Catechesi 79-2005 23780

Mercoledì, 23 luglio 1980: La concupiscenza del corpo deforma i rapporti uomo-donna

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1. Il corpo umano nella sua originaria mascolinità e femminilità, secondo il mistero della creazione - come sappiamo dall’analisi di Genesi 2,23-25 - non è soltanto fonte di fecondità, cioè di procreazione, ma fin "dal principio" ha un carattere sponsale: cioè, esso è capace di esprimere l’amore con cui l’uomo-persona diventa dono avverando così il profondo senso del proprio essere e del proprio esistere. In questa sua peculiarità, il corpo è l’espressione dello spirito ed è chiamato, nel mistero stesso della creazione, ad esistere nella comunione delle persone "ad immagine di Dio". Orbene, la concupiscenza "che viene dal mondo" - si tratta qui direttamente della concupiscenza del corpo - limita e deforma quell’oggettivo modo di esistere del corpo, di cui l’uomo è divenuto partecipe. Il "cuore umano sperimenta il grado di questa limitazione o deformazione, soprattutto nell’ambito dei rapporti reciproci uomo-donna. Proprio nell’esperienza del "cuore" la femminilità e la mascolinità, nei loro vicendevoli rapporti, sembrano non esser più l’espressione dello spirito che tende alla comunione personale, e restano soltanto oggetto di attrazione, in certo senso come avviene "nel mondo" degli esseri viventi che, al pari dell’uomo, hanno ricevuto la benedizione della fecondità (cf.
Gn 1).

2. Tale somiglianza è certamente contenuta nell’opera della creazione; lo conferma anche Genesi 2 e particolarmente il versetto 24. Tuttavia, ciò che costituiva il substrato "naturale", somatico e sessuale, di quella attrazione, già nel mistero della creazione esprimeva pienamente la chiamata dell’uomo e della donna alla comunione personale; invece, dopo il peccato, nella nuova situazione di cui parla Genesi 3, tale espressione si indebolì e si offuscò: come se venisse meno nel delinearsi dei rapporti reciproci, oppure come se fosse respinta su un altro piano. Il substrato naturale e somatico della sessualità umana si manifestò come una forza quasi autogena, contrassegnata da una certa "costrizione del corpo", operante secondo una propria dinamica, che limita l’espressione dello spirito e l’esperienza dello scambio del dono della persona. Le parole di Genesi 3,15 rivolte alla prima donna sembrano indicarlo in modo abbastanza chiaro ("verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà").


3. Il corpo umano nella sua mascolinità-femminilità ha quasi perduto la capacità di esprimere tale amore, in cui l’uomo-persona diventa dono, conforme alla più profonda struttura e finalità della sua esistenza personale, come abbiamo già osservato nelle precedenti analisi. Se qui non formuliamo questo giudizio in modo assoluto e vi aggiungiamo l’espressione avverbiale "quasi", lo facciamo perché la dimensione del dono - cioè la capacità di esprimere l’amore con cui l’uomo, mediante la sua femminilità o mascolinità, diventa dono per l’altro - in qualche misura non ha cessato di permeare e di plasmare l’amore che nasce nel cuore umano. Il significato sponsale del corpo non è diventato totalmente estraneo a quel cuore: non vi è stato totalmente soffocato da parte della concupiscenza, ma soltanto abitualmente minacciato. Il "cuore" è diventato luogo di combattimento tra l’amore e la concupiscenza. Quanto più la concupiscenza domina il cuore, tanto meno questo sperimenta il significato sponsale del corpo, e tanto meno diviene sensibile al dono della persona, che nei rapporti reciproci dell’uomo e della donna esprime appunto quel significato. Certamente, anche quel "desiderio" di cui Cristo parla in Matteo 5, 27-28, appare nel cuore umano in forme molteplici: non sempre è evidente e palese, talvolta è nascosto, così che si fa chiamare "amore", sebbene muti il suo autentico profilo e oscuri la limpidezza del dono nel rapporto reciproco delle persone. Vuol forse dire, questo, che abbiamo il dovere di diffidare del cuore umano? No! Ciò vuol soltanto dire che dobbiamo mantenerne il controllo.

4. L’immagine della concupiscenza del corpo, che emerge dalla presente analisi, ha un chiaro riferimento all’immagine della persona, con la quale abbiamo collegato le nostre precedenti riflessioni sul tema del significato sponsale del corpo. L’uomo infatti come persona è in terra "la sola creatura che Iddio ha voluto per se stessa" e, in pari tempo, colui che non può "ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé" (1). La concupiscenza in generale - e la concupiscenza del corpo in particolare - colpisce appunto questo "dono sincero": sottrae all’uomo, si potrebbe dire, la dignità del dono, che viene espressa dal suo corpo mediante la femminilità e la mascolinità, e in certo senso "depersonalizza" l’uomo facendolo oggetto "per l’altro".Invece di essere "insieme con l’altro" - soggetto nell’unità, anzi nella sacramentale "unità del corpo" - l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina per il maschio e viceversa. Le parole di Genesi 3,16 - e, prima ancora, di Genesi 3,7 - lo attestano, con tutta la chiarezza del contrasto, rispetto a Genesi 2,23-25.

5. Infrangendo la dimensione del dono reciproco dell’uomo e della donna, la concupiscenza mette anche in dubbio il fatto che ognuno di essi è voluto dal Creatore "per se stesso". La soggettività della persona cede, in un certo senso, all’oggettività del corpo. A motivo del corpo l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina per il maschio e viceversa. La concupiscenza significa, per così dire, che i rapporti personali dell’uomo e della donna vengono unilateralmente e riduttivamente vincolati al corpo e al sesso, nel senso che tali rapporti divengono quasi inabili ad accogliere il dono reciproco della persona. Non contengono né trattano la femminilità-mascolinità secondo la piena dimensione della soggettività personale, non costituiscono l’espressione della comunione, ma permangono unilateralmente determinati "dal sesso".

6. La concupiscenza comporta la perdita della libertà interiore del dono. Il significato sponsale del corpo umano è legato appunto a questa libertà. L’uomo può diventare dono - ossia l’uomo e la donna possono esistere nel rapporto del reciproco dono di sé - se ognuno di loro domina se stesso. La concupiscenza, che si manifesta come una "costrizione "sui generis" del corpo", limita interiormente e restringe l’autodominio di sé, e per ciò stesso, in certo senso, rende impossibile la libertà interiore del dono. Insieme a ciò, subisce offuscamento anche la bellezza, che il corpo umano possiede nel suo aspetto maschile e femminile, come espressione dello spirito. Resta il corpo come oggetto di concupiscenza e quindi come "terreno di appropriazione" dell’altro essere umano. La concupiscenza, di per sé, non è capace di promuovere l’unione come comunione di persone. Da sola, essa non unisce, ma si appropria. Il rapporto del dono si muta nel rapporto di appropriazione.

A questo punto, interrompiamo oggi le nostre riflessioni. L’ultimo problema qui trattato è di così grande importanza, ed è inoltre tanto sottile, dal punto di vista della differenza tra l’autentico amore (cioè tra la "comunione delle persone") e la concupiscenza, che dovremo riprenderlo nel nostro prossimo incontro.

Saluti:

All’Arciconfraternita di Santo Stefano

Al pellegrinaggio della diocesi di Nicosia in Sicilia

Un cordiale ed affettuoso saluto desidero rivolgere ai fedeli della diocesi di Nicosia, i quali, guidati dal loro zelante Pastore, Monsignor Salvatore Di Salvo, sono venuti in pellegrinaggio a Roma per venerare le tombe degli Apostoli e per esprimere il loro devoto ossequio al Successore di Pietro.

Nel manifestarvi il mio vivo compiacimento per tale gesto, carico di spirituale significato, faccio voti che la vostra fede cristiana sia sempre solida e forte sul fondamento della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa; sia sempre limpida e serena in mezzo al fluttuare delle vicende umane; sia generosa e coraggiosa senza alcun rispetto umano. Siate "saldi nella fede... e nella grazia di Dio!", vi esorto con le parole stesse di Pietro; e conservate gelosamente quelle sane, sante e preziose tradizioni a voi trasmesse, per tanti secoli, dai vostri padri.


San Filippo d’Agira e il Beato Felice da Nicosia continuino ad ispirare con i loro insegnamenti e i loro esempi la vostra testimonianza cristiana, e la Vergine Santissima, che venerate con filiale ardore, vi protegga sempre con la sua materna protezione.

Accompagno questi voti con la mia Benedizione Apostolica, che imparto al vostro Vescovo, a voi qui presenti ed a tutti i fratelli e le sorelle della diletta diocesi di Nicosia.

Alle religiose

Saluto di cuore le molte centinaia di Religiose qui convenute, tra le quali si distingue il folto gruppo di quelle aderenti al Movimento dei Focolari.

Tutte vi ringrazio per la vostra presenza, e a tutte auguro che questo incontro di fede possa rinsaldarvi ognor più nella vostra generosa dedizione al Signore ed alla sua Chiesa. La vostra testimonianza evangelica nel mondo faccia sempre di voi delle lampade accese, tali da illuminare e riscaldare quanti incontrate sul vostro cammino.

E sempre vi accompagni la mia benedizione.

Ai giovani

Rivolgo ora un saluto particolarmente affettuoso ai giovani, che con il loro esplodente entusiasmo, affollano e rallegrano questa piazza di S. Pietro.

Vi ringrazio, carissimi, per questa vostra presenza. Se vi accolgo con speciale affetto. ciò è perché ho veramente fiducia in voi, perché, nella mia esperienza tra i giovani già come docente nell’Università e nei miei precedenti incontri con loro nei circoli culturali e nelle escursioni in montagna, ho tratto la convinzione che proprio voi giovani siete una delle vie significative della Chiesa, perché con sincero impegno e con nobiltà di ideali, date aperta testimonianza di fede, glorificando così il Redentore dell’Uomo, Gesù nostro fratello e nostro vero amico.

Con questi sentimenti vi auguro un sereno riposo estivo e vi benedico di cuore.

Agli ammalati


Tutta la mia attenzione è ora per voi, ammalati dell’Arcidiocesi di Malta, che dopo aver sostato in pio pellegrinaggio al santuario mariano di Lourdes, vi siete voluti fermare a Roma, per dare il vostro saluto al Papa.

A voi e a quanti altri, pure ammalati, che sono qui oggi, anche con disagio e sacrificio, io dico: sappiate che il Papa è vicino a voi con l’affetto e con la preghiera quotidiana. Abbiate fiducia: il Signore non vi abbandonerà, nei momenti più duri della prova rivolgetevi a Lui e dite, con le stesse parole che ho suggerito recentemente in Brasile:

"Signore, concedeteci pazienza, serenità e coraggio; dateci il vivere in carità gioiosa, per vostro amore, verso quanti soffrono più di noi e verso quelli che, non soffrendo, non hanno chiarito il senso della vita".

Con questa esortazione, vi imparto la confortatrice Benedizione Apostolica.

Agli sposi novelli

Un saluto particolare desidero infine rivolgere agli sposi novelli presenti a questa Udienza per rafforzare con la Benedizione del Papa quella unione che è stata santificata e sancita dal Sacramento del Matrimonio.

Vi auguro che il vostro amore, che oggi vi unisce così saldamente, non solo non abbia mai ad affievolirsi, ma si accresca di giorno in giorno in una armoniosa unità di intenti e di voleri, sia sul piano umano sia su quello soprannaturale, in cui l’amore coniugale è figura di quello stesso amore che esiste tra Cristo e la Chiesa, sua mistica sposa.

Invoco sulle vostre nascenti famiglie e sul vostro cammino a due, che avete da poco iniziato, elette grazie e benedizioni celesti.

(1) Gaudium et Spes, 24: "Anzi il Signore Gesù quando prega il Padre, perché "tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola" [Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé".





Castel Gandolfo

Mercoledì, 30 luglio 1980: Nella volontà del dono reciproco la comunione delle persone

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1. Le riflessioni che andiamo svolgendo nell’attuale ciclo sono inerenti alle parole, che Cristo pronunziò nel Discorso della montagna sul "desiderio" della donna da parte dell’uomo. Nel tentativo di procedere a un esame di fondo su ciò che caratterizza l’"uomo della concupiscenza", siamo nuovamente risaliti al Libro della Genesi. Quivi, la situazione venutasi a creare nel rapporto reciproco dell’uomo e della donna è delineata con grande finezza. Le singole frasi di Genesi 3 sono molto eloquenti. Le parole di Dio-Jahvè rivolte alla donna in Genesi 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà", sembrano rivelare, ad un’analisi approfondita, in che modo il rapporto di reciproco dono, che esisteva tra loro nello stato di innocenza originaria, si sia mutato, dopo il peccato originale, in un rapporto di reciproca appropriazione.

Se l’uomo si rapporta alla donna così da considerarla soltanto come oggetto di cui appropriarsi e non come dono, in pari tempo condanna se stesso a diventare anch’egli, per lei, soltanto oggetto di appropriazione, e non dono. Pare che le parole di Genesi 3,16 trattino di tale rapporto bilaterale, sebbene direttamente sia detto soltanto: "egli ti dominerà". Inoltre, nell’appropriazione unilaterale (che indirettamente è bilaterale) scompare la struttura della comunione tra le persone; entrambi gli esseri umani divengono quasi incapaci di attingere la misura interiore del cuore, volta verso la libertà del dono e il significato sponsale del corpo, che le è intrinseco. Le parole di Genesi 3,16 sembrano suggerire che ciò avviene piuttosto a spese della donna, e che in ogni caso essa lo sente più dell’uomo.

2. Almeno a questo particolare vale la pena di volgere ora l’attenzione. Le parole di Dio-Jahvè secondo Genesi
Gn 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà", e quelle di Cristo secondo Matteo 5,27-28: "Chiunque guarda una donna per desiderarla...", permettono di scorgere un certo parallelismo. Forse, qui non si tratta del fatto che soprattutto la donna diviene oggetto di "desiderio" da parte dell’uomo, ma piuttosto che - come già in precedenza abbiamo messo in rilievo - l’uomo "dal principio" avrebbe dovuto essere custode della reciprocità del dono e del suo autentico equilibrio. L’analisi di quel "principio" (Gn 2,23-25) mostra appunto la responsabilità dell’uomo nell’accogliere la femminilità quale dono e nel mutuarla in un vicendevole, bilaterale contraccambio. Con ciò è in aperto contrasto il ritrarre dalla donna il proprio dono mediante la concupiscenza. Sebbene il mantenimento dell’equilibrio del dono sembri esser stato affidato ad entrambi, spetta soprattutto all’uomo una speciale responsabilità, come se da lui maggiormente dipendesse che l’equilibrio sia mantenuto oppure infranto o perfino - se già infranto - eventualmente ristabilito. Certamente, la diversità dei ruoli secondo questi enunciati, ai quali facciamo qui riferimento come a testi-chiave, era anche dettata dall’emarginazione sociale della donna nelle condizioni di allora (e la S. Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento ne fornisce sufficienti prove); nondimeno, vi è racchiusa una verità, che ha il suo peso indipendentemente da specifici condizionamenti dovuti agli usi di quella determinata situazione storica.

3. La concupiscenza fa sì che il corpo divenga quasi "terreno" di appropriazione dell’altra persona. Com’è facile intendere, ciò comporta la perdita del significato sponsale del corpo. Ed insieme a ciò acquista un altro significato anche la reciproca "appartenenza" delle persone, che unendosi così da essere a "una sola carne" (Gn 2,24) vengono in pari tempo chiamate ad appartenere l’una all’altra. La particolare dimensione dell’unione personale dell’uomo e della donna attraverso l’amore si esprime nelle parole "mio... mia". Questi pronomi, che da sempre appartengono al linguaggio dell’amore umano, ricorrono, spesso nelle strofe del Cantico dei Cantici e anche in altri testi biblici.(cfr Ct 1,9 Ct 1,13 Ct 1,14 Ct 1,15 Ct 1,16 Ct 2,2 Ct 2,3 Ct 2,8 Ct 2,9 Ct 2,10 Ct 2,13 Ct 2,14 Ct 2,16 Ct 2,17 Ct 3,2 Ct 3,4 Ct 3,5 Ct 4,1 Ct 4,10 Ct 5,1 Ct 5,2 Ct 5,4 Ct 6,2 Ct 6,3 Ct 6,4 Ct 6,9 Ct 7,11 Ct 8,12 Ct 8,14 cfr Ez 16,8 Os 2,18 Tb 8,7). Sono pronomi che nel loro significato "materiale" denotano un rapporto di possesso, ma nel nostro caso indicano l’analogia personale di tale rapporto. L’appartenenza reciproca dell’uomo e della donna, specialmente quando si appartengono come coniugi "nell’unità del corpo", si forma secondo questa analogia personale. L’analogia - come è noto - indica ad un tempo la somiglianza ed anche la carenza di identità (cioè una sostanziale dissomiglianza). Possiamo parlare dell’appartenenza reciproca delle persone soltanto se prendiamo in considerazione una tale analogia. Infatti, nel suo significato originario e specifico, l’appartenenza presuppone il rapporto del soggetto all’oggetto: rapporto di possesso e di proprietà. È un rapporto non soltanto oggettivo, ma soprattutto "materiale": appartenenza di qualcosa, quindi di un oggetto a qualcuno.

4. I termini "mio... mia", nell’eterno linguaggio dell’amore umano, non hanno - certamente - tale significato. Essi indicano la reciprocità della donazione, esprimono l’equilibrio del dono - forse proprio questo in primo luogo - cioè quell’equilibrio del dono, in cui si instaura la reciproca communio personarum. E se questa viene instaurata mediante il dono reciproco della mascolinità e della femminilità, si conserva in essa anche il significato sponsale del corpo. Invero, le parole "mio... mia" nel linguaggio d’amore sembrano una radicale negazione di appartenenza nel senso in cui un oggetto-cosa materiale appartiene al soggetto-persona. L’analogia conserva la sua funzione finché non cade nel significato suesposto. La triplice concupiscenza, ed in particolare la concupiscenza della carne, toglie alla reciproca appartenenza dell’uomo e della donna la dimensione che è propria dell’analogia personale, in cui i termini "mio... mia" conservano il loro significato essenziale. Tale significato essenziale sta al di fuori della "legge di proprietà", al di fuori del significato dell’"oggetto di possesso"; la concupiscenza, invece, è orientata verso quest’ultimo significato. Dal possedere, l’ulteriore passo va verso il "godimento": l’oggetto che posseggo acquista per me un certo significato in quanto ne dispongo e me ne servo, lo uso. È evidente che l’analogia personale dell’appartenenza si contrappone decisamente a tale significato. E questa opposizione è un segno che ciò che nel rapporto reciproco dell’uomo e della donna "viene dal Padre" conserva la sua persistenza e continuità nei confronti di ciò che viene "dal mondo". Tuttavia, la concupiscenza di per sé spinge l’uomo verso il possesso dell’altro come oggetto, lo spinge verso il "godimento", che porta con sé la negazione del significato sponsale del corpo. Nella sua essenza, il dono disinteressato viene escluso dal "godimento" egoistico. Non ne parlano forse già le parole di Dio-Jahvè rivolte alla donna in Genesi 3,16?

5. Secondo la prima lettera di Giovanni 2,16, la concupiscenza mostra soprattutto lo stato dello spirito umano. Anche la concupiscenza della carne attesta in primo luogo lo stato dello spirito umano. A questo problema converrà dedicare un’ulteriore analisi.

Applicando la teologia giovannea al terreno delle esperienze descritte in Genesi 3, come pure alle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna (Mt 5,27-28), ritroviamo, per così dire, una dimensione concreta di quella opposizione che - insieme al peccato - nacque nel cuore umano tra lo spirito e il corpo. Le sue conseguenze si fanno sentire nel rapporto reciproco delle persone, la cui unità nell’umanità è determinata fin dal principio dal fatto che sono uomo e donna. Da quando nell’uomo si è installata "un’altra legge, che muove guerra alla legge della mente" (Rm 7,23), esiste quasi un costante pericolo di tale modo di vedere, di valutare, di amare, così che "il desiderio del corpo" si manifesta più potente del "desiderio della mente". Ed è proprio questa verità circa l’uomo, questa componente antropologica che dobbiamo tener sempre presente, se vogliamo comprendere sino in fondo l’appello rivolto da Cristo al cuore umano nel Discorso della montagna.

Saluti:

Ad un gruppo di religiose francesi


Ai giovani del Centro spirituale "Notre-Dame de Vie"

Ad un gruppo di religiose di Malta

Ad un pellegrinaggio inglese

Al movimento giovanile delle "Pontificie Opere Missionarie"

Il mio pensiero e il mio saluto si rivolgono adesso a voi, giovani qui presenti, che venite da tutte le parti del mondo in questo periodo di riposo dai vostri normali impegni di studio. Vedendo uomini e città avrete la possibilità di arricchire la vostra conoscenza; ma cercate di mantenere sempre intatta la freschezza della vostra giovinezza e la solidità della vostra fede cristiana, vissuta nella gioia continua, che proviene dalla profonda amicizia con Cristo. Un particolare saluto rivolgo a voi, responsabili e membri del Movimento giovanile della "Pontificie Opere Missionarie", che in questi giorni celebrate a Roma il vostro Convegno sul tema: "Missione - Vocazione - Catechesi", ed auspico che portiate sempre nel vostro cuore e diffondiate specialmente tra i vostri coetanei l’ardore e l’impegno della testimonianza personale al messaggio di Gesù.

La mia Apostolica Benedizione confermi questi miei auguri.

Ai malati

Ed a voi, carissimi fratelli ammalati, che nella sofferenza e nelle infermità siete in special modo uniti a Gesù, indirizzo un saluto pieno di affetto e di cordialità e, interpretando anche i sentimenti di coloro che sono presenti a questa Udienza, vi auguro che possiate vivere in pienezza la "beatitudine delle lacrime", proclamata da Cristo per i suoi seguaci più fedeli. La via della Croce è umanamente molto dura, ma essa porta alla luce, alla pace, alla gioia senza fine.

A voi tutti imparto di cuore una particolare Benedizione Apostolica, raccomandando me e tutta la Chiesa alle vostre preghiere, rese preziose dal dolore.

Alle coppie di sposi novelli

Né posso dimenticare in questa circostanza i numerosi sposi novelli: a voi auguro che il vostro amore, consacrato da Dio nel Matrimonio, si mantenga sempre fervido in mezzo al fluttuare delle umane vicende e si rinsaldi sempre più, animato dalle virtù cristiane, specialmente dalla mutua fedeltà, che sono il tesoro prezioso delle famiglie, secondo il piano di Dio, che, "dal principio", ha voluto sacro, inviolabile ed indissolubile il vincolo che vi unisce per tutta la vita.

E’ con vera gioia che imparto alle vostre nascenti famiglie cristiane la mia speciale Benedizione Apostolica.



Castel Gandolfo

Mercoledì, 6 agosto 1980: Il discorso della Montagna agli uomini del nostro tempo

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1. Proseguendo il nostro ciclo, riprendiamo oggi il Discorso della montagna, e precisamente l’enunciato: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (
Mt 5,28).

Nel suo colloquio con i farisei, Gesù, facendo riferimento al "principio", (cf. le analisi precedenti.) pronunciò le seguenti parole riguardo al libello di ripudio: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così" (Mt 19,8). Questa frase comprende indubbiamente un’accusa. "La durezza di cuore" (Il termine greco sklerokardia è stato foggiato dai Settanta per esprimere ciè che nell’ebraico significava: "incirconcisione di cuore" [cf. ex. gr Dt 10,16 Jr 4,4 Si 3,26ss.] e che, nella traduzione letterale del Nuovo Testamento, appare una sola volta [Ac 7,51]. La "incirconcisione" significava il paganesimo", l’"impudicizia", la "distanza dall’Alleanza con Dio"; la "incirconcisione di cuore" esprimeva l’indomita ostinazione nell’opporsi a Dio. Lo conferma l’apostrofe del diacono Stefano: "O gente testarda e pagana nel cuore [letteralmente: non circoncisa di cuore]... voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo: come i vostri padri, così anche voi" [Ac 7,51]. Occorre dunque intendere la "durezza di cuore" in tale contesto filologico) indica ciò che, secondo l’ethos del popolo dell’Antico Testamento, aveva fondato la situazione contraria all’originario disegno di Dio-Jahvè secondo Genesi Gn 2,24. Ed è là che bisogna cercare la chiave per interpretare tutta la legislazione di Israele nell’ambito del matrimonio e, in senso più lato, nell’insieme dei rapporti tra uomo e donna. Parlando della "durezza di cuore", Cristo accusa, per così dire, l’intero "soggetto interiore" che è responsabile della deformazione della Legge. Nel Discorso della montagna (Mt 5,27-28), egli fa anche un richiamo al "cuore", ma le parole qui pronunciate non sembrano soltanto di accusa.

2. Dobbiamo riflettere ancora una volta su di esse, inserendole il più possibile nella loro dimensione "storica". L’analisi finora fatta, mirante a mettere a fuoco "l’uomo della concupiscenza" nel suo momento genetico, quasi nel punto iniziale della sua storia intrecciata con la teologia, costituisce un’ampia introduzione soprattutto antropologica, al lavoro che ancora occorre intraprendere. La successiva tappa della nostra analisi dovrà essere di carattere etico. Il Discorso della montagna, ed in particolare quel passo che abbiamo scelto come centro delle nostre analisi, fa parte della proclamazione del nuovo ethos: l’ethos del Vangelo. Nell’insegnamento di Cristo, esso è profondamente connesso con la coscienza del "principio", quindi con il mistero della creazione nella sua originaria semplicità e ricchezza; e, al tempo stesso, l’ethos, che Cristo proclama nel Discorso della montagna, è realisticamente indirizzato all’"uomo storico", divenuto l’uomo della concupiscenza. La triplice concupiscenza, infatti, è retaggio di tutta l’umanità, e il "cuore" umano realmente ne partecipa. Cristo, che sa "quello che c’è in ogni uomo" (Jn 2,25 cf. Ap 2,23 Ac 1,24), non può parlare altrimenti, se non con una simile consapevolezza. Da questo punto di vista, nelle parole di Matteo 5,27-28 non prevale l’accusa ma il giudizio: un giudizio realistico sul cuore umano, un giudizio che da una parte ha un fondamento antropologico, e, dall’altra, un carattere direttamente etico. Per l’ethos del Vangelo è un giudizio costitutivo.


3. Nel Discorso della montagna, Cristo si rivolge direttamente all’uomo che appartiene ad una società ben definita. Anche il Maestro appartiene a quella società, a quel popolo. Quindi bisogna cercare nelle parole di Cristo un riferimento ai fatti, alle situazioni, alle istituzioni, alle quali era quotidianamente familiarizzato. Bisogna che sottoponiamo tali riferimenti ad un’analisi almeno sommaria, affinché emerga più chiaramente il significato etico delle parole di Matteo Mt 5,27-28. Tuttavia, con queste parole, Cristo si rivolge anche, in modo indiretto ma reale, ad ogni uomo "storico" (intendendo questo aggettivo soprattutto in funzione teologica). E quest’uomo è proprio l’"uomo della concupiscenza", il cui mistero e il cui cuore è noto a Cristo ("egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo") (Jn 2,25). Le parole del Discorso della montagna ci consentono di stabilire un contatto con l’esperienza interiore di quest’uomo quasi ad ogni latitudine e longitudine geografica, nelle varie epoche, nei diversi condizionamenti sociali e culturali. L’uomo del nostro tempo si sente chiamato per nome da questo enunciato di Cristo, non meno dell’uomo di "allora", a cui il Maestro direttamente si rivolgeva.

4. In ciò risiede l’universalità del Vangelo, che non è affatto una generalizzazione. Forse proprio in questo enunciato di Cristo, che qui sottoponiamo ad analisi, ciò si manifesta con particolare chiarezza. In virtù di questo enunciato, l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo si sente chiamato, in modo adeguato, concreto, irripetibile: perché appunto Cristo fa appello al "cuore" umano, che non può essere soggetto ad alcuna generalizzazione. Con la categoria del "cuore", ognuno è individuato singolarmente ancor più che per nome, viene raggiunto in ciò che lo determina in modo unico e irripetibile, è definito nella sua umanità "dall’interno".

5. L’immagine dell’uomo della concupiscenza concerne anzitutto il suo intimo (Mt 15,19-20). La storia del "cuore" umano dopo il peccato originale è scritta sotto la pressione della triplice concupiscenza, a cui si collega anche la più profonda immagine dell’ethos nei suoi vari documenti storici. Tuttavia, quell’intimo è pure la forza che decide del comportamento umano "esteriore", ed anche della forma di molteplici strutture e istituzioni a livello di vita sociale. Se da queste strutture ed istituzioni deduciamo i contenuti dell’ethos, nelle sue varie formulazioni storiche, sempre incontriamo questo aspetto intimo, proprio dell’immagine interiore dell’uomo. Questa infatti è la componente più essenziale. Le parole di Cristo nel Discorso della montagna, e specialmente quelle di Matteo 5,27-28, lo indicano in modo inequivocabile. Nessuno studio sull’ethos umano può passarvi accanto con indifferenza.

Perciò, nelle nostre successive riflessioni, cercheremo di sottoporre ad un’analisi più particolareggiata quell’enunciato di Cristo, che dice: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (oppure: "già l’ha resa adultera nel suo cuore").

Per comprendere meglio questo testo, analizzeremo prima le sue singole parti, al fine di ottenere poi una più approfondita visione globale. Prenderemo in considerazione non soltanto i destinatari di allora che hanno ascoltato con i propri orecchi il Discorso della montagna, ma anche, per quanto possibile, quelli contemporanei, gli uomini del nostro tempo.

Saluti:

Al pellegrinaggio proveniente dal Cameroun

Al gruppo "Entre Jeunes"

Ad un gruppo di visitatori di lingua inglese



Ai partecipanti al Convegno Nazionale della "Crociata del Vangelo"

Sono lieto di dare il benvenuto, e di rivolgere il mio incoraggiamento ai numerosi partecipanti al Convegno Nazionale della "Crociata del Vangelo", che si svolge in questi giorni a Riano Flaminio.

So che siete venuti da ogni parte d’Italia per il vostro annuale incontro di studio, di riflessione e di preghiera; e, mentre mi compiaccio sinceramente con voi per l’impegno che ponete nell’approfondire la conoscenza del Vangelo, perché la sua luce vi illumini nel cammino della vita, auspico che sia sempre più vivo in voi il desiderio di ascoltare, come Maria di Betania ai piedi di Gesù, la sua voce che ci parla. Solo Lui ha parole di vita eterna, solo Lui è "la via, la verità e la vita". Nel Vangelo vi è la sua Parola, nel Vangelo vi è la sua arcana presenza, che ci attira, ci riscalda, ci sprona a vivere secondo la sua Legge, per essere in questo mondo, spesso tanto arido e crudele, fiaccole di fede e di amore, per la gloria del Padre.

Questo vi auguro con grande affetto, mentre a tutti imparto la Apostolica Benedizione.

A numerosi pellegrini

Sono presenti all’odierna Udienza numerosi pellegrini di varie parti d’Italia e tra di essi le partecipanti all’Assemblea Generale della Piccola Famiglia Francescana, Istituto Secolare che celebra il 50° di fondazione; il pellegrinaggio parrocchiale proveniente da Introdacqua, diocesi di Sulmona, e quello di Monte San Giovanni Campano, diocesi di Veroli.

A tutti rivolgo il mio affettuoso saluto e, nel raccomandarvi di essere sempre coerenti testimoni del Vangelo con le parole e con la vita, vi imparto di cuore la propiziatrice Benedizione Apostolica, che volentieri estendo a quanti vi sono cari.

Ai giovani

Siete venuti numerosi da varie località, cari giovani, a questa Udienza, ed io vi ringrazio della vostra partecipazione. Oggi la Liturgia ci fa festeggiare un misterioso e consolante episodio della vita di Gesù: la Trasfigurazione del suo aspetto corporeo, investito dalla gloria del Padre, sul Monte Tabor. Collegandomi a quel fatto, voglio ripetervi una frase del mio messaggio ai giovani di Parigi: "abbiate un grandissimo rispetto del vostro corpo e di quello altrui! Che il vostro corpo sia a servizio del vostro io profondo! Che i vostri gesti, i vostri sguardi siano sempre il riflesso della vostra anima! L’adorazione del corpo? No, giammai! Disprezzo del corpo? Ancora meno! Padronanza del corpo? Si! Più ancora: trasfigurazione del corpo!".

questo vi auguro con affetto. Vi aiuti la mia paterna Benedizione.

Agli ammalati


Anche a voi, carissimi ammalati, rivolgo il mio amorevole e riconoscente saluto.

Due anni fa, la sera della Domenica 6 agosto, il Papa Paolo VI lasciava questa terra per il cielo. Per l’"Angelus" di quel giorno aveva scritto: "La Trasfigurazione del Signore getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana... Quel corpo che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il Corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore".

Queste ultime parole del grande Pontefice vi siano di consolazione e di incoraggiamento nelle vostre pene, insieme alla mia Benedizione.

Alle coppie di sposi novelli

Carissimi sposi novelli, nel vostro viaggio di Nozze avete voluto inserire anche la visita al Papa. Vi ringrazio di cuore per questo vostro gentile pensiero, e con grande affetto a tutti porgo il mio saluto più sentito. E, nella luce della Trasfigurazione, auguro anche a voi di mantenere vivo il significato di quel miracolo nella vostra nuova vita: che la luce della fede e della grazia risplenda sempre nella fedeltà del vostro amore.

Questo è l’augurio che vi faccio, perché possiate sempre essere felici nel Signore, mentre vi accompagno con la mia Benedizione.

Papa Montini a due anni dalla scomparsa

E ora, prima di cantare tutti insieme il Pater noster, non posso dimenticare che, due anni fa, il mio Predecessore Paolo VI stava per concludere la sua lunga e operosa giornata terrena. Tra poche ore, egli si presentava a Cristo Signore per contemplare il suo Volto, per dirgli, con Pietro e come Pietro: Rabbi, bonum est nos hic esse: "Maestro, è bello per noi stare qui" (Mc 9,5); è bello stare con Te, per sempre!

In quest’ora del tramonto, che il ricordo colora di mestizia, rivolgiamo il pensiero a quel grande Pontefice, che veramente si è speso fino all’ultimo per il servizio della Chiesa, da lui amata come la pupilla degli occhi, da lui esaltata, da lui difesa dagli opposti contrasti, da lui guidata sulle onde talora mosse dal rinnovamento post-conciliare, da lui illustrata in una catechesi instancabile che ne ha esposto mirabilmente l’intima natura, la realtà nascosta e visibile insieme, l’organica struttura esterna e il carisma dello Spirito che la muove all’interno, la configurazione "mariana" di obbedienza e di servizio, nel "sì" detto dall’uomo a Dio, senza limiti.

Come dimenticare le sue parole e i suoi discorsi, sempre incisivi e alati? Come non ricordare i suoi grandi documenti come la "Populorum Progressio", la "Humanae Vitae", la "Sacerdotalis Caelibatus", la "Octogesima Adveniens", la "Marialis Cultus", la "Gaudete in Domino", la "Evangelii Nuntiandi"? Come non riandare ai suoi viaggi apostolici, che hanno definitivamente aperto le vie del mondo all’odierna testimonianza del Successore di Pietro?

Nel giorno della sua Trasfigurazione, il Signore lo ha chiamato a contemplare la sua gloria; e sappiamo, come hanno testimoniato i suoi più intimi collaboratori, che in quell’ultimo pomeriggio della sua vita, la preghiera che continuamente salì alle sue labbra, nel venir meno delle energie fisiche, fu proprio il Pater Noster Nel ricordarlo insieme, stasera, con le stesse parole del Pater, chiediamo al Padre Celeste che lo inondi della sua luce eternamente raggiante, e conceda a noi tutti di seguirne fedelmente gli insegnamenti e gli esempi, che tuttora ci edificano e commuovono.
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Prima di concludere l’udienza generale il Santo Padre ricorda la tragica sciagura di Bologna.

In questa giornata di lutto nazionale per l’Italia, in occasione dell’orribile strage perpetrata sabato scorso nella stazione ferroviaria di Bologna, rinnovo tutto il mio dolore per quel tragico avvenimento, che ha stroncato numerose vite, particolarmente di giovani e di bambini, causato tanti feriti, e gettato nel dolore intere famiglie. Non ci sono parole per esprimere adeguatamente la pena, l’esecrazione, il raccapriccio davanti a crimini così vili, così assurdi, che dimostrano a quali abissi possa giungere la mente di crudeli assassini, quando si dimentica il rispetto dovuto ai fratelli, calpestando in modo così barbaro ogni elementare senso di umanità.

Io levo la mia accorata preghiera a Dio, affinché tocchi il cuore di chi si è potuto macchiare di colpa tanto grave; e mentre raccomando al Suo amore le povere innocenti vittime, il mio pensiero affettuoso va a quanti, in questo momento, soffrono nel corpo e nello spirito, li benedico tutti, e benedico l’Italia affinché, nella mutua concordia, nella fedeltà alle sue forti tradizioni cristiane, nella volontà invitta di edificare la pace, bene sommo delle Nazioni, prosegua il suo cammino di sereno progresso, con l’aiuto onnipotente di Dio.




Castel Gandolfo

Mercoledì, 13 agosto 1980: Il contenuto del comandamento “non commettere adulterio”


Catechesi 79-2005 23780