Catechesi 79-2005





Mercoledì, 25 ottobre 1978

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Quando mercoledì 27 settembre il Santo Padre Giovanni Paolo I ha parlato ai partecipanti all’udienza generale, nessuno poteva immaginare che fosse per l’ultima volta. La sua morte – dopo 33 giorni di pontificato – ha sorpreso e ha riempito tutto il mondo di profondo lutto. Egli che suscitò nella Chiesa così grande gioia e inspirò nei cuori degli uomini tanta speranza ha, in così breve tempo, consumato e portato alla fine la sua missione. Nella sua morte si è verificata la parola tanto ripetuta del Vangelo: “...state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà” (
Mt 24,44). Giovanni Paolo I vegliava sempre. La chiamata del Signore non l’ha sorpreso. Egli l’ha seguita con la stessa trepida gioia, con la quale il 26 agosto aveva accettato l’elezione al soglio di San Pietro.

Oggi si presenta a voi, per la prima volta, Giovanni Paolo II. A distanza di quattro settimane da quella udienza generale, desidera salutarvi e parlare con voi. Desidera dar seguito ai temi già iniziati da Giovanni Paolo I. Ricordiamo che ha parlato delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Ha finito con la carità. Essa – che ha costituito il suo ultimo insegnamento – è qui sulla terra la virtù più grande come insegna San Paolo (1Co 13,13); è quella che attraversa la soglia della vita e della morte. Poiché quando termina il tempo della fede e della speranza, continua l’Amore. Giovanni Paolo I è già passato per il tempo della fede, della speranza e della carità, che si è espressa così magnificamente su questa terra e la cui pienezza si rivela solo nell’eternità.

Oggi dobbiamo parlare di un’altra virtù, poiché dagli appunti del defunto Pontefice ho appreso che era sua intenzione parlare non solo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, ma anche delle quattro virtù cosiddette cardinali. Giovanni Paolo I voleva parlare delle “sette lampade” della vita cristiana, così le chiamava il Papa Giovanni XXIII.

Ebbene, oggi io voglio continuare questo schema, che il Papa scomparso si era preparato, e parlare brevemente della virtù della prudenza. Di questa virtù non poco hanno già parlato gli antichi. Dobbiamo loro, per questo, profonda riconoscenza e gratitudine. In una certa dimensione ci hanno insegnato che il valore dell’uomo deve essere misurato con il metro del bene morale, che egli realizza nella sua vita. Proprio questo assicura al primo posto la virtù della prudenza. L’uomo prudente, che si adopera per tutto ciò che è veramente buono, si sforza di misurare ogni cosa, ogni situazione e tutto il suo operare secondo il metro del bene morale. Prudente non è dunque colui che – come spesso si intende – sa arrangiarsi nella vita e sa trarne il maggior profitto; ma colui che sa costruire tutta la sua vita secondo la voce della retta coscienza e secondo le esigenze della giusta morale.

Così la prudenza costituisce la chiave per la realizzazione del fondamentale compito che ognuno di noi ha ricevuto da Dio. Questo compito è la perfezione dell’uomo stesso. Dio ha dato ad ognuno di noi la sua umanità. È necessario che noi rispondiamo a questo compito programmandolo conseguentemente.

Ma il cristiano ha il diritto ed il dovere di guardare la virtù della prudenza anche in un’altra visuale. Essa è come immagine e somiglianza della Provvidenza di Dio stesso nelle dimensioni dell’uomo concreto. Perché l’uomo – lo sappiamo dal libro della Genesi – è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. E Dio realizza il suo piano nella storia del creato e soprattutto nella storia dell’umanità. Lo scopo di questo disegno è – come insegna San Tommaso – l’ultimo bene dell’universo. Lo stesso disegno nella storia dell’umanità diventa semplicemente il disegno della salvezza, il disegno che abbraccia noi tutti. Nel punto centrale della sua realizzazione si trova Gesù Cristo, nel quale si è espresso l’eterno amore e la sollecitudine di Dio stesso, Padre, per la salvezza dell’uomo. Questa è nello stesso tempo la piena espressione della divina Provvidenza.

Ebbene, l’uomo che è l’immagine di Dio, deve essere – come di nuovo insegna San Tommaso – in qualche modo la provvidenza. Ma nella misura della sua vita. Egli può partecipare a questo grande cammino di tutte le creature verso lo scopo che è il bene del creato. Deve – esprimendoci ancora di più nel linguaggio della fede – partecipare al divino disegno della salvezza. Deve camminare verso la salvezza, e aiutare gli altri affinché si salvino. Aiutando gli altri, salva se stesso.

Prego affinché, in questa luce, chi mi ascolta pensi adesso alla propria vita. Sono prudente? Vivo conseguentemente e responsabilmente? Il programma che realizzo serve al vero bene? Serve alla salvezza che vogliono per noi Cristo e la Chiesa? Se oggi mi ascolta uno studente o una studentessa, un figlio o una figlia, guardi in questa luce i propri compiti di scuola, le letture, gli interessi, i passatempi, l’ambiente degli amici e delle amiche. Se mi ascolta un padre o una madre di famiglia, pensi un po’ ai suoi impegni coniugali e di genitore. Se mi ascolta un ministro o un uomo di Stato, guardi il raggio dei suoi doveri e delle sue responsabilità. Cerca egli il vero bene della società, della nazione, dell’umanità? O solo particolari e parziali interessi? Se mi ascolta un giornalista, un pubblicista, un uomo che esercita influenza sull’opinione pubblica, rifletta sul valore e sul fine di questa sua influenza.

Anche io che parlo a voi, io il Papa, che cosa devo fare per agire prudentemente? Mi vengono alla mente le lettere di Albino Luciani, allora Patriarca di Venezia, a San Bernardo. Nella sua risposta al Cardinal Luciani, l’Abate di Chiaravalle – Dottore della Chiesa – ricorda con forte accento che chi governa deve essere “prudente”. Che cosa deve fare allora il nuovo Papa affinché operi prudentemente? Certamente deve fare molto in questo senso. Deve sempre imparare e sempre meditare su tali problemi. Ma oltre questo, che cosa può egli fare? Deve pregare e adoperarsi per avere quel dono dello Spirito Santo che si chiama dono del consiglio. E quanti desiderano che il nuovo Papa faccia il Pastore prudente della Chiesa, implorino per lui il dono del consiglio. E per se stessi, chiedano pure questo dono per la particolare intercessione della Madre del Buon Consiglio. Poiché si deve desiderare tanto che tutti gli uomini si comportino prudentemente e che con vera prudenza agiscano quelli che detengono il potere. Affinché la Chiesa – prudentemente, fortificandosi con i doni dello Spirito Santo e, in particolare, col dono del consiglio – partecipi efficacemente a questo grande cammino verso il bene di tutti, e affinché mostri a tutti la strada dell’eterna salvezza.


Mercoledì 8 novembre 1978

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Cari Fratelli e Sorelle.

1. Durante queste prime udienze in cui ho la fortuna d’incontrarmi con voi, che venite qui da Roma, dall’Italia e da tanti altri paesi, desidero, come già dissi il 25 ottobre, continuare a svolgere i temi stabiliti da Giovanni Paolo I, mio Predecessore egli voleva parlare non soltanto delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, ma anche delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Vedeva in esse tutte insieme come sette lampade della vita cristiana. Avendolo Dio chiamato all’eternità, poté solo parlare delle tre principali: fede, speranza e carità, che illuminano l’intera vita del cristiano. Il suo indegno Successore, nell’incontrarsi con voi per riflettere, nello spirito del compianto Predecessore, sulle virtù cardinali, vuole accendere, in un certo senso, le altre lampade presso la sua tomba.

2. Oggi mi tocca parlare della giustizia. È forse bene che questo sia il tema della prima catechesi nel mese di novembre. Infatti, questo mese c’induce a fissare lo sguardo sulla vita di ogni uomo, e insieme sulla vita di tutta l’umanità, nella prospettiva della giustizia finale. Tutti, in qualche modo, siamo consapevoli che, nella transitorietà di questo mondo, non è possibile realizzare la piena misura della giustizia. Forse le parole tante volte sentite: “Non c’è giustizia in questo mondo” sono frutto di un semplicismo troppo facile. Però, c’è in esse ugualmente un principio di profonda verità. La giustizia è, in un certo modo, più grande dell’uomo, delle dimensioni della sua vita terrena, delle possibilità di stabilire in questa vita rapporti pienamente giusti fra gli uomini, gli ambienti, le società e gruppi sociali, le nazioni e così via. Ogni uomo vive e muore con una certa sensazione di insaziabilità di giustizia, poiché il mondo non è in grado di soddisfare fino in fondo un essere creato ad immagine di Dio, né nella profondità della sua persona, né nei vari aspetti della sua vita umana. E così, mediante questa fame di giustizia, l’uomo si apre a Dio che “è la giustizia stessa”. Gesù nel discorso della montagna lo ha espresso in modo molto chiaro e conciso, dicendo: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (
Mt 5,6).

3. Avendo davanti agli occhi questo senso evangelico della giustizia, dobbiamo considerarla al tempo stesso come fondamentale dimensione della vita umana sulla terra: vita dell’uomo, della società, dell’umanità. Questa è la dimensione etica. La giustizia e Principio fondamentale dell’esistenza e della coesistenza degli uomini, come anche delle comunità umane, delle società e dei popoli. Inoltre, la giustizia è principio dell’esistenza della Chiesa, quale Popolo di Dio, e principio di coesistenza della Chiesa e delle varie strutture sociali, in particolare dello Stato, come pure delle organizzazioni internazionali. In questo terreno ampio e differenziato l’uomo e l’umanità cercano continuamente giustizia: questo è un processo perenne ed è un compito di suprema importanza.

Secondo le diverse relazioni e i diversi aspetti, la giustizia ha ottenuto, attraverso i secoli, definizioni più appropriate. Di qui il concetto della giustizia: commutativa, distributiva, legale e sociale. Tutto ciò testimonia quanto la giustizia abbia un significato fondamentale per l’ordine morale fra gli uomini, nelle relazioni sociali e internazionali. Si può dire che lo stesso senso dell’esistenza dell’uomo sulla terra sia legato alla giustizia. Definire correttamente “quanto è dovuto” ad ognuno da tutti e nello stesso tempo a tutti da ognuno, “ciò che è dovuto” (“debitum”) all’uomo dall’uomo in diversi sistemi e relazioni – definire, e anzitutto realizzare! – è grande cosa, per la quale ogni uomo vive e, grazie alla quale, la sua vita ha un senso.

Pertanto rimane durante i secoli dell’umana esistenza sulla terra, un continuo sforzo e una continua lotta per ordinare con giustizia l’insieme della vita sociale nei suoi vari aspetti. Bisogna guardare con rispetto i molteplici programmi e l’attività, talvolta riformatrice, di diverse tendenze e sistemi. Bisogna, in pari tempo, essere consapevoli che non si tratta qui anzitutto dei sistemi, ma della giustizia e dell’uomo. Non può essere l’uomo per il sistema, ma il sistema deve essere per l’uomo. Perciò bisogna difendersi dall’irrigidimento del sistema. Penso ai sistemi sociali, economici, politici, culturali che debbono essere sensibili all’uomo, al suo bene integrale, debbono essere capaci di riformare se stessi, le loro proprie strutture secondo ciò che esige la piena verità sull’uomo. Da questo punto di vista occorre valutare il grande sforzo dei nostri tempi, che tende a definire e a consolidare “i diritti dell’uomo” nella vita dell’umanità odierna, dei popoli e degli Stati.

La Chiesa del nostro secolo rimane in continuo dialogo sul grande fronte del mondo contemporaneo, come lo testimoniano numerose encicliche dei Papi e la dottrina del Concilio Vaticano II. L’attuale Papa dovrà certamente più volte ritornare su questi argomenti. Nell’odierna breve esposizione occorre limitarsi a segnalare soltanto questo vasto e differenziato terreno.

4. È necessario dunque che ognuno di noi possa vivere in un contesto di giustizia e ancor più che ciascuno di noi sia giusto e agisca giustamente nei riguardi dei vicini e dei lontani, della comunità, della società di cui è membro... e nei riguardi di Dio.

La giustizia ha molti riferimenti e molte forme. C’è anche una forma della giustizia che riguarda ciò che l’uomo “deve” a Dio. Questo è un tema principale e vasto da sé solo. Non lo svolgerò ora, benché non possa astenermi dall’indicarlo.


Fermiamoci intanto sugli uomini. Il Cristo ci ha lasciato il comandamento dell’amore del prossimo. In questo comandamento è racchiuso anche tutto ciò che concerne la giustizia. Non può esservi amore senza giustizia. L’amore “sovrasta” la giustizia, ma, in pari tempo, esso trova la sua verifica nella giustizia. Perfino il padre e la madre, amando il proprio figlio, debbono essere giusti con lui. Se vacilla la giustizia, anche l’amore corre pericolo.

Esser giusto significa dare a ciascuno quanto gli è dovuto. Questo riguarda i beni temporali, di natura materiale. Il migliore esempio può essere qui la retribuzione per il lavoro o il così detto diritto ai frutti del proprio lavoro o della propria terra. Però all’uomo si deve inoltre il buon nome, il rispetto, la considerazione, la fama che si è meritato. Quanto più conosciamo l’uomo, tanto più ci si rivela la sua personalità, il suo carattere, il suo intelletto e il suo cuore. E tanto più ci rendiamo conto – e dobbiamo rendercene conto! – con quale criterio “misurarlo” e che cosa vuol dire essere giusti con lui.

Perciò è necessario approfondire continuamente la conoscenza della giustizia. Essa non è una scienza teorica. È virtù, è capacità dello spirito umano, della volontà umana e anche del cuore. Bisogna inoltre pregare per essere giusti e saper essere giusti.

Non possiamo dimenticare le parole di Nostro Signore: “Con la misura con la quale misurate sarete misurati” (Mt 7,2).

Uomo-giusto, uomo di “giusta misura”.
Che tutti noi lo siamo!
Che tutti noi tendiamo costantemente a diventarlo!
A tutti la mia benedizione.





Mercoledì 15 novembre 1978

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Carissimi Fratelli e Sorelle.

Papa Giovanni Paolo I, parlando dalla loggia della Basilica di San Pietro, il giorno dopo la sua elezione, ha ricordato, fra l’altro, che durante il Conclave del 26 agosto, quando tutto già indicava che proprio lui sarebbe stato scelto, i Cardinali che gli erano accanto gli hanno sussurrato all’orecchio: “Coraggio!”. Probabilmente questa parola, in quel momento, era necessaria per lui e si era impressa nel suo cuore, dato che subito l’indomani la ricordò. Giovanni Paolo I mi perdonerà, se ora mi servo di questa sua confidenza. Credo che proprio essa potrà in modo migliore introdurre noi tutti qui presenti nel tema che intendo svolgere. Infatti, desidero parlare oggi della terza virtù cardinale, cioè della fortezza. Proprio a questa virtù ci riferiamo, quando vogliamo esortare qualcuno ad aver coraggio, come fece il Cardinale vicino di Giovanni Paolo I al Conclave, quando gli disse: “coraggio”.

Chi riteniamo noi uomo forte, uomo coraggioso? Questa parola rievoca, di solito, il soldato che difende la Patria, esponendo al pericolo la sua salute e perfino la sua vita in tempo di guerra. Ci rendiamo però conto che anche in tempo di pace abbiamo bisogno di fortezza. E perciò nutriamo grande stima per le persone che si distinguono per il cosiddetto “coraggio civile”. Una testimonianza di fortezza ci è offerta da chi espone la propria vita per salvare qualcuno che sta per annegare, oppure dall’uomo che porta il suo aiuto nelle calamità naturali, come incendi, alluvioni, ecc. Certamente si distingueva per questa virtù San Carlo, il mio Patrono, il quale durante la peste di Milano adempiva il suo ministero pastorale fra gli abitanti di tale città. Ma pensiamo anche con ammirazione a quegli uomini che scalano le vette dell’Everest o ai cosmonauti, per esempio, quelli che per la prima volta mettono il piede sulla luna.

Come risulta da tutto questo, le manifestazioni della virtù della fortezza sono numerose. Alcune di esse sono largamente note e godono una certa fama. Altre sono meno conosciute, benché spesso esigano una virtù ancor maggiore. La fortezza, infatti, come abbiamo detto all’inizio, è una virtù, una virtù cardinale. Permettete che attiri la vostra attenzione su esempi in genere poco noti, ma che in sé stessi testimoniano una grande virtù, talvolta addirittura eroica. Penso, per esempio, ad una donna, madre di una famiglia già numerosa, alla quale viene “consigliato” da tanti di sopprimere una nuova vita concepita nel suo seno, sottoponendosi “all’intervento” di interruzione della maternità; ed ella risponde con fermezza: “no”. Senz’altro sente tutta la difficoltà che questo “no” porta con sé, difficoltà per lei, per suo marito, per tutta la famiglia, e tuttavia risponde: “no”. La nuova vita umana in lei concepita è un valore troppo grande, troppo “sacro”, perché ella possa cedere a simili pressioni.

Ancora un esempio: un uomo al quale viene promessa la libertà e anche una facile carriera a condizione che egli rinneghi i propri principi, oppure approvi qualche cosa che sia contro la sua onestà verso gli altri. E anche lui risponde “no”, pur di fronte a minacce da una parte, e attrattive dall’altra. Ecco un uomo coraggioso!

Molte, moltissime sono le manifestazioni di fortezza, spesso eroica, di cui non si scrive sui giornali, o di cui si sa poco. Solo la coscienza umana le conosce... e Dio lo sa!

Desidero rendere omaggio a tutti questi coraggiosi sconosciuti. A tutti coloro che hanno il coraggio di dire “no” o “sì”, quando questo costa! Agli uomini che danno una testimonianza singolare di dignità umana e di profonda umanità. Proprio per il fatto che sono ignoti, meritano un omaggio e un particolare riconoscimento.

Secondo la dottrina di San Tommaso, la virtù della fortezza s’incontra nell’uomo,

– che è pronto “aggredi pericula”, cioè ad affrontare il pericolo;
– che è pronto “sustinere mala”, cioè a sopportare le avversità per una giusta causa, per la verità, per la giustizia, ecc.

La virtù della fortezza richiede sempre un certo superamento della debolezza umana e soprattutto della paura. L’uomo infatti, per natura, teme spontaneamente il pericolo, i dispiaceri, le sofferenze. Perciò bisogna cercare gli uomini coraggiosi non soltanto sui campi di battaglia, ma anche nelle corsie di un ospedale o sul letto del dolore. Tali uomini si potevano incontrare spesso nei campi di concentramento e nei luoghi di deportazione. Erano degli autentici eroi.

La paura toglie alle volte il coraggio civile agli uomini che vivono in un clima di minaccia, di oppressione o di persecuzione. Particolare valore hanno allora gli uomini, che sono capaci di varcare la cosiddetta barriera della paura, al fine di rendere testimonianza alla verità e alla giustizia. Per arrivare a tale fortezza, l’uomo deve in un certo modo “oltrepassare” i propri limiti e “superare” se stesso, correndo “il rischio” di una situazione ignota, il rischio di essere malvisto, il rischio di esporsi a spiacevoli conseguenze, ingiurie, degradazioni, perdite materiali, forse la prigionia o le persecuzioni. Per raggiungere tale fortezza, l’uomo deve essere sorretto da un grande amore per la verità e per il bene, a cui si dedica. La virtù della fortezza procede di pari passo con la capacità di sacrificarsi. Questa virtù aveva già presso gli antichi un profilo ben definito. Con Cristo ha acquistato un profilo evangelico, cristiano. Il Vangelo è indirizzato agli uomini deboli, poveri, miti e umili, operatori di pace, misericordiosi e, nello stesso tempo, contiene in sé un costante richiamo alla fortezza. Ripete spesso: “non abbiate paura” (
Mt 14,27). Insegna all’uomo che, per una giusta causa, per la verità, per la giustizia, bisogna saper “dare la vita” (Jn 15,13).

Desidero qui riferirmi ancora ad un altro esempio, che ci proviene da 400 anni fa, ma che rimane sempre vivo e attuale. Si tratta della figura di San Stanislao Kostka, patrono dei giovani, la cui tomba si trova nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, a Roma. Qui, infatti, finì la sua vita a 18 anni di età questo santo, per natura molto sensibile e tenero, tuttavia molto coraggioso. La fortezza condusse lui, proveniente da nobile famiglia, a scegliere di essere povero, seguendo l’esempio di Cristo, e a porsi al suo esclusivo servizio. Benché la sua decisione incontrasse una ferma opposizione da parte dell’ambiente egli riuscì con grande amore ma anche con grande fermezza, a realizzare il suo proposito, racchiuso nel motto: “Ad maiora natus sum”: sono nato per cose più grandi. Arrivò al noviziato dei Gesuiti, percorrendo a piedi la strada da Vienna a Roma e cercando di sfuggire ai suoi inseguitori che volevano, per forza, distogliere quest’“ostinato” giovane dai suoi intenti.


So che nel mese di novembre molti giovani di tutta Roma, e specialmente studenti, alunni, novizi, visitano la tomba di San Stanislao nella chiesa di Sant’Andrea. Io sono insieme con loro, perché anche la nostra generazione ha bisogno di uomini che sappiano con santa “ostinazione” ripetere: “Ad maiora natus sum”. Abbiamo bisogno di uomini forti!

Abbiamo bisogno di fortezza per essere uomini. Infatti l’uomo veramente prudente è solo quello che possiede la virtù della fortezza.

Preghiamo per questo dono dello Spirito Santo che si chiama il “dono della fortezza”. Quando all’uomo mancano le forze per “superare” se stesso, in vista di valori superiori, come la verità, la giustizia, la vocazione, la fedeltà matrimoniale, bisogna che questo “dono dall’alto” faccia di ciascuno di noi un uomo forte e, al momento giusto, ci dica “nell’intimo”: coraggio!



Agli sposi novelli

Un saluto e un augurio cordiale agli sposi novelli, presenti all’udienza. Il sacramento del matrimonio porta l’amore umano alla sua perfezione costituendolo simbolo dell’alleanza che v’è tra Cristo e la Chiesa. Vivetelo in questa luce con fedeltà reciproca e con generosa fiducia nell’aiuto di Cristo.



Ai malati

Un’attenzione particolare il Papa vuole riservare ai malati, per recare loro un saluto affettuoso e una parola di conforto e di incoraggiamento. Voi, cari malati, avete un posto importante nella Chiesa, se sapete interpretare la vostra situazione difficile alla luce della fede e se, in questa luce sapete vivere la vostra malattia con cuore generoso e forte. Ognuno di voi può allora affermare con San Paolo: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa”.



No alla violenza

Parlando della sofferenza umana, vorrei menzionare il caso della signora Marcella Boroli Balestrini, sequestrata a Milano il 9 ottobre scorso e non restituita ancora all’affetto dei suoi cari, nonostante lo stato di avanzata gravidanza e le precarie condizioni di salute. Il Papa rivolge la sua preghiera accorata al Signore, perché infonda nel cuore dei rapitori, e di tutte le persone implicate nei numerosi episodi di violenza in ogni parte d’Italia e del mondo, pensieri di umana sensibilità, affinché pongano fine a tante, troppe sofferenze atroci e indegne di Paesi civili. Alle vittime e ai loro parenti vada, intanto, il conforto della mia paterna Benedizione



Alle Pontificie Opere Missionarie

Con particolare intensità d’affetto rivolgo ora il mio saluto ai membri del Consiglio Superiore delle Pontificie Opere Missionarie, accompagnati a questa udienza dal Prefetto della Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, l’Eminentissimo Cardinale Angelo Rossi.

La vostra presenza, figli carissimi, mi offre l’opportunità di esprimere, insieme con la gratitudine per questo vostro gesto di sincera devozione, l’alta considerazione che nutro per l’attività intelligente e solerte, da voi svolta con ammirevole dedizione a servizio della causa missionaria. Per il credente, questa deve essere la causa che primeggia fra tutte, perché riguarda il destino eterno degli uomini, perché risponde al disegno misterioso di Dio sul significato della vita e della storia dell’umanità, perché abilita le diverse culture a perseguire efficacemente la meta di un vero e plenario umanesimo.

Continuate, dunque, con immutato impegno nel vostro lavoro di animazione missionaria, in stretto collegamento, da una parte, con le Conferenze Episcopali dei vostri Paesi e, dall’altra, con la Congregazione di “Propaganda Fide”, a cui spetta il compito di coordinare gli sforzi di tutti verso mete comuni.

Che lo Spirito di Cristo vi illumini e vi sostenga, unitamente a tutti coloro che qui rappresentate, in questa vostra opera delicata e importantissima per la vita della Chiesa. Il Papa vi è vicino con la sua preghiera e con la sua Benedizione.




Mercoledì 22 novembre 1978

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1. Nel corso delle udienze del mio ministero pontificio ho cercato di eseguire il “testamento” del mio prediletto Predecessore Giovanni Paolo I. Come è noto, egli non ha lasciato un testamento scritto, perché la morte lo ha colto inaspettatamente e all’improvviso, ma ha lasciato alcuni appunti, dai quali risulta che si era proposto, nei primi incontri del mercoledì, di parlare dei principi fondamentali della vita cristiana, cioè delle tre virtù teologali – e questo ha avuto il tempo di attuarlo – e poi delle quattro virtù cardinali – e questo lo sta facendo il suo indegno Successore –. Oggi è venuto il turno di parlare della quarta virtù cardinale, la “temperanza”, portando così a compimento, in un certo modo, il programma di Giovanni Paolo I, nel quale possiamo vedere quasi il testamento del Pontefice defunto.

2. Quando parliamo delle virtù – non soltanto di queste cardinali, ma di tutte, di ogni virtù – dobbiamo avere sempre davanti agli occhi l’uomo reale, l’uomo concreto. La virtù non è qualche cosa di astratto, staccato dalla vita, ma, al contrario, ha profonde “radici” nella vita stessa, scaturisce da essa e la forma. La virtù incide sulla vita dell’uomo. Sulle sue azioni e sul suo comportamento. Ne deriva che, in tutte queste nostre riflessioni, non parliamo tanto della virtù quanto dell’uomo che vive e agisce “virtuosamente”; parliamo dell’uomo prudente, giusto, coraggioso, e infine, oggi appunto, parliamo dell’uomo “temperante” (oppure “sobrio”).

Aggiungiamo subito che tutti questi attributi, o piuttosto atteggiamenti dell’uomo, provenienti dalle singole virtù cardinali, sono reciprocamente connessi. Non si può quindi essere uomo veramente prudente né autenticamente giusto né realmente forte, se non si ha anche la virtù della temperanza. Si può dire che questa virtù condiziona indirettamente tutte le altre virtù, ma si deve dire pure che tutte le altre virtù sono indispensabili, affinché l’uomo possa essere “temperante” (o “sobrio”).

3. Il termine stesso di “temperanza” sembra in un certo modo riferirsi a ciò che è “fuori dell’uomo”. Infatti diciamo che temperante è colui che non abusa di cibi, di bevande, di piaceri, chi non beve smodatamente alcolici, chi non si priva della coscienza per l’uso di stupefacenti, ecc. Questo riferimento ad elementi esterni all’uomo ha però la sua base dentro l’uomo. È come se in ciascuno di noi esistesse un “io superiore” e un “io inferiore”. Nel nostro “io inferiore” si esprime il nostro “corpo” e tutto ciò che gli appartiene: i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue passioni di natura anzitutto sensuale. La virtù della temperanza garantisce ad ogni uomo il dominio dell’“io superiore” sull’“io inferiore”. È questa forse un’umiliazione del nostro corpo? Oppure una menomazione? Al contrario, questo dominio valorizza il corpo. La virtù della temperanza fa sì che il corpo e i nostri sensi trovino il giusto posto, che spetta loro nel nostro essere umano.

L’uomo temperante è colui che è padrone di se stesso. Colui nel quale le passioni non prendono il sopravvento sulla ragione, sulla volontà, e anche sul “cuore”. L’uomo che sa dominare se stesso! Se è così, ci rendiamo facilmente conto di quale valore fondamentale e radicale abbia la virtù della temperanza. Essa è addirittura indispensabile, perché l’uomo “sia” pienamente uomo. Basta guardare qualcuno che, trascinato dalle sue passioni, ne diventa “vittima”, rinunciando da se stesso all’uso della ragione (come, ad esempio, un alcolizzato, un drogato) e constatiamo con chiarezza che “essere uomo” significa rispettare la propria dignità, e perciò, fra l’altro, farsi guidare dalla virtù della temperanza.

4. Questa virtù viene anche chiamata “sobrietà”. È proprio giusto che sia così! Infatti, per poter dominare le nostre passioni, la concupiscenza della carne, le esplosioni della sensualità (ad esempio nelle relazioni con l’altro sesso), ecc., dobbiamo non oltrepassare il giusto limite nei confronti di noi stessi e del nostro “io inferiore”. Se non rispettiamo questo giusto limite, non saremo in grado di dominarci. Questo non vuol dire che l’uomo virtuoso, sobrio, non possa essere “spontaneo”, non possa gioire, non possa piangere, non possa esprimere i propri sentimenti, non significa cioè che egli debba diventare insensibile, “indifferente”, come se fosse di ghiaccio o di pietra. No, in nessun modo! Basta guardare Gesù per convincersene. La morale cristiana non si è mai identificata con quella stoica. Al contrario, considerando tutta la ricchezza degli affetti e delle emotività di cui ogni uomo è dotato – del resto ciascuno in modo diverso: in un modo l’uomo, in altro la donna a motivo della propria sensibilità – bisogna riconoscere che l’uomo non può raggiungere questa spontaneità matura, se non attraverso un lavorio su se stesso e una particolare “vigilanza” su tutto il suo comportamento. In questo difatti consiste la virtù della “temperanza”, della “sobrietà”.

5. Penso che questa virtù esiga da ciascuno di noi una specifica umiltà riguardo ai doni che Dio ha posto nella nostra natura umana. Direi, “l’umiltà del corpo” e quella “del cuore”. Questa umiltà è condizione necessaria per l’“armonia” interiore dell’uomo: per la bellezza “interiore” dell’uomo. Ognuno vi rifletta bene e in particolare i giovani, e ancor più le giovani, nell’età in cui ci si tiene tanto ad essere belli o belle per piacere agli altri! Ricordiamoci che l’uomo deve essere bello soprattutto interiormente. Senza questa bellezza, tutti gli sforzi diretti al solo corpo non faranno – né di lui, né di lei – una persona veramente bella.


Del resto, non è proprio il corpo a subire danni sensibili e spesso anche rilevanti alla salute, se manca all’uomo la virtù della temperanza, della sobrietà? A questo proposito, molto potrebbero dire le statistiche e le cartelle cliniche di tutti gli ospedali del mondo. Ne hanno grande esperienza anche i medici impegnati nei consultori ai quali si rivolgono sposi, fidanzati e giovani. È vero che non possiamo giudicare la virtù basandoci esclusivamente sul criterio della salute psicofisica, tuttavia numerose sono le prove che la mancanza della virtù, della temperanza, della sobrietà porta danno alla salute.

6. Occorre che io finisca qui, benché sia convinto che questo argomento è piuttosto interrotto che esaurito. Forse un giorno si presenterà l’occasione di tornarci sopra. Per ora basta così.

In tale modo ho cercato, come potevo, di eseguire il testamento di Giovanni Paolo I. Gli chiedo di pregare per me, quando dovrò passare ad altri temi durante le udienze del mercoledì.



Ai malati

Vada ora un saluto particolarmente affettuoso ai malati. Tutti voi che soffrite, sappiate che il Papa vi predilige perché siete chiamati a partecipare più da vicino alla Passione redentrice del Salvatore, e perché a voi appartiene la beatitudine evangelica: “Beati voi afflitti, perché sarete consolati” (cf.
Mt 5,4). Coraggio! Il Papa è con voi: il vostro dolore non è vano, ma costituisce la ricchezza della Chiesa. Vi sia di conforto la mia speciale Benedizione.



Agli sposi novelli

Mi è gradito rivolgere adesso una parola agli sposi novelli qui presenti e a tutte le giovani coppie, che col loro amore, benedetto e santificato dalla virtù del sacramento del matrimonio, hanno iniziato una nuova vita. A voi dico: non temete di dare un’impronta cristiana alla vostra nuova famiglia: Cristo è con voi! È vicino a voi per rendere stabile e indissolubile il vincolo che vi unisce nella reciproca donazione; è vicino a voi per sostenervi in mezzo alle difficoltà e alle prove immancabili, sì, ma non insuperabili, non mai distruttive dell’amore sponsale, quando esso è autentico e non egoistico. Con questi lieti voti, il Papa vi benedice nel gaudio del Signore.







Catechesi 79-2005