Agostino: Le confessioni 115

Tutto al servizio di Dio

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15. 24. Ascolta, Signore, la mia implorazione (
Ps 60,2) : non venga meno la mia anima (Cf. Sal Ps 83,3 Ps 118,81) sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione (Cf. Sal Ps 106, 8, 15, 21, 31 (Cf. Aug., En, in Ps 106,4-10 ss.: PL 37, 1421 ss.; NBA 27, 872)), con cui mi togliesti dalle mie pessime strade (Cf. 2R 17,13 2 Cr 2Ch 7,14). Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo ; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano ; che tu mi scampi da ogni tentazione (Cf. Ps 17,30) fino alla fine (Ps 15,11 Ps 37,7 1Co 1,8). Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio (Ps 5,3 Ps 43,5) ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare. Mentre io imparavo delle vanità, tu mi davi una disciplina, e i diletti peccaminosi che in quella vanità io trovai, tu me li hai perdonati (Mt 9,5 Mc 2, 5, Mc 9 Lc 5,23). Sì, se appresi per loro mezzo molti vocaboli utili, è possibile apprenderli anche attraverso materie meno vane, e questa è la via sicura, per cui i fanciulli dovrebbero camminare.

La poesia corrotta e corruttrice

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16. 25. Ma guai a te, fiumana delle consuetudini umane ! Chi ti resisterà ? (
Ps 75,8) fino a quando non ti seccherai, fino a quando travolgerai i figli di Eva nel vasto e terribile mare, che appena riescono a traversare coloro che si sono imbarcati sul legno ? Non ho letto fra le tue onde di un Giove tonante e adultero ? due atti che non poteva davvero compiere simultaneamente, eppure glieli fecero compiere, perché ottenesse credito il modello di un adulterio vero col lenocinio di un tuono falso. Chi però fra i maestri paludati ascolta senza alterarsi un uomo che dalla sua stessa lizza proclama ad alta voce : "Queste sono invenzioni di Omero, il quale trasferiva qualità umane agli dèi. Io preferirei avesse trasferito qualità divine a noi" (Cic., Tusc, CIC 1, 26, 65) ? Più esattamente si potrebbe però dire : Omero nell’immaginare queste vicende attribuiva qualità divine a uomini viziosi, per ottenere che i vizi non fossero ritenuti vizi, e chiunque vi si abbandonasse, sembrasse imitare non già la corruzione umana, ma la celestialità divina.

16. 26. Ciò nonostante i figli degli uomini sono gettati nelle tue onde, o fiumana tartarea, e si paga perché apprendano queste nozioni ; e si tratta di cosa seria, se viene compiuta ufficialmente, sulla piazza principale della città, sotto gli occhi delle leggi, che assegnano ai maestri un salario pubblico in aggiunta alla mercede dei privati. Battendo contro le tue rocce, sembri dire col tuo fragore : "Qui dentro s’imparano le parole, di qui si attinge l’eloquenza, assolutamente necessaria per convincere e spiegare il proprio pensiero". Certo noi non conosceremmo parole quali "pioggia aurea", "grembo", "trucco", "templi celesti", e le altre che si trovano nel passo seguente di Terenzio, se il poeta non avesse portato in scena un giovinastro, che si propone per il proprio stupro l’esempio di Giove, mentre osserva sopra la parete un dipinto, ove era raffigurata questa scena : Giove che, come si narra, fa cadere una pioggia aurea in grembo a Danae, truccato per una donna (Terent., Eun, 584 s., 589). Guarda poi come, dietro il magistero celeste, diremmo, egli si ecciti al piacere :

"E qual dio ! dice : quello che i templi celesti con immenso fragor sconquassa. Ed io, un povero mortal, non lo farei ? Ma io l’ho fatto, e molto volentieri" (Terent., Eun, 590 s).

Non è affatto vero, non è affatto vero che sconcezze simili agevolino l’apprendimento delle parole ; piuttosto, grazie alle parole si eseguono più leggermente le sconcezze. Io non accuso le parole, che direi vasi eletti e preziosi (Cf. At Ac 9,15 Pr 20,15 1 Pt 1P 2,6), ma il vino del peccato, che in esse ci veniva propinato da maestri ebbri, e che dovevamo sorbire, pena le busse, senza possibilità di appellarci a un giudice sobrio. Eppure io, Dio mio, davanti a cui evoco ormai pacatamente questi ricordi, imparai volentieri quelle nozioni. Esse costituivano per me, sventurato, un diletto, e perciò venivo definito un fanciullo di belle speranze.

Impiego vano di un’intelligenza eccellente

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17. 27. Permettimi, Dio mio, di spendere qualche parola anche sul mio intelletto, tuo dono ; di dire in quali vaneggiamenti si logorava. Mi veniva assegnato il compito, piuttosto inquietante al mio spirito per l’allettamento degli elogi e il timore delle mortificazioni e delle busse, di riferire le parole di Giunone adirata e crucciata perché non può stornare dall’Italia il re dei teucri (Verg., Aen, 1, 38), parole che da Giunone non avevo mai sentito pronunciare. Eppure eravamo costretti a perderci sulle orme di queste invenzioni poetiche, riferendo in prosa quanto il poeta aveva riferito in versi ; e i maggiori elogi nella dizione toccavano a chi esprimeva sentimenti d’ira e cruccio più adeguati al rango del personaggio rappresentato, e rivestiva i concetti di parole più convenienti. Quale vantaggio mi recavano, o vera vita (Cf. Gv
Jn 11,25 Jn 14,6), Dio mio, gli applausi tributati alla mia recitazione più che a quella dei miei molti coetanei e condiscepoli ? Non era, ecco, tutto fumo e vento ? non esisteva nessun’altra materia, ove esercitare il mio intelletto e la mia lingua ? Le tue lodi, Signore, le tue lodi disseminate nelle tue Scritture avrebbero ben potuto reggere il tralcio del mio cuore. Così non sarebbe stato travolto nei vuoti delle frivolezze, né sconciato da uccelli rapaci. In molti modi si sacrifica agli angeli ribelli.

Vanità degli uomini


18. 28. Ma che c’è di strano, se mi lasciavo attrarre fra le vanità e mi sviavo lontano da te, Dio mio, quando mi venivano proposti a modello certi uomini, i quali, rimproverati di essere caduti, nell’esporre alcune loro azioni non malvagie, in un barbarismo o solecismo, si turbavano ; mentre, lodati per aver narrato le proprie sregolatezze con facondia ed eleganza (Cic., Tusc, CIC 1, 4, 7), facendo uso di vocaboli puri e armonizzandoli a dovere, se ne gloriavano ? Tu vedi queste cose, Signore, e longanime, misericordiosissimo, veritiero (Ps 102,8 Ps 85,15), taci : ma sempre tacerai ? (Cf. Is Is 42,14) ed ora trai da questo baratro spaventoso l’anima che ti cerca, assetata delle tue gioie (Cf. Sal Ps 85,13 Ps 62,2 Ps 41,3 Ps 15,11), il cuore che ti dice : "Ho cercato il tuo volto ; il tuo volto, Signore, ricercherò" (Ps 26,8), perché lontani dal tuo volto si è nelle tenebre della passione. Da te ci allontaniamo e a te torniamo senza muovere i piedi, senza attraversare spazio di luoghi ; oppure bisogna intendere che il tuo figlio secondogenito, di cui parla la parabola (Cf. Lc Lc 15,11-32), dovette procacciarsi davvero un cavallo, un carro, una nave, o s’involò con ali visibili, o percorse la strada col moto delle gambe per dissipare da prodigo, vivendo in un paese lontano, ciò che alla partenza gli avevi dato, padre amabile per i tuoi doni, più amabile al suo desolato ritorno. No, gli bastò vivere nella sregolatezza della passione, perché questo è davvero un vivere tenebroso, ed è vivere lontano dal tuo volto.

18. 29. Guarda, Signore Dio, e pazientemente, come guardi, guarda il rigore con cui da un lato i figli degli uomini osservano le leggi delle lettere e delle sillabe, ricevute da chi prima di loro usò le parole ; e la noncuranza che dall’altro dimostrano verso le leggi eterne della salvezza perpetua, ricevute da te. Così se uno di coloro che conoscono e insegnano le antiche convenzioni dei suoni, pronuncia homo senza aspirare la prima sillaba a dispetto delle regole grammaticali, gli uomini ne sono urtati più che se, uomo, odia un altro uomo a dispetto dei tuoi precetti : quasi che il peggiore dei nemici potesse danneggiarlo più dell’odio stesso che lo eccita contro di lui, o si potesse rovinare un estraneo perseguitandolo, più di quanto si rovini il proprio cuore inasprendolo. Certo la scienza delle lettere non è impressa più addentro in noi di ciò che sta scritto nella nostra coscienza (Cf. Rm Rm 2,15), cioè che agli altri facciamo quanto non vorremmo subire (Cf. Tb Tb 4,16 Mt 7,12 Lc 6,31). Come sei nascosto tu, che abiti tacito nei cieli più alti (Cf. Is Is 33,5), Dio solo grande, che con legge instancabile spargi tenebre punitrici sulle passioni illecite, mentre un uomo in cerca di gloria nell’eloquenza, innanzi a un altro uomo in veste di giudice e in mezzo a una moltitudine di uomini che lo attorniano, si accanisce con odio bestiale contro un suo nemico ed evita con la massima circospezione di cadere in un fallo di pronuncia, dicendo "inter omines", ma non evita di sottrarre al consorzio umano un uomo per i furori della propria mente !

I peccati del fanciullo

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19. 30. Sulla soglia di una simile scuola di moralità io, povero fanciullo, ero disteso ; e in una tale arena si svolgeva il mio addestramento, ov’ero più timoroso di cadere in un’improprietà di linguaggio, che attento a evitare, nel cadervi, l’invidia verso chi non vi cadeva. Dico questo, Dio mio, e ti confesso di che mi lodavano le persone, il cui compiacimento costituiva allora per me l’onore della vita. Non scorgevo la voragine d’ignominia in cui mi ero proiettato lontano dai tuoi occhi (
Ps 30,23). Al loro sguardo nulla ormai doveva essere più deforme di me, se giunsi a dispiacere persino a quella gente con le innumerevoli menzogne usate per ingannare il pedagogo e i maestri e i genitori, tanto era grande il mio amore per il gioco, la mia passione per gli spettacoli frivoli e la smania d’imitare gli attori. Commisi persino qualche furto dalla dispensa e dalla tavola dei miei genitori, ora spinto dalla gola, ora per procurarmi qualcosa da distribuire agli altri fanciulli, che vendevano i loro giochi, sebbene vi trovassero un diletto pari al mio. Nel gioco stesso, dominato dal vano desiderio di eccellere, spesso carpivo arbitrariamente la vittoria con la frode. Eppure nulla ero così restio a sopportare, e nulla redarguivo così aspramente negli altri, se li sorprendevo, come ciò che facevo loro ; mentre, se ero io ad essere sorpreso e redarguito, preferivo infierire, piuttosto di cedere. E questa sarebbe l’innocenza dei fanciulli ? No, Signore, non lo è, dimmelo tu, Dio mio. È sempre la stessa cosa, che dai pedagoghi e dai maestri, dalle noci e dalle pallottoline e dai passeri si trasferisce ai governatori e ai re, all’oro, ai poderi, agli schiavi, assolutamente la stessa cosa, pur nel succedersi di età più gravi, come succedono alle verghe più gravi supplizi. Perciò tu, re nostro, nella statura dei fanciulli hai approvato soltanto il simbolo dell’umiltà, quando hai detto : "Di chi assomiglia a costoro è il regno dei cieli" (Mt 19,14).

Ringraziamento a Dio per tutti i suoi doni

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20. 31. Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell’universo, a te Dio nostro, grazie (2 Cor
2Co 2,14 2Co 8,16 Ap 7,10), anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere immagine della misteriosissima unità da cui provenivo ; vigilavo con l’istinto interiore sull’integrità dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità ; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, m’intenerivo all’amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l’ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole ? E tutti sono doni del mio Dio, non io li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore (Cf. Ps 2,11) per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, precipitando così nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere.

Libro secondo




IL SEDICESIMO ANNO

L’adolescenza inquieta


Scopo di un ricordo disgustoso

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1. 1. Voglio ricordare il mio sudicio passato e le devastazioni della carne nella mia anima non perché le ami, ma per amare te, Dio mio. Per amore del tuo amore m’induco a tanto, a ripercorrere le vie dei miei gravi delitti. Vorrei sentire nell’amarezza del mio ripensamento la tua dolcezza, o dolcezza non fallace, dolcezza felice e sicura, che mi ricomponi dopo il dissipamento ove mi lacerai a brano a brano. Separandomi da te, dall’unità, svanii nel molteplice quando, durante l’adolescenza, fui riarso dalla brama di saziarmi delle cose più basse e non ebbi ritegno a imbestialirmi in diversi e tenebrosi amori. La mia bella forma si deturpò e divenni putrido marciume (Cf. Dn
Da 10,8) ai tuoi occhi, mentre piacevo a me stesso e desideravo piacere agli occhi degli uomini (Cf. Sal Ps 78,10).

Fermenti oscuri

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2. 2. Che altro mi dilettava allora, se non amare e sentirmi amato ? Ma non mi tenevo nei limiti della devozione di anima ad anima, fino al confine luminoso dell’amicizia. Esalavo invece dalla paludosa concupiscenza della carne e dalle polle della pubertà un vapore, che obnubilava e offuscava il mio cuore. Non si distingueva più l’azzurro dell’affetto dalla foschia della libidine. L’uno e l’altra ribollivano confusamente nel mio intimo e la fragile età era trascinata fra i dirupi delle passioni, sprofondata nel gorgo dei vizi. La tua collera si era aggravata su di me senza che me ne avvedessi. Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni ; e tu tacevi (Cf. Is
Is 42,14). O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza.

2. 3. Chi avrebbe potuto temperare il mio affanno, volgere in un bene per me le fugaci bellezze delle creature più basse, proporre una meta ai piaceri che ne traevo, in modo che i flutti della mia età non montassero oltre il lido del matrimonio, contenendosi, se non potevano placarsi, entro i termini della procreazione di una prole secondo il precetto della tua legge (Cf. Gn Gn 1,28 1Co 7,2) ? Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso (Cf. Gn Gn 3,18), per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te. Oh, almeno fossi stato più desto ad ascoltare i tuoni delle tue nubi : In questo stato soffriranno tuttavia le tribolazioni della carne che io vorrei invece risparmiarvi (1Co 7,28) ; e : È bene per l’uomo non toccare donna (1Co 7,1) ; e : Chi non ha moglie, pensa alle cose di Dio, come piacere a Dio ; chi invece è vincolato dal matrimonio, pensa alle cose del mondo, come piacere alla moglie (1Co 7,32 s). Più desto ad ascoltare queste voci e mutilato per amore del regno dei cieli (Mt 19,12), avrei atteso più lietamente i tuoi amplessi.

2. 4. Invece mi scatenai, sventurato, abbandonandomi all’impeto della mia corrente e staccandomi da te ; superai tutti i limiti della tua legge senza sfuggire, naturalmente, alle tue verghe : e quale mortale vi riuscirebbe ? Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l’avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore (Ps 93,20) e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (Cf. Dt Dt 32,39 Os 6,2). Dove ero, in quale esilio remoto dalle dolcezze della tua casa (Cf. Mic Mi 2,9 Lc 15, 13, Lc 17) trascorsi quel sedicesimo anno di età della mia carne, quando prese il dominio su di me, ed io mi arresi a lei totalmente, la follia della libidine, ammessa dall’onorabilità pervertita degli uomini, ma non dalle tue leggi ? I miei genitori non si curarono di contenere quella frana col matrimonio ; si curarono unicamente che imparassi a comporre i migliori sermoni e a convincere con belle parole.

Interruzione degli studi

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3. 5. Quell’anno però i miei studi erano stati interrotti. Richiamato da Madaura, una città vicina, ove in precedenza mi ero trasferito per studiare letteratura ed eloquenza, ora si andavano raccogliendo i fondi necessari al mio trasferimento in una sede più remota, Cartagine, secondo le ambizioni, piuttosto che le possibilità di mio padre, cittadino alquanto modesto del municipio di Tagaste. Ma a chi narro questi fatti ? Non certo a te, Dio mio. Rivolgendomi a te, li narro ai miei simili, al genere umano, per quella piccolissima particella che può imbattersi in questo mio scritto. E a quale scopo ? All’unico scopo che io ed ogni lettore valutiamo la profondità dell’abisso da cui dobbiamo lanciare il nostro grido verso di te (Cf. Sal
Ps 129,1). Eppure cos’è più vicino alle tue orecchie di un cuore che si confessa e di una vita sostanziata di fede (Cf. Ab Ab 2,4 Rm 1,17 Ga 3,11 He 10,38) ? Chi non faceva allora alti elogi di un uomo, mio padre, il quale per mantenere agli studi suo figlio in una città lontana spendeva più di quanto permettesse il patrimonio familiare ? Molti cittadini assai più ricchi di lui non affrontavano per i loro figli un sacrificio simile. Eppure quello stesso padre non si preoccupava di conoscere intanto come crescessi ai tuoi occhi o quanto fossi casto, purché fossi forbito nel parlare, o piuttosto, sfornito della tua scienza, o Dio, unico vero e buon padrone del tuo campo (Cf. Mt Mt 13,24-30), il mio cuore.

Nell’ozio


3. 6. Quando però nel corso di quel sedicesimo anno tornai presso i miei genitori e dalle strettezze della mia famiglia fui ridotto all’ozio, senza alcun impegno scolastico, i rovi delle passioni crebbero oltre il mio capo senza che fosse là una mano a sradicarli. Anzi quel mio padre, al vedermi un giorno ai bagni ormai cresciuto e già ricoperto dai segni dell’adolescenza inquieta, fu come colto da una gioia smaniosa per i nipoti che gliene potevano nascere e lo riferì festante a mia madre, festante, dico, dell’ebbrezza in cui il mondo ha affogato il ricordo di te, suo creatore, per amare in tua vece la tua creatura (Cf. Rm Rm 1,25), ebbrezza del vino occulto della sua volontà perversamente inclinata alle bassezze. Ma nel cuore di mia madre avevi già posto mano all’erezione del tuo tempio e alle fondamenta della tua santa casa (Cf. 1Co 3,16 s.; 1Co 6,19 2Co 6,16 Si 24,14), mentre il padre era ancora catecumeno, e da poco per di più. Essa quindi trasalì in un’apprensione e trepidazione (Cf. 2Co 7,15) pia, paventando per me, sebbene non ancora battezzato, le vie storte in cui cammina chi volge a te la schiena e non il volto (Jr 2,27).

Ammonimenti e sollecitudini della madre


3. 7. Ahimè, come oso dire che tu, Dio mio, tacesti mentre mi allontanavo da te ? Tacevi davvero per me in quei momenti ? Di chi erano dunque, se non tue, le parole che facesti risuonare alle mie orecchie per la bocca di mia madre, tua fedele ? Ma nessuna scese di là nel mio cuore per tradursi in pratica. Essa mi chiedeva - come ricordo dentro di me l’incalzante sollecitudine dei suoi ammonimenti ! - di astenermi dagli amorazzi e specialmente dall’adulterio con qualsiasi donna. Io li prendevo per ammonimenti di donnicciuola, cui mi sarei vergognato di ubbidire. Invece venivano da te : io ignaro pensavo che tu tacessi e lei parlasse, mentre tu non tacevi per me (Cf. Is Is 42,14) con la sua voce, sebbene in lei io disprezzassi te, io, io, figlio suo, figlio dell’ancella tua (Ps 115,16) e servo tuo. Nella mia ignoranza procedevo a capofitto verso l’abisso, tanto cieco da vergognarmi fra i miei coetanei di non essere spudorato quanto loro. Al sentirli esaltare le loro dissolutezze e tanto più gloriarsene quanto più erano indegne, cercavo di fare altrettanto, non solo per il piacere dell’atto in sé, ma altresì della lode che ne ottenevo. Che altro merita biasimo, se non il vizio ? E io per evitare il biasimo m’immergevo nel vizio. Quando mancavo di colpe che mi uguagliassero ai malvagi, inventavo fatti che non avevo fatto per timore di apparire tanto più vile quanto più ero innocente e di essere giudicato tanto più spregevole quanto più ero casto.

3. 8. In tale compagnia percorrevo la mia strada fra le piazze di Babilonia, avvoltolandomi nel suo fango come fosse cinnamomo e unguenti preziosi (Cf. Ct Ct 4,14). E per impantanarmi più tenacemente nel suo mezzo, il nemico invisibile mi calcava (Cf. Sal Ps 55,3), seducendomi poiché mi lasciavo facilmente sedurre. La donna che era già fuggita dal centro di Babilonia (Jr 51,6), ma ancora si attardava negli altri quartieri, la madre della mia carne, mi raccomandò, sì, il pudore, ma non si curò di rinserrare nei limiti dell’affetto coniugale, se non si poteva reciderla fino al vivo (Cf. A, Otto, Sprichwörter und Redensarten der Griechen und Römer, s.v, vivus 4, PP 377 s), la mia virilità, di cui suo marito le aveva parlato, e che, lo sentiva, già allora funesta, sarebbe divenuta pericolosa in avvenire. Non se ne curò per timore che le pastoie coniugali inceppassero le mie prospettive, non la prospettiva della vita futura, che mia madre fondava in te, ma le prospettive degli studi, ove entrambi i miei genitori ambivano troppo che io progredissi, l’uno perché di te non pensava quasi nulla e di me pensava delle vacuità, l’altra perché riteneva che la formazione culturale allora in voga non solo sarebbe nessun detrimento, ma anzi alcun giovamento a portarmi fino a te. A queste conclusioni, almeno, giungo oggi rievocando come posso l’indole dei miei genitori. Essi allentavano anche le briglie ai miei divertimenti oltre il tenore di una severità ragionevole, dando sfogo alle mie varie passioni ; e così tutt’intorno a me si stendeva una grande foschia, che mi toglieva, Dio mio, la visione del sereno della tua verità. E come da adipe rampollava la mia iniquità (Ps 72,7).

Un furto di pere


L’impresa

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4. 9. La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nei cuori degli uomini (
Rm 2,14 s.; Cf. Es Ex 20,15 Lv 15,11 Dt 5,19), che nemmeno la loro malvagità può cancellare. Quale ladro tollera di essere derubato da un ladro ? Neppure se ricco, e l’altro costretto alla miseria. Ciò nonostante io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non forse dalla penuria e disgusto della giustizia e dalla sovrabbondanza dell’iniquità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità ; né mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in se stessi. Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d’aspetto e sapore per nulla allettanti. In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell’ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell’abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù, tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità. Era laida e l’amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l’oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in se stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi (Jdt 4,10 Si 39,36) non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà.

Natura e moventi del peccato

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5. 10. Le belle forme nei corpi e l’oro e l’argento e ogni cosa simile attraggono gli occhi col loro aspetto ; nel senso del tatto importa moltissimo la consonanza della carne e del suo oggetto, come gli altri sensi ricevono dagli oggetti una loro specifica e conveniente modificazione. Anche l’onore mondano, il potere, il dominio posseggono una loro dignità, origine fra l’altro nell’uomo del desiderio di vendetta. Tuttavia per ottenere tutti questi beni non occorre allontanarsi da te, Signore, né deviare dalla tua legge. La vita stessa che viviamo qui sulla terra possiede un suo fascino, che le deriva da una certa misura di grazia sua propria e dall’armonia con tutte le altre minime bellezze dell’universo. E l’amicizia fra gli uomini non è forse deliziosa per l’amabile nodo con cui unifica molte anime ? Tutte queste cose e le altre ad esse simili sono fonte di peccato soltanto nel caso che ad esse tendiamo smoderatamente e per esse, che sono beni infimi, trascuriamo gli altri migliori e sommi : te, Signore Dio nostro, e la tua verità e la tua legge (Cf. Sal
Ps 118,142). Perché, sì, anche questi infimi beni dilettano, ma non quanto il mio Dio, autore di ogni cosa, in cui appunto gode l’uomo giusto e che appunto è la delizia dei cuori retti (Cf. Sal Ps 63,11).

5. 11. Perciò nella ricerca del movente di un delitto non si è paghi di solito, se non quando si scopre la brama di ottenere l’uno o l’altro dei beni che abbiamo definito minimi, oppure il timore di perderlo, perché essi, sebbene abietti e vili a paragone dei beni superiori e beatificanti, posseggono una loro bellezza e grazia. Qualcuno ha ucciso : perché l’ha fatto ? Vagheggiava la moglie o il podere del morto, oppure cercò di predare per vivere, oppure temeva di perdere uno di questi beni per mano del morto, oppure era arso dal desiderio di vendicare un affronto subito. Avrebbe mai perpetrato un omicidio senza ragione, per il solo piacere di uccidere un uomo ? Chi lo crederebbe ? Persino alle follie e alle crudeltà estreme di un uomo, del quale fu detto che sfogava abitualmente per nulla la propria malvagità e crudeltà, fu premessa una ragione : "perché nell’inattività - dice il suo storico - non s’intorpidisse la mano o lo spirito" (Sall., Cat, 16, 3). Domandati anche questo : a che scopo ? perché questo ? Evidentemente per ottenere mediante la pratica dei delitti e una volta padrone della città onori, potere, ricchezze ; per liberarsi dal timore delle leggi e dalle angustie che gli derivavano dall’esiguità del patrimonio e dal rimorso dei delitti (Cf. Sall., Cat, 5, 5). Dunque neppure Catilina amò i propri delitti, ma altro : lo scopo, cioè, per cui li commetteva.

I peccati, simulazione della potenza di Dio

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6. 12. Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni ? Non eri bello, se eri un furto ; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola ? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio (Cf. 2 Mac
2M 1,24) buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando : cosa mi attrasse in quel furto ? Non vi trovo davvero bellezza alcuna, non dico la bellezza insita nella giustizia e nella saggezza, o nell’intelletto umano, nella memoria, nella sensibilità, nella vita vegetativa, o la bellezza e la grazia propria nel loro ordine agli astri e alla terra e al mare, popolati di creature che si succedono nella nascita e nella morte, e nemmeno quella difettosa e irreale con cui ci seducono i vizi.

6. 13. Infatti l’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso (Jb 36,22 Ps 77,35) al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira, se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna ? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore ; ma chi è davvero temibile, se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando o dove o come o da chi ? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu ; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro ? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore ? Il lusso vuol essere chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi ; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te ? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua ? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore ; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino ? o qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore ? e dove si è saldamente sicuri, se non al tuo fianco ? L’uggia si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse cogliere.

6. 14. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova, se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te. Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell’universo e quindi non è possibile allontanarsi in alcun modo da te. Cosa amai dunque in quel furto e in che cosa imitai, sia pure in male e alla rovescia, il mio Signore ? Mi compiacqui di violare la sua legge con la malizia, non potendolo fare con la potenza ? Il prigioniero voleva imitare una libertà monca, compiendo a man salva un’azione illecita con una simulazione oscura di onnipotenza ? Eccolo questo servo fuggitivo dal suo padrone, che ha raggiunto un’ombra (Cf. Jb 7,2). Oh marciume, oh mostruosità di vita, oh abisso di morte ! Poté mai piacermi l’illecito per l’illecito, e null’altro ?

Perdono e pietà per il peccatore

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7. 15. Come rimunerare il Signore (
Ps 115,12) del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata ? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome (Cf. Sal Ps 53,8), poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati (Cf. Sir Si 3,17) ; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso ? Eppure tutti questi peccati : e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso. Quale uomo conscio della propria debolezza osa attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell’innocenza che serba, e quindi ti ama meno, quasi che meno abbia avuto bisogno della misericordia con cui condoni i peccati a chi si rivolse a te (Cf. Sal Ps 50,15) ? Chi dunque alla tua chiamata seguì la tua voce ed evitò le colpe che qui mi vede ricordare e confessare, non mi schernisca se, malato, fui guarito dal medico che lo preservò dai malanni, o meglio, da più gravi malanni. Perciò dovrà amarti altrettanto, anzi più davvero di me, poiché vede come da tanta prostrazione di peccati io mi libero ad opera di Colui che, come vede, in tanta prostrazione di peccati non lo lasciò avviluppare.


Agostino: Le confessioni 115