola ad ogni gruppo. Non posso però non menzionare esplicitamente, innanzitutto, il pellegrinaggio diocesano di Penne e Pescara, guidato dal proprio Pastore. Vi saluto di cuore, fratelli carissimi, vi ringrazio della visita e benedico volentieri la prima pietra che avete qui portato e che è destinata alla costruzione dell’Ospedale che sorgerà a Ouagadougou, nell’Alto Volta, in ricordo del XIX Congresso Eucaristico tenutosi appunto a Pescara nel 1977.

Desidero salutare inoltre i partecipanti al pellegrinaggio di Faenza, pure guidato dal suo Vescovo. Carissimi, vi incoraggio di cuore nella devozione alla Madonna delle Grazie, protettrice della vostra città. Come ben sapete, è la stessa immagine che è tanto venerata a Cracovia e nella chiesa dei Polacchi a Roma. La Vergine Santissima vi assista sempre con la sua materna protezione, e vi accompagni altresì la mia benedizione.

Rivolgo poi il mio pensiero ai pellegrinaggi delle diocesi di Prato, di Volterra e di Comacchio, che sono qui presenti con i loro Vescovi. A tutti il mio riconoscente apprezzamento per la visita, la mia esortazione a ritemprare la vostra fede presso la Tomba dell’Apostolo Pietro, e la mia Benedizione, quale pegno di benevolenza e auspicio di copiosi doni celesti.




Catechesi 79-2005 11479