Paolo VI Catechesi 29568

Mercoledì, 29 maggio 1968 ENTUSIASMANTI VISIONI DI UNA PAGINA CONCILIARE

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Diletti Figli e Figlie!

Il nostro pensiero si rivolge oggi a Maria Santissima, che la pietà popolare della Chiesa onora in modo particolare durante il mese di Maggio; e noi non lasceremo terminare questo periodo, che collega la primavera della natura a quella religiosa, che dovrebbe fiorire nelle nostre anime contemplando e venerando il più bel fiore dell’umanità redenta da Cristo, senza riaccendere la nostra devozione verso la Madonna, la vergine Madre di Cristo e nostra Madre spirituale.

E dobbiamo farlo secondo lo spirito del Concilio, dal quale traggono di solito impulso e norma queste Nostre settimanali esortazioni. Tutti sappiamo che il Concilio ha dedicato tutto il capitolo ottavo ed ultimo della grande Costituzione dogmatica sulla Chiesa, mettendo quasi al vertice di questa stupenda costruzione dottrinale la dolce e luminosa figura di Maria; e tanto basta perché ci sentiamo tutti obbligati, anche per l’autorità rinnovatrice del Concilio, a rinnovare il nostro concetto e il nostro culto della Vergine. Il Concilio non ha voluto esporre nuovi dogmi su di Lei, come non ha inteso di dire tutto ciò che di Maria si potrebbe dire; ma ha presentato Maria Santissima in tale forma e con tali titoli, che ogni fedele agli insegnamenti conciliari deve non solo sentirsi confortato alla professione della pietà mariana, sempre tenuta nella Chiesa cattolica in tanto onore e in tanto fervore, ma deve altresì sentirsi invitato a modellare la sua devozione secondo le ampie, autentiche, entusiasmanti visioni, che la magnifica e densa pagina conciliare offre alla contemplazione e alla devozione del cristiano provveduto.


MADRE DEL FIGLIO DI DIO FIGLIA PREDILETTA DEL PADRE TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO

Quali visioni? Proviamo fatica a rispondere, tanto è immenso e profondo il cielo in cui Maria appare nel quadro della dottrina conciliare. Ai più volonterosi e sagaci Nostri ascoltatori non abbiamo nulla di meglio da suggerire che di rileggere e meditare quel menzionato capitolo ottavo: è uno scrigno di tesori, ciascuno dei quali meriterebbe una sua illustrazione, sia dottrinale, che spirituale. Ma per non tralasciare di proporre qualche elementare concetto riassuntivo, al quale dovrà uniformarsi il nostro rinnovato culto a Maria, diremo innanzi tutto che la Madonna ci è presentata dal Concilio non come figura solitaria, campeggiante in un cielo vuoto, ma come creatura singolarissima e bellissima e santissima proprio per le relazioni divine e misteriose che la circondano, che definiscono il suo essere unico, e che la riempiono di luce, quale altrove non ci è dato, in semplice creatura, in sorella della nostra umanità, ammirare. Ciascuno di noi, nell’ordine della creazione e della grazia, si trova in determinate relazioni con la divinità; queste relazioni, in Maria, assurgono a gradi di pienezza, che non sappiamo nemmeno descrivere; le parole, che le enunciano, sopportano un peso che le sprofondano nel mistero; le conosciamo queste parole; ma riascoltiamole pronunciate dal Concilio: Maria «è insignita del sommo ufficio e della dignità di Madre del Figlio di Dio (fatto uomo), e perciò figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per il quale dono di grazia esimia precede di gran lunga tutte le creature, celesti e terrestri» (Lumen Gentium
LG 53). Non si può contemplare la Madonna senza vedere e adorare il quadro divino, trinitario, in cui ella è collocata: la trascendenza divina balena davanti ai nostri occhi, che godono di poterla in qualche modo contemplare questa figlia della nostra «stirpe di Adamo» (ib.); ed è questa accessibilità che spiega forse la priorità pratica che spesso il culto a Maria assume nella vita religiosa di molti devoti, ai quali è istintivo conforto sostare, più che volare oltre alla stazione mariana, come quella che appartiene alla nostra storia e meglio corrisponde alla capacità della nostra esperienza umana e religiosa. Ma è Maria stessa che ci attrae poi nel suo volo trascendente verso Dio: ricordate il «Magnificat».


NESSUNA CREATURA UMANA È STATA PIÙ VICINA A CRISTO . . . E PIÙ DI LEI COLMATA DI GRAZIA

E poi la Madonna - chi non lo sa? - è tutta di Cristo: da Lui, per Lui, con Lui. Non possiamo, nemmeno un istante, dimenticare questa altra relazione, che definisce Maria, Madre di Gesù, vivificata e vivente della sua Parola e socia della sua Passione; relazione che dà ragione d’ogni sua prerogativa, d’ogni sua grandezza, d’ogni suo titolo alla nostra sconfinata venerazione, al nostro amore, alla nostra fiducia. Il Concilio moltiplica i suoi insegnamenti proprio in ordine alla posizione privilegiata e alla funzione unica di Maria in ordine al mistero di Cristo. Come non possiamo farci un’idea di Cristo senza riferirci alle somme verità evangeliche della sua Incarnazione e della sua Redenzione, così non possiamo prescindere dalla presenza e dal ministero, che nella realtà di tali fatti evangelici Maria è stata chiamata a compiere. Nessuna creatura umana è stata più vicina a Cristo, più sua e più di Lei colmata di grazia; nessuna è stata tanto unita a Cristo come la Madre sua Maria, e nessuna è stata tanto amata da Cristo quanto colei che verginalmente lo generò per opera dello Spirito Santo, colei che ascoltò la sua Parola col «fiat», da cui si qualifica tutta la vita della Madonna, e colei che fu partecipe volonterosa d’ogni mistero della salvezza di Cristo (cfr. Lumen Gentium LG 61). Nessuno ha avuto tanta fede in Cristo (ricordate? Beata quae credidisti [ Lc 1,45 ] etc.). Nessuno come Lei ebbe tanta fiducia nella bontà operante di Gesù (cfr. Jn 2,5). Nessuno, è facile crederlo, ebbe tanto amore per Cristo quanto sua Madre, non solo per il sempre incomparabile rapporto di dilezione che una madre ha per il frutto delle sue viscere, ma altresì per la carità dello Spirito Santo, che fu in Lei vivificante e amoroso principio della sua divina maternità, che l’associò alla Passione del suo Figliuolo, e che nella Pentecoste inondò il suo cuore, e lo dilatò tanto da renderla madre spirituale della Chiesa nascente, anzi della Chiesa nei secoli alla quale noi pure apparteniamo, felici di poterle rivolgere il titolo, ch’Ella per se stessa profetizzò: «Beata mi diranno tutte le generazioni» (Lc 1,48). Si, beata sei Tu, o Maria, a cui noi avemmo l’immeritata fortuna di attribuire esplicitamente il titolo, che i secoli cristiani sempre Ti riconobbero, non nell’ordine sacramentale, causante della grazia, ma in quello della comunione diffusiva, propria del Corpo mistico, della carità e della grazia (cfr. Lumen Gentium LG 56 LG 61 LG 63) di «Madre della Chiesa».


LA «MADRE DELLA CHIESA» ESEMPIO DELLE FONDAMENTALI DOTI CRISTIANE

E così il nostro culto a Maria Santissima da cristocentrico si allarga nella sua dimensione ecclesiale. Il Concilio, rievocando una delle più alte e caratteristiche lodi che i Padri le tributarono, fra questi ricordiamo volentieri S. Ambrogio (In Luc. II, 7; P.L. 5, 1555), vide in Maria la figura della Chiesa, e l’esempio esimio delle fondamentali virtù cristiane, della fede specialmente e dell’obbedienza alla divina volontà (cfr. Lumen Gentium LG 63), la prima a cooperare «alla nascita e alla formazione con materno amore» (ib.) dei fratelli di Cristo, «segno di speranza e di consolazione al pellegrinante popolo di Dio, fino a quando verrà il giorno del Signore» (ib. LG 68).

Figli carissimi! lasciamo che i nostri animi subiscano l’incantesimo beato di questa dolce e confortante visione. Essa non ci distrae da quella triste e impressionante delle presenti condizioni del mondo, ma ci illumina a ravvisarne con i pericoli la difesa, con i mali il rimedio in quell’amore e in quella fiducia in Cristo che ha reso fratelli gli uomini e che ha portato per loro, anche se erranti e nolenti, una sempre possibile e vittoriosa salvezza. E che la Nostra Benedizione ottenga per tutti quella dolce e potente della Madonna.

Speciali auspici per la Calabria

Abbiamo presente all’udienza il Pellegrinaggio Calabrese, guidato dai suoi Vescovi, primi fra essi l’Arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Ferro, e quello di Catanzaro, Mons. Fares, con gli Arcivescovi di Cosenza, Mons. Picchinenna, di Rossano, Mons. Rizzo, ed altri sei venerati Confratelli Vescovi delle varie Diocesi (assente, per malattia, Mons. Raimondi, Vescovo di Crotone, al quale mandiamo un pensiero augurale e devoto).

È un Pellegrinaggio Regionale. È un Pellegrinaggio che porta a San Pietro la conferma della sua fede cattolica tanto radicata nel popolo e tanto ricca di memorie storiche: a Noi soccorre il ricordo della copiosa corrispondenza del Papa San Gregorio Magno con le varie Diocesi della Calabria, il che attesta l’antichità delle origini cristiane della Regione, e la fecondità delle sue tradizioni religiose: viene alla memoria Cassiodoro, con i suoi due monasteri, del Vivario e Castellese, e vediamo sorgere, in mezzo a vicende storiche di varie dominazioni (siamo nell’antica Magna Grecia), dei Bizantini, dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini, una rete di eremitaggi celebri, primo fra essi Serra San Bruno, dove il fondatore dei Certosini chiuse la sua Santa vita. E gli altri Santi? San Nilo, San Francesco di Paola, e via via: tutto questo dice una storia spirituale di grande significato e tuttora di singolare valore. Anche voi, Calabresi, siete eredi di un patrimonio spirituale molto ricco e molto penetrato nel vostro costume; ne avete fatto un «folklorismo», perfino, che attesta anche in tempi recenti la fedeltà e la semplicità dei vostri costumi: patrimonio prezioso, che voi dovrete conservare ed onorare anche nella metamorfosi del rinnovamento civile e spirituale, a cui la vostra Regione è ora destinata.

Sappiate che questa gelosa custodia dei vostri sentimenti religiosi e dei vostri sani costumi familiari è uno dei vostri doveri principali, proprio nell’ora in cui tutto il vostro territorio è in via di moderna trasformazione. Non possiamo, a questo proposito, tacere la Nostra compiacenza per le grandi opere che le Autorità civili hanno promosso e stanno promovendo, specialmente con gli ingenti aiuti e le ardite progettazioni della Cassa del Mezzogiorno: è un tributo di solidarietà e di interessamento che il Paese vi deve, non solo per i vostri grandi bisogni, per le condizioni ancora antiquate della vostra economia, per l’aridità della vostra terza montuosa ed impervia, ma altresì per la bontà degli abitanti d’una Regione che merita di congiungere alle glorie della storia passata la prosperità nuova del tempo moderno. I Nostri elogi ed i Nostri voti vanno sinceramente ai promotori ed ai lavoratori impegnati nello sviluppo economico, sociale e culturale di così bella, aspra e cara Regione.

Ma il Nostro saluto è specialmente per voi, venerati Pastori di quella terra benedetta: conosciamo le vostre fatiche, le vostre difficoltà; ma conosciamo altresì la generosità dei vostri sforzi pastorali; godiamo di vedervi qui riuniti in un comune atto di pietà e di adesione alla Chiesa, nel suo centro, e nel suo sforzo di aiutare il rinnovamento spirituale delle vostre rispettive Diocesi. Abbiate coraggio e sappiate da una Chiesa, povera di mezzi terreni, trarre la ricchezza della fedeltà e della bontà propria della vostra gente. Ed a tutta la gente della Calabria, qui così bene rappresentata da numerose e distinte sue Autorità civili - le quali cordialmente ossequiamo - e dalle schiere dei Pellegrini Calabresi, ai suoi Sacerdoti e Religiosi, ai cari Seminaristi e Laici cattolici militanti, a tutto quel popolo laborioso, sobrio, cristiano, Noi mandiamo il Nostro affettuoso e benedicente saluto.

I Capitoli Generali dell'Ordine di N. S. della Mercede e della Società Missioni Africane

Amadísimos hijos:

Os encontráis reunidos en Roma, durante unas fechas que conmemoran el setecientos cincuenta aniversario de la fundación de vuestra Orden, celebrando el Capítulo General que mira a la renovación religiosa según el Concilio Vaticano Segundo.

Vuestra historia, tan llena de santidad y de heroismos, no se ha detenido . . . sigue su curso: porque su trayectoria es de caridad y ésta pertenece a la esencia de la Iglesia, aunque las formas de aplicación vayan cambiando con los signos de los tiempos.

En conformidad con la doctrina del Concilio, queréis mantener y vigorizar el espíritu y el rico patrimonio de vuestra Orden, al mismo tiempo que analizáis las necesidades del mundo y de la Iglesia par ayudar más eficazmente, inflamados de celo apostólico, a los hombres. Este cometido, bien lo sabéis, no surtirá efecto si no va paralelo con una ferviente renovación interior, con la práctica de las virtudes de humildad y de obediencia, de fortaleza y de castidad, de pobreza y de caridad, por las que se participa del anonadamiento de Cristo, de quien fluye el amor al prójimo, rasgo peculiar de vuestra fisonomía institucional.

Que la gracia del Señor fecunde las conclusiones de vuestros trabajos capitulares. Nós os alentamos en vuestros ideales con Nuestra estima, con Nuestra benevolencia, con la Bendición Apostólica que, en prenda de copiosos dones divinos y en testimonio de gratitud por vuestra visita, os otorgamos de todo corazón.

(in francese...)


Mercoledì, 5 giugno 1968 PRESENZA PROFESSIONE CONQUISTA

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Diletti Figli e Figlie!

Mentre ci avviciniamo alla conclusione di quest’anno, che per la memoria centenaria dei due grandi Apostoli e Martiri della testimonianza originaria del messaggio cristiano, Pietro e Paolo, abbiamo intitolato alla fede, possono in noi sorgere tante domande: se abbiamo, ad esempio, preso sul serio l’invito a riflettere su tale tema capitale, qual è la fede, per l’orientamento della nostra vita, per il dilemma fatale d’un sì o d’un no, che si pone al nostro destino non solo religioso, ma esistenziale (ricordate le parole di Cristo, registrate dall’evangelista San Marco: «Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi invece non crederà sarà condannato» [
Mc 16,16 ]); e se abbiamo chiarito a noi stessi qualche idea su questa così elementare, ma insieme così profonda e complessa questione; e se qualche proposito in ordine alla nostra fede, di fronte alla rievocazione commemorativa del centenario menzionato, e ancor meglio, di fronte alla formidabile e caotica problematica del presente momento storico, noi siamo stati capaci di formulare.

La fede, dono di grazia, atto di pensiero in cerca di verità e gesto decisivo della nostra volontà, rimane sempre sorgente di problemi vitali; e poi, la fede, complesso obiettivo di verità sublimi e soverchianti la nostra capacità intellettiva, sembra così diversa e così lontana dal campo delle nostre comuni cognizioni; non è acquisita una volta per sempre e non è esaurita nelle poche notizie che noi abbiamo del suo contenuto; esige da noi una continua presenza di spirito, una indefessa professione interiore, un’avvertenza della sua graduale conquista (ricordate ancora l’esclamazione tanto umana e caratteristica di quel padre implorante per il figlio un miracolo da Cristo, che ne condizionava la concessione alla fede di lui: «Io credo, sì, o Signore; ma Tu aiuta la mia incredulità» [ Mc 9,23]): ci siamo noi un po’ allenati a questo faticoso, ma corroborante esercizio? La nostra religiosità, oggi, dipende in gran parte da una coscienza vigilante ed operante in ordine all’adesione alla fede; essa è il piedistallo su cui montando contempliamo il panorama del mondo sotto la luce di Dio; ovvero è la pietra d’inciampo, che arresta il nostro passo nella regione crepuscolare delle idee personali e delle facili apostasie dottrinali. Cioè la fede solleva una quantità di questioni e di obiezioni, che non sarebbe onesto, né utile, eludere, se vogliamo essere vittoriosi in lei e per lei: «Questa è la vittoria - scrive l’evangelista Giovanni - che vince il mondo, la nostra fede» (1Jn 5,4). E ciascuno di noi dovrebbe per proprio conto, con l’aiuto di buoni libri, o buoni maestri, con la riflessione paziente e pronta a cogliere i segni dello Spirito, e con la preghiera che invoca la luce, prospettare a se stesso le difficoltà maggiori e persistenti, ch’egli incontra sul sentiero, spesso difficile, spesso misterioso, della fede.


LA PAROLA DI DIO NELLA STORIA E NEL MONDO DELLE COSCIENZE E DEGLI AVVENIMENTI

Noi, in questo breve e modesto colloquio, vi presentiamo una fra le tante obiezioni, che la mentalità contemporanea oppone alla fede; e cioè: a che serve la fede? Abituati come siamo a giudicare le cose sotto l’aspetto della loro utilità, e non già della loro intrinseca realtà, facilmente ci domandiamo, anche in ordine alla fede, quale vantaggio essa ci reca: essa non ammette certo una valutazione economica, che le sarebbe offesa radicale. E quali altri vantaggi produce, se essa costituisce, nell’ordine intellettuale, un ostacolo, un’anomalia allo sviluppo del nostro pensiero abituato ai metodi positivi, propri delle scienze fisiche e naturali, considerate come norma fondamentale di verità? Allo spirito scientifico moderno la fede appare priva del rigore proprio delle scienze esatte; la sua natura stessa di conoscenza fondata sulla testimonianza sembra sconcertare e mortificare l’autonomia dell’intelligenza, persuasa di scoprire da sé e da sé controllare le verità che possiede.



PREFERIRE LA VERITÀ ALLA UTILITÀ

E all’azione che cosa giova la fede? L’uomo moderno è tutto proteso verso l’azione, l’azione pratica, il lavoro. Anche a questo riguardo non è la fede un ostacolo, una sorgente di dubbi e di scrupoli, una perdita di energia interiore e di tempo esteriore? Obiezione questa del tutto empirica ed ingiusta; ma quanto forte, se allontana facilmente dalla concezione e dalla pratica religiosa tanta gente, che afferma di non avere né mente, né tempo disponibile per darsi conto della validità, e quindi delle esigenze, che la Parola di Dio, risuonata nella storia e tuttora risuonante nel mondo delle coscienze e degli avvenimenti, fa sorgere davanti all’uomo e alle sue responsabilità.

Vi è un’altra categoria di obiezioni, che hanno avuto nella letteratura contemporanea espressioni vivacissime, le quali respingono la fede proprio per certi vantaggi, ch’essa reca agli spiriti. Queste obiezioni accusano la fede di offrire illusori rimedi, che favoriscono la mollezza, la debolezza degli animi desiderosi di sogni confortevoli; i così detti conforti della fede rendono deboli e incantati gli animi che li ricevono; la stessa bellezza della fede, di cui tanto si è valsa l’apologia del secolo scorso, è respinta, perché troppo seducente; la fede, secondo questa critica, è presentata come troppo bella per essere vera; il coraggio spregiudicato di certo umanesimo moderno respinge la seduzione d’una fede consolatrice. E così via. Questo genere di difficoltà, che impugnano l’utilità della fede, ha un repertorio molto ricco, tanto ch’è ora impossibile farne l’inventario; ve ne sarete forse accorti anche voi vivendo nel tempo nostro.

Ma Noi vogliamo confidare, Figli carissimi, che anche in virtù della vostra esperienza e della vostra riflessione, avrete trovato le risposte alle obiezioni su accennate, e alle altre consimili incontrate sul vostro cammino intellettuale e spirituale. Tali obiezioni peccano di solito di semplicismo. Mancano di rispetto alla verità, e le preferiscono l’utilità. Senza dire che la fede presenta aspetti di reale utilità per la vita integrale dell’uomo da doverla considerare davvero una fortuna.

Non è vero, ad esempio, che la fede sia una paralisi del pensiero e che le sue formulazioni dogmatiche arrestino la ricerca della verità; è vero il contrario. Il dogma non è una prigione del pensiero; è una conquista, è una certezza, che stimola la mente alla contemplazione e all’esplorazione, sia del suo contenuto, di solito profondo fino all’insondabile, sia del suo sviluppo nel concerto e nella derivazione di altre verità. Intellectus quaerens fidem, l’intelligenza esercita nella fede la sua ricerca, diceva il teologo medievale e tuttora degno d’esserci maestro, S. Anselmo; e aggiungeva: fides quaerens intellectum, la fede ha bisogno dell’intelletto. La fede infonde fiducia all’intelligenza, la rispetta, la esige, la difende; e per il fatto stesso che la impegna allo studio di verità divine, la obbliga ad un’assoluta onestà di pensiero, e ad uno sforzo che non la debilita, ma la conforta, tanto nell’ordine speculativo naturale, quanto in quello soprannaturale.


DALLA FEDE L'AZIONE LE OPERE LA VITA

Come non è vero che la fede sia un ceppo all’azione; anche a questo riguardo il contrario è vero: la fede esige l’azione; è un principio dinamico di moralità (iustus ex fide vivit, l’uomo giusto trae la propria vita dalla fede, è un’espressione sintetica del pensiero di San Paolo [He 10,38]; e San Giacomo precisa: «La fede, senza le opere, è morta» [2, 17] ); la fede è un’esigenza di azione, che sfocia nella carità, cioè l’operosità, mossa dall’amore di Dio e del prossimo.

Così non si sostiene lo sdegnoso rifiuto alla fede, quasi essa fosse un artificioso soporifero del dolore umano e un mito fallace, che aliena l’uomo dalla realtà della vita: essa è una verità, sì, splendida e consolante, perché ci rivela disegni mirabili della bontà divina, ma non per addormentare l’uomo nei suoi pericoli e nei suoi travagli; sì bene per dargli coscienza ed energia a sostenerli con virile fortezza. Ecco: toglie la disperazione, lo scetticismo, la ribellione, di cui l’uomo moderno, non più sostenuto dalla fede, oggi è pervaso; ma gli dà piuttosto il senso della vita e delle cose, la speranza nell’opera saggia ed onesta, la forza di soffrire e di amare.

Si, serve a qualche cosa la fede, e quale cosa! La nostra salvezza.

Siatene sicuri, Figli carissimi, con la Nostra Benedizione.



Mercoledì, 12 giugno 1968

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Diletti Figli e Figlie!

Vengono alle Nostre labbra per voi, cari visitatori, cari pellegrini a questa tomba dell’Apostolo Pietro, le parole che Gesù disse ai suoi discepoli all’ultima Cena, rimasti undici dopo l’uscita del traditore: «Non si turbi il vostro cuore. Credete in Dio ed anche in me credete» (
Jn 14,1). Si, questo Noi desideriamo per voi, questo vi raccomandiamo: abbiate fede in Dio e abbiate fede in Cristo. È il tema dell’anno che, con la fine di questo mese, sta per concludersi, e che appunto Noi abbiamo chiamato, a memoria e ad onore dell’anno centenario del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, l’Anno della Fede.

E dicendo queste parole solenni e benedette Noi avvertiamo il contrasto che esse incontrano con le burrascose idee correnti nel mondo contemporaneo circa il santo nome di Dio, e che come una tremenda ondata sommergono la fede in tanti uomini del nostro tempo. Queste idee, voi ne sentirete certo parlare, e forse le sentirete premere come un’aggressione anche ai vostri spiriti, e fors’anche insinuarsi come una seduzione logica e convincente, sono molte e gravi e complicate, e assumono nomi nuovi e strani: secolarizzazione, demitizzazione, desacralizzazione, contestazione globale, e finalmente ateismo e antiteismo, cioè assenza, o negazione di Dio, dalle cento facce anch’esso, a seconda delle scuole filosofiche da cui deriva questo rifiuto di Dio, o dai movimenti sociali e politici che lo difendono e lo promuovono, o dalla pratica trascuranza d’ogni sentimento e d’ogni ossequio religioso (cfr. Enc. sull’ateismo, S.E.I.).

Quale turbine tenebroso investe oggi la fede in Dio! Tanto che possiamo tutto riassumere in una questione: è ancora possibile oggi credere in Dio? Formidabile questione, che esigerebbe volumi per rispondervi. Ma Noi qui la proponiamo, non tanto per discuterla come si converrebbe in una trattazione adeguata, ma per ricordarvi le parole menzionate di Cristo: non abbiate paura. Abbiate fede. Cioè a Noi basta ora rassicurarvi, con l’esortazione del Maestro divino: si, è ancora possibile oggi credere in Dio e in Cristo. Possiamo spingere quest’affermazione anche più in là: oggi è meglio di ieri possibile avere fede in Dio, se è vero che oggi l’intelligenza umana è più sviluppata, più educata a pensare, più incline a cercare le ragioni intime ed ultime d’ogni cosa.

Perché tutto sta qui: saper pensare bene. Quando diciamo questo bisogna ricordare che in questa grande questione la parola «fede» è intesa da noi nel suo primo significato, di conoscenza naturale di Dio, cioè di quella conoscenza che possiamo avere sulla Divinità con le forze ordinarie del nostro pensiero; perché, se parliamo di «fede» come vera conoscenza soprannaturale di Dio, derivata dalla sua rivelazione, allora le forze ordinarie del nostro pensiero, occorrono e servono sì, ma non bastano; devono essere sorrette da uno speciale sussidio di Dio stesso, che chiamiamo grazia; la fede è allora un dono, che Dio stesso ci concede; è quella virtù teologale che, pur nell’oscurità del mistero che sempre circonda Dio, ci dà la certezza e il gaudio di tante verità a lui relative. Adesso accenniamo al primo significato, che possiamo chiamare la cognizione razionale di alcune verità religiose, e prima fra tutte quella dell’esistenza di Dio, ch’è la verità oggi tanto discussa e tanto oppugnata.

Noi sosteniamo che questa è verità fondamentale, non sconfitta dalle innumerevoli obbiezioni che le sono mosse contro. E facciamo attenzione: un conto è affermare che Dio esiste, e altro conto sarebbe affermare Chi Egli sia; possiamo conoscere con certezza l’esistenza di Dio, conosceremo invece sempre assai imperfettamente l’essenza di Dio, cioè Chi Egli sia (cfr. S. Th., Summa contra Gentes, SCG 1,14).

E per arrivare alla certezza di quella ineffabile e sovrana esistenza basta, dicevamo, pensare bene. Ce ne dà garanzia l’insegnamento categorico del Concilio Vaticano primo, il quale riassumendo la secolare dottrina della Chiesa, e, possiamo aggiungere, della filosofia umana, afferma che «Dio, principio e fine di tutte le cose, si può conoscere con sicurezza col lume naturale della ragione mediante le cose create» (Denz-Sch. DS 3004). Perché allora tanti uomini, anche dottissimi, dicono il contrario? Perché, rispondiamo, non adoperano la loro mente secondo le leggi autentiche del pensiero in cerca di verità.

Sappiamo di dire cosa grave. Ma così è. Si aprirebbe una discussione senza fine sul dovere e sull’arte di pensare bene, secondo le esigenze e i criteri della autentica sapienza umana, e secondo la logica reclamata dalla scienza stessa e dal discorso onesto e corretto del senso comune. E questa linea del pensiero religioso, la quale sembra tanto ovvia e iscritta sia. nella mente sana dell’uomo, sia nel rapporto di verità che essa riesce a stabilire con le cose conosciute, è oggi contestata come una pretesa ingenua e antiquata, mentre è e sarà sempre la via maestra, che conduce immancabilmente lo spirito umano dal mondo sensibile e scientifico alle soglie del mondo divino.

Tralasciamo di proposito la menzione che sarebbe dovuta ai sistemi filosofici relativi a questo massimo problema. Il carattere elementare di questo Nostro colloquio Ci vieta di farlo. Ma Ci limitiamo ad accennare ad uno fra gli ostacoli maggiori, che arrestano oggi il cammino del pensiero verso la sua mèta finale, ch’è Dio, e che dà senso e valore a tutto il sapere umano; vogliamo dire la mentalità tecnica, che affonda le sue radici in quella scientifica e si compiace della sua fioritura nel campo meraviglioso degli strumenti innumerevoli e potenti messi nelle mani dell’uomo, fiero delle sue invenzioni, liberato dalle sue fatiche fisiche, proiettato nel regno della fantascienza, dove tutto sembra spiegabile e tutto possibile, senza ricorrere né col pensiero, né con la preghiera ad un Dio trascendente e misterioso. La padronanza delle cose e delle forze naturali, il primato attribuito all’azione pratica ed utile, l’organizzazione totalmente nuova della vita risultante dall’impiego multiforme della tecnica tolgono all’uomo il ricordo di Dio e spengono in lui il bisogno della fede e della religione. Già il Nostro predecessore Pio XII, di venerata memoria, in una mirabile analisi di questo tema, trattato nel radiomessaggio del Natale del 1953, parlava dello «spirito tecnico», di cui è imbevuta la mentalità moderna; e lo definiva «in ciò, che si considera come il più alto valore umano e della vita trarre il maggior profitto dalle forze e dagli elementi della natura» (Discorsi e Rad. XV, p. 522). E ,ancora: «Il concetto tecnico della vita non è dunque altro che una forma particolare del materialismo, in quanto offre come ultima risposta alla questione della esistenza una formula matematica e di calcolo utilitario» (ib. p. 527).

Ma se ciò, come ha riconosciuto il Concilio, «puh rendere spesso più difficile l’accesso a Dio» (Gaudium et Spes GS 19), per sé non lo impedisce, anzi dovrebbe facilitarlo con lo stimolo della scoperta delle profondità esistenziali della natura e con l’esperienza dell’ingegno umano che non le inventa quelle profondità, ma le scopre e le utilizza. Si tratta di tenere gli occhi aperti, cioè d’impiegare l’intelligenza, com’è suo potere e dovere, a guardare oltre lo schermo sensibile e a ricercare sia le cause essenziali che finali delle cose.

Allora la trasparenza del regno divino si rivela e, lungi dal deprezzare il regno della natura e la scienza, che lo esplora, e la tecnica, che lo domina, essa illumina questi stupendi valori di una bellezza nuova e liberatrice, che toglie al mondo tecnologico quel senso di organizzazione oppressiva e di conseguente angoscia, che deriva dai limiti propri del cerchio materialista, e che proprio in questi giorni scoppia in ribellioni violente e irrazionali, quasi a denunciare la radicale insufficienza della nostra civiltà dissacrata a soddisfare le inalienabili esigenze dello spirito umano. Dio è necessario, come il sole.

E se tanta fatica noi moderni facciamo a renderci conto di ciò, segno è che dobbiamo purificare il concetto banale e falso, che spesso noi ci facciamo della Divinità, e tentare senza posa lo sforzo di dare al nome di Dio la ricchezza infinita della sua abissale trascendenza e la dolcezza ineffabile, piene di riverenza e di amore, della sua onnipresenza, della sua immanenza. Dobbiamo «credere in Dio». Ma non è troppo difficile per noi questo sforzo, a cui la mentalità moderna ci ha diseducati, fino ad assuefarci al grido blasfemo della nostra cecità: Dio è morto?

Difficile è. Ma ecco che viene il Maestro, che aggiunge: «Anche in me credete». Cristo ci abilita alla fede, sia naturale che soprannaturale. Ce lo ricorda S. Agostino: «Affinché (l’uomo) camminasse con maggior fiducia verso la verità, la Verità stessa, Dio Figlio di Dio, fattosi uomo, senza cessare di essere Dio, stabilì . . . e fondò la fede, perché il cammino dell’uomo verso Dio fosse aperto all’uomo attraverso l’Uomo Dio. Questi è infatti il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (De civ. Dei, XI, 2; P.L. 41, 318; e cfr. Costituzione dogmatica Dei Verbum DV 6).

Riascoltate, Figli carissimi, la sua voce: «Credete in Dio, ed anche in me credete». È la voce della verità e della salvezza. E meditatela. Con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 19 giugno 1968 «LA VOSTRA FEDE SIA VIVA»

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Diletti Figli e Figlie!

Come sapete, si conclude alla fine di questo mese l’«Anno della Fede», l’anno che abbiamo dedicato alla memoria del XIX centenario del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, per onorare non solo la loro memoria, ma rinsaldare il nostro impegno verso l’eredità, che essi, con la parola e col sangue, ci hanno lasciata, la nostra fede. Resterebbero a Noi ancora molte molte cose da dire su tale tema, di cui in queste udienze settimanali abbiamo detto qualche fugace parola. Ne aggiungeremo ancora una, in forma di esortazione, la più ovvia che si possa fare al riguardo: procurate che la vostra fede sia viva.

Questa raccomandazione fa sorgere una domanda: vi può essere una fede morta? Sì, purtroppo; vi può essere una fede morta. Ed è chiaro che la negazione della fede, sia oggettivamente quando sono negate o deliberatamente alterate le verità, che per fede dobbiamo ritenere, ovvero soggettivamente quando coscientemente e volontariamente viene meno la nostra adesione al nostro credo, spegne la fede e con essa la luce vitale e soprannaturale della divina rivelazione nelle nostre anime. Ma vi è un altro grado negativo rispetto alla vitalità della fede, ed è quello che priva la fede stessa del suo congenito sviluppo, la carità, la grazia: il peccato, che toglie la grazia all’anima, può lasciare sopravvivere la fede, ma inefficiente rispetto alla vera comunione con Dio, come in letargo. Ricordate le parole di S. Paolo: «Fides quae per caritatem operatur», la fede operante per mezzo della carità (
Ga 5,6).

I teologi dicono che la carità è il complemento della fede, cioè la sua piena qualificazione, che la determina e la dirige efficacemente al suo fine, che è Dio cercato, voluto, amato, posseduto mediante l’amore; così che «la carità è detta forma della fede, in quanto mediante la carità l’atto di fede si integra e si compie» (S. Th. II-II 4,3). E vi è un terzo grado negativo, che paralizza e isterilisce la fede, ed è la mancata sua espressione morale, la sua professione operativa, la esplicazione nelle opere. È l’apostolo San Giacomo che ce lo ricorda, quasi in tacita polemica con la tesi della sufficienza della sola fede alla nostra salvezza: «La fede, senza le opere, è morta» (Jc 2,20).

È NECESSARIA UNA CONOSCENZA SERIA E ORGANICA

Poi vi sarebbe la lunga serie delle mancanze che possono offendere la fede e toglierle quella vitalità che deve esserle riconosciuta e conferita. Non ne faremo qui l’elenco, ma inviteremo le nostre coscienze ad esaminarsi su alcuni punti deboli caratteristici nel campo della fede. Il primo è l’ignoranza. Il battesimo ci ha infuso la virtù della fede, cioè la capacità di possederla e di professarla con riferimento alla nostra salvezza e con merito soprannaturale; ma è chiaro che una virtù si atrofizza, se non è esercitata secondo le possibilità; ed il primo esercizio è la conoscenza delle verità, che formano l’oggetto della fede. Questa conoscenza può avere fasi diverse, che si possono così classificare: dall’accettazione dell’annuncio del messaggio cristiano, il cosiddetto «kerigma», al suo naturale sviluppo nella catechesi, e quindi all’approfondimento teologico e alla contemplazione. Ciò che occorre notare ai nostri fini pratici è la necessità d’una conoscenza seria e organica della fede; ciò che purtroppo manca a moltissimi, sia cattolici, che no; cosa questa intollerabile in una società, in cui la coltura ha un posto preminente e in cui la facilità d’informazione è, si può dire, alla portata di tutti. È doloroso invece notare che manca generalmente alla nostra gente una conoscenza, anche modesta, ma chiara e coerente; il catechismo parrocchiale è quasi generalmente disertato: non sempre purtroppo l’insegnamento religioso nelle scuole raggiunge i suoi scopi, primo fra tutti quello di infondere negli alunni la convinzione ragionata che la religione è la scienza fondamentale della vita; il libro di coltura religiosa è spesso negletto, e spesso introvabile; così che la conoscenza della nostra fede è imperfetta, manchevole, labile ed esposta alle obbiezioni correnti, che trovano nella diffusa ignoranza facile presa. Noi rispondiamo: ne ignorata damnetur, che la nostra fede non sia respinta perché ignorata (cfr. C. Colombo, La cultura teol. del Clero e del Laicato, relaz. alla C.E.I., 1967).

UNA PROFESSIONE FRANCA CHE GUIDA L'AZIONE

Altro punto è il famoso «rispetto umano», cioè la reticenza o la vergogna o la paura relativa alla professione della propria fede. Non parliamo della discrezione o del ritegno che in una società pluralistica e profana come la nostra trattengono ovviamente da manifestazioni d’indole religiosa di fronte ad altri. Parliamo della debolezza, della sconfessione circa le proprie idee religiose per timore del ridicolo, della critica, o della reazione altrui. È il fallo triste e celebre di S. Pietro nella notte della cattura di Gesù. È la mancanza frequente nei ragazzi, nei giovani, negli opportunisti, nelle persone prive di carattere e di coraggio. È la causa, forse principale, dell’abbandono della fede per chi si uniforma all’ambiente nuovo in cui viene a trovarsi.

Dovremmo dire, a questo riguardo, della forza dell’ambiente, di cui uno subisce l’integrazione e che impone a masse intere di gente di pensare e di agire secondo la moda, secondo la corrente dominante dell’opinione pubblica, secondo forme ideologiche soverchianti, che si diffondono talora come epidemie irresistibili. L’ambiente, fattore importantissimo per la formazione della personalità, s’impone spesso come un’esigenza conformista che la domina. Il conformismo sociale è una delle forze che sostiene, in certi casi, che soffoca, in certi altri, il sentimento e la pratica religiosa (cfr. J. Leclercq, Croire en J. C., Castermann, 1967, p. 105, ss.). Un altro punto meriterebbe d’essere espressamente rilevato; quello cioè che unisce la fede alla vita; alla vita di pensiero, alla vita di azione, alla vita di sentimento, alla vita spirituale e a quella temporale. È questo un punto della massima importanza. Se ne parla sempre: iustus ex fide vivit (Ga 3,11); il cristiano, possiamo tradurre, vive di fede, secondo la propria fede; essa è un principio, una norma, una forza della vita cristiana. Vivere con la fede, e non di fede, non basta; anzi questa concomitanza può ritorcersi in una grave responsabilità e in un’accusa: il mondo spesso la lancia verso l’uomo che si dice cristiano e non vive da cristiano. Pensiamoci bene.


INCONTRO PERSONALE CON IL DIVINO MAESTRO

Fermiamoci qui; e ancora chiediamo a noi stessi: come faremo ad avere una fede viva? Possiamo dire che la fiducia nel magistero della Chiesa, l’amore all’ortodossia delle idee sulla fede, la pratica religiosa metodica e saggia, l’esempio dei cristiani buoni e coraggiosi, la pratica personale o collettiva di qualche opera d’apostolato ci aiuteranno a tenere accesa e vitale la nostra fede. E due osservazioni dovremo tenere presenti: la prima ci avverte che la fede deve essere per noi un fatto personale, un atto cosciente, voluto, profondo; questo elemento soggettivo della fede è oggi importantissimo; è sempre stato necessario, perché fa parte dell’atto autentico di fede, ma spesso era ed è sostituito dalla tradizione, dal clima storico, dal costume collettivo; oggi è indispensabile. Ciascuno deve esprimere in se stesso con grande consapevolezza e grande energia la propria fede. E la seconda ci ricorda che la fede ha il suo punto focale in Gesù Cristo (cfr. Ep 3,17 S. Th. II-II 16,1 III 62,6); essa è un incontro, potremmo dire, personale con Lui. Lui è il Maestro. Lui è il vertice della rivelazione. Lui è il centro che in Sé riunisce e che da Sé irradia tutte le verità religiose necessarie alla nostra salvezza. Da Lui assume autorità la Chiesa docente. In Lui la nostra fede trova gaudio e sicurezza, trova la vita. Così sia per voi tutti, con la Nostra Benedizione Apostolica.

I singolari meriti della Guardia di Finanza

All'ingente gruppo di militi e dell’associazione aderente, Sua Santità rivolge un breve affettuoso Discorso, rilevando anzitutto l’ufficio del Corpo della Guardia di Finanza a vantaggio della società e il valore del sacrificio dei suoi componenti perché siano tutelate le leggi dello Stato destinate a difendere le risorse della comunità.

Un vivo elogio il Santo Padre formula per i finanzieri, giacché essi hanno un alto senso dell’interesse nazionale, una coscienza sincera della Patria che vogliono servire in un settore tanto delicato e tanto importante. È proprio lo spirito con cui esercitano questo servizio - osserva Sua Santità - che dà valore alle loro azioni, anche se qualche volta risulta rischioso. Essi svolgono il loro servizio con disinteresse e con fedeltà, con la coscienza di fare qualche cosa di molto utile per il bene comune. Tutto ciò nobilita e impreziosisce tale attività, alla quale il Santo Padre intende, con il cordiale incontro, rendere un particolare omaggio.

I Finanzieri, si sa, svolgono in ogni caso la loro missione con quella fede che è stata infusa nell’animo anzitutto dalle famiglie, dalle parrocchie, poi dalle scuole di formazione particolare. Si rivela, quindi, oltremodo valida per il delicato lavoro a servizio dello Stato. Tale nobiltà di spirito non abbandona mai i Finanzieri nella loro costante e spesso ingrata fatica.

L’Augusto Pontefice desidera aggiungere il suo paterno saluto agli Ufficiali, al Cappellano, alle Guardie e infine anche ai Finanzieri in congedo, i quali portano nell’animo l’intenso amore alla Patria, la prontezza nel servizio, l’obbedienza alle leggi che regolano la vita pubblica. Voi - soggiunge il Papa - conoscete la società in cui viviamo: è buona, è di grandi tradizioni, è bella, è in pieno sviluppo, ha davanti a sé un grande avvenire anche nel concerto delle altre nazioni, ma ha pure bisogno che i suoi cittadini siano forti, onesti, bravi e fedeli, soprattutto esemplari cristiani e degni italiani.





Paolo VI Catechesi 29568