Paolo VI Catechesi 17168

Mercoledì, 17 gennaio 1968

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Diletti Figli e Figlie!

La nostra parola, quest’oggi, si sente obbligata a riferirsi al terremoto, che ha devastato un’ampia zona della Sicilia, facendo centinaia di vittime, migliaia di feriti, decine di migliaia di senza tetto, sconvolgendo la vita d’interi paesi e diffondendo lo spavento, la compassione, il dolore non solo nell’isola, ma nell’intera Nazione italiana. Siamo anche Noi partecipi della pena di tanta sciagura; lo siamo con quanti ne soffrono; lo siamo con tutti coloro che si prodigano a recare soccorso e conforto; lo siamo con tutto il cuore. Il cuore del Papa è come un sismografo, che registra le calamità del mondo; con tutti, per tutti soffre; e più lo deve per questa cara e povera gente, a Noi geograficamente e spiritualmente vicina! Risuonano nel Nostro spirito le parole dell’Apostolo: «Chi è infermo, che anch’io non lo sia?» (
2Co 11,29).

Ma perché a voi, cari visitatori, diciamo queste cose? Perché voi siete venuti a trovarci per conoscerCi un poco da vicino, per guardarci nel cuore, e per vedere nel Nostro sentimento quello della Chiesa; ebbene, la Chiesa, che così si esprime, dimostra un aspetto fondamentale della sua costituzione, quello che la definisce una «comunione»; una società cioè simile ad un corpo, nel quale - sempre per usare la parola di San Paolo - «se un membro soffre, tutte le membra soffrono con esso» (1Co 12,26). Cosi è la Chiesa, un sodalizio, ove la carità è principio vitale e legge al suo sentire e al suo operare; e a voi non deve dispiacere che verità così grande, così originale e così cristiana vi sia qui ricordata.

E a voi queste cose ancora diciamo per trovare conforto nella presente sventura, osservando come i segni della bontà e della fraternità si sono subito manifestati e moltiplicati intorno a quelle popolazioni infelici, da parte di tutti; dalle Autorità civili per prime, e poi da quanti hanno possibilità di recare qualche aiuto. Ne diamo loro lode Noi stessi, che, pur nell’esiguità dei Nostri mezzi, non abbiamo voluto essere assenti nel compimento d’un dovere, che le proporzioni stesse della disgrazia rendono comune. Questa grande afflizione Ci ha confermato con nuovi segni la sensibilità umana e cristiana d’un popolo, che non mai come nelle ore delle grandi prove dimostra la sua spirituale unità e la sua pronta generosità; e non dubitiamo che anche voi, con la compassione almeno degli animi nobili, vogliate essere solidali nel tributare cordiale sollievo a chi soffre e a chi piange.

E dicendovi queste cose non perderemo infine l’occasione per ricordarvi come l’incomprensibile fatalità di simili catastrofi non deve essere motivo d’interiore ribellione alla concezione d’un ordine buono e sapiente, sovrastante alle sorti della nostra fragile ed effimera vita, ma stimolo piuttosto a sempre bene impiegarla, questa vita, e a scoprire nel dolore stesso una fonte di superiore grandezza e di trascendente redenzione. Per il cristiano tutto può volgere a bene; ed affermando questo misterioso ottimismo, non diventiamo artificiosamente insensibili, o scioccamente stoici davanti alla tragicità di certe angosciose situazioni dell’umana esistenza; ma piuttosto pietosi a comprenderla, questa tragicità, a condividerla, a consolarla. La Croce ci è maestra.

E così, mandando un pensiero af6fettuoso e una preghiera fraterna alle vittime, morte o vive che siano, del terremoto siciliano, ed a quanti nel mondo intero soffrono e muoiono, metteremo nel cuore qualche buono e grande sentimento cristiano, che Noi, con la Nostra Benedizione Apostolica, vogliamo assecondare e avvalorare.

A un pellegrinaggio di Vietnamiti l’Augusto Pontefice rivolge il seguente speciale saluto: (in francese)



Mercoledì, 24 gennaio 1968

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Diletti Figli e Figlie!

Anche noi, in questa settimana dedicata alla preghiera e alla riflessione per l’unione dei Cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, vi diremo una parola, breve e modesta, su questo problema dell’ecumenismo, che ha preso immense proporzioni negli studi, nelle parole, nell’attività dei Cattolici e degli altri Fratelli. Una parola Nostra, attinta dall’intimità della Nostra personale vita spirituale; una confidenza di padre a figli, quali voi, con codesta presenza alla Nostra udienza settimanale, dimostrate di essere.


L'ECUMENISMO ALIMENTATO DALLA CARITÀ

Vi diremo che questo movimento ecumenico è stato per Noi uno stimolo molto forte e, speriamo, molto benefico alla carità, alla virtù regina di tutto il sistema morale cristiano, alla virtù che compendia la missione pastorale verso tutta la Chiesa e verso tutta l’umanità, secondo il carisma e secondo il mandato, che Cristo a Pietro e quindi anche a Noi, che gli siamo indegni, ma autentici successori, ha affidati. Non si creda che parlare d’un aumento di carità nel cuore del Papa sia altruismo retorico, o sia far torto a quella presunta pienezza di carità, ch’è reclamata dal suo stesso ufficio di «praesidens in caritate», che S. Ignazio d’Antiochia all’inizio del secondo secolo riconobbe alla Chiesa di Roma. Noi abbiamo sempre meditato sul fatto che Cristo abbia non una, ma tre volte domandato a Simon Pietro, nel famoso colloquio dell’ultimo capitolo del Vangelo di San Giovanni, se lo amava, anzi se lo amava più degli altri discepoli (21, 15, ss.), quasi ad indicare la capacità e la necessità d’un progresso nell’amore, che l’Apostolo prescelto a pascere il gregge del Signore a Lui doveva. Nessuno può mai dire di amare Gesù Cristo abbastanza; e meno di tutti lo può dire chi più di tutti è da Lui invitato, stimolato, con misterioso tormento, ad amarlo.


LA LUNGA VICENDA DI SEPARAZIONI E CONTROVERSIE

Ecco perché crediamo di dar lode al Signore dicendo che è parso a Noi di crescere nella carità studiando e sperimentando qualche po’ l’ecumenismo, quale il recente Concilio ci ha insegnato. È noto a tutti che l’ecumenismo nostro è innanzitutto una questione di carità. Di carità verso quei Fratelli, già insigniti del nome cristiano e già a noi uniti dalla comune rigenerazione mediante uno stesso battesimo e dalla professione di alcune fondamentali verità della fede, ma tuttora distinti e distanti per la mancanza d’identità completa e indispensabile nell’integrità d’una medesima fede e quindi della partecipazione unitaria e perfetta alla comunione dell’unica Chiesa voluta da Cristo.

Le origini di questi distacchi e separazioni, le controversie dottrinali e pratiche che ne derivarono, il timore che una assuefazione alla convivenza e alla conversazione generasse confusione di idee e acquiescenza all’indifferenza religiosa, e tante altre ragioni accrebbero talmente la vigilanza, la diffidenza, la polemica da una parte e dall’altra, ch’era diventata impossibile, se non nel cuore e nel desiderio, certamente nella manifestazione pratica e nello sforzo di conciliazione collettiva, la carità. Le posizioni rispettive dei Cattolici e dei Fratelli separati sono state per lungo tempo vigilate più per difendersi e per distinguersi, che non per avvicinarsi e per ricongiungersi. Mancava la carità.

E mancava anche per la convinzione ch’essa, la carità, non basta a produrre quella completa unione, che deve avere per fondamento una fede eguale e un’adesione concreta alla comunità visibile ed organica, che realizza in pieno il nome di Chiesa di Cristo. Necessaria, non per sé sola sufficiente, la carità per ricomporre l’unione, resta spesso ancora timida ed incerta nelle sue espressioni ecumeniche verso i Fratelli, con cui vorremmo ristabilire sinceri rapporti unitari e completi. Ma necessaria, diciamo, ma primaria, ma essenziale, la carità per avviare sul buon sentiero la soluzione, sempre complessa e difficile, della questione ecumenica nel senso che Noi crediamo unico e doveroso.

Ed ecco perciò che intendiamo fare dell’ecumenismo conciliare un esercizio nuovo, originale e magnanimo di carità. Parola facile; in realtà quale superamento di posizioni interiori acquisite e credute normali, quale umiltà, quale generosità, quale castigo al proprio egoismo, quale rinuncia al proprio prestigio, quale forza d’amore esige tale esercizio! Diciamo questo per Noi; lo diciamo per tutti, pastori e fedeli, che abbiano a cuore l’avvicinamento di questi Fratelli separati, a cui diamo finalmente il titolo di carissimi. Risuonano senza posa all’orecchio interiore le parole di San Paolo: «La carità è longanime, è benigna; la carità non è invidiosa, non agisce di traverso; non si gonfia, non è ambiziosa, non si irrita, non pensa male, ecc.» (
1Co 13). Parole belle, ma forti; esigono un rifacimento della nostra psicologia e un rinnovamento della nostra energia morale.


IL SOPRANNATURALE GAUDIO PER I VASTI CAMPI DELL’APOSTOLATO

Ma a questo punto Noi dobbiamo dire che cominciamo a provare il gaudio che la carità porta con sé. Quale gaudio per Noi sollevare lo sguardo sui campi sterminati delle Chiese e sulle Comunità cristiane da noi separate, e poterle oggi più che mai contemplare con amore, col nuovo amore che lo Spirito Santo infonde ora alla umanità credente in Cristo; e poter dire a tutti questi Fratelli che Noi, sì, Noi, il Papa di Roma, li amiamo; cioè li stimiamo, cioè li benediciamo. E quale gaudio vedere che da ogni parte di questi campi, «che già biondeggiano per la messe» (Jn 4,35), giungono a Noi messaggi di amicizia, di bontà, di speranza, che Ci fanno balzare il cuore di commozione e di riconoscenza!

Carità, carità! Che sia questa la tua ora? O figli carissimi, procuriamo tutti d’essere degni di prepararle le vie. Preghiamo, amiamo, operiamo perché la carità sia nei nostri cuori, e possa operare il prodigio del suo trionfo. Diamo all’ecumenismo cattolico l’attenzione e l’adesione ch’esso si merita; rileggiamo e meditiamo l’ultimo capo del Decreto conciliare sull’Ecumenismo (n. 24) e facciamone nostro programma; e che il Signore tutti ci benedica.



Mercoledì, 31 gennaio 1968 OGNI CATTOLICO DEVE TESTIMONIARE E DIFFONDERE IL REGNO DI DIO

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Diletti Figli e Figlie!

Siamo obbligati a ripeterci; seguiamo però un filo ideale; esso percorre una linea che può sembrare monotona, anche se procede avanti.

Consentite infatti che ancora una volta Noi ritorniamo sopra l’affermazione di principio, canonizzata dal Concilio, secondo la quale ogni cristiano deve essere apostolo; ogni fedele deve essere membro attivo della Chiesa; ogni laico cattolico è investito del diritto-dovere di operare per la testimonianza e per la dilatazione del regno di Dio. Nessuno può oggi contestare questo criterio di vita cristiana. Proprio nel momento storico in cui il sentimento religioso si affievolisce e si spegne in molti strati della popolazione; e la secolarizzazione, il laicismo, la negazione di Dio sembrano essere acquisiti, senza istanza ulteriore e superiore, nella mentalità moderna, la Chiesa non solo si presenta al mondo nella pienezza della sua coscienza religiosa e nel fervore del suo rinnovamento di fede religiosa, di autenticità evangelica, di strutturazione gerarchica e comunitaria, ma esige altresì che ciascuno dei suoi figli le sia unito con una forma piena di nuova fedeltà, quella dell’irradiazione apostolica. Potrebbe sembrare una reazione paradossale, quasi illusoria o temeraria, questa mobilitazione generale alla milizia cristiana, assunta in forma ufficiale dalla Chiesa conciliare; ma la realtà è davvero questa: la Chiesa, per usare l’espressione autorevole del Card. Suenens, scolpita in un suo libro di poco anteriore al Concilio, la Chiesa si è messa «in stato di missione». Così è, per chi interpreta correttamente le profonde esigenze della vita cristiana; così è, per chi osserva l’animazione apostolica che ha percorse le membra della Chiesa da oltre un secolo a questa parte; così è, chi accetta la voce del Concilio, come epilogo della esperienza spirituale e della storia vissuta della Chiesa nel tempo nostro, e come inizio d’un nuovo periodo spirituale e storico del cattolicesimo per il prossimo secolo. Così è, per chi osserva i segni dei tempi e ascolta «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (
Ap 2,6).


LE RADICI INTERIORI DELL’APOSTOLATO

Ma a questo punto due domande s’impongono. La prima, a cui ciascuno risponderà nel silenzio della propria coscienza, è questa: quale grado di persuasione personale ha per noi questa dottrina teorico-pratica nella realtà concreta della nostra vita? Cioè: come effettivamente rispondiamo alla vocazione all’apostolato, che oggi la Chiesa intima ad ogni suo figlio, anche ad ogni laico che voglia esserle fedele?

Ed ecco la-seconda domanda: quali sono le radici interiori dell’apostolato? È una domanda antica, ma sempre d’attualità. L’apostolato esige una psicologia, richiede una formazione; non è cosa facile, non è un semplice atteggiamento esteriore, non è un conformismo ad una moda sociale. L’apostolato è interiormente, ancor più che esteriormente, difficile; esso trova un primo e grande ostacolo nella propria timidezza, nella propria inesperienza, nel legittimo «rispetto umano», che inibisce di parlare su ciò che bene non si conosce, o che altri conoscono meglio di noi, e di assumere atteggiamenti innaturali e inopportuni di fronte ad altri, che, invece d’essere edificati e convinti, potrebbero irridere uno zelo inabile o intempestivo.

PRODIGIOSE POSSIBILITÀ PER VIRTÙ DIVINA

Vi è chi, quasi per istinto, si espone al pubblico. L’arte di manifestare le proprie idee è diventata abbastanza comune nell’ambiente sociologico moderno; le vocazioni pubblicistiche oggi si moltiplicano, e diventano professioni delle così dette comunicazioni sociali. Ma, prescindendo dal pericolo che questa facilità al colloquio pubblico diventi mestiere e si ponga al servizio di cause immeritevoli di vera dedizione, e pur tenendo nella dovuta estimazione questa abilità all’espressione, orale o scritta, del pensiero, dobbiamo riconoscere ch’essa non è di tutti; spesso è più un dono naturale, che una virtù acquisita; anche se è sempre vero che «poëta nascitur, orator fit», poeta si nasce e oratore si diventa. Ma la questione che ora ci interessa è proprio questa: come si diventa oratori; e, nel caso nostro, come si diventa apostoli?

Qui la risposta sarebbe molto varia e interessantissima. La storia della Chiesa è piena di bellissime documentazioni circa la metamorfosi di animi inetti, paurosi, refrattari dinanzi alla dinamica dell’apostolato, trasformati poi in operai del Vangelo, coraggiosi, abili, perseveranti, intrepidi. La sorte dei primi Apostoli, quelli chiamati da Gesù, a predicare il suo regno e a diffondere nel mondo la Chiesa, non è una prima, caratteristica documentazione di questa abilitazione all’apostolato? E nell’agiografia cattolica non troviamo molteplice conferma di questa prodigiosa possibilità che, per virtù divina, perfino le pietre diventino capaci di acclamare alla regalità messianica di Cristo? (cfr. Lc 19,40).

Del resto la risposta alla nostra questione: come si diventa apostoli è già data da una vasta letteratura ascetica; basti ricordare la notissima opera del padre Chautard: «L’anima dell’apostolato», ancora attuale nelle sue affermazioni fondamentali, che ci portano a rintracciare le radici interiori dell’apostolato esteriore. L’apostolato è un fenomeno di esuberanza spirituale e personale, che si fa esempio, voce, opera al di fuori dell’ambito soggettivo, per riversarsi nell’ambito esterno e sociale. Non può essere vero apostolo chi non ha una propria, profonda, ardente vita interiore.

Il Concilio lo dice (cfr. AA 4; etc. etc.).


IL PRIMO REQUISITO: AMORE PIENO,VERO, APPASSIONATO A CRISTO

Il discorso si farebbe lungo. Restringiamolo in questi brevissimi punti: per essere apostoli, come oggi la Chiesa vuole che tutti siamo, anche i laici, occorre un amore appassionato a Gesù Cristo, un amore proprio, un amore vero, un amore pieno. L’apostolato è amore che trabocca, che scoppia, che si effonde in testimonianza ed in azione. Come avviene ciò? Per opera, per impulso, per grazia dello Spirito Santo, sgorgante dall’intimità della Parola di Dio, accolta, meditata, vissuta. E finalmente l’apostolato deriva dalla forza arcana del «mandato» della Chiesa.

Per sé, uno non può essere apostolo se non ha, in qualche debita forma, il mandato, obbligante e rassicurante, dell’autorità della Chiesa. Quando queste condizioni si verificano in un’anima, l’apostolato diventa facile e vittorioso. Sono esse le radici da cui esso trae origine e vigore.

A voi le segnaliamo, e già le conoscete; a voi le raccomandiamo, affinché davvero siate tutti, secondo la propria possibilità, apostoli di Cristo, nella Chiesa di Dio, nel mondo moderno, con la Nostra Apostolica Benedizione.

Dando uno speciale saluto alle Religiose di S. Angela Merici, il Santo Padre dice:

Nous sommes heureux de saluer tout d’abord les religieuses des nombreuses congrégations qui se rattachent à Sainte Angèle de Mérici. Nous les félicitons du beau témoignage de collaboration généreuse qu’elles viennent de donner en faveur d’une église paroissiale romaine et Nous souhaitons que leur congrès actuel porte les meilleurs fruits, pour répondre aux appels du Concile.



Mercoledì, 7 febbraio 1968 L'APOSTOLATO ESIGENZA SPIRITUALE

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Diletti Figli e Figlie!

Una delle luci che il Concilio proietta sulla Chiesa, Noi l’abbiamo già ripetuto, è la vocazione d’ogni figlio fedele della Chiesa stessa a quell’espansione di fede e di vitalità cristiana, a quella effusione della pienezza interiore, che la sua inserzione nel corpo mistico di Cristo porta con sé, a quell’amore del regno di Dio, a quella testimonianza religiosa e morale che oltrepassa la sua singola individualità, a quel bisogno di comunicare ad altri il tesoro di verità e di grazia ch’egli possiede, che, con termine ormai diventato comune, chiamiamo apostolato. Anche il laico, a qualsiasi condizione appartenga, è chiamato a questa coscienza, a questa attività. Bisognerà insistere su questo principio, perché da questo in grande parte scaturisce quel rinnovamento, quel progresso, che il Concilio ha voluto apportare alla Chiesa. L’apostolato non è solo un fatto esteriore, sociologico; è un’esigenza spirituale interiore che trae la sua ragion d’essere dal mistero stesso della Chiesa, a cui il cristiano appartiene. Ma come quest’esigenza si esprime e si realizza? Dicevamo altra volta, sulle tracce del Concilio, in due forme fondamentali: individuale l’una, associativa l’altra (cfr. Apost. actuos.,
AA 15 ss.).

Invitiamo oggi la vostra attenzione a soffermarsi un istante su questa seconda forma dell’apostolato, quella associativa.


OGNI ATTIVITÀ NATURALE SI SVOLGE IN FORMA ASSOCIATIVA

La quale, enunciata con questa semplice qualificazione, solleva ordinariamente negli animi un senso di diffidenza, di ripulsa, e anche talvolta di noia. Essere associati non è cosa che piaccia a tutti. Molti preferiscono rimanere liberi. Mettersi in fila, o in cerchio, con altri per far dell’apostolato facilmente suscita molestia. Se questo poi si fa, o si subisce per uno scopo ideale, nasce facilmente l’impressione che l’ideale diventa prosaico, perde le ali, diventa formalismo, si intristisce in rapporti obbligati, in forme convenzionali, pedanti e pesanti: crea burocrazie, gerarchie, esteriorità spesso punto gradite. L’apostolato associato sembra una rete ingombrante senza spontaneità, né genialità; diventa talora rivolto più al fatto organizzativo, che ai fini essenziali dell’apostolato stesso. Mira al numero, al potere. Non sembra poi che risponda agli umori del nostro tempo. Così si dice. E svolgendo nel loro spirito queste obiezioni, molti, moltissimi forse, rifuggono dal dare il loro nome, la loro adesione a forme di apostolato, sia religioso, che caritativo, o morale, o sociale, e dicono di preferire il bene, che non fa rumore; ma che, in realtà, non porta né spesa, né disciplina, né impegno, né fastidio.

Questa psicologia presenta aspetti degni di rispetto e di considerazione, sia perché rivendica la legittimità dell’apostolato individuale, e sia perché rifugge dai difetti che l’apostolato collettivo può generare.

Ma siamo sinceri. Non è in forma associativa che ogni attività naturale si svolge e si afferma? «L’uomo - ricorda il Concilio - è per natura sua sociale» (ib., AA 18). Ma ciò che più conta per noi è il fatto che «l’apostolato associato - sempre il Concilio che parla - corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli, e al tempo stesso si mostra come segno della comunione e dell’unità della Chiesa in Cristo, il Quale disse: “Dove sono due o tre riuniti nel nome mio, Io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Perciò i fedeli esercitino il loro apostolato in spirito di unità - continua il Concilio -. Siano apostoli tanto nelle proprie comunità familiari, quanto in quelle parrocchiali e diocesane, che sono già esse stesse espressione dell’indole comunitaria dell’apostolato, e in quelle libere istituzioni nelle quali avranno stabilito di unirsi. L’apostolato associato è di grande importanza anche perché, sia nelle comunità della Chiesa, sia nei vari ambienti, spesso richiede d’essere esercitato con azione comune» (ib. AA 18).


I FELICI RISULTATI D’UNA VERA AMICIZIA

Riteniamo che non occorra dire di più su questo punto, perché tutti in fondo sono convinti che per fare dell’apostolato, non puramente occasionale e privato, bisogna aggregarsi ad altre persone di eguali sentimenti. Ecco perché l’amicizia, intesa come forma di fare del bene, può essere apostolato elettissimo; anche perché l’amicizia si fonda su affinità spirituali spontanee, che procurano diletto e fervore, accendono la fantasia e rendono facili i tentativi dell’apostolato, che forse da sé nessuno oserebbe compiere. L’amicizia, come apostolato, Noi la raccomandiamo come metodo, come allenamento e proprio come interpretazione autentica della carità effusiva e doppiamente benefica, a chi la esercita e a chi ne riceve i benefici (cfr. ib. AA 17).

Quante opere buone sono nate così! Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli non hanno avuto, ad esempio, questa origine? E quante famiglie religiose sono sorte dallo sviluppo d’un piccolo nucleo di amici! La Compagnia di Gesù, per citare un insigne esempio storico. E quanti Istituti religiosi e secolari moderni hanno analoga origine! Alcune istituzioni, oggi in grande rinomanza e in grande diffusione, non ripetono la loro nascita da piccoli gruppi iniziali, associati nella carità e nel desiderio di servire la causa di Cristo? La loro virtù associativa ha fatto la loro forza e la loro fortuna, ed ha dato all’apostolato cattolico una sorprendente fecondità. Noi li osserviamo con compiacenza, li incoraggiamo e li benediciamo.


INFALLIBILE GUIDA: IL «SENSO DELLA CHIESA»

La molteplicità di queste istituzioni dice quanta libertà d’iniziativa abbia l’apostolato in seno alla Chiesa, e quale ricchezza di scelta sia offerta al fedele volonteroso, che voglia esercitare l’apostolato in forme di suo gradimento e in compagnia di fratelli a lui affini per qualche speciale ragione, di spirito, di gusto, di lingua, di metodo, di personale conoscenza, di esperienza. Questo particolarismo preferenziale porta con sé un pluralismo8 di forme associative, che la Chiesa permette e protegge (cfr. ib. AA 19), non deve tuttavia tradursi in egoismo spirituale, o in orgogliosa emulazione d’un gruppo nel confronto con gli altri gruppi, o con la generalità dei fedeli, ma deve essere illuminato e guidato dal «senso della Chiesa», dallo spirito di amore verso tutti i fratelli, dal dovere dell’unità gerarchica e comunitaria, propria della Chiesa cattolica. La tentazione del suddividere la compagine ecclesiale in partiti, in cenacoli chiusi, in gruppi antagonisti, in sodalizi segreti, in porzioni staccate, è antica quanto il cristianesimo, che sempre è minacciato di alterazione e perfino di dimenticanza e di degenerazione del suo fatto costitutivo: l’associazione cioè nella medesima fede e nella medesima carità. San Paolo non lo scriveva forse ai Corinti fino dai primi anni della Chiesa nascente (anno 57)? «Io vi esorto, fratelli, per il nome del Signor nostro Gesù Cristo... che non siano tra di voi divisioni, ma siate tutti uniti nello stesso modo di pensare e nello stesso sentimento... Ciascuno di voi dice: io sono di Paolo; io sono di Apollo; e io sono di Cefa; ed io - conclude San Paolo - io sono di Cristo» (1Co 1,10-12).

E questo a voi ricordando tutti di cuore vi benediciamo.



Mercoledì, 14 febbraio 1968

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Diletti Figli e Figlie!

Parliamo dell'apostolato, dell’apostolato dei Laici, di questa vocazione, che oggi la Chiesa intende svegliare nella coscienza d’ogni fedele suo figlio, non escluso, anzi intenzionalmente compreso, colui che non è stato dotato di vocazione sacerdotale, né di vocazione religiosa, ma semplicemente di quella di buon cristiano, che vive nel mondo e che chiamiamo laico, secolare. Anche per questo suo figlio la Chiesa riserva una chiamata conforme sia al suo carattere laico, sia al suo carattere cristiano; la chiamata alla testimonianza, la chiamata alla milizia ideale di chi è stato battezzato e cresimato, la chiamata al servizio della causa di Cristo; la chiamata alla collaborazione alla missione apostolica propria della Gerarchia ecclesiastica.

Figli carissimi! Avete voi ascoltato la voce di questa chiamata? Essa non impone soltanto doveri, ma attribuisce diritti, dignità, funzioni; essa conferisce alla personalità del cristiano, anche laico, una pienezza d’adesione a Cristo, avente la duplice virtù di perfezionare, di santificare colui che la fa propria, e di trasmettere ad altri, ai fratelli vicini o lontani, qualche dono del regno di Dio: lo stimolo al bene, l’amore alla Chiesa, la vivacità della fede, l’intelligenza dei bisogni del prossimo e l’ansia di venirgli in aiuto.

Vi sono tante forme nelle quali questa chiamata si esprime, e perciò tante forme con le quali vi si può corrispondere. Oggi queste forme, sia di domanda che di risposta, si moltiplicano. Lo dicevamo altra volta. Nascono, un po’ dappertutto, gruppi, così detti informali, cioè senza vincoli precisi d’associazione, che una spontanea volontà di operare nella sfera cristiana, per via di affinità d’ambiente, riunisce, con risultati spesso molto belli e generosi, ma indipendenti dalla comunità ecclesiale, e alcune volte diffidenti dall’aggregazione a quadri, a cui presieda l’autorità della Chiesa.

Sono libere palestre del bene, della cultura, dell’apostolato, alle quali si devono riconoscere meriti particolari, fra cui quello di favorire le espressioni congeniali di date categorie e di allenare persone, giovani specialmente, all’esercizio di qualche affermazione morale o spirituale, che supera i confini, tanto stretti, comodi e attraenti dell’egoismo, del gregarismo, del disinteresse verso la grande e somma causa del regno di Dio. Se lo spirito di critica verso i fratelli e verso i pastori della comunità ecclesiale non isola, non invanisce, non deforma questi gruppi, possono anch’essi giovare alla causa cattolica; e con questa fiducia e con questo voto anche Noi riserviamo ad essi la Nostra affettuosa simpatia e la Nostra benedizione.

Ma non possiamo tacere che il grado di autenticità e di efficienza nell’apostolato dei Laici ha oggi nella Chiesa una precisa misura (parliamo ora della forma che configura tale apostolato, non della bontà e della bravura delle persone che lo esercitano); e tale misura è data dal rapporto che esso ha con la Gerarchia della Chiesa; Gerarchia, alla quale compete la prima e somma responsabilità dell’apostolato, la prima e somma funzione pastorale, che fa d’un fratello la guida, il maestro, il distributore dei divini misteri per gli altri fratelli. Il sistema della salvezza, che nell’apostolato trova il suo strumento, derivante da Cristo la sua autorità ed i suoi carismi, primo e qualificato, nel Vescovo: il Vescovo è l’apostolo per eccellenza, perché degli Apostoli è successore, erede, rappresentante. Perciò chi dal Vescovo riceve lo statuto, il mandato, l’istruzione per l’esercizio dell’apostolato, partecipa, per via di collaborazione e di dipendenza, nel grado superiore e nella forma migliore, alla missione salvatrice della Chiesa, e si trova inserito in quella magnifica istituzione, che si chiama l’Azione Cattolica.

Discorso lungo meriterebbe il tema dell’Azione Cattolica; ma tanto esso è stato ripetuto in questi ultimi decenni da Papi, da Vescovi, da Uomini eminenti e sapienti, che si può subito abbreviare e concludere.

Diremo soltanto che l’apostolato dell’Azione Cattolica è più che mai d’attualità. Si legga ciò che ne dice il Concilio (Christus Dom.
CD 17, e Apost. actuos. AA 20). I Pastori ben sanno che se ai Laici è libero l’appartenervi o no (l’Azione Cattolica è un movimento di volontari), è obbligo loro di conservarla e di promuoverla. Non è fenomeno caduco, che ha fatto, come si dice da alcuni, il suo tempo; è organo ormai integrativo della struttura ecclesiale; ed è di tale importanza nelle presenti contingenze storiche, che sarebbe fallace giudizio tenerlo in mediocre considerazione (cfr. AA 21). E aggiungeremo che proprio gli aspetti, per i quali l’Azione Cattolica è oggetto di critiche e di riserve da parte di chi le è estraneo, o ne considera i pesi e le difficoltà, sono quelli che ne costituiscono i meriti migliori: è una grande schiera di Laici fedelissimi; è organizzata e permanente; è pronta a servire non solo questa o quest’altra necessità della Chiesa, ma tutte; è solidale in toto con la Gerarchia, ne riceve le istruzioni, che con genio proprio attua e perfeziona; è unitaria, è nazionale, è profondamente ed essenzialmente religiosa. Rispecchia, a suo modo, le note della Chiesa, ch’è una, santa, cattolica ed apostolica; e perciò fa partecipare i Laici, che hanno la intelligenza e la generosità di appartenervi, al mistero di unione e di carità, proprio della Chiesa di Cristo.

Il che è quanto dire: Figli carissimi! riflettete se anche voi non abbiate la chiamata ad inserirvi nelle file di questo pacifico esercito; e se già avete questo onore e questa fortuna, ringraziate il Signore, e procurate d’essere degni di questa elezione.

Fecondi questi fugaci pensieri la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì delle Ceneri, 28 febbraio 1968 L'INSEGNAMENTO VITALE DELLA LITURGIA

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Diletti Figli e Figlie!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri, comincia la Quaresima, cioè un periodo dominato dalla liturgia, che si spiega in una grande ampiezza di forme, di preghiere, di riti, di pratiche ascetiche, e che la voce del recente Concilio raccomanda alla valutazione della Chiesa in modo del tutto particolare (cfr. Sacrosanctum Concilium
SC 109 SC 110). È quello che facciamo Noi ora per voi, cari visitatori, ricorrendo innanzi tutto ad un’affermazione, che ha carattere di principio generale per la vita cristiana, e cioè: «La liturgia della Chiesa contiene una riserva enorme di pedagogia umana, d’orientazione cristiana, di padronanza della vita; una riserva che, fino a questo tempo, è stata usata molto imperfettamente» (Jungmann).

La liturgia c’insegna a vivere, ci fa vivere, come uomini e come cristiani, purché sia capita e partecipata. Potremmo ricordare il modo e la forza con cui essa ci orienta a Dio, come essa ci unisce a Cristo, e come ci dia il «sensus Ecclesiae». Potremmo ritrovare facilmente riflessi nella celebrazione della liturgia i pensieri che hanno guidato queste Nostre conversazioni settimanali sulla Chiesa, sulla fede, e ultimamente sul laicato cattolico. La liturgia è la vita del Corpo mistico in atto; non rutta la vita spirituale si -esaurisce nella partecipazione alla liturgia, è chiaro (cfr. Sac. Conc. SC 12), ma «essa è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano» (ibid. SC 14).



PREGHIERA, PENITENZA, PAROLA DI DIO

E quali sono i temi della pedagogia liturgica quaresimale?

Sono molti, e sono intrecciati in un lungo poema, che diventa dramma alla fine, tragedia, trionfo nella celebrazione del mistero pasquale. Possiamo, con stile di catechismo, rintracciare nella liturgia quaresimale un primo motivo, quello circa la vera condizione dell’uomo: essa ci è presentata in contro-luce, la luce di Dio, che, riflettendosi su l’uomo, sua creatura, suo capolavoro, ne svela la rovina, l’inquietudine, il dualismo fra carne e spirito, la deformazione, il bisogno e nello stesso tempo l’incapacità d’una restaurazione, l’infelicità radicale, il peccato cioè, e perciò la necessità che egli ha d’essere salvato, redento, richiamato ad una vita nuova. Questa triste realtà offre la trama di altri motivi quaresimali; ha un posto principale la preghiera nascente da una coscienza afflitta e umiliata, che solo la speranza in Cristo Salvatore e Mediatore trattiene dalla disperazione, da .quel cinismo e da quella vertigine dell’assurdo e dell’anarchia, in cui oggi spesso si manifesta la fenomenologia dello spirito moderno. E con la preghiera la penitenza, questa espressione d’una profonda amarezza interna, bisognosa di tradursi in segni esterni di pentimento e di espiazione. Sappiamo come la disciplina del digiuno quaresimale interpretava con realistica severità questo bisogno della coscienza convinta della propria colpevole condizione. Ora il digiuno, salvo oggi e il Venerdì Santo (cfr. Paenitemini, II, § 3), non è più d’obbligo, ma resta sempre per tutti l’obbligo della penitenza, a cui la liturgia quaresimale tanto ci esorta.


RICORDARE SEMPRE D’ESSERE CRISTIANI

Ed altro motivo succede: l’ascoltazione della Parola di Dio, ascoltazione, che sa, in un primo tempo, di penitenza, ma poi subito ci offre il primo filo dell’economia della salvezza: è nella Parola di Dio che abbiamo l’annuncio della Verità-Vita, l’annuncio della misericordia, l’annuncio dei mezzi della nostra rigenerazione, primo fra questi il battesimo.

E di qui un altro motivo dominante.

Gli «elementi battesimali» sono propri della liturgia quaresimale, e pervadono la sua catechesi, sia orale, che rituale. Ricordare il battesimo vale per noi ricordare che siamo cristiani, e come lo siamo e perché lo siamo. Cristo appare allora il punto focale di questa pedagogia liturgica; e non un Cristo puramente ideale e vago, ma il Cristo nella duplice realtà della sua apparizione storica, conclusa con la sua Passione e con la sua Risurrezione; e nella realtà della sua missione salvatrice, che, facendoci sacramentalmente partecipare alla sua vita umano-divina, ci infonde l’animazione nuova, la grazia, lo Spirito Santo, per cui siamo vivi e cristiani.


LA RISPOSTA DI SPIRITI COSCIENTI E CORAGGIOSI

Questo è il quadro quaresimale. Non bisogna dimenticarlo. Non dobbiamo accontentarci di osservarlo, dal di fuori, con uno sguardo distratto e fugace. La pedagogia liturgica, si direbbe, è esistenzialista; tende a farsi realtà umana, a diventare personale, a trascinare ciascuno di noi nel suo salutare incantesimo, che ci disillude di tanti altri incantesimi dei sensi e del mondo, e che ci porta a vivere nella realtà di Cristo.

Noi che faremo nella Quaresima, che oggi comincia? Lasciamo a voi la risposta, che confidiamo sia quella di spiriti coscienti e coraggiosi, quali vi conforta ad essere la Nostra Apostolica Benedizione.




Paolo VI Catechesi 17168