Catechesi 79-2005 26103

Mercoledì, 26 ottobre 1983

26103


1. L’apostolo Paolo, carissimi fratelli e sorelle, ci ha parlato di “uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia” (
Rm 1,18), finendo per smarrire la strada che, dall’esperienza del mondo creato, avrebbe dovuto condurli a Dio. Resta in tal modo frustrato quell’insopprimibile anelito verso il divino, che urge nell’animo di ogni uomo capace di riflettere seriamente sulla propria esperienza di uomo.

Quali sono gli scopi nei quali più frequentemente s’incaglia la navicella dell’uomo in rotta verso l’Infinito? In rapida sintesi potremmo classificarli sotto tre grandi categorie di errori.

Vi è innanzitutto quella sorta di arroganza, di “hybris”, che conduce l’uomo a misconoscere il fatto di essere creatura, strutturalmente dipendente, come tale, da un Altro. È questa un’illusione presente con particolare pertinacia nell’uomo di oggi. Figlio della pretesa moderna di autonomia, abbagliato dal proprio splendore. “. . . Mi hai fatto come un prodigio” (Ps 139,13), egli dimentica di essere creatura. Come ci insegna la Bibbia, egli subisce il fascino della tentazione di ergersi contro Dio con l’argomento insinuante del Serpente nel paradiso terrestre: “Sarete come Dio” (Gn 3,5).


In realtà c’è nell’uomo qualcosa di divino. A partire dalla Bibbia, la grande tradizione cristiana ha sempre proclamato questa verità profonda con la dottrina dell’“Imago Dei”. Dio ha creato l’uomo a sua immagine. Tommaso e i grandi Scolastici esprimono questa verità con le parole del Salmo: “Risplende su di noi la luce del tuo volto, o Signore” (Ps 4,7). Ma la sorgente di tale luce non è nell’uomo, è in Dio. L’uomo, infatti, è creatura. In lui si coglie soltanto il riflesso della gloria del Creatore.

Anche chi non conosce Gesù Cristo, ma affronta con serietà la propria esperienza di uomo, non può non accorgersi di questa verità, non può non percepire con ogni fibra del suo essere, dall’interno della sua stessa esistenza, questa presenza di un Altro più grande di lui, da cui veramente dipendono il giudizio e la misura del bene e del male. San Paolo è categorico in questo senso: egli considera i Romani responsabili dei loro peccati perché “. . . dalla creazione del mondo in poi le sue (di Dio) perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute . . .” (Rm 1,20).

Quando l’uomo non si riconosce dipendente dal Dio che la Liturgia definisce come “Rerum . . . tenax vigor” (Breviario romano, Inno dell’Ora Nona), allora inevitabilmente finisce per smarrirsi. La sua ragione si pretende a misura della realtà, reputando come inesistente ciò che non è da essa misurabile. Analogamente la sua volontà non si sente più interpellata dalla legge che il Creatore ha posto nella sua mente (cf. Rm 7,23) e cessa di perseguire il bene da cui pure si sente attratta. Concependosi come arbitra assoluta di fronte a verità ed errore, se li figura, illudendosi, come indifferentemente equidistanti. Sparisce così dall’orizzonte dell’esperienza umana la dimensione spirituale della realtà e, conseguentemente, la capacità di percepire il Mistero.

Come potrà a questo punto l’uomo accorgersi di quella tensione che egli porta in sé tra il suo io carico di bisogni e la sua incapacità di risolverli? Come potrà avvertire la pungente contraddizione tra il suo desiderio dell’Essere e Bene Infinito e il suo vivere limitato come ente tra gli enti? Come potrà fare un’esperienza autentica di sé, cogliendo nelle radici più profonde del suo essere l’anelito della Redenzione?

2. Il secondo tipo di errore che impedisce un’esperienza umana autentica, è quello che conduce l’uomo a tentar di spegnere in sé ogni domanda e ogni desiderio che vadano al di là del suo essere limitato, per appiattirsi su ciò che possiede. È forse il più triste dei modi in cui l’uomo possa dimenticare se stesso, perché implica una vera e propria alienazione: ci si estrania dal proprio essere più vero per disperdersi nei beni che si possiedono e che si possono consumare.

Non è certo disprezzabile lo sforzo che l’uomo compie per dare una sicurezza materiale e sociale a sé e ai suoi cari. È meravigliosa la ricerca di solidità e consistenza con cui la natura, attraverso il complesso fenomeno dell’affezione, conduce l’uomo alla donna e questa all’uomo. Ma come è facile praticamente che queste lodevoli sicurezze umane vengano parzializzate o esasperate così da accendere nell’uomo illusori miraggi e false speranze! Gesù nel Vangelo ha espressioni terribili contro questo peccato (Lc 12,16-21).

Anche in questo caso l’uomo si priva di un’esperienza umana integrale, perché non riconosce la sua vera natura di creatura spirituale e lascia quasi morire nel suo cuore ogni anelito a quella verità di sé che lo apra al Dono mirabile della Redenzione.

3. Il terzo tipo di errore, in cui cade l’uomo alla ricerca della sua genuina esperienza, si manifesta quando egli investe tutte le sue energie - intelligenza, volontà, sensibilità - in una interminabile ed esasperante ricerca volta solo alla sua interiorità. Egli diviene così incapace di accorgersi che ogni esperienza psicologica esige, per costituirsi, l’accettazione della realtà oggettiva, raggiunta la quale il soggetto può ritornare su di sé in modo compiuto. L’uomo che si chiude in questa solitudine psicologica volontaria diviene incapace di qualunque comunicazione oggettiva con la realtà. Per questa figura umana, egoistica e patetica, l’altro finisce per essere ridotto ad un fantasma facilmente strumentalizzabile.

Ma l’uomo che si oppone alla necessità innata di aprirsi alla realtà come è in se stessa e alla vita con la sua drammatica verità, si erge in ultima analisi contro il loro Autore, precludendosi la possibilità di trovare in lui la risposta che, sola, potrebbe appagarlo.

Carissimi, l’importanza di aver richiamato queste difficoltà dell’uomo nel vivere la sua integrale esperienza umana sta nel fatto che anche noi in questo Anno Santo della Redenzione ci sentiamo richiamati all’urgenza di essere uomini nuovi per la nostra fede. Anche noi che abbiamo incontrato Cristo, il Redentore, dobbiamo sempre e di nuovo stare ritti di fronte a lui vincendo in noi la tentazione del peccato perché “egli possa portare a compimento l’opera che in noi ha iniziato” (Ph 1,6).

Ai pellegrini di lingua francese


Ai fedeli di espressione inglese

Ad un gruppo di pellegrini giapponesi

Sia lodato Gesù Cristo!

Carissimi pellegrini dell’Arcidiocesi di Nagasaki, guidati dal Vescovo Ausiliare, Monsignor Matsunaga, e pellegrini della Diocesi di Niigata.

Vi benedico di cuore, affinché il vostro pellegrinaggio in occasione dell’Anno Santo sia fruttuoso. E voi, da parte vostra, pregate anche per me.

Sia lodato Gesù Cristo!


Ai pellegrini di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai polacchi

Ai gruppi italiani

Saluto con grande effusione di affetto i numerosi pellegrinaggi provenienti dalle diocesi italiane, qui accompagnati dai loro Vescovi: essi sono i fedeli di Cagliari, Massa Marittima-Piombino, Rossano, Acqui Terme, Fidenza, Capua, Matera, Nardò, Ugento-Santa Maria di Leuca.


Sono cospicue rappresentanze di elette comunità ecclesiali, che, come in ogni Udienza di questo Anno Santo della Redenzione, anche oggi distinguono il nostro incontro.

Carissimi, vi esprimo il mio compiacimento per la generosa preparazione che avete fatta precedere nelle singole Chiese locali in vista della celebrazione giubilare a Roma. Vi auguro che questa tappa centrale dell’Anno Santo segni un impegno profondo nel vostro sforzo quotidiano di conversione, di riconciliazione e di adesione al Vangelo. La vostra visita alle tombe degli Apostoli e dei Martiri susciti nel vostro cuore il desiderio di una maggiore carità verso i fratelli e di un nuovo fervore nella vita sacramentale.
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Sono presenti a questo incontro numerose Religiose appartenenti alla Congregazione delle Suore Marcelline, le quali, insieme alle Alunne ed ex Alunne dei loro Istituti d’Europa, sono venute a Roma per lucrare l’Indulgenza dell’Anno Santo.

Vi esprimo vivo apprezzamento perla benemerita opera di animazione cristiana che voi svolgete in seno alla Chiesa, soprattutto nel campo delle attività educative della gioventù e in quello della collaborazione pastorale.

Il Giubileo che siete venute a celebrare a Roma, vi sia di stimolo a ben continuare la vostra azione specifica, portando dappertutto il segno sorridente della vostra bontà operosa e della vostra presenza. Vi benedico tutte nel nome del Signore.
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Rivolgo un particolare saluto ed augurio al gruppo degli Alunni del Seminario Arcivescovile di Bari, i quali, accompagnati dai loro Superiori e Genitori, prendono parte a questa Udienza.

Vi ringrazio per questa visita così confortante e vi auguro che questi vostri anni di Seminario valgano ad edificare in voi una grande personalità, resa vibrante da un profondo spirito di preghiera individuale e comunitaria. Vi sostenga il Signore in questo impegno e vi sia di conforto la mia Benedizione Apostolica.
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Rivolgo ora il mio saluto ai numerosi ragazzi e giovani qui presenti.


In questo mese del Rosario, ripenso alla predilezione che la Vergine Santissima ha avuto per voi, dandovi la preferenza nelle sue numerose apparizioni lungo il corso dei secoli.

Questo perché voi, con la vostra generosa disponibilità, siete i più aperti e i più entusiasti nel recepire i messaggi che vi chiamano a lavorare nelle frontiere avanzate per la costruzione di un mondo più giusto. Vi accompagni la mia Benedizione.
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Saluto gli ammalati convenuti a questa Udienza.

A prezzo forse di duro sacrificio, siete venuti a celebrare l’anno Santo sulla tomba dell’Apostolo Pietro e dei martiri romani. Con le vostre sofferenze voi offrite un prezioso apporto alla Redenzione di Cristo.

A voi ripeto quanto già San Clemente scriveva per i cristiani del suo tempo, ed oggi leggiamo nella Liturgia delle Ore: “Facciamo di tutto per trovarci nel numero di coloro che aspettano il Signore. E questo avverrà se il nostro cuore sarà saldo in Dio con la fede, se cercheremo con diligenza ciò che è gradito ed accetto a lui, se compiremo ciò che è conferma alla sua santa volontà”. Vi assicuro del mio ricordo nella preghiera e di cuore vi benedico.
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Anche agli Sposi novelli vada il mio gioioso saluto.

Carissimi, nel periodo del fidanzamento vi siete conosciuti ed avete ideato progetti da realizzare insieme. Avete poi chiesto e ricevuto il Sacramento del matrimonio per vivere la missione alla quale Dio vi ha chiamati: essere immagine del suo amore, suoi collaboratori nel trasmettere la vita e nell’educare alla fede i figli, dono del Signore. La grandezza di questa missione vi deve riempire di gioia, ma vi deve anche impegnare nei compiti a cui essa vi chiama.

A tutti la mia Benedizione.

Angustia e preoccupazione profonda sono i sentimenti espressi dal Papa, in riferimento all’aggravarsi della situazione internazionale, al termine del l’udienza generale.

Non posso nascondervi che la situazione internazionale mi angustia e mi preoccupa profondamente. Domenica scorsa nel Libano due atti terroristici hanno provocato più di duecento morti tra i soldati americani e francesi in servizio nella Forza multinazionale di pace. Dall’altra parte del mondo, nella regione dei Caraibi, si è prodotta una nuova crisi, con i gravi avvenimenti nell’isola di Grenada, teatro di un colpo di Stato due settimane fa, e ora, di uno sbarco di forze militari, che hanno provocato, l’uno e l’altro, anche vittime umane. Nel medesimo tempo aumentano le incertezze e le apprensioni in Europa e nel mondo per il ritardo degli auspicati sviluppi positivi nei negoziati sul disarmo.

Sono crisi che hanno propri moventi, ma che si possono ricondurre ad una causa comune, più generale e molto seria: la mancanza di fiducia reciproca che, come insegna una dolorosa esperienza storica, può portare alle più gravi tensioni, fino a possibili catastrofi belliche.

Dobbiamo pregare molto intensamente perché Dio, padre amorevole di tutti gli uomini, ispiri ai responsabili delle Nazioni una consapevolezza sempre più viva e più risoluta che la pace è, per i loro e per gli altri popoli, bene veramente irrinunciabile e supremo.




Mercoledì, 2 novembre 1983

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1. “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita eterna”.

Oggi, commemorazione liturgica dei defunti, il nostro pensiero si sofferma sulla schiera dei fratelli che ci hanno preceduto al grande traguardo dell’eternità. Siamo invitati a riprendere con essi, nell’intimo del cuore, quel dialogo, che la morte non deve troncare. Non v’è persona che non abbia parenti, amici, conoscenti da ricordare. Non v’è famiglia che non risalga al proprio ceppo originario, con i sentimenti del rimpianto, della pietà umana e cristiana.

Ma il nostro ricordo vuole andare oltre i legittimi e cari vincoli affettivi ed estendersi all’orizzonte del mondo. In tal modo raggiungiamo tutti i morti, ovunque essi siano deposti, in ogni angolo della terra, dai cimiteri delle metropoli a quelli del più modesto villaggio. Per tutti, con cuore fraterno, eleviamo la pia invocazione di suffragio al Signore della vita e della morte.

2. La giornata commemorativa di tutti i defunti, deve essere una giornata di riflessione, particolarmente nell’occasione straordinaria dell’Anno Giubilare della Redenzione che stiamo celebrando. Infatti, la commemorazione dei defunti ci fa meditare prima di tutto sul messaggio escatologico del cristianesimo: sulla parola rivelatrice di Cristo, il Redentore, noi siamo sicuri dell’immortalità dell’anima. In realtà, la vita non è chiusa nell’orizzonte di questo mondo: l’anima, creata immediatamente da Dio, quando giunge la fine fisiologica del corpo, rimane immortale e i nostri stessi corpi risorgeranno trasformati e spiritualizzati. Il significato profondo e decisivo della nostra esistenza umana e terrena sta nella nostra “personale” immortalità: Gesù è venuto a rivelarci questa verità. Il cristianesimo è certamente anche un “umanesimo” e propugna con forza lo sviluppo integrale di ogni uomo e di ogni popolo, associandosi a tutti i movimenti che vogliono il progresso individuale e sociale; ma il suo messaggio è essenzialmente ultraterreno, impostando tutto il senso dell’esistenza nella prospettiva dell’immortalità e della responsabilità. Quindi le moltitudini immense di coloro che già nei secoli passati hanno raggiunto il termine della propria vita, sono tutte ben vive; i nostri cari defunti sono tuttora viventi e presenti anche, in qualche modo, nel nostro quotidiano cammino. “La vita non è tolta ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo!” (Prefazio defunctorum).

3. In secondo luogo, questa giornata ci fa pensare giustamente alla fragilità e alla precarietà della nostra vita, alla condizione mortale della nostra esistenza. Quante persone son già passate su questa nostra terra! Quanti, che un giorno erano con noi con il loro affetto e la loro presenza, ora non sono più! Siamo pellegrini sulla terra e non siamo sicuri della lunghezza del tempo che ci è concesso. L’autore della Lettera agli Ebrei ammonisce pensosamente: “È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio” (
He 9,27). L’Anno Santo della Redenzione ci ricorda specialmente che Cristo è venuto a portare la “grazia” divina, a redimere l’umanità dal peccato, a perdonare le colpe. La realtà della nostra morte ci ricorda l’ammonizione pressante del Divin Maestro: “Siate vigilanti!” (cfr Mt 24,32 Mt 25,13 Mc 13,35). Dobbiamo dunque vivere in grazia di Dio, mediante la preghiera, la Confessione frequente, l’Eucaristia; dobbiamo vivere in pace con Dio, con noi stessi e con tutti.

4. L’intero insegnamento e tutto l’atteggiamento di Gesù sono proiettati verso le eterne realtà, in vista delle quali il Divin Maestro non esita a chiedere dure rinunzie e gravi sacrifici. La realtà della nostra morte non deve rendere triste la vita né bloccarla nelle sue attività; deve farla solo estremamente seria. L’autore della Lettera agli Ebrei ci avverte che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (He 13,14) e san Paolo gli fa eco con un’espressione di vivo realismo: “Tratto duramente il mio corpo e lo tengo in schiavitù” (1Co 9,27). Infatti sappiamo che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).


5. Alla luce del messaggio tipico dell’Anno Santo, questa giornata dei defunti ci ricorda ancora la grande e preziosa realtà dell’Indulgenza che la Chiesa concede in remissione della pena dovuta per i peccati. Certamente il Signore rimette le colpe di chi è veramente pentito e a lui ritorna mediante il sacramento della Penitenza; rimane però, potremmo dire, quella zona d’ombra che è appunto detta “pena” del peccato, rimane cioè il dovere della perfetta purificazione per l’immediato possesso della visione beatifica dopo questa vita.

L’Indulgenza giubilare - al pari delle altre indulgenze - può essere ottenuta per i defunti a modo di suffragio. Vi esorto pertanto ad approfittare sempre, ma specialmente in quest’anno, del tesoro della misericordia di Dio, per godere la sua amicizia ed essere trovati degni della sua infinita felicità.

6. Carissimi fratelli e sorelle! Le riflessioni suggeriteci dalla commemorazione dei defunti ci immettono nel grande capitolo dei “Novissimi” - Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso -. È la prospettiva che dobbiamo avere ininterrottamente dinanzi agli occhi, è il segreto perché la vita abbia sempre pienezza di significato e si svolga ogni giorno con la forza della speranza.

Meditiamo spesso i Novissimi e comprenderemo sempre più il senso profondo del vivere.

Con questa esortazione vi imparto di cuore la mia affettuosa e paterna benedizione apostolica.

Ai fedeli di espressione inglese

Ai fedeli di lingua spagnola


Ai fedeli polacchi

Ai fedele italiani

Nel rivolgere ora la mia attenzione ai pellegrini di lingua italiana, desidero indirizzare anzitutto un saluto cordiale ai Dirigenti ed agli Artisti del Teatro dell’Opera di Roma, che hanno voluto essere presenti all’odierna Udienza Generale. Nel ringraziarli per il loro gesto cortese e per l’omaggio del Concerto che intendono offrire, auspico che alla loro nobile attività possa sempre arridere il meritato successo e che il vasto pubblico, attraverso l’ascolto delle melodie immortali da essi eseguite, possa essere elevato all’esperienza di quel mondo di valori più alti, che hanno nella fede il loro vertice ed il loro coronamento.
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Partecipano all’udienza anche i seminaristi della diocesi di Treviso, giunti in pellegrinaggio a Roma insieme con i loro Superiori. Nel salutarvi con affetto, carissimi, vi esorto a trarre dalle testimonianze di fede, di cui i secoli cristiani hanno arricchito questa Città, incitamento a perseverare con rinnovato slancio sulla strada della totale dedizione a Cristo ed alla causa del suo Regno. Vi sostenga nel cammino la Benedizione Apostolica, che vi imparto di cuore.
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Uno speciale saluto vada altresì alle Religiose addette agli uffici generali nelle Comunità e nelle opere di apostolato, che in questi giorni si sono raccolte, qui a Roma, in Convegno Nazionale. Il vostro lavoro, spesso umile e nascosto, carissime Sorelle, ha in realtà una grande importanza per la vita delle vostre rispettive Comunità. Vi auguro di sapervi dedicare ai vostri compiti con fede illuminata e ardente, alimentando la generosità del vostro impegno nella partecipazione quotidiana alla Celebrazione eucaristica, nella quale Cristo rinnova il suo sacrificio redentore. Alla scuola di Gesù imparate a donarvi con gioia, per amore. Vi accompagni la mia Benedizione Apostolica.
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Rivolgo, ora, un saluto beneaugurante a tutti i giovani. Carissimi! Ieri abbiamo celebrato la festa di tutti i Santi, ricordando, oltre quanti sono stati elevati all’onore degli altari, anche gli innumerevoli nostri fratelli, che godono la visione eterna di Dio. E’ questo un solenne invito per i cristiani, ma specialmente per voi, a seguire i luminosi esempi degli abitanti del cielo. Voi siete generosi e, pertanto, sentite l’attrattiva dell’ardimento. Praticando, con la grazia di Dio, coraggiosamente e con vigilanza costante le non facili virtù, in cui si sono distinti i santi, voi date la più alta prova di fortezza. Vi accompagni la mia Benedizione.
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A voi, carissimi infermi, ricordo che Cristo è presente nelle sue membra, specialmente in voi ed in tutti i sofferenti. Voi, con la vostra generosa docilità alla difficile prova del dolore, da Dio permessa, siete i silenziosi celebratori della bontà e dell’amore di Cristo. Vi sono vicino con la mia preghiera e con la mia particolare Benedizione.
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Un pensiero anche per voi, carissimi sposi novelli, ancora ripieni della letizia spirituale per la grazia del sacramenti del matrimonio, che ha reso santo il vostro amore e che vi impegna alla fedeltà reciproca e alla vicendevole dedizione. Sappiate attingere la forza per superare le difficoltà dell’Eucaristia, che vi unisce intimamente a Cristo ed alla Chiesa e che fa della vostra nascente famiglia una piccola comunità ecclesiale. Con la mia Benedizione Apostolica.

Ai pellegrini tedeschi nell’Aula Paolo VI

Lasciata la Basilica Vaticana, il Santo Padre raggiunge l’Aula Paolo VI, dove sono in attesa oltre 5000 fedeli di lingua tedesca. Tra questi significativa è la presenza di militari della Repubblica Federale di Germania e di oltre 800 malati accompagnati dai volontari tedeschi dell’Ordine di Malta.

Dopo aver riassunto il discorso pronunciato nella Basilica, il Papa rivolge ai pellegrini il seguente saluto.


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Mercoledì, 9 novembre 1983

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1. La pagina del Siracide, ora ascoltata, carissimi fratelli e sorelle, ci invita a riflettere sul mistero dell’uomo: questo essere “creato dalla terra”, alla quale è “destinato a tornare di nuovo” e tuttavia “formato ad immagine di Dio”(cf.
Si 17,1 Si 3); questa creatura effimera, a cui sono stati assegnati “giorni contati e un tempo fissato” (Si 17,2) e che, ciò nonostante, ha occhi capaci di “contemplare la grandezza della gloria di Dio” (cf. Si 17,11).

In questo mistero originario dell’uomo radica la tensione esistenziale, che sta al cuore di ogni sua esperienza. Il desiderio di eterno, presente in lui per il riflesso divino che risplende sul suo volto, si scontra con l’incapacità strutturale a darvi attuazione, che mina ogni suo sforzo. Uno dei grandi pensatori cristiani dell’inizio del secolo, Maurice Blondel, che ha dedicato ampia parte della sua vita a riflettere su questa misteriosa aspirazione dell’uomo all’infinito, scriveva: “Noi siamo costretti a voler divenire ciò che da noi stessi non possiamo né raggiungere né possedere . . . È perché ho l’ambizione di essere infinitamente, che sento la mia impotenza: io non mi sono fatto, non posso ciò che voglio, sono costretto a superarmi” (M. Blondel, L’action, Parigi 1982, p. 354).

Quando, nel concreto dell’esistenza, l’uomo percepisce questa impotenza radicale che lo caratterizza, si scopre solo, di una solitudine profonda e incolmabile. Una solitudine originaria che gli deriva dalla consapevolezza acuta, e talora drammatica, che nessuno, né lui né alcuno dei suoi simili, può definitivamente rispondere al suo bisogno e appagare il suo desiderio.

2. Paradossalmente, tuttavia, questa solitudine originaria, per il cui superamento la persona sa di non poter contare su nulla di puramente umano, genera la più profonda e genuina comunità tra uomini. Proprio questa sofferta esperienza di solitudine è all’origine di una socialità vera, disposta a rinunciare alla violenza dell’ideologia e al sopruso del potere. Si tratta di un paradosso: infatti se non fosse per questa profonda “compassione” per l’altro, che uno scopre solo se coglie in sé questa solitudine totale, chi spingerebbe l’uomo, consapevole di questo suo stato, all’avventura della socialità? Con simili premesse, come potrebbe la società non essere il luogo del dominio del più forte, dell’“homo homini lupus” che la concezione moderna dello Stato non solo ha teorizzato, ma ha anche posto tragicamente in atto?

È grazie ad uno sguardo così carico di verità su di sé che l’uomo può sentirsi solidale con tutti gli altri uomini, vedendo in essi altrettanti soggetti attraversati dalla medesima impotenza e dal medesimo desiderio di compiuta realizzazione.

L’esperienza della solitudine diventa così il passo decisivo per il cammino verso la scoperta della risposta alla domanda radicale. Essa genera infatti un legame profondo con gli altri uomini, che sono accomunati dallo stesso destino e animati dalla stessa speranza. Così da questa abissale solitudine nasce l’impegno serio dell’uomo verso la propria umanità, un impegno che diviene passione per l’altro e solidarietà con ciascuno e con tutti. Una società autentica è, allora, possibile per l’uomo, perché non ha fondamento in un calcolo egoistico, ma nell’attaccamento a quanto di più vero vive in lui stesso e in tutti gli altri.

3. La solidarietà con l’altro diviene più propriamente incontro con l’altro attraverso le diverse espressioni esistenziali che caratterizzano gli umani rapporti. Di questi, il rapporto affettivo tra uomo e donna sembra essere il principale, perché poggia su un giudizio di valore in cui l’uomo investe in modo originalissimo tutti i suoi dinamismi vitali: l’intelligenza, la volontà e la sensibilità. Egli fa allora l’esperienza di quell’intimità radicale, ma non priva di dolore, che il Creatore ha posto in principio nella sua natura: “Il Signore plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta essa è la carne della mia carne è osso delle mie ossa»” (Gn 2,23).

Sulla scorta di questa primaria esperienza di comunione l’uomo si applica con gli altri alla costruzione di una “società” intesa come convivenza ordinata. Il conquistato senso di solidarietà con tutta l’umanità si concretizza anzitutto in una trama di rapporti, nei quali l’uomo primariamente è chiamato a vivere e ad esprimersi, recando ad essi il suo contributo e ricevendone, di rimando, un considerevole influsso sullo sviluppo della propria personalità. È nei diversi ambienti in cui si attua la sua crescita che l’uomo si educa a percepire il valore di appartenere ad un popolo, come condizione ineliminabile per vivere le dimensioni del mondo.

4. I binomi uomo-donna, persona-società e, più radicalmente, anima-corpo, sono le dimensioni costitutive dell’uomo. A queste tre dimensioni si riduce a ben vedere tutta l’antropologia “pre-cristiana”, nel senso che esse rappresentano tutto ciò che l’uomo può dire di sé al di fuori di Cristo.

Ma esse si caratterizzano per la loro polarità. Implicano cioè una inevitabile tensione dialettica. Anima-corpo, maschio-femmina, individuo-società sono tre coppie che esprimono il destino e la vita di un essere incompiuto. Sono ancora una volta un grido che si eleva dall’interno della più intima esperienza dell’uomo. Sono domanda di unità e di pace interiore, sono desiderio di una risposta al dramma implicito nel loro stesso reciproco rapportarsi. Si può dire che esse sono invocazione ad un Altro che colmi la sete di unità, di verità e di bellezza, emergente dal loro fronteggiarsi.

Anche dall’interno dell’incontro con l’altro - possiamo dunque concludere - si apre l’urgenza di un intervento dall’Alto, che salvi l’uomo da un drammatico, e altrimenti inevitabile, fallimento.

La preghiera del “Pater Noster” di oggi la dedichiamo in modo particolare ad invocare la pace e la riconciliazione nella tormentata terra del Libano.

Con queste parole Giovanni Paolo II ancora una volta richiama l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e, in particolare, di tutta la Chiesa, sul dramma che si sta consumando nel territorio libanese. Come ha già fatto nelle scorse settimane, il Santo Padre vuole concludere la celebrazione del Giubileo della Redenzione di oggi invitando i fedeli presenti e, per loro tramite, l’intera comunità ecclesiale a rinnovare con sempre maggiore forza la preghiera al Signore affinché abbia termine il conflitto che ormai da troppo tempo insanguina il Libano.

Ai gruppi più numerosi e significativi

Desidero esprimere un saluto particolare ai numerosi fedeli convenuti in pellegrinaggio dalle diocesi di Belluno e Feltre, Adria, Ferrara, e Comacchio, Alba, Como, Trento. Con loro saluto anche il gruppo di pellegrini delle due parrocchie di Porto Santo Stefano.

Carissimi, la vostra presenza è per me motivo di grande soddisfazione perché, pur provenienti da diverse parti d’Italia, siete uniti da un medesimo scopo: la celebrazione del Giubileo della Redenzione. Vi sono riconoscente per la viva e sincera espressione di fede, che voi oggi mi date. Infatti, l’aver voluto vedere il Papa in occasione del Giubileo dice con quale spirito voi intendete partecipare a questo straordinario avvenimento ecclesiale, che vi impegna allo sforzo di una sempre necessaria conversione interiore, di riconciliazione con Dio e con i fratelli, di fervore nella preghiera, di crescita nella carità e di perseveranza nella sequela del Redentore divino.


Mentre mi rallegro con voi tutti, e in particolare con i vostri zelanti Vescovi, che vi hanno qui accompagnati, e con i bravi sacerdoti che dirigono le vostre comunità cristiane, vi assicuro la mia preghiera al Signore, affinché la corroborante esperienza da voi vissuta in questi giorni a Roma sia feconda di frutti duraturi per le vostre anime. Avvaloro questi voti con la mia Benedizione.

Ai giovani, agli ammalati e alle coppie di sposi novelli

Desidero rivolgere, ora, una parola di saluto e di augurio a tutti voi, giovani, che siete convenuti qui, come sempre, in gran numero. E’ bello questo desiderio di ascoltare la voce del Papa! E il Papa vi dice di restare sempre attaccati al Vangelo, di conformare ad esso le vostre scelte, di non aver timore a confessare apertamente la fede cristiana, soprattutto nell’ambito della scuola e del lavoro. Vi sia di sostegno la mia Benedizione.
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Rivolgendomi a voi, carissimi malati, voglio esprimervi viva riconoscenza per il dono che ogni giorno voi fate alla Chiesa. Accettando con amore la sofferenza, voi collaborate in maniera preziosissima all’opera salvifica del Redentore, e ottenete a tutta la comunità dei credenti grazie e aiuti spirituali. Vi auguro coraggio e perseveranza, mentre vi accompagno con la mia Benedizione.
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Voglio formulare, infine, fervidi auguri a tutti gli sposi novelli qui presenti. Condivido la vostra gioia per aver coronato un così bel sogno e aver iniziato con entusiasmo la nuova vita in comune. Invoco su ognuno di voi la continua protezione del Signore: vi rende felici, dia prosperità alla vostra nascente famiglia, vi faccia crescere nell’amore a Dio e tra di voi. Sentite pienamente la responsabilità di cooperare all’edificazione di un mondo più giusto!

A tutti la mia Benedizione apostolica.

Ai pellegrini di lingua francese

Ai fedeli di espressione inglese


Ai fedeli provenienti da Hiroshima

Sia lodato Gesù Cristo!

Dilettissimi pellegrini della Diocesi di Hiroshima, vivete secondo lo spirito dell’Anno Santo e “No More Hiroshima”. Portate tanti cari saluti ai vostri concittadini di Hiroshima!

Sia lodato Gesù Cristo!

Ai numerosissimi fedeli di lingua tedesca

Ai fedeli di lingua spagnola

Ai pellegrini di espressione portoghese

Ai polacchi



Mercoledì, 16 novembre 1983

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1. Gli disse Nicodemo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (
Jn 3,4).

La domanda di Nicodemo a Gesù esprime bene la meraviglia inquieta dell’uomo di fronte al mistero di Dio, un mistero che egli scopre nell’incontro con Cristo. Tutto il dialogo tra Gesù e Nicodemo rivela la straordinaria ricchezza di significato di ogni incontro, anche di quello dell’uomo con l’altro uomo. L’incontro infatti è il fenomeno sorprendente e reale con cui l’uomo esce dalla sua solitudine originaria per affrontare l’esistenza. È la condizione normale attraverso la quale egli è condotto a cogliere il valore della realtà, delle persone e delle cose che la costituiscono, in una parola, della storia. In questo senso è paragonabile ad una nuova nascita.

Nel Vangelo di Giovanni l’incontro di Cristo con Nicodemo ha come contenuto la nascita alla vita definitiva, quella del Regno di Dio. Ma nella vita di ogni uomo non sono forse gli incontri a tessere la trama imprevista e concreta dell’esistenza? Non sono essi alla base della nascita di quella autocoscienza capace di azione, che sola consente un vivere degno del nome di uomo?


Nell’incontro con l’altro, l’uomo scopre di essere persona e di dover riconoscere pari dignità agli altri uomini. Attraverso incontri significativi egli impara a conoscere il valore delle dimensioni costitutive dell’esistere umano, prime fra tutte quelle della religione, della famiglia e del popolo cui appartiene.

2. Il valore dell’essere con le sue connotazioni universali - il vero, il bene, il bello - si presenta all’uomo sensibilmente incarnato negli incontri decisivi della sua esistenza.

Nell’affezione coniugale l’incontro fra l’amante e l’amato, che trova compimento nel matrimonio, incomincia dall’esperienza sensibile del bello incarnato nella “forma” dell’altro. Ma l’essere, attraverso l’attrattiva del bello, chiede di esprimersi nella pienezza del bene autentico. Che l’altro sia, che il suo bene si realizzi, che il destino tracciato su di lui dal Dio provvidente si compia, è il desiderio vivo e disinteressato di ogni persona che ama veramente. La volontà di bene duraturo, capace di generare e di rigenerarsi nei figli, non sarebbe, per altro, possibile, se non poggiasse sul vero. Non si può dare all’attrattiva del bello la consistenza di un bene definitivo senza la ricerca della verità di sé e la volontà di perseverare in essa.

E proseguendo: come potrebbe aversi un uomo pienamente realizzato, senza l’incontro, che avviene nell’intimo di sé, con la propria terra, con gli uomini che ne hanno costruito la storia mediante la preghiera, la testimonianza, il sangue, l’ingegno, la poesia? A loro volta il fascino per la bellezza della terra natale e il desiderio di verità e di bene per il popolo che continuamente la “rigenera”, accrescono il desiderio della pace, che sola rende attuabile l’unità del genere umano. Il cristiano è educato a comprendere l’urgenza del ministero della pace dal suo incontro con la Chiesa, dove vive il popolo di Dio che il mio predecessore Paolo VI ebbe a definire “. . . entità etnica sui generis”.

La sua storia sfida il tempo ormai da duemila anni lasciandone inalterata, nonostante le miserie degli uomini che vi appartengono, l’originaria apertura al vero, al bene e al bello.

3. Ma l’uomo prima o poi si accorge, in termini drammatici, che di tali incontri multiformi e irripetibili egli non possiede ancora il significato ultimo, capace di renderli definitivamente buoni, veri, belli. Intuisce in essi la presenza dell’essere, ma l’essere in quanto tale gli sfugge. Il bene da cui si sente attratto, il vero che sa affermare, il bello che sa scoprire sono infatti lontani dal soddisfarlo. L’indigenza strutturale o il desiderio incolmabile si parano davanti all’uomo ancor più drammaticamente, dopo che l’altro è entrato nella sua vita. Fatto per l’infinito, l’uomo si sente prigioniero del finito!

Quale tragitto può ancora compiere, quale altra misteriosa sortita dall’intimo di sé potrà tentare colui che ha lasciato la sua originaria solitudine per andare incontro all’altro, cercandovi definitivo appagamento? L’uomo, impegnatosi con genuina serietà nella sua esperienza umana, si trova posto di fronte a un tremendo aut aut: domandare a un Altro, con la A maiuscola, che sorga all’orizzonte dell’esistenza per svelarne e renderne possibile il pieno avveramento o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la possibilità stessa dell’essere. Il grido di domanda o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!

Ma la misericordia con cui Dio ci ha amati è più forte di ogni dilemma. Non si ferma neppure di fronte alla bestemmia. Anche dall’interno dell’esperienza del peccato l’uomo può riflettere sempre e ancora sulla sua fragilità metafisica e uscirne. Può cogliere il bisogno assoluto di quell’Altro con la A maiuscola, che può colmare per sempre la sua sete! L’uomo può ritrovare la strada dell’invocazione all’Artefice della nostra salvezza, perch’egli venga! Allora l’animo si abbandona all’abbraccio misericordioso di Dio, sperimentando infine, in questo incontro risolutivo, la gioia di una speranza “che non delude” (Rm 5,5).

Ai pellegrinaggi delle varie Diocesi

Un particolare saluto al numeroso pellegrinaggio dell’Arcidiocesi di Taranto guidato dall’Arcivescovo e da vari sacerdoti diocesani. Nel porgere vive felicitazioni e fervidi auguri a Monsignor Guglielmo Motolese per la prossima ricorrenza del 50° di sacerdozio, rivolgo a voi, carissimi fratelli e sorelle, abbracciando anche i dipendenti della “Nuova Italsider di Taranto”, l’esortazione a considerare il giubileo straordinario della redenzione che avete celebrato, come impegno di autentico rinnovamento interiore.
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Una parola di saluto e di incoraggiamento è per voi partecipanti al pellegrinaggio della Diocesi di Parma, qui presenti col vostro Vescovo Monsignor Benito Cocchi! Rivolgo un saluto speciale ai Seminaristi, che sono la speranza per il futuro spirituale della Diocesi.

Carissimi pellegrini di Parma, ho condiviso nei giorni scorsi la vostra trepidazione per il sisma. Sono lieto che non vi siano state vittime e sono lieto per le iniziative di solidarietà a favore di quanti hanno avuto danni materiali.

Nell’esortarvi a vivere intensamente il vostro cristianesimo, vi invito anche a intensificare l’aiuto e la solidarietà verso il prossimo che si trova in necessità. La Vergine Santissima vi protegga.
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Anche a voi, sacerdoti e fedeli della Diocesi di Policastro, venuti col vostro Pastore, Monsignor Umberto Luciano Altomare, ho il piacere di dare un cordiale benvenuto e confermare l’auspicio che abbiate sempre dinanzi ai vostri occhi l’immagine di Cristo crocifisso salvatore.
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Con pari sentimenti estendo il mio saluto ai pellegrini della diocesi di Bolzano-Bressanone, ai quali pure auspicio copiosi frutti di bene in questo Anno Santo.

Al gruppo di Cava de’ Tirreni

Mi rivolgo, ora, al gruppo di fedeli dell’Abbazia della SS.ma Trinità di Cava dei Tirreni, Rev.mo P. Abate Don Michele Marra, agli alunni del Collegio Liceo-Ginnasio San Benedetto ed ai membri delle altre istituzioni della medesima Abbazia. Anche per voi questo è un momento di speciale impegno per tenere vivi gli ideali perseguiti dal grande Patriarca dell’Occidente, primo fra tutti quello dell’adorazione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che la grazia santificante fa presenti nelle nostre anime. Desidero poi incoraggiare, carissimi giovani, i vostri fervorosi propositi di crescita nella fede e di maturazione personale, per essere nel mondo testimoni di carità e di speranza.

Ai centri di formazione professionale

Il mio affettuoso pensiero va ora al pellegrinaggio dei vari centri di formazione professionale operanti in 14 Regioni d’Italia. Mentre esprimo sincero apprezzamento per il lavoro compiuto dalla benemerita Federazione Italiana di tali Centri, auguro che le iniziative intraprese assicurino ai vostri Centri la possibilità di svolgere felicemente la propria missione, alla luce dei valori cristiani.


A tutti imparto di cuore la mia Benedizione.

Ai malati e alle numerose coppie di sposi novelli

A voi ammalati, qui riuniti, rivolgo il mio affettuoso pensiero ed augurio di trovare la forza ed il coraggio di cercare Cristo Redentore nelle esperienze anche dolorose della vostra vita, affinché, mediante l’unione con Lui, le vostre croci diventino strumento di salvezza.
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Saluto infine voi, sposi novelli, che siete venuti a venerarle tombe dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, all’alba della vostra nuova vita matrimoniale.

Nella preghiera, fatta insieme, sappiate chiedere sempre a Cristo il dono di un amore fedele, fecondo e generoso, consapevoli che amandovi reciprocamente come Egli ama la Chiesa, voi partecipate e contribuite fattivamente all’opera della Redenzione.

Accompagni tutti la mia affettuosa Benedizione.

Ai gruppi di lingua francese

A gruppi provenienti dagli USA, dal Giappone, dalla Corea, dall’India e dal Canada


Ai gruppi di espressione tedesca

Ai visitatori di lingua spagnola

Ai connazionali polacchi

Agli studenti italiani

Con grande gioia porgo ora il mio affettuoso saluto ai gruppi giovanili italiani, costituiti da studenti di scuole di vario ordine e grado, qui presenti.

Carissimi! Siete venuti numerosi a Roma, per visitare i gloriosi e artistici monumenti riguardanti la storia antica e moderna, ma anche la fede cristiana, ed avete anche voluto partecipare alle manifestazioni dell’Anno Santo con l’incontro con il Papa e l’acquisto dell’indulgenza giubilare. Mi compiaccio vivamente per i sentimenti religiosi che hanno ispirato la vostra iniziativa e ringrazio voi alunni, insieme con i vostri Insegnanti e con i vostri Genitori, augurandovi di cuore abbondanti favori celesti di impegno nel prepararvi ai compiti che vi attendono nella vita e nell’adempiere il bene.

L’Anno Giubilare della Redenzione sia occasione propizia per vivere intensamente la vita cristiana, aprendo le porte del vostro cuore a Cristo.

In modo particolare desidero ricordarvi la grande mistica tedesca Santa Gertrude (1256-1301), di cui oggi ricorre la festa liturgica e che è stata giustamente definita “la teologa del Sacro Cuore”. Infatti, è importante conoscere la personalità e la spiritualità dei nostri Santi, per poterli imitare nella vita di grazia e di testimonianza e per poterli invocare nei momenti di smarrimento e di tentazione. Come spesso raccomandava Santa Gertrude, vi esorto ad avere anche voi sempre una totale fiduciosa confidenza in Gesù Redentore ed Amico, per poter essere studiosi e degni di stima, rendendo felici voi stessi e coloro che vi amano.

A tutti di cuore imparto la mia Benedizione.




Catechesi 79-2005 26103