Paolo VI Catechesi 20664

Martedì, 2 giugno 1964

20664
Diletti Figli e Figlie!

Noi pensiamo, Noi auguriamo che questo incontro col Papa e con tanti Pellegrini e Visitatori provenienti da diverse nazioni, proprio qui sulla tomba dell’Apostolo Pietro, sul quale il Signore ha voluto fondare il misterioso edificio della sua Chiesa, qui, in questa Basilica trasformata in aula del Concilio ecumenico, Noi pensiamo ed auguriamo che faccia sorgere nei vostri animi una domanda, non nuova, ma ora resa più urgente e più bisognosa d’una risposta adeguata: che cosa è la Chiesa?

E mentre tutti crediamo d’aver pronta la risposta, che il catechismo c’insegna e che la nostra esperienza ci presenta, tutti sentiamo ch’essa non è facile; e quando tentiamo di formularla con le nostre parole, avvertiamo che la risposta è incompleta. Perché definire la Chiesa è difficile! Ed è bene che noi avvertiamo questa difficoltà, perché allora cominciamo a comprendere che la Chiesa è una realtà immensa e complessa, che noi non riusciamo a circoscrivere nei termini d’una affrettata definizione. Sulla Chiesa resta sempre qualche cosa da dire.

Il Vangelo della scorsa domenica ci faceva capire come il regno di Dio, che nella parabola degli invitati al convito adombra la Chiesa, si inizia mediante una chiamata, una convocazione. E si sa che la parola «Chiesa», significa appunto «convocazione». La Chiesa è la riunione dei chiamati di Dio. È il popolo che Dio ha riunito, è l’assemblea dei chiamati.

Sarà bene tener presente questo concetto radicale della Chiesa, perché ci rivela molte cose. Ci rivela, innanzi tutto, che la Chiesa non si forma da sé, ma nasce da un’iniziativa divina; sorge da un pensiero di Dio che vuol riunire gli uomini in una società religiosa, in cui si manifesta la sua misericordia in modo del tutto particolare. Ci rivela poi che tale chiamata esige dei ministri, portatori della chiamata e promotori della convocazione. Dice il Vangelo, a cui ci riferiamo, che l’ospite invitante mandò il suo servo ad annunciare agli invitati l’ora del convito. Una frase di S, Ambrogio fa al caso nostro: «Congregaturus Ecclesiam Dei Filius ante operatur in servul»; «prima di convocare la Chiesa, il Figlio di Dio agisce nel suo servitore» (in
Lc 2,67). La Chiesa nasce dagli Apostoli, nasce dalla Gerarchia. Vi è nella Chiesa chi è incaricato di chiamare e chi è chiamato; vi è una Chiesa che chiama, che convoca, - la Chiesa docente -, e vi è una Chiesa che è riunita, la «congregatio fidelium» (S. Th.); insieme formano la comunità dei cristiani (cfr. Bellarm., De Eccl. mil., 1). E ci rivela anche come l’appartenenza alla Chiesa si fonda sulla libera accettazione da parte dei fedeli; la Chiesa è una società volontaria; ma risultante dalla scelta responsabile, somma e decisiva, dell’uomo che ha compreso quale obbligazione morale e quale sorte fortunata nascevano dalla amorosa vocazione divina alla felicità del regno dei cieli. Libertà e dovere sono alla base umana della Chiesa, come gratuità e amore sono alla base divina.

Queste semplici considerazioni devono prendere pieno significato in questo momento, per sollecitare i vostri animi alla comprensione della Chiesa come una vocazione, come il primo e immenso beneficio che gli uomini ricevono da Dio. Dice S. Paolo: «Quelli che il Signore ha predestinati, questi ha anche chiamati, e poi li ha giustificati; e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati» (Rm 8,30).

Appartenere alla Chiesa è cosa misteriosa, è cosa grande, è cosa felice, è cosa decisiva. Dobbiamo ringraziare il Signore che ci ha chiamati a questa dignità, a questa fortuna. Dobbiamo ascoltare in noi stessi l’eco profonda, grave e dolce, della chiamata delle nostre anime alla fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Dobbiamo confermare qui, sulla tomba dell’Apostolo Pietro, da Cristo chiamato al grande ufficio di chiamare gli uomini a comporre la sua Chiesa, la nostra riconoscente e ferma risposta di volerne sempre ascoltare la voce.

A tanto vi esorti e vi conforti la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 10 giugno 1964

10664
Diletti Figli e Figlie!

Pensate un momento: siete riuniti sulla tomba di S. Pietro, l’Apostolo scelto da Gesù Cristo per essere il fondamento, il centro, il Pastore di tutta la Chiesa, colui al quale il Signore ha dato le chiavi, ha cioè conferito i sommi poteri per istruire, per santificare, per dirigere tutto il popolo cristiano.

Ora è spontaneo, è pio il pensiero che sorge, proprio in questo luogo che ci offre il ricordo vivissimo della persona e della missione dell’Apostolo, quale solo una tomba può suscitare, ci fa misurare il rapporto che intercede fra noi e lui, e ci mette nel cuore il desiderio di sentire la sua voce, di avere da lui una parola, che riassuma al tempo stesso la sua predicazione, il suo messaggio, la sua testimonianza a noi rivolta, e insieme i nostri doveri verso di lui. Come sarebbe bello se qui, egli stesso, ci facesse ascoltare quella sua voce, ci dicesse quella sua benedetta parola.

Ebbene questa comunicazione non è impossibile; anzi è possibile, è facile. Solo dovete ricordare che Egli, S. Pietro, ci ha lasciato scritto due lettere, che faremo bene a meglio conoscere, e che la Chiesa ci offre alla memoria e alla meditazione nella liturgia della Santa Messa. Domenica scorsa abbiamo letto un magnifico brano della prima lettera di S. Pietro; ed è da questo brano che Noi ora scegliamo la parola, che vi vogliamo affidare a ricordo di quest’udienza. Ascoltandola dalle Nostre labbra vi sembrerà più facile pensarla come pronunciata da lui, e arrivata a voi come l’eco che l’ultimo dei successori di S. Pietro, ultimo nel tempo e ultimo nel merito, qui fa risuonare.

La parola è questa: «fortes in fide», siate forti nella fede (
1P 5,9). L’Apostolo, al quale dobbiamo l’espressione centrale della fede oggettiva del cristianesimo con la famosa confessione di Cesarea di Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente» (Mt 16,16), considera invece in questa sua esortazione l’aspetto soggettivo della fede, la virtù cioè della spirito che aderisce alla verità divina, e vuole che tale adesione tanto sia forte da diventare essa stessa sorgente di fortezza e dl capacità di azione come dirà S. Paolo: «la fede che opera mediante la carità» (Ga 5,6).

Una fede forte, vuole da noi S. Pietro, vuole da noi la Chiesa; e pare che questa esigenza si imponga, durante questa udienza, come una chiamata profonda e solenne in fondo alle nostre anime, dove invece l’atto di fede sembra inceppato da tante incertezze e da tante difficoltà, aggravate dalla formazione moderna, che orienta sempre più l’intelligenza verso i metodi positivi, proprii delle scienze fisiche e matematiche, i quali servono benissimo per conoscere certi aspetti delle cose naturali, ma non ci dicono nulla su altre realtà, su altre verità fondamentali, che si raggiungono con altri metodi di conoscenza e di pensiero. Ora la fede è sempre un atto ragionevole, ma si compie con un processo più complesso e più personale che non sia un atto di conoscenza comune; esige sì l’impegno della nostra volontà, rivolta specialmente all’espressione religiosa per eccellenza, quella dell’omaggio amoroso al Dio che parla; e esige altresì, com’è noto, un suo misterioso intervento nella nostra interiore operazione di pensiero religioso, esige la grazia stessa di Dio, che ci abilita a credere; a credere con certezza, con gaudio, con forza. La fede è una virtù divina, meravigliosa; e se noi abbiamo la fortuna di possederla, dobbiamo esercitarla, dobbiamo respirarla, dobbiamo professarla: prima internamente, per accettarne l’umiltà, per sperimentarne la luce, per sentirne la dolcezza, per goderne l’energia, di cui ci riempie; poi per esprimerla esternamente, nella nostra parola, nel nostro canto, nella nostra condotta, nello spirito di fede che deve stilizzare tutta la nostra vita, in semplicità senza timore.

Noi pensiamo che S. Pietro rinnovi a noi, con la sua raccomandazione: siate forti nella fede, la sublime e difficile e salutare lezione del come credere, del come superare le debolezze e gli ostacoli della nostra mentalità moderna, e del come essere veramente fedeli, veramente cristiani.

Possa questo semplice ricordo, accompagnato, tra poco, dal canto del Credo e dalla Nostra Benedizione Apostolica, sigillare in voi tutti la memoria di questa udienza come un vigoroso e trionfante atto di fede.





Mercoledì, 17 giugno 1964

17664
Diletti Figli e Figlie!

Non possiamo, in questa Basilica, ed in questo mese, non ricordare all’udienza, che tutti ci riunisce sulla Tomba dell’Apostolo Pietro, essere prossima la sua festa.

Vi invitiamo perciò tutti a fare atto di venerazione alla sua memoria, al suo sepolcro, alle sue reliquie, e a professare qui, dove è celebrata la missione da Cristo a lui conferita, la fede nel messaggio evangelico da lui predicato e confermato con il suo martirio, e la fedeltà alla Chiesa, che ha Pietro per centro e fondamento.

Questo atto di adesione al Primo degli Apostoli può sollevare anche nel vostro spirito il desiderio di avere di lui un concetto più esatto e più pieno di quello che il suo semplice nome sveglia nel nostro animo. Cioè viene facilmente davanti alla mente di tutti la domanda: chi era S. Pietro? A questa facile domanda non è facile dare pronta e completa risposta. Se cercate col pensiero questa risposta, vi accorgete che essa prende due direzioni: una che si rivolge verso l’uomo Pietro, che si chiama Simone, figlio di Giona, che aveva per fratello Andrea, entrambi di Betsaida, in Galilea, di professione pescatori, di temperamento vivo ed entusiasta, ma impressionabile, eccetera; cioè la risposta cerca di tracciare il profilo biografico dell’Apostolo; e i Vangeli, con gli Atti degli Apostoli, le Lettere di S. Paolo e le due di S. Pietro, con qualche altro riflesso nei documenti storici ci offrono elementi sufficienti e interessantissimi per descrivere la figura e la ‘vita di lui; abbiamo libri bellissimi a tale riguardo. Ma questa risposta non ci basta; ne occorre un’altra, che cerca i suoi elementi nelle parole e nel pensiero di Gesù, per sapere che cosa il Signore volle realmente fare di Simone, da lui chiamato Pietro. Non più la biografia, ma la teologia di S. Pietro ci interessa alla fine; e cioè: chi era S. Pietro nel volere di Nostro Signore?

La risposta, che sembra pronta: era il discepolo, il primo, chiamato Apostolo con gli altri undici..., si complica al ricordo delle immagini, delle figure, delle metafore, di cui il Signore si servi per farci comprendere chi doveva essere e diventare questo suo eletto. Osservate. L’immagine più ovvia è quella della pietra, della roccia; il nome di Pietro la proclama. E che cosa significa questo termine applicato ad un uomo semplice e sensibile, volubile e debole, potremmo dire? La pietra è dura, è forte, è stabile, è duratura; sta alla base dell’edificio, tutto lo sostiene... e l’edificio si chiama la Chiesa: «Sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa».

Ma vi sono altre immagini riferite a Pietro, che meriterebbero spiegazioni e meditazioni; immagini usate da Gesù stesso, piene di profondo significato. Le chiavi, ad esempio; cioè i poteri; date a Pietro soltanto, fra tutti gli apostoli, a significare una pienezza di facoltà che si esercitano non solo in terra, ma perfino in cielo. E la rete, la rete di Pietro, due volte nel Vangelo lanciata per una pesca miracolosa? «Ti farò pescatore di uomini», diceva il Vangelo di S. Luca, domenica scorsa (
Lc 5,10). Anche qui: l’umile immagine della pesca assume l’immenso e maestoso significato della missione storica e universale affidata a quel semplice pescatore del lago di Genesareth! E la figura del pastore? «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore» (Jn 21,16-17), disse Gesù a S. Pietro quasi per far a noi pensare che il disegno della nostra salvezza implica un rapporto necessario fra noi e lui, il sommo Pastore.

E così via; sebbene, a meglio guardare nelle pagine della Scrittura, troveremmo altre immagini significative, come quella della moneta (Mt 17,25), per ordine di Gesù pescata da Pietro per pagare il tributo; come quella della barca di Pietro, dalla quale Gesù sale ed insegna (Lc 5,3); come quella del lenzuolo calato dal cielo nella visione di Joppe (Ac 10,3), e quella delle catene che cadono dai polsi di Pietro (Ac 12,7), e quella del gallo che canta per ricordare a Pietro la sua umana fragilità (Mc 14,72), e quella della cintura che un giorno, l’ultimo, a significare il martirio dell’Apostolo, circonderà i fianchi di Pietro (Jn 21,18); per tacere delle immagini, riferite a Pietro, insieme agli altri Apostoli: «Voi siete il sale della terra..., voi siete la luce del mondo . . .» (Mt 5,13-14).

Tutte queste immagini, caratteristiche del linguaggio biblico e di quello evangelico specialmente, nascondono significati grandi e precisi. Sotto il simbolo è una verità, è una realtà, che la nostra mente può esplorare, e può vedere immensa e divina. La devozione a S. Pietro ci fa così incontrare il pensiero di Gesù. Ed è questo l’incontro spirituale che Noi auguriamo possiate fare anche voi in questo momento, e poi sempre. S. Ambrogio scrisse le famose parole: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia, dov’è Pietro, lì è la Chiesa» (in PS 40,30 P.L. 14,1082); noi possiamo aggiungere: dove è Pietro e insieme la Chiesa, ivi è Cristo! Cosi è.

Con questo pensiero, vi salutiamo e vi benediciamo.





Mercoledì, 24 giugno 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi non possiamo dimenticare che la Chiesa celebra la festa di San Giovanni Battista, la Chiesa Romana specialmente che ha aggiunto al titolo della sua Cattedrale, dedicata al Salvatore, quello del Santo che ne fu Precursore, tanto che la Basilica principale di Roma si chiama comunemente «San Giovanni in Laterano».

Ma noi che ci troviamo nella Basilica di San Pietro non possiamo pensare a quella di San Giovanni senza domandarci se fra i due Santi, San Giovanni e San Pietro, vi sia qualche relazione particolare. E la risposta viene dal Vangelo d’un altro Giovanni, l’Evangelista, il quale ci narra, al primo capitolo, come Simone, che poi sarà chiamato Pietro, fosse, con suo fratello Andrea, uno dei discepoli di Giovanni il Battezzatore. Non riusciamo a capire come mai questi pescatori di Galilea fossero diventati seguaci dell’eremita-profeta che predicava e battezzava nella regione del Mar Morto, verso la foce del Giordano in quel triste mare. Ma il fatto è questo: che Pietro era discepolo del Precursore, e proprio per questo diventò discepolo di Gesù. La missione di Giovanni, di cui oggi ricordiamo la natività prodigiosa che lo preconizzava araldo del Messia, ebbe in Simone Pietro il suo più felice compimento. Giovanni doveva risvegliare la coscienza messianica del popolo ebreo, la cui storia era stata orientata e sostenuta dall’attesa del Messia, annunciando niente meno che finalmente il Messia era venuto, era già in mezzo al popolo, sebbene sconosciuto (
Jn 1,26). E doveva inoltre Giovanni svelare la figura vera che il Messia avrebbe assunto; la fantasia popolare attendeva un grande, un potente, un conquistatore, un fondatore d’un regno temporale, ricco e glorioso; mentre Giovanni lo annunciò e lo identificò nella figura d’una vittima innocente; un giorno, quando Gesù stesso arrivò sulle rive del Giordano, Giovanni lo riconobbe come Colui ch’era mandato da Dio, ma nelle sembianze e nella funzione d’un umile agnello, e gridò: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (Jn 1,29). Quel grido deve avere talmente impressionato Andrea, insieme ad un altro discepolo di Giovanni, che, incontrato Simone, gli disse: «Abbiamo trovato il Messia... e lo portò da Gesù. E Gesù, fissando bene in lui lo sguardo, disse: Tu sei Simone, figlio di Giona; tu ti chiamerai Cefa, che vuol dire pietra» (Jn 1,40-42).

Questa scena anticipa quella di Cesarea di Filippo, dove Gesù ripeterà questo nome nuovo, da Lui imposto al pescatore Simone, dopo che questi, folgorato da una divina rivelazione, aveva proclamato la divinità di Gesù: «Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo» (Mt 16,16).

San Giovanni aveva preparato Pietro alla grande scoperta, alla grande professione di fede. Dice bene S. Ambrogio: «Forse questo è un mistero che anche oggi si compie nella nostra vita. Precede infatti nell’anima nostra un certo influsso di Giovanni, quando ci prepariamo a credere in Cristo, così che egli predispone le vie dell’anima nostra alla fede».

Tra Giovanni e Pietro sta Gesù. Giovanni riassume tutto l’Antico Testamento e lo annoda a Gesù (Lc 1,17); Pietro annunzia il Nuovo Testamento, e lo deriva da Gesù; l’uno e l’altro ci annunciano chi Egli sia.

E la Chiesa, quella Romana per prima, dedicando le sue due maggiori basiliche a questi due Santi, dimostra quanto ella abbia compreso il quadro storico e religioso, in cui Gesù Cristo, centro della storia e della fede, si presenta al mondo; così che troveremo meravigliosamente uniti, anzi fusi e coincidenti in lei, i due termini che definiscono comunemente la religione di Gesù: il cristianesimo e il cattolicesimo. Ci dirà San Giovanni, onorato nella prima Cattedrale cattolica del mondo, come la Chiesa raccolga e possegga quanto per cristianesimo si deve intendere; ci dirà San Pietro, onorato nella più grande chiesa del mondo, come il cristianesimo indubbiamente autentico sia quello cattolico.

E a noi, che ricordiamo l’odierna festività di San Giovanni sulla Tomba di San Pietro, sarà facile e gioioso celebrare il duplice mistero di Cristo, la sua Incarnazione e la sua Redenzione, umano e divino l’uno e l’altro, con le loro voci ispiranti la nostra fede nel Signore Gesù: Tu sei il Figlio di Dio vivo, Tu sei l’Agnello di Dio che togli il peccato del mondo.

A tale professione di fede, che insieme canteremo recitando il Credo alla fine dell’udienza, si accompagnerà la Nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 1 luglio 1964

10764
Diletti Figli e Figlie!

Per grazia del Signore, s’è compiuto un anno da quando abbiamo iniziato questi incontri settimanali dell’udienza generale con folle, che Ci è parso vedere crescere di numero e di varietà di visitatori, di pellegrini, fedeli la maggior parte, viaggiatori, turisti, osservatori gli altri; a gruppi talvolta cospicui, a comitive e molti con presenze individuali, da Roma e dall’Italia specialmente, dalla Germania poi in prevalenza e dagli Stati Uniti, e da ogni Paese dell’Europa e del mondo: un incontro veramente ecumenico, universale cioè, con ogni ceto di persone: ecclesiastici, religiosi e religiose, associazioni cattoliche d’ogni specie, gruppi parrocchiali e diocesani, categorie le più diverse per professioni, per rappresentanze, per circostanze, ed anche per sentimenti, per educazione, per religione. Due correnti di assistenti alle Nostre Udienze hanno continuato a sfilare davanti a Noi: studenti e militari; e a questi dobbiamo un ringraziamento particolare per il piacere che le loro visite Ci hanno procurato; ma dobbiamo ricordare altresì forti schiere di lavoratori, e gruppi notevoli di professionisti e di artisti. Quanti, quanti! e tutti a Noi carissimi. Veramente questa Udienza è diventata parte considerevole e significativa del Nostro ministero apostolico. Ciò che in passato avveniva con minore frequenza, ora è diventato normale; con tendenza anzi ad assumere ritmi più ripetuti e proporzioni più grandi.

Benediciamo il Signore! e assicuriamo tutti che tutti sono accolti con grande compiacenza e riconoscenza, e che sempre Ci studieremo di accordare a queste Udienze tempo e cuore quanto bastino per fare tutti contenti d’aver almeno visto il Papa e d’averne ricevuto la benedizione.

Ma a questo punto sorgono alcuni problemi pratici di non facile soluzione, a cominciare da quello dello spazio per contenere la moltitudine di gente, che qua affluisce; ma a questo, con l’aiuto della Provvidenza, si troverà rimedio. E sorgono altresì problemi spirituali: che forma deve assumere un’udienza composita e occasionale come questa? quale significato, quale valore dobbiamo attribuirle? Noi penseremo come meglio rispondere a queste ovvie domande. Ma intanto diciamo subito che procureremo di conservare a questo incontro l’aspetto d’un breve dialogo, come abbiamo fatto finora. Per semplice e breve che sia, la Nostra parola, Ci pare, non deve mancare; anche perché, se Noi non Ci illudiamo, essa viene a colloquio - parlato ed esterno, da parte Nostra; interiore e silenzioso, da parte vostra - su alcuni temi ricorrenti, che l’udienza stessa sveglia negli animi di chi vi partecipa; per esempio: chi è il Papa? che cosa è la Chiesa? quali sono i rapporti d’ogni singola persona qui presente con questo centro della fede e dell’unità? e così via. Nasce una catechesi, si forma una coscienza, si accende un fervore, Noi speriamo.

Vediamo, ad esempio, per ricominciare questo Nostro dialogo: quali sono i sentimenti che sorgono da questo incontro?

I sentimenti propri di un’udienza generale! Vi diremo i Nostri; e tanto per oggi basterà.

I Nostri sentimenti? Non è facile esprimerli. Essi nascono dalla coscienza della Nostra missione, della Nostra responsabilità. Potremmo essere indifferenti per codesta venuta, per codesta presenza? No certo. Noi sentiamo dentro di Noi, come un lievito, come un tormento, echeggiare le parole dell’Apostolo Paolo: Debitor sum: Io sono debitore per tutti! (
Rm 1,14). L’universalità stessa del Nostro mandato apostolico non Ci dà pace. Ci pare di avere qualche iniziale comprensione e qualche minima, ma esaltante esperienza delle parole magnifiche di Gesù, dalle quali comprendiamo l’ampiezza oceanica del suo cuore: «Misereor super turbam! Ho compassione della folla» (Mc 8,2). Cristo ha avuto cuore per tutti! «Venite ad me omnes! Venite a me tutti . . .» (Mt 11,28). E Noi, che abbiamo la sublime e tremenda missione di rappresentarlo, non riceveremo volentieri tutti quanti vengono a Noi?

Siate perciò i benvenuti, figli e figlie carissimi! Voi Ci apportate una grande consolazione per il solo fatto che venite a trovarci! Vi siamo di ciò immensamente grati. La vostra affluenza conforta la Nostra pochezza, sostiene la Nostra speranza! La promessa, fatta ad Abramo, Ci sembra qui, in qualche forma, compiuta: «Moltiplicherò la tua discendenza come l’arena del mare» (Gn 22,17). Perciò siate sicuri: entrando qua dentro incontrate braccia distese, cuore aperto, amore per tutti. E con questo amore che vi diamo la Nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 8 luglio 1964

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La presenza di due gruppi di Assistenti Ecclesiastici Diocesani, della Gioventù maschile di Azione Cattolica Italiana l’uno, composto di circa trecento Sacerdoti, della Gioventù femminile l’altro, composto di circa duecentocinquanta Sacerdoti, Ci obbliga a rivolgere loro un particolare saluto. Un terzo gruppo di Assistenti Ecclesiastici Diocesani, quello delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, merita d’essere ricordato accanto ai primi due.

Noi vediamo con molto piacere questi cari e valorosi Sacerdoti, che insieme si riuniscono per riflettere sul loro lavoro, per comunicarsi le loro esperienze, per misurare le comuni e le particolari difficoltà, per rincorare nuove speranze, per concertare piani e propositi di attività, e per pregare insieme. Noi osserviamo e lodiamo tale metodo di operare: esso dimostra senso di responsabilità, desiderio di aggiornamento di notizie e di opinioni, fiducia nel programma e nell’organismo collettivo, bisogno di amicizia e di spirituale comunione. Codeste riunioni sacerdotali rendono uniforme il sentimento e l’opera, tracciano linee precise e parallele di ministero, imprimono all’attività formativa e organizzativa delle diocesi un risalto esemplare ed efficace e danno all’azione pastorale uno svolgimento coerente ed autorevole. In una parola: sono riunioni sagge e benefiche. Celebrati a Roma, poi, codesti convegni hanno il merito di ravvivare lo spirito religioso e il carattere ecclesiale dell’organizzazione, a cui gli Assistenti Ecclesiastici sono addetti, non che quello di rifornirli di fresche energie spirituali. Noi volentieri riconosciamo in voi, cari Sacerdoti, dei validi sostenitori della cura pastorale dei vostri Vescovi, dei promotori di energie spirituali nuove nella nostra gioventù, nel mondo del lavoro e nel nostro laicato, degli interpreti fedeli dei principii direttivi del pensiero e dell’azione dei cattolici militanti, dei formatori di coscienze cristiane e degli educatori di caratteri forti, costanti ed attivi.

Questi elogi dicono l’abbondanza dei vostri meriti, dicono la bontà dei vostri programmi, dicono la Nostra riconoscenza ed il Nostro favore; ma dicono altresì l’importanza e la responsabilità della vostra opera, e finalmente dicono l’urgenza e l’estensione dei bisogni, ai quali si rivolge il vostro ministero.

La Gioventù! Quale immenso campo bisognoso di nuova e di attivissima coltivazione! Possiamo noi guardare con occhio tranquillo e indifferente l’avanzata delle nuove generazioni giovanili, quasi fosse loro sicuramente garantita la formazione religiosa e morale della buona tradizione educativa italiana? o non vediamo noi nella mentalità dei giovani d’oggi fenomeni nuovi e strani; non vediamo nel costume, nella pedagogia, nella scuola e nella famiglia, che li circondano, indebolirsi e mutarsi fattori, che fino a ieri assicuravano, si può dire, una buona riuscita della formazione giovanile; non vediamo coefficienti ideologici e pratici esercitare oggi sull’animo della gioventù influssi incalcolabili e pericolosi? e non vediamo, nello stesso tempo, in tanti giovani d’oggi un bisogno di semplicità e di sincerità, una stupenda capacità di coerenza e di sacrificio, un desiderio di dare senso cristiano, serietà positiva, virtù vera alla loro vita? La formazione della gioventù Ci appare come problema fondamentale della cura pastorale e dell’assistenza sociale moderna. Vorremmo che le istituzioni, alle quali è affidata la missione di preparare alla società e alla Chiesa una gioventù sana, forte, convinta e cristiana, acquistassero un maggiore sviluppo numerico, ma soprattutto un’efficienza educativa pari all’immenso bisogno, se fosse possibile, degna almeno delle tradizioni delle nostre grandi associazioni giovanili, degna del vostro ardore apostolico, carissimi Sacerdoti, e degna altresì delle magnifiche risorse che sappiamo essere nei cuori dei nostri giovani, ai quali mandiamo, per mezzo vostro, un cordialissimo e beneaugurante e benedicente saluto.

Quanto diciamo della Gioventù, possiamo dire, con avvertenza delle peculiari differenze, dei nostri Lavoratori: a voi, Sacerdoti, che consacrate le vostre pastorali fatiche a studiare, ad avvicinare, a confortare, a formare, ad animare cristianamente il mondo del lavoro, il Nostro incoraggiamento e la Nostra Benedizione.

* * *

Diletti Figli e Figlie!

In questo appellativo di «Figli e Figlie» molto vi è di quanto Noi abbiamo in cuore per voi, salutando la vostra presenza a questa Udienza. L’incontro fra persone che si conoscono mette in evidenza il rapporto di parentela, di amicizia, di colleganza, di conoscenza, che intercede fra loro; lo scambio dei saluti lo dice. E il nostro incontro mette sulle Nostre labbra questi termini di Figli e Figlie, che indicano rapporti molto vicini e molto cordiali, quelli d’un padre verso i suoi figliuoli.

È lecito domandarsi se questo titolo sia autorizzato da qualche fondamento reale, o se invece sia puramente convenzionale, o retorico, o addirittura abusivo, dato che nessun altro incontro precede quello che stiamo godendo, e nessuna conoscenza, nessuna relazione sembra giustificare espressioni tanto confidenziali. Eppure Noi non sapremmo rivolgerci a voi con altra parola, né sareste soddisfatti se Noi evitassimo di chiamarvi figliuoli; perché sappiamo benissimo che il vincolo spirituale che unisce Noi a voi è quello di una vera paternità da parte Nostra, e di una vera figliolanza da parte vostra. Come mai? Ci vediamo per la prima volta, non avremo forse mai più altra occasione di vederci, e ci possiamo chiamare parenti, membri d’una stessa famiglia?

Proprio così. Ed è questa intimità d’incontro spirituale che costituisce una delle impressioni, una delle emozioni caratteristiche dell’udienza del Papa. L’udienza ci procura l’esperienza d’una comunione, d’una fusione di anime e di destini, ch’è fra le più belle e più legittime in seno a quella grande famiglia, in seno a quella grande unità, visibile e invisibile sotto differenti aspetti, che si chiama la Chiesa. Essere membri della stessa Chiesa ci consente di riconoscerci tutti appartenenti ad una stessa famiglia, tutti legati da una profonda solidarietà, tutti collegati da relazioni irrinunciabili, interessanti la nostra vocazione cristiana. Ed ecco che un'Udienza come questa ci ricorda quella misteriosa e reale unità, ci invita a celebrare quella «comunione dei santi», di cui abbiamo memoria nel simbolo apostolico, cioè nella professione della nostra fede. Noi riscontriamo qui un riflesso d’un profondo ed immenso disegno divino; e cioè: Dio ci parla, ci avvicina, ci salva come singole persone; ognuno di noi ha un proprio destino; ma Dio non ci parla, non ci avvicina, non ci salva da soli. Dio ci colloca in un ordine, in una società, in un’organizzazione unitaria, in un corpo mistico. Dio ci colloca in una comunità, in una circolazione di carità, in un sistema religioso organizzato per la nostra salvezza; ci colloca e ci vuole nella sua Chiesa. E la Chiesa è tale unione di fede, di preghiera, di aiuti, di meriti, di reciproci influssi, di amore, che rende membri d’una stessa famiglia quanti le appartengono. Non è un vincolo remoto e inoperante quello che ci unisce nella Chiesa, è un vincolo di parentela strettissima.

Questa parentela, per vero dire, ha due espressioni, che sono diverse, a seconda che si considera il rapporto che ci unisce a Dio e a Cristo; e questo è un rapporto di fraternità. Gesù l’ha detto: «Voi siete tutti fratelli» (
Mt 23,8). E potremmo benissimo celebrare in questa stessa Udienza la fratellanza che tutti ci fa egualmente dipendere dalla Paternità di Dio e dalla Grazia di Cristo. Ma Cristo ha stabilito nell’interno della comunità dei fedeli una diversità di funzioni, cioè una gerarchia, una paternità e una figliolanza, che Noi appunto stiamo ora ricordando. Dice. S. Paolo: «Per mezzo del Vangelo io, in Cristo Gesù, vi ho generati» (1Co 4,15).

Cioè Noi stiamo ricordando la carità del ministero apostolico e sacerdotale, operante nella Chiesa per la nostra salvezza.

Ed è questa carità che mette nel Nostro cuore e sulle Nostre labbra a vostro riguardo i nomi dolcissimi di «Figli e Figlie»; i nomi che vi assicurano della Nostra completa benevolenza, che vi dicono quanto Noi desideriamo il vostro bene, quanto Noi vi siamo vicini con la Nostra preghiera, quanto Noi altro da voi non desideriamo che la vostra fedeltà a Cristo e alla Chiesa.

Figli e Figlie! con questi sentimenti vi salutiamo, vi esortiamo ad essere cristiani e cattolici autentici, vi desideriamo ogni bene dal Signore, e nel suo Nome con tutto il cuore vi benediciamo.





Mercoledì, 15 luglio 1964

15764

Noi pensiamo che ciascuno di voi, partecipando a questa Udienza nella basilica di S. Pietro, vada cercando con lo sguardo le parole maiuscole, che costituiscono la fascia decorativa, sopra i pilastri dell’aula monumentale, e una parola sappia scoprire, la quale risuona singolarmente nello spirito d’ogni persona presente: Tu es Petrus, Tu sei Pietro; e immediatamente questa parola sembra farsi voce, la voce di Cristo, che la pronunciò a Cesarea di Filippo trasformando il discepolo Simone in Apostolo, anzi in Principe degli Apostoli e Capo di tutta la Chiesa; poi la parola: Tu es Petrus si fa figura, si fa persona, e si posa sul Papa, vestito di bianco, che è apparso in mezzo a voi. La suggestione spirituale dell’udienza, noi lo sappiamo, nasce principalmente dalla rievocazione della misteriosa e immortale parola evangelica, che prende, dopo venti secoli, forma vivente nell’umile aspetto d’uomo, che appare non soltanto quale successore, ma quasi fosse la stessa rediviva persona: Tu es Petrus.

Per chi sa riflettere, questa eco storica ed evangelica, che si fa realtà presente e vivente, mette quasi timore, e suscita una interiore domanda elementare: «il Papa è proprio Pietro?». Com’è ovvio, la domanda è estremamente grave e complessa, e può dar luogo ad una lunga e edificante meditazione; ma se ci fermiamo ora a considerare il suo valore sensibile ed esteriore, cioè il confronto fra la figura di Simon Pietro e quella del Papa, avvertiamo un’evidente differenza, che quanti sono presenti all’udienza vorrebbero definire e possibilmente risolvere.

La figura del Papa appare in questo quadro di maestà e di splendore. Nelle cerimonie solenni anzi questa esteriorità è accentuata da segni ancora più onorifici. Il quadro della basilica, che ci avvolge, ci solleva in una visione di grandezza, di decoro, di potenza, che quasi sbalordisce. Un’atmosfera di gloria sembra invadere la scena radiosa. Rinasce la domanda: questi è Pietro? perché tanta solennità?

Vi è chi si esalta e si edifica partecipando a questa scena sacra e solenne, e gode del riflesso, quasi profetico, che sembra proiettarsi dalla Chiesa trionfante in cielo su questa Chiesa terrena, tuttora peregrinante, militante e sofferente. Una grande consolazione, una ineffabile speranza piove nelle anime che sanno subito vedere tanto il Pietro del Vangelo quanto il Pietro del paradiso nel suo modesto, ma tanto onorato successore, il Papa presente.

Vi è invece chi incontra qualche fatica nel compiere questa identificazione di Pietro col Papa, così presentato, e si chiede il perché di così vistosa esteriorità, che sa di gloria e di vittoria, mentre nessuno dimentica certamente quante afflizioni pesano sempre sulla Chiesa e sul Papa; e come sia per lui doverosa l’imitazione dell’umile divino Maestro. Un povero mantello di pescatore e di pellegrino non ci darebbe immagine più fedele di Pietro, che non il manto pontificale e regale, che riveste il suo successore?

Può essere. Ma questo manto non esclude quel mantello! Ora bisogna comprendere il significato ed il valore di questa esteriore solennità, che vuole identificare il Papa, così rivestito, con l’Apostolo Pietro. Che cosa significa, innanzi tutto, questo grandioso rivestimento? Significa un atto di fede, che la Chiesa, dopo tanti secoli, ancora pronuncia sicura: sì, questi è lui, è Pietro. È come un canto a gran voce: Tu sei Pietro; è una ripetizione che celebra in un culto magnifico il prodigio compiuto da Cristo; non è sfarzo vanitoso, ma è come uno sforzo devoto per dare evidenza e risonanza ad un fatto evangelico, decisivo per la storia del mondo e per le sorti spirituali dell’umanità.

Se è così, ognuno comprende che l’onore tributato al Papa come successore di S. Pietro non va alla sua persona umana, la quale può essere, come nel caso presente, piccola e povera, ma va alla missione apostolica, che gli è affidata, va alle Chiavi, cioè alle potestà, poste nelle sue mani, va all’autorità di Maestro, di Sacerdote e di Pastore che gli è stata conferita.

Allora si comprende anche come l’onore tributato al Papa non si ferma a lui, e nemmeno, propriamente parlando, a Simone Pietro, ma sale a Cristo glorioso, al Quale tutto dobbiamo, e al Quale non avremo mai reso onore abbastanza. Noi possiamo ben dire, ed a maggior ragione, ciò che il Papa Leone Magno diceva di sé: «Nell’umiltà della mia persona colui si veda e colui si onori (cioè Pietro - e noi possiamo spiegare: cioè Cristo), nel quale si contiene la sollecitudine di tutti i pastori... e la cui dignità non viene meno in un indegno erede» (Serm. 2 in ann.).

Fate vostri questi pensieri e trarrete dall’udienza pontificia una benefica impressione spirituale, una profonda lezione religiosa, quella che ci fa trovare Pietro nel Papa e Cristo nel suo Vicario. E, con questo voto, di cuore tutti vi benediciamo.






Paolo VI Catechesi 20664