Paolo VI Catechesi 22764

Mercoledì, 22 luglio 1964

22764
Un particolare saluto Noi vogliamo rivolgere alle duecento Delegate Diocesane dell’Associazione dei Fanciulli di Azione Cattolica, convenute a Roma per il corso nazionale di studio sul tema «il Fanciullo nella Comunità Parrocchiale».

Ragione di questa speciale menzione è innanzi tutto il merito di queste bravissime Delegate Diocesane, alle quali Noi associamo, in questo Nostro paterno ricordo, tutte le ottime Delegate parrocchiali. Ammiriamo il loro numero, il loro impegno, la loro bravura. Abbiamo avuto l’occasione, e non rara, di rilevare da vicino, con osservazione diretta, durante le Nostre visite pastorali, l’opera paziente e sapiente di queste apostole della fanciullezza; abbiamo visto quanto delicato e talora difficile è il loro lavoro; ma quanto fruttuoso e provvidenziale; e quanto lieto e bello nei suoi risultati.

Il tema, proposto allo studio di questo corso menzionato, pone una quantità di problemi interessantissimi: sulla pedagogia religiosa del fanciullo, sulla sua istruzione e sulla sua formazione spirituale, così bisognose d’essere sviluppate l’una e l’altra, da conseguire un duplice non facile effetto nell’età infantile, quello della relativa completezza e serietà, e quello difficile ad ottenersi, in ragazzi vivaci e moderni, dell’entusiasmo e della comprensione interiore dei valori religiosi e soprannaturali. Così l’interesse si pone sulla precoce maturazione del senso comunitario nel fanciullo e sulla sua capacità a esercitare una funzione vera, responsabile, che non sia giuoco o finzione, ma effettiva e da tutti riconoscibile nel complesso d’una attività sia liturgica che caritativa.

È la vostra, carissime Figlie, un’attività magnifica e preziosa; essa custodisce e coltiva i fiori vivi e più belli del giardino parrocchiale, essa preserva anime innocenti al candore della infantile bellezza, essa le apre alle esperienze più delicate e più vere delle prime emozioni spirituali, essa le fortifica e le allena alla padronanza morale di sé le matura ad una giovinezza lieta, cosciente, robusta. Essa merita il Nostro plauso, il Nostro incoraggiamento e la Nostra Benedizione.

* * *

Diletti Figli e Figlie!

Noi siamo doppiamente lieti di ricevervi; in primo luogo perché ogni Udienza come questa, ogni visita di Pellegrini o di Turisti rispettosi Ci è motivo di consolazione, Ci è occasione di ricevere e di effondere sentimenti che rivelano il rapporto reale e ineffabile di carità, che Ci unisce ai Fedeli ed a tutti gli uomini: veramente questi incontri sono richiami e sono esercizi della spiritualità semplice e profonda che deve caratterizzare la comunità ecclesiale! In secondo luogo, perché, come vedete, vi riceviamo in questa Nostra residenza suburbana, dove il quadro della natura e del paesaggio sostituisce quello dell’arte e della basilica, nel quale avvengono le Nostre Udienze romane: voi cioè dimostrate di voler vedere il Papa, anche se non è circondato dalla consueta cornice esteriore. È la vostra devozione, è il vostro affetto che qua vi conducono, non l’attrattiva d’una cerimonia spettacolare; e, per dire di più, è la vostra fede, in voi credenti, ed è forse la vostra ricerca di rendervi conto di chi sia il Papa, in voi visitatori estranei, che vi fa ricercare questo singolare momento spirituale. Apprezziamo tanto di più la vostra presenza, quanto più è determinata da intenzioni religiose e spirituali.

Carissimi tutti, vi ringraziamo di cotesto attestato di adesione e di venerazione, e preghiamo il Signore che Egli lo abbia a ricompensare con le sue grazie. Anzi Noi Ci permettiamo di fare un breve commento a cotesto vostro atteggiamento religioso e spirituale, perché non solo Ci sembra caratteristico in quanti affluiscono a queste Nostre Udienze, ma Ci sembra meritevole di particolare considerazione, di particolare sviluppo e educazione.

Un vero commento Ci porterebbe a pensieri molto alti e difficili; ma Noi Ci contentiamo di una semplice osservazione. Ed è questa: voi venite all’udienza per incontrare il Papa, non l’apparato esteriore che di solito lo identifica e lo fa, sotto alcuni aspetti, capire; volete vedere il Papa, e non tanto la sua espressione fisica e sensibile, sebbene di questa i vostri occhi non possano fare a meno: volete vedere il Papa reale, qual è; non la sua immagine, o un suo rappresentante. Ma perché volete vedere il Papa qual è? perché anch’egli è un uomo, come tanti altri, o forse più misero di tanti altri? No; lo volete vedere qual è, perché lui stesso è un rappresentante; il rappresentante di Cristo; è un segno, è un vincolo sensibile e vivente fra questo nostro mondo naturale e il mondo invisibile soprannaturale. Voi volete vedere riflesso nell’umile sembianza d’un uomo qualche cosa del «mistero» divino. Sant’Agostino, sempre acuto e limpido, scrive: «Non est enim aliud mysterium, nisi Christus»: non esiste altro mistero, che Cristo (EP 187,34 P.L. 38,845). E se il Papa così è unito a Cristo, da essere chiamato suo Vicario, allora nel Papa si può guardare come un simbolo, che trasferisce il pensiero di chi lo contempla in Cristo dapprima, in Dio poi.

Questa osservazione può essere preziosa, perché, da un lato, ci ricorda che la faccia della nostra religione non è in gran parte che un campo di segni. La nostra comunicazione con Dio, durante questa vita terrena, avviene «in aenigmate», come dice S. Paolo (
1Co 13,12), in enigma, sotto il velo di concetti propri, si, ma inadeguati e provvisori; avviene in forma «sacramentale», cioè mediante l’espressione di segni sacri. E sotto questo aspetto, voi sapete che anche la Chiesa, la Chiesa intera può dirsi «sacramento di Gesù Cristo»; è il tabernacolo della sua presenza, è il fenomeno visibile, storico e sociale della sua permanenza e della sua azione in seno all’umanità.

Forse, senza che vi pensiate, voi venendo all’udienza seguite questo ordine di pensieri, che qua vi hanno guidato, e che .qui cercano di afferrare qualche cosa, nella presenza del Papa, dell’ineffabile e sommamente desiderabile mondo divino.

Cosi che, dall’altro lato, questa Nostra osservazione vuole confortare in voi, dentro i vostri cuori, il sentimento principale che conduce i Fedeli all’udienza, quello della fede, intesa appunto come adesione alla verità divina, per noi ora velata e soverchiante, ma resa accessibile dalla parola e dai segni della sua rivelazione. L’Udienza è e dev’essere un atto di fede, un esercizio di fede; o almeno, per chi non avesse tanta fortuna, un atto di ricerca, un momento di riflessione e di invocazione.

Perciò, carissimi Figli e Figlie, vi auguriamo che il frutto migliore, quello duraturo e operante nei vostri spiriti, sia, per merito di questa Udienza, un accrescimento nel vigore e nel gaudio della. Fede cristiana.

Il «Credo» che poi canteremo e la Nostra Benedizione Apostolica vi ottengano tale impareggiabile dono.





Mercoledì, 29 luglio 1964

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Diletti Figli e Figlie!

È naturale che la vostra presenza, così numerosa e così composita, faccia sorgere in Noi una domanda, già altre volte commentata in queste Udienze. E la domanda è questa: di dove venite?

La domanda dice la cordialità e la confidenza di questo incontro, che apre gli animi a conversazione di famiglia e non vuole rimanere nelle forme rigide e impersonali d’una cerimonia ufficiale, ma vuole produrre un istante di effusione spirituale e di comunicazione amichevole.

Ma dice questa domanda qualche cosa di più: dice il Nostro desiderio di tutti conoscervi per quello che siete, di tutti salutarvi secondo i titoli che vi raccomandano alla Nostra attenzione, e specialmente di mostrarvi come la vostra provenienza, quella locale specialmente, sveglia in Noi vivo interesse. Abbiamo oggi presenti, oltre gli Italiani, molti Francesi, Belgi, Canadesi, Libanesi, Americani del Nord, Inglesi, Irlandesi, Maltesi, Tedeschi, Svizzeri, Spagnuoli, Argentini, Brasiliani, ,z così via.

Di dove venite? Vi diciamo subito la Nostra compiacenza nel vederci circondati da fedeli e da visitatori di così varia origine. La vostra diversità, lungi dal suscitare in Noi imbarazzo e diffidenza, Ci commuove e Ci esalta; un mistero della storia cristiana trova qui un suo parlante riflesso; Ci sembra davvero d’essere assisi all’incrocio delle vie del mondo, e di assistere, una volta di più, alla celebrazione dell’Epifania, che chiami i popoli dalle estremità della terra; e della Pentecoste, che si allieta della molteplicità delle lingue facenti coro alle grandezze di Dio.

Carissimi Figli e Figlie, e voi gentili visitatori, siate ringraziati della gioia che Ci procurate e del fenomeno spirituale che qui realizzate; e Dio vi faccia comprendere e gustare la singolarità e la bellezza di questo momento!

Domandando a voi: di dove venite? Noi proviamo in Noi stessi un giuoco strano di sentimenti che Ci sembra documentare anch’esso l’autenticità religiosa di questo incontro, solo all’apparenza esteriore e profano. Il giuoco cioè del rapporto fra l’intensità del sentimento paterno, con cui vi riceviamo, e la distanza locale fra questo punto e quello del vostro luogo d’origine. Perché, per un verso, la vicinanza ha diritto d’essere riconosciuta come un motivo di particolare affezione: chi è più prossimo è giusto che sia più amato. D’altro canto, tuttavia, è anche vero che chi viene da più lontano sia accolto con maggiore considerazione, per la lunga strada percorsa e per la rarità dell’incontro. Così che, mentre abbiamo sentimenti di affettuosa simpatia per quanti giungono a Noi da sedi vicine, abbiamo sentimenti di cordialissima benevolenza per quanti giungono a Noi da sedi distanti; e perciò l’uno e l’altro motivo, la vicinanza e la lontananza, Ci rendono capaci di accogliere tutti con singolare predilezione e con eguale e comune carità.

Se voi avete la bontà di riflettere su questa Nostra confidenza, trovate logico passare ad un altro ordine di pensieri grandi e magnifici, quelli dell’universalità della nostra religione cattolica; una universalità che non si limita al suo contenuto dottrinale, ma si estende e, possiamo dire, si realizza nel complesso dell’umanità, quale essa è naturalmente, superando e abolendo le distanze, le diversità, le separazioni, le discriminazioni, gli antagonismi, i razzismi, i nazionalismi, i cento dissidi, che tengono gli uomini divisi fra di loro, e spesso fra di loro nemici. Le divisioni più profonde, che esistono fra gli uomini, sono appunto quelle derivanti dalle collocazioni geografiche; e sono divisioni che hanno una loro evidente ragion d’essere, e sono origine di altre divisioni, nelle quali si articola il genere umano. Queste divisioni, anche in ciò ch’esse hanno di inevitabile e di legittimo, a ben considerarle nella luce del momento religioso che stiamo vivendo, non impediscono più una perfetta unione di animi, di sentimenti, di voci e di propositi; qui siamo fratelli, qui siamo tutti uno, nel rispetto rigoroso della singola personalità e dei singoli valori particolari. Qui le barriere cadono, qui l’unità si fa veramente ecumenica. Qui si respira quel « senso cattolico », ch’è, per dirla con un autore francese del secolo scorso (Veuillot), il profumo di Roma.

Provate a prolungare per conto vostro la meditazione che nasce da questa assemblea variopinta, eterogenea, composta di persone, che nemmeno si conoscono fra loro, e che pure si sentono in perfetta comunione: di base, l’umanità; di vertice, la fede cattolica. E la meditazione si farà interessante e commovente per ciascuno di voi, se potete avvertire che ciascuno di voi, in questo luogo e in questo momento, non è un individuo staccato e insignificante, ma è un membro, un socio d’una comunione che tutti ci fa uniti e solidali, la Chiesa, e che ciascuno di voi ora assurge a rappresentante della propria casa, della propria professione, della propria patria.

E come tali, carissimi, vi salutiamo e vi benediciamo.





Castel Gandolfo - Mercoledì, 5 agosto 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza settimanale, sempre nuova nella folla dei Pellegrini e dei Visitatori, è sempre uniforme nella tematica del suo svolgimento e soprattutto dei pensieri ch’essa reca con sé, i quali non possono prescindere dal ricordo di quello che ne forma il centro e che si vede qui, in tante immagini concrete e quasi simboliche, riflesso nell’incontro del Papa con molti suoi figli, vogliamo dire la Chiesa. Una udienza come questa obbliga a pensare, obbliga a parlare della Chiesa.

Il tema perciò si ripete; ma è tanto grande e tanto complesso, che offre aspetti vari e fecondi; così che non Ci sembra di dire ogni volta in questi Nostri brevi discorsi le stesse cose, anche se ogni volta dobbiamo parlare della stessa realtà, la Chiesa, e della dottrina o degli avvenimenti che a Lei si riferiscono.

Oggi, ad esempio, abbiamo un titolo nuovo da presentarvi relativo alla vita della Chiesa; e lo annunciamo a voi, come segno della compiacenza che la vostra visita Ci procura e come espressione della Nostra paterna affezione. Faremo infatti a voi una confidenza - che forse nel linguaggio corrente si potrebbe anche chiamare una conferenza-stampa (forse la prima che il Papa faccia in questo nuovo stile!) -; e la confidenza è questa: che abbiamo finalmente terminato di scrivere la Nostra prima Lettera Enciclica, la quale porterà la data della festa della Trasfigurazione di Cristo, domani 6 agosto, e nel testo latino comincerà con le parole, che serviranno a identificarla: Ecclesiam Suam; sarà pubblicata, speriamo, nella prossima settimana.

Diciamo la prima, perché ha appunto carattere di Lettera Enciclica ufficiale e si riferisce all’inizio del Nostro Pontificato; ma non possiamo dimenticare di aver rivolto alla Chiesa molti discorsi e non pochi altri documenti, tra i quali l’«Epistula apostolica» Summi Dei Verbum del 4 novembre 1963, sui Seminari, in commemorazione del quarto centenario della loro istituzione fatta dal Concilio Tridentino.

Voi sapete che cosa è una Lettera Enciclica; è un documento epistolare inviato dal Papa ai Vescovi di tutto il mondo: enciclica vorrebbe dire circolare. È una forma antichissima di corrispondenza ecclesiastica, caratteristica per denotare la comunione di fede e di carità esistente fra le varie «chiese», cioè fra le varie comunità che compongono la Chiesa. Nei primi tempi anche i Capi delle comunità principali mandavano lettere circolari ai Vescovi confratelli e anche a tutti i fedeli, e perciò si chiamavano anche «catholicae», cioè rivolte all’intero popolo cristiano. Lo storico Eusebio, del quarto secolo, dice che «ad universos Christi fideles dirigebantur» (Hist. eccl., V, 17).

Nei tempi a noi più vicini le Encicliche sono indirizzate o a un gruppo di Vescovi, d’una data regione (Litterae), ovvero a tutto l’Episcopato in comunione con Roma (Epistulae), e talora estese anche a tutti i fedeli e perfino a tutti gli uomini di buona volontà: dipende dal contenuto e dallo scopo del documento. Un’Enciclica può essere dottrinale o dogmatica, quando tratta di verità o di errori relativi alla fede; ovvero esortatoria, se essa tende a confortare in chi la riceve sentimenti e propositi di vita cristiana, e a rinsaldare i vincoli di disciplina, di unione, di fervore, che devono collegare interiormente la Chiesa e sostenerla nella sua missione spirituale.

L’Enciclica, che sta per uscire, si può ascrivere a questa seconda categoria. Non tratta perciò questioni teologiche o dottrinali particolari, sebbene tante di tali questioni siano presenti alla Nostra apostolica attenzione. Abbiamo voluto astenerci dall’assumere qualche specifica trattazione, sia perché non Ci sembra conforme all’indole della prima Enciclica d’un Papa, la quale vuol essere piuttosto discorsiva e confidenziale; sia perché non abbiamo di proposito voluto entrare in temi che il Concilio Ecumenico ha messo nel suo programma. Ci limitiamo a stabilire un rapporto epistolare e spirituale con i Nostri Fratelli Vescovi, ora che l’arcano disegno di Dio Ci ha posti fra loro come Capo della Chiesa Cattolica e come Vicario di Cristo. La Nostra lettera è precisamente un annuncio qualificato della Nostra assunzione alla Cattedra di S. Pietro; ed è una manifestazione dei Nostri sentimenti e dei Nostri pensieri, piuttosto che un’esposizione obbiettiva ed organica d’un dato tema. Parliamo preferibilmente del Nostro animo e degli atteggiamenti, che vorremmo indurre negli animi dei Vescovi e dei fedeli, che non di problemi particolari.

Ma che cosa diciamo finalmente in questa Enciclica? Diciamo quello che Noi pensiamo debba fare oggi la Chiesa per essere fedele alla sua vocazione e per essere idonea alla sua missione. Parliamo cioè della metodologia che la Chiesa, a parer Nostro, deve seguire per camminare secondo la volontà di Cristo Signore. Possiamo forse intitolare questa Enciclica: le vie della Chiesa.

E le vie da Noi indicate sono tre: la prima è spirituale; riguarda la coscienza che la Chiesa deve avere e deve alimentare su se stessa. La seconda è morale; e riguarda il rinnovamento ascetico, pratico, canonico, di cui la Chiesa ha bisogno per essere conforme alla coscienza sopradetta, per essere pura, per essere santa, per essere forte, per essere autentica. E la terza via è apostolica; e l’abbiamo designata col termine oggi in voga: il dialogo; riguarda cioè questa via il modo, l’arte, lo stile, che la Chiesa deve infondere nella sua attività ministeriale nel concerto dissonante, volubile, complesso del mondo contemporaneo. Coscienza, rinnovamento, dialogo sono le vie che oggi si aprono dinanzi alla Chiesa viva, e che formano i tre capitoli dell’Enciclica.

A qualcuno sembrerà che Noi abbiamo trascurato di affrontare i problemi gravi e urgenti del nostro tempo; ma se così è, abbiamo già detto le ragioni, quella specialmente di non impedire al Concilio Ecumenico in corso la libera e adeguata considerazione dei problemi stessi. Ma abbiamo voluto invitare le menti dei Vescovi e dei fedeli a predisporsi alla migliore trattazione di essi. Abbiamo voluto indicare alcuni criteri direttivi per poterli meglio considerare nella luce di Cristo e per poterli risolvere secondo la guida dello Spirito Santo. E si troverà allora che molti di tali problemi affiorano nello svolgimento del Nostro modesto documento, con accenni, ad esempio, alla pace, al rapporto fra vita cristiana e vita economica, e specialmente con alcuni apprezzamenti circa il dialogo della Chiesa col mondo profano e con quello senza Dio; col mondo poi delle religioni non cristiane; col coro, in seguito, delle Chiese tuttora separate dalla Chiesa cattolica; con la stessa comunità, in fine, dei fratelli, Clero e fedeli, componenti la nostra santa Chiesa di Dio.

Come vedete, l’orizzonte non è ristretto. Anche se l’Enciclica «Ecclesia Suam» si rivolge direttamente all’Episcopato, non dimentica il popolo cristiano; e se riguarda di preferenza la «Ecclesia ad intra» non ignora la «Ecclesia ad extra».

Vogliamo sperare che questo Nostro pontificale e pastorale messaggio avrà favorevole accoglienza nella grande famiglia cattolica; e avrà anche, speriamo, qualche benevola accoglienza oltre i suoi confini, perché oltre i suoi confini arriva l’amore che l’ha ispirata.

E vogliamo anche sperare che voi, diletti Figli e Figlie, che avete avuto ora da Noi il primo annuncio della Nostra Enciclica, la vorrete leggere e meditare; ed in questa fiducia, col voto che anche a voi essa sia messaggera di luce superiore, tutti di cuore vi benediciamo.




Mercoledì, 12 agosto 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Ogni volta che veniamo all’incontro spirituale, che Ci procura questa Udienza generale, Noi godiamo immensamente della comunicazione che Ci sembra avere con le vostre anime; Ci sembra di venire a conversazione con esse; Ci sembra di ascoltarne le voci; Ci sembra di raccoglierne le confidenze; Ci sembra che ciascuno dei presenti abbia qualche cosa da dirci, di suo, di profondo, di segreto. Ci pare anche che ognuno che si apra a questa personale familiarità abbia da rivelarci, come fosse un’offerta filiale, qualche sua pena, qualche suo timore, qualche suo dubbio, qualche suo bisogno di conforto. E allora sorge in Noi il desiderio di poter dare a questa Udienza, tanto breve, ma, vogliamo credere, tanto memorabile, il valore d’un’intima e stabile consolazione.

Sì, Noi vogliamo con la benedizione, che vi daremo alla fine dell’udienza, congedarvi con una grande e nuova consolazione nei cuori; una consolazione, che Ci pare poter racchiudere in queste parole, che affidiamo al vostro spirito e alla vostra memoria: abbiate fiducia! Sì, abbiate fiducia; questo è il conforto che Noi vogliamo infondervi, quasi rispondendo alle mute confidenze, che venendo a visitarci voi Ci rivelate: abbiate fiducia!

Abbiamo ragione di esortarvi alla fiducia, perché sappiamo quanto ne abbia bisogno la nostra vita per affermarsi, se giovane; per operare, se affaticata; per perseverare, se provata; per elevarsi a Dio, se afflitta e sofferente. La fiducia è il sostegno, è la spinta, è la serenità del nostro pellegrinaggio terreno; ed è oggi tanto più necessaria, quanto meno essa deriva dall’esperienza della vita moderna. Questa promette moltissimo, e moltissimo anche concede; ma essa tanto sveglia la capacità di desiderare nel cuore dell’uomo, tanto lo abilita a giudicare, a criticare, a valutare le cose di questo mondo, e tanto lo delude con la stessa abbondanza dei suoi doni, che a tutti è facile osservare come oggi l’uomo che confida se stesso nei documenti della letteratura o dello spettacolo, come in quello delle analisi filosofiche, storiche e psicologiche, sia intimamente insoddisfatto, spesso oppresso dal dubbio, dalla noia, dalla nausea, dalla infelicità, e sovente anche da una muta e tormentosa disperazione interiore.

E si spiega, se si osserva come l’uomo moderno abbia smarrito le ragioni superiori - nel campo dell’Essere - e profonde - nel campo del cuore, - che consentono una valutazione ottimistica del mondo e della vita.

La fiducia, quella che resiste alle prove della nostra terrena esistenza, le quali sono pur molte e gravi, si trova alla confluenza di due virtù teologali, di cui purtroppo il mondo contemporaneo poco si cura: la fede e la speranza. Avessimo tempo, Noi vi potremmo ricordare mirabili parole della Sacra Scrittura a questo riguardo, come quella, per citarne una, di S. Paolo: «Noi abbiamo fiducia mediante Cristo presso Dio, non perché siamo idonei a pensare qualche cosa di buono da noi come da noi; ma la nostra sufficienza viene da Dio» (
2Co 3,4). E maestro Tommaso spiegherà appunto che per avere fiducia occorre credere a Qualcuno che meriti fede; e occorre sperare in Qualcuno che non deluda la nostra speranza (II-II 129,6).

Ora si verifica questo: voi venite a Noi, che abbiamo da Cristo il mandato di «confermare i nostri fratelli» (Lc 22,32); e che voi, in questo momento, siete nel cuore della Chiesa, ch’è come sapete, la casa costruita da Cristo, e come ancora dice San Paolo, questa casa «siamo noi stessi se riteniamo ferma la fiducia e la gloria della speranza» (He 3,6). Siamo perciò in grado, carissimi Figli e Figlie, di confermarvi nella fiducia della visione buona e serena della vita, nella certezza che l’assistenza del Signore non manca a chi si fida in Lui, nella scoperta, propria del cristianesimo, che anche le cose avverse e dolorose si possono risolvere in buone e propizie, e che tutto coopera in bene per coloro che vivono nell’amore di Dio (Rm 8,28).

Siate dunque fiduciosi! guardate ogni cosa con occhio cristiano, e accettate l’intima letizia che nasce da simile visione della vita.

In questi giorni Noi ricevevamo una lettera da un buono e valente uomo di Chiesa, nella quale lettera Ci si diceva: dalla fiducia del Papa si comunica immensa fiducia a quelli che sono con Lui. Ebbene auguriamo che questo alto e cortese augurio si realizzi per voi in questo momento benedetto, e che da questa Udienza possiate portare con voi non solo una lezione esteriore, ma una provvista interiore di cristiana fiducia, che tutti vi faccia, nel cammino della vita, forti, sereni e felici.

A questo fine vi daremo la Nostra Benedizione Apostolica.

Saluti

(Tra i gruppi intervenuti sono i partecipanti al corso internazionale di studenti universitari, promosso dalla «Fondazione Rui» e un pellegrinaggio della arcidiocesi di Dakar, nella Repubblica del Senegal. Entrambi i gruppi sono oggetto di speciali saluti dal Sommo Pontefïce.)

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Mercoledì, 19 agosto 1964

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Diletti Figli e Figlie!

Una delle impressioni caratteristiche della visita al Papa è quella che obbliga a voltarsi indietro e a dare uno sguardo al passato, alla storia, alla tradizione. Non è che questa impressione sia l’unica in chi viene all’Udienza pontificia, perché altre impressioni invitano a prendere visione e coscienza del presente, e altre a guardare avanti, al futuro, ai destini estremi della vita umana, sia individuale, che universale. Ma sta il fatto che il visitatore, sia egli un pellegrino, un fedele, ovvero un osservatore estraneo, venendo dal Papa trova cento stimoli, che gli fanno rivolgere il pensiero a cose antiche, a costumi passati, a ricordi di tempi trascorsi; tanto che, spesso, chi non ha una conoscenza esatta della Chiesa è tentato di sospettare che la Chiesa sia un’istituzione d’altri tempi, antiquata, forse sorpassata, interessante per gli studiosi di storia, per gli archeologi e per gli antiquari, ma non più per gli uomini del nostro tempo. Qui la lingua, gli abiti, le cerimonie, gli stemmi, ecc., sembrano cose sopravvissute, che difficilmente si capiscono, molto curiose e molto belle forse, ma strane e superflue per la vita moderna.

Noi non possiamo, naturalmente, condividere tale opinione, che Ci pare talora di leggere in viso a molti Nostri visitatori, anche se saremmo disposti a discutere sull’opportunità di certe forme particolari, che rivestono l’aspetto esteriore della Chiesa, e che un tempo avevano per chiunque le osservava un senso ben chiaro, di cui ora è più difficile spiegare la ragione e gustare la visione. Ma siamo, invece, molto contenti. che i Nostri visitatori, entrando nella Nostra dimora e respirando la Nostra atmosfera, siano indotti ad uno sguardo retrospettivo, sia pure rapido e sommario, perché questo sguardo all’indietro, Noi pensiamo, è uno dei benefici dell’udienza pontificia. Esso è un lampo luminoso sui secoli passati, che suscita in chi lo avverte una vibrazione spirituale, che potremmo chiamare «senso storico». E voi sapete quanto la cultura moderna abbia magnificato questo senso storico, come una delle più alte espressioni dello spirito; e sapete forse anche quanto bisogno vi sia, nel nostro Paese specialmente, di senso storico vero e popolare, mentre l’opinione pubblica è tutta protesa verso l’avvenire, dimenticando il passato e spesso rinnegandolo con la smania delle riforme inconsulte e delle rivoluzioni.

Ma questa vibrazione spirituale, che richiama alla memoria il cammino lento, faticoso, drammatico dell’umanità, percorso prima del nostro presente, la si può avere anche visitando musei, monumenti, biblioteche, dove sono custoditi i tesori della storia che fu. Visitando la casa del Papa un duplice elemento rende stupefacente l’osservazione; e cioè la continuità storica delle cose che qui si vedono con un’origine ben determinata, e la vivacità attuale dell’istituzione a cui tali cose si riferiscono: non è un museo, non è un cimitero, non è una collezione preziosa ed esotica di oggetti antichi, che qui si offre alla considerazione del visitatore attento: è una cosa viva; e che sia antichissima e viva è fenomeno meraviglioso. Che sia antichissima e sempre eguale a se stessa, sempre coerente, sempre fedele alle norme delle sue lontane origini, è, ripetiamo, meraviglioso; diciamo di più: misterioso.

Ecco allora che la visione del passato della Chiesa, qui documentata da tanti particolari curiosi e talora poco comprensibili, proietta una luce nuova sul presente, non solo della Chiesa, ma nostro: esiste nel nostro tempo, in mezzo a noi, una testimonianza poderosa, che deriva la sua voce e la sua forza dalla Pentecoste, e che dice: Cristo è qui; Cristo, il risorto, vive nella sua Chiesa, e vivrà.

Avete posto attenzione, leggendo il Vangelo di domenica scorsa, quello dei dieci lebbrosi, come l’intenzione centrale di quella pagina evangelica sia espressa dal fatto che uno dei lebbrosi guariti miracolosamente si volta indietro, e ritorna su i suoi passi per riconoscere in Cristo il suo salvatore e per ringraziarlo? (
Lc 17,15).

Questo «voltarsi indietro» sembra a Noi atto molto significativo ed esemplare, e, purtroppo, come nell’episodio evangelico, piuttosto raro. Noi siamo restii a voltarci indietro per riconoscere la derivazione della nostra civiltà, e siamo distratti .dai nostri interessi presenti e non ci curiamo di riflettere che tutto il patrimonio della nostra cultura è un’eredità. E questa dimenticanza investe anche la nostra coscienza cristiana, che non si avvede che tutto ciò che le viene dalla Chiesa è un tesoro trasmesso, è un ricordo perenne, è una storia avventurosa ma in sé consistente, è una tradizione, è un dono.

A questo fatto, a questa fortuna dovrebbe farvi pensare la visita al Papa; essa dovrebbe ravvivare in voi la gratitudine a Cristo che ha fatto della Chiesa il canale della sua salvezza; dovrebbe farvi amare l’antichità e la giovinezza della Chiesa; dovrebbe svegliare in voi il senso di responsabilità verso la storia, verso la tradizione della Chiesa, e dovrebbe infondervi il desiderio di mantenerla viva in un perpetuo e moderno rinnovamento.

Così augurando, di cuore vi benediciamo.

Saluti
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Mercoledì, 26 agosto 1964

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Diletti Figli e Figlie!

La vostra presenza, così numerosa, così varia, così cordiale e filiale, Ci apre quest’oggi il cuore all’espressione confidente non già del consueto colloquio familiare e spirituale delle Nostre udienze generali d’ogni settimana, ma ad alcuni gravi pensieri, che tengono il Nostro animo in profonda meditazione, e che sono suscitati da due stimolanti motivi: la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della prima guerra mondiale e del venticinquesimo della seconda, entrambe scoppiate in questo periodo dell’anno, l’una all’inizio di agosto, l’altra all’inizio di settembre, primo motivo; e secondo motivo, i dissidi acuti fra vari Paesi, oggi esistenti già tinteggiati di sangue e balenanti di minacciosi presagi.

All’approssimarsi del XXV anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale risorge nel Nostro animo il commosso ricordo della sera del 24 agosto 1939, quando, per ragione del Nostro servizio alle dipendenze del Papa Pio XII, di venerata memoria, Noi avemmo la ventura di assistere all’atto della radiodiffusione di quel suo messaggio, vibrante di forza e di angoscia, nel quale la voce sua fu grave e solenne, come quella di Profeta di Dio e di Padre del mondo. Risuonano ancora dentro di Noi le lampeggianti parole: «Oggi che . . . la tensione degli spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare imminente lo scatenarsi del tremendo turbine della guerra, rivolgiamo con animo paterno un nuovo e più caldo appello ai Governanti e ai Popoli . . . È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl’imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono. Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare . . .» (A.A.S., 1939, p. 334).

Quelle parole rimasero inascoltate da chi sognava la guerra rapida e decisiva, apportatrice di potenza e di gloria. E la guerra, una settimana dopo, scoppiò. Era la seconda guerra mondiale. La prima, della quale in questi giorni è stato ricordato il cinquantesimo anniversario, non aveva dunque insegnato nulla, con i suoi milioni di morti, di mutilati, di feriti, di orfani e con le sue immani rovine? Per verità, anche dopo la prima guerra mondiale nobili e poderosi tentativi di organizzare le nazioni in società di pace furono compiuti, ma senza quella sufficiente evoluzione degli animi e degli atti internazionali verso la fiducia nella verità e nell’amore che devono rendere fratelli gli uomini e farli intenti a costruire un mondo di reciproco rispetto e di comune benessere.

Anche il dramma di furore e di sangue della prima guerra mondiale ebbe dai Nostri Predecessori ammonimenti sapienti e pressanti, guida di deplorazione e di dolore. È errato, è assolutamente antistorico accusare un Papa mite ed umano come S. Pio X - e si è pur osato scriverlo - di corresponsabilità nello scoppio della guerra del 1914. Ed è poi ancora echeggiante, come terribilmente vera, nel cuore di quanti quella guerra hanno sofferta, la celebre parola di Benedetto XV di «inutile strage», riferita alla guerra stessa. Anche allora la voce del Vicario di Cristo, se ebbe echi profondi nei cuori dei popoli e tardi riconoscimenti nelle menti dei pensatori e degli storici, non ebbe che scarsa ed inefficace accoglienza da parte dei Governanti delle Nazioni e dei Dirigenti della pubblica opinione.

La diffidenza, che ha circondato gli interventi ammonitori del magistero pontificio, non Ci scoraggia a rinnovare i Nostri paterni richiami alla pace, quando l’ora della storia, anzi il dovere del Nostro apostolico ufficio lo richieda. La solenne e suggestiva parola, che il Nostro immediato Predecessore Giovanni XXIII, di felice ricordo, rivolse al mondo con la sua Enciclica «Pacem in terris», non è risonata invano; il mondo sentì ch’essa aveva il duplice fascino della sapienza e della bontà. Sembra a Noi che la ricorrenza anniversaria, cinquantenaria l’una, venticinquesima l’altra, delle due guerre mondiali, che hanno insanguinato la prima metà del nostro secolo, offra occasione propizia per fare eco a quei messaggi di pace e per mantenerne vivo ed operante il tonificante ricordo e monito.

È la pace un bene supremo per l’umanità che vive nel tempo; ma è un bene fragile, risultante da fattori mobili e complessi, nei quali il libero e responsabile volere dell’uomo gioca continuamente. Perciò la pace non è mai del tutto stabile e sicura; deve essere ad ogni momento ripensata e ricostituita; presto si indebolisce e decade, se non è incessantemente richiamata a quei veri principii che soli la possono generare e conservare.

Ora Noi assistiamo a questo preoccupante fenomeno: il decadimento di alcuni basilari principii, su cui la pace deve fondarsi e di cui si credeva raggiunto, dopo le tragiche esperienze delle due guerre mondiali un fermo possesso. Nello stesso tempo vediamo rinascere alcuni pericolosi criteri, che di nuovo servono a guidare una miope ricerca dell’equilibrio, o meglio d’una instabile tregua nelle relazioni delle nazioni e delle ideologie dei popoli fra loro.

Di nuovo si oscura il concetto del carattere sacro e intangibile della vita umana, e si vanno nuovamente calcolando gli uomini in funzione del loro numero e della loro eventuale efficienza bellica, non in ragione della loro dignità, dei loro bisogni, della loro comune fratellanza.

Si avvertono nuovi sintomi d’una rinascita di divisioni e di opposizioni fra i popoli, fra le varie stirpi e fra le differenti culture: guidano questo spirito di divisione gli orgogli nazionalistici, le politiche di prestigio, la corsa agli armamenti, gli antagonismi sociali ed economici. Ritorna il concetto illusorio che la pace non possa fondarsi che su la terrificante potenza di armi estremamente micidiali, e mentre da un lato, nobilmente ma debolmente si discute e si lavora per limitare e per abolire gli armamenti, dall’altro, si continua a sviluppare e a perfezionare la capacità distruttiva degli apparati militari.

Di nuovo viene meno il terrore e l’esecuzione della guerra come mezzo vano per risolvere con la forza le questioni internazionali, mentre in diversi punti della terra esplodono in scintille paurose episodi bellici, estenuando la capacità mediatrice degli organi istituiti per mantenere sicurezza alla pace e per rivendicare al metodo delle libere e onorevoli trattative diplomatiche la prerogativa esclusiva delle procedure risolutive.

Risorge così l’egoismo politico o ideologico come espressiva direttiva della vita dei popoli; si attenta alla tranquillità di intere nazioni organizzandovi dal di fuori propagande sovversive e disordini rivoluzionari; si abusa perfino della declamazione pacifista per favorire contrasti sociali e politici

Risorgono l’egoismo, l’interesse esclusivista, la tensione passionale, l’odio fra i popoli; e viene meno il culto della lealtà, della fratellanza e della solidarietà; viene meno l’amore!

Se la sicurezza dei popoli riposa ancora sull’ipotesi d’un legittimo e collettivo impiego della forza armata, Noi dobbiamo ricordare che la sicurezza può riposare ancor più sullo sforzo della mutua comprensione, su la generosità d’una leale e vicendevole fiducia, sullo spirito di collaborazione programmatica, in comune vantaggio ed in aiuto specialmente ai Paesi in via di sviluppo.

Riposa cioè sull’amore!

Ed è ancora di quest’aurea parola che Noi faremo menzione ed elogio per distendere sulle memorie delle atroci guerre passate il candido manto della pace.

Lo vorremmo disteso sui cimiteri di guerra, affinché fossero in essi composte le salme dei caduti che ancora attendono il gesto dell’ultima umana pietà e aspettano che gli orfani parenti le possano visitare e onorare; ed affinché il tragico sonno di tante vittime tenesse sveglio nelle generazioni superstiti e successive l’ammonitrice memoria del terribile dramma che non deve ripetersi più!

Lo vorremmo innalzato, come vessillo d’amicizia e di speranza, sopra i padiglioni dei consessi internazionali, a gloria ed a conforto di quanti con sapienza e con rettitudine lavorano per rendere i popoli fratelli.

Lo vorremmo trasfigurato nell’orizzonte della storia presente e futura, quasi a lasciar trasparire che la sua luce ideale non può che venire dal sole del Dio vivente: senza la fede in Dio, come può essere la pace sincera, libera e sicura?

Uomini di buona volontà! ascoltate la Nostra umile voce, fraterna e paterna, che rievocando le memorie incancellabili dei due immani conflitti non proietta sulla scena presente del mondo fantasmi vuoti e paurosi, ma vuol far giungere nell’intimo dei cuori l’invito alla riflessione saggia e responsabile, l’esortazione a collocare sopra ogni interesse, sopra ogni valore quello dell’umana dignità e della fraterna concordia, il presagio della letizia e della prosperità, che non possono mai più nascere dalla guerra, ma. dalla pace nella sincerità e nella bontà.

È Dio che mette sulle Nostre labbra questo messaggio, e Noi al mondo fidenti lo trasmettiamo col Nostro saluto e con la Nostra Benedizione!




Paolo VI Catechesi 22764