Paolo VI Catechesi 40865

Mercoledì, 4 agosto 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Ogni volta che Noi veniamo a questo incontro settimanale e Ci troviamo davanti una folla di visitatori che giungono qua da ogni settore del mondo contemporaneo e qua Ce ne recano le voci, gli umori, le aspirazioni, le sofferenze, in una parola le esperienze, Noi cerchiamo d’essere molto attenti, e preghiamo in Cuor Nostro il Signore che Ci renda capaci non solo di parlare, ma anche di ascoltare, di capire, di penetrare, come Gesù divinamente lo era, «quid esset in homine, quello che fosse nell’uomo» (
Jn 2,25). Ebbene, tra le tante irradiazioni spirituali, che Ci sembra di saper captare con maggiore sicurezza e con maggiore frequenza come emananti dagli animi di alcuni Nostri visitatori è un certo disagio circa la verità religiosa, circa la dottrina consueta della Chiesa, circa la fede da essa autorevolmente insegnata e normalmente professata. E Ci pare di avvertire come tale inquietudine, portata alle soglie di questa cattedra, l’antica cattedra di San Pietro, spesso si fa più viva, e invece di trovare ristoro e conforto, si accentua nell’ansia di dubbi maggiormente insorgenti e nella diffidenza di incontrare contrasti dogmatici, che non comprendono le condizioni presenti degli spiriti e che non ammettono discussione.

Non certo voi personalmente, carissimi Figli, ma voi come esponenti del nostro tempo e delle correnti che lo agitano, Ci fate pensare all’atteggiamento d’incertezza, di critica, di dubbio, d’insofferenza ideologica, di agnosticismo, e anche di negazione, il quale caratterizza non pochi spiriti, oggi resi più sensibili, pensosi e inquieti dalle grandi innovazioni della vita moderna.

È così? Giungono infatti a Noi voci confuse e strane, che Ci rendono assai riflessivi, e spesso anche sorpresi e tristi, perché sono voci che provengono non soltanto dalle moltitudini di coloro che non hanno la fortuna d’avere la nostra fede (e già quest’onda di clamori avversi Ci è cagione d’intima afflizione e stimolo ad immenso ed insonne amore), ma spesso provengono tali voci anche dai campi migliori del Popolo di Dio, sempre a Noi fedeli e vicini, e dove ordinariamente la dottrina della Chiesa è alimentata da fervore di studi, è coltivata con fermezza di pensiero, è onorata da fecondità di vita cristiana; provengono per far eco ad errori antichi e moderni, già rettificati e condannati dalla Chiesa ed esclusi dal patrimonio delle sue verità; ovvero per proporre ipotesi, quasi subito convertite in affermazioni che vorrebbero dirsi scientifiche e che mettono in questione principii, leggi, tradizioni, a cui la Chiesa è saldamente legata, e da cui non è da supporre che mai possa staccarsi; oppure per insinuare critiche revulsive sulla storia e sulla struttura della Chiesa e per proporre revisioni radicali di tutta la sua azione apostolica e della sua presenza nel mondo, così che la Chiesa, lungi dal ricavarne quelle virtù e quelle forme nuove. a cui tende l’aggiornamento conciliare, finirebbe per assimilarsi a quel mondo, che invece attende da lei il raggio della sua «luce», e il vigore del suo «sale», non la compiacente acquiescenza alle sue discutibili teorie ed ai suoi profani costumi.

Non è qui che Noi cercheremo di approfondire, per via di analisi e di apologie, il problema estremamente complesso della verità religiosa ai nostri giorni; tanto più che l’inquietudine spirituale, a cui abbiamo accennato, nasce per lo più in cuori giovanili, ovvero in persone studiose di buoni intendimenti, desiderose non già di venir meno alla fedeltà dovuta al nostro credo cattolico, ma d’allacciare contatti nuovi con la cultura moderna. Vi basti sapere che tale problema forma oggetto di benevola e appassionata osservazione da parte Nostra, come lo forma da parte dell’Episcopato e dei bravi Teologi, e lo formerà anche durante l’ultima fase del Concilio ecumenico.

A Noi piace semplicemente in questo momento fare a voi un invito e un augurio. Un invito: nessuno di voi voglia diffidare della santa Chiesa, e di questa cattedra in particolare, per l’atteggiamento che essa fermamente e fedelmente conserva verso la verità religiosa, che le deriva dalla rivelazione, a lei confidata da Cristo. Atteggiamento dogmatico, sì, che vuol dire fondato non su propria scienza, ma sulla Parola di Dio, resa intelligibile dallo Spirito Santo, e trasmessa per via d’un magistero, che trae la sua autorità dall’essere discepolo dell’unico Maestro Cristo Signore. Stupenda l’affermazione di Sant’Agostino: «Deus in cathedra unitatis doctrinam posuit veritatis»: Dio ha posto la dottrina della verità là dov’e la cattedra dell’unità (Ep. 105 - P.L. 33, 403). Atteggiamento che non consente l’ambiguità, l’interpretazione soggettiva, la confusione, la decadenza, la contraddizione nel messaggio della salvezza, e che garantisce a tutti ed a ciascuno nel Popolo di Dio la medesima verità, la medesima sicurezza, il medesimo linguaggio, quello di ieri, di oggi e di domani. Atteggiamento che non impigrisce gli spiriti, non preclude loro ogni vera indagine scientifica, e che spinge anzi le menti a pensare, a progredire, a pregare. Atteggiamento che non ci insuperbisce, come detentori fortunati ed esclusivi della verità, ma ci fa però forti e coraggiosi nel difenderla, amorosi nel diffonderla. Ancora. Sant’Agostino ce lo ricorda: «Sine superbia de veritate praesumite», senza superbia siate fieri della verità (Contra litteras Petiliani, 1, 29, 31. - P.L. 43, 259).

E l’augurio, proprio per voi, carissimi Figli, che venite a Noi per professare e per corroborare la vostra fede, l’augurio è questo: che la certezza, di cui questa pietra romana è fondamento, sia non più, non mai causa di diffidenza, di angustia o di peso, ma fonte di gaudio, di pienezza spirituale, di conforto e di merito. Concluderemo con la parola d’un altro maestro antico, Lattanzio: «Nullo . . . suavior animae cibus est, quam cognitio veritatis»: nessun cibo è per l’anima più soave, che la cognizione della verità (De falsa rel. 1, 1. - P.L. 6, 118).

Così sia per voi, diletti Figli, fedeli alunni della Chiesa maestra, con la Nostra Apostolica




Mercoledì, 11 agosto 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Abbiamo parlato in altre udienze simili a questa circa le impressioni che i Nostri visitatori, specialmente se sono forestieri, subiscono entrando nella sfera dei luoghi, di persone, di riti, di usi, che circonda il Papa e che sembra dare un’immagine, un concetto del Pontificato romano e, per estensione, della Chiesa Cattolica, che intorno a lui confluisce. Ma l’elenco di tali impressioni, anche se Ci limitiamo alle più consuete, è piuttosto lungo; e il Nostro commento non è finito; potremmo annunciarne altre parecchie. Accenniamo ora soltanto ad una, molto frequente e, ai nostri giorni, caratteristica; è l’impressione d’antichità.

Veramente la sala che accoglie questa udienza, qui a Castel Gandolfo, non dà affatto questa impressione; dà piuttosto quella contraria, di modernità; ma venendo a trovare il Papa, ogni visitatore non può sottrarsi dalla meraviglia, che nasce in tutti istintivamente al pensiero ch’Egli rappresenta una lunga, lunghissima storia; travagliata fin che si vuole, ma coerente e permanente nei secoli: la visita al Papa è una rievocazione storica; obbliga a pensare al passato; solleva immagini d’altri tempi; sembra trasferire l’attenzione verso un mondo tramontato e solo simbolicamente sopravvissuto. È l’impressione, dicevamo, dell’antichità, che si prova studiando la storia, l’archeologia, o visitando case vecchie e fuori moda, ovvero musei e cimiteri. È un’impressione insolita e un po’ sgradevole per la mentalità giovanile e moderna, che non ama guardare indietro, ma vuole guardare al presente soprattutto, e un po’ anche all’avvenire. È la mentalità attualista, che può trovarsi disturbata, visitando un ambiente come il nostro, per un motivo anche più pungente, che non sia quello della vecchiaia, riscontrata nella scena esteriore, ed è quello dell’antichità, non solo delle cose, ma delle idee, del modo di pensare e di parlare. Qui è presente ed affermata una tradizione, che non pochi uomini moderni non comprendono più, anzi non stimano più. La Chiesa è superata, si dice da alcuni: è un fenomeno d’immobilismo; non ci dice più nulla, o ben poco. Non viviamo, è stato scritto, in un’epoca postcristiana. Questa l’impressione; un’impressione triste, come ognun vede, contro la quale coloro che hanno l’occhio limpido, e specialmente coloro che tuttora hanno la fortuna di conservare la fede, la fede in Cristo e nella sua Chiesa, facilmente reagiscono.

C’è chi reagisce compiacendosi di tale impressione. Nel secolo scorso, ad esempio, era di moda compiacersi romanticamente di tutto quanto parlava del passato; e le rovine hanno questo linguaggio più d’ogni altra cosa. Oggi invece la simpatia, se una vi è, per ciò che rievoca i tempi andati è data dal così detto senso della storia, dalla percezione cioè del movimento registrata nei segni superstiti delle cose generate e divorate dal tempo. Ma questa non è per noi credenti la reazione sufficiente all’impressione della caducità e della vecchiaia, che può nascere in chi osserva superficialmente il quadro della vita ecclesiastica qui rappresentato nei suoi tratti più caratteristici. Il quadro non è «natura morta», è realtà viva. La realtà della Chiesa, se pur riveste forme ereditate dai secoli trascorsi è una realtà estremamente ricca di attualità; a ben guardare, è una realtà che non invecchia e che ha in sé una misteriosa virtù di rigenerarsi, di ringiovanirsi, di esprimersi in segni di perenne e assoluta Presenza, tanto da poter indicare al progresso stesso del mondo in via di febbrile evoluzione i criteri della novità che non inganna e che si protendono con speranza non fallace, con sicurezza piena di attesa verso il futuro. La Chiesa segna le ore del tempo che corre senza paura, e guarda all’avvenire con ansia profetica, con tensione escatologica. La Chiesa non è vecchia, è perenne; è sempre giovane e sa mantenersi tale.

Qui si porrebbe il grande problema teologico del rapporto della Chiesa col tempo, del Vangelo eterno col fiume scorrente delle vicende umane. Ma non è questo il momento di entrare in un mare così grande. Contentiamoci, per semplificare, di osservare che vi sono due modi per la Chiesa di mantenersi giovane, cioè inserita come religione viva nel tessuto della storia sfuggente. Uno, che potremmo dire risolto «ad extra», è quella di accostarsi al mondo che la circonda, di assumerne il linguaggio, i costumi, la mentalità, fin dove questo è compatibile con la natura e con la missione della Chiesa di inserirsi nella storia che passa, di «storicizzarsi». L’altro modo, che potremmo dire «ad intra», per cui la Chiesa cerca in se stessa la vitalità inesauribile della sua verità, della sua coerenza. tradizionale, della sua ricchezza spirituale. L’uno e l’altro modo sono buoni, purché siano saggiamente complementari. È, a un dipresso, il binomio «nova et vetera» del Vangelo che dobbiamo cercare di mettere in pratica per dare forza e testimonianza della perenne fioritura del regno di Dio.

Ma purtroppo talvolta, oggi, in questo sforzo di rinnovamento, alcuni, mossi certamente da zelo sincero, si attengono al primo modo, dimenticando o trascurando il secondo. Avviene allora che molti sono tentati di credere vivo solo ciò che è nuovo, solo ciò che è moderno, solo ciò che si confonde con l’esperienza del mondo contemporaneo, e nasce d’istinto la tentazione di ripudiare ciò che ieri è stato fatto e pensato, di staccarsi dalla teologia e dalla disciplina tradizionale, di mettere tutto in questione, come se si dovesse cominciare oggi a costruire la Chiesa, a rifare le sue dottrine partendo non tanto dai dati della rivelazione e della tradizione, quanto piuttosto dalle realtà temporali in cui si svolge la vita contemporanea, per dare inizio a nuove forme di pensiero, di spiritualità, di costume, col pretesto di infondere nel nostro cristianesimo un’autenticità solo ora scoperta, e solo essa comprensibile agli uomini del nostro tempo. Dapprima questo processo di rinnovamento tocca e toglie cose e forme caduche; ma poi, in alcuni, arriva a intaccare cose e forme essenziali e intangibili nella Chiesa; e allora v’è pericolo che, pur non volendo, la mentalità del riformatore si adatti, si faccia relativa alle correnti di pensiero di moda o del pensiero altrui; e verità che sono fuori del tempo, perché divine, sono piegate ad uno storicismo che le priva talora del loro contenuto e della loro stabilità. San Paolo sembra montare la guardia, ed ammonirci lui, l’apostolo più teso a farsi tutto a tutti (
1Co 9,22) che non deve svuotarsi la croce di Cristo: «Ut non evacuetur crux Christi» (1Co 1,17).

L’altro modo, quello della fedeltà della Chiesa a se stessa, è certamente quello che ha il vero segreto della sua perenne giovinezza, quello che le fa cercare nel tesoro divino confidatole da Cristo la sapienza e la forza per presentarsi sempre viva ed operante in mezzo agli uomini a cui vuole recare il messaggio di fede, di carità, di salvezza. Solo che questo modo deve appunto manifestarsi in maniera accessibile agli uomini; chi lo fa proprio deve sforzarsi di conoscerli, deve comprenderli, deve loro facilitare la pratica della vita cristiana, deve loro dare .la gioia dell’incontro con Cristo; deve, in una parola, mostrarsi «apostolico»: arte questa bellissima, ma difficilissima!

Ed è .precisamente ciò che oggi la Chiesa, sapientemente e coraggiosamente, cerca di fare mediante il Concilio, così che Cristo rifulga al mondo, com’è scolpito sulla base dell’obelisco di Piazza San Pietro, il Cristo di sempre: heri, hodie et in saecula.

Vi aiuti a comprendere e a godere di queste altissime cose la Nostra Benedizione Apostolica.

* * *

Uno speciale saluto di questa udienza va ai Partecipanti ai Corsi estivi di lingua e cultura italiana per Stranieri, organizzati dall’università Cattolica del Sacro Cuore, ed accolti nella sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia della medesima Università, qui a Roma, a Monte Mario.

Siamo ben lieti di accogliere la loro visita, cara a Noi per diversi titoli: perché visita di Stranieri che vengono da lontano, ma non Stranieri per Noi, perché li consideriamo figli e tanto più meritevoli della Nostra affezione, quanto più lungo è il cammino percorso per arrivare fin qua. Cara altresì, perché visita di Studiosi, che venendo a Roma non si contentano di soddisfare un interesse puramente turistico, ma vengono per studiare la lingua e la cultura di questo Paese, e certamente per conoscere ed apprezzare quanto la civiltà romana e cristiana vi ha espresso di umano, di sapiente, di artistico, di spirituale, e quanto la Chiesa tuttora in questo suo centro cerca di operare, secondo il mandato di Cristo, per il bene dell’umanità intera. E cara infine questa visita, perché organizzata da quell’Università Cattolica di Milano, per origine, d’Italia, per spirito e per missione, che alle sue molte benemerenze aggiunge anche questa di offrire la sua amicizia e la sua assistenza su raggio internazionale.

Esprimiamo il Nostro elogio per così bella ed opportuna iniziativa, e diamo a questi Visitatori il Nostro più cordiale «benvenuto», col voto che il loro laborioso ed intelligente soggiorno romano segni nella loro memoria e nel loro spirito un momento di luce benefica ed orientatrice per tutta la vita. Di cuore tutti li benediciamo.



Mercoledì, 18 agosto 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Che cosa vi raccomanderemo questa volta? Null’altro che ciò per cui il Concilio ha espresso tante intenzioni e spesso tante stupende parole: l’autenticità della vita cristiana. Abbiamo noi il concetto di questa autenticità? ne abbiamo la professione pratica? Vi fu uno dei pensatori moderni più celebri, che scrisse essere noi arrivati ad un punto «in cui non sappiamo più esattamente che cosa sia il cristianesimo» (Kierkegaard). Veramente noi lo sappiamo, salvo che lasciamo confondere l’idea cristiana con tutte le correnti più varie di pensiero e di costume del mondo in cui ci troviamo. Non mancano cristiani che assorbono le idee del suo tempo: le idee nuove soprattutto, i dubbi, le negazioni, le utopie, specialmente quando queste ideologie sono professate da spiriti forti e intelligenti e sono sostenute dalla moda, grande fascinatrice e grande fabbricatrice di gregari. L’educazione cristiana stenta spesso a dare un’impronta precisa e robusta alle nuove generazioni, che minimizzando il contenuto e l’impegno della vita cristiana finiscono per sentirne più il peso, che la realtà, la pienezza e la gioia.

Il Concilio vuol essere un restauratore della coscienza cristiana; anzi, nel suo sforzo di meglio comprendere il significato della vocazione di Cristo alla sua sequela, il Concilio approfondisce e sviluppa tale coscienza; pensate a ciò che già esso ci ha insegnato sul Popolo di Dio, sul sacerdozio di ogni battezzato, sulla partecipazione dei fedeli alla celebrazione liturgica, sul dovere di ogni fedele d’essere testimonio e apostolo del nome cristiano; sull’invito alla santità rivolto ad ogni credente; e pensate a ciò che ci insegnerà nella prossima sessione circa i rapporti della Chiesa col mondo e circa la missione dei Laici all’apostolato, e così via, per comprendere come sia questa l’ora per restituire alla professione cristiana la sua autenticità, la sua integrità, la sua forza e la sua armonia con tutte le, manifestazioni della vita.

E questo con arte nuova. Lo sviluppo della cultura moderna ha riconosciuto la legittima e doverosa distinzione dei vari campi dell’attività umana, tributando a ciascuno di essi una relativa autonomia, reclamata dai principii e dai fini costitutivi di ogni singolo campo; così che ogni scienza, ogni professione, ogni arte ha una sua relativa indipendenza, che la separa dalla sfera propriamente religiosa, e le conferisce un certo «laicismo», che, se bene inteso, il cristiano è il primo a rispettare, non volendo confondere, come si d;Ice, il sacro col profano. Ma dove questi singoli campi di attività si riferiscono all’uomo, considerato nella sua interezza, cioè in ordine al suo fine supremo, tutti possono e debbono onorare ed essere onorati dalla luce religiosa, che rischiara quel fine supremo e ne rende possibile il conseguimento. Dove cioè l’attività diventa morale deve avere il suo riferimento al polo centrale della vita, che è Dio, e che Cristo ci rivela e ci guida a raggiungerlo. Ecco che allora tutta la vita, anche se profana, purché onesta, può essere cristiana. Non c’insegna San Paolo a tutto riferire al Signore?: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che altro facciate, fate ogni cosa alla gloria di Dio» (
1Co 10,31).

E per nostra fortuna e nostra edificazione noi vediamo spesso anime desiderose di questa interezza spirituale, a cui la vocazione cristiana ci destina. Un bisogno di assoluta sincerità, un’esigenza di logica vissuta, un coraggio sprezzante del rispetto umano, delle viltà convenzionali, dei ripieghi vili e indolenti, e un’indefinibile attrattiva interiore alla perfezione, all’autenticità cristiana spingono oggi anime giovanili ad una franchezza cristiana, ad una fedeltà cattolica, ad un’originalità spirituale, che lasciano chi le osserva stupiti e commossi. È il vento dello Spirito? Spiritus ubi vult spirat (Jn 2,8)! È uno dei «segni dei tempi», che ci danno gaudio d’appartenere a questa nostra grande e travagliata età e ci infondono nuova speranza per l’avvenire.

Non sentite voi stessi ch’è venuto il tempo d’essere cristiani per davvero? Provate dunque con coraggio e con fiducia. Vi esorta e vi accompagna la Nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 25 agosto 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Siete venuti a trovarci! Noi pensiamo che voi non possiate sfuggire all’impressione d’essere saliti sopra un osservatorio, da cui si può meglio contemplare il panorama del mondo, dall’alto. Sì, da questa posizione, in cui il Signore ha collocato il suo umile Vicario terreno, la visione del mondo diventa subito molto larga. Un’istituzione storica, come la Chiesa; universale come la Chiesa; investita d’una missione indispensabile di salvezza, come la Chiesa, non può non avere un quadro immenso davanti a sé. Libera da interessi temporali, che la tengano vincolata a forme storiche particolari; lanciata nel tempo e nella società, come fermento concreto di vita - di dottrina, di costume, di sensibilità, di scienza dei valori umani -, e nel tempo stesso cosciente di possedere un carisma d’immortalità e una missione trascendente il livello dell’ordine naturale, la Chiesa naviga su l’oceano della umanità. Naviga: cioè sperimenta simultaneamente il duplice fenomeno del fluttuare e del galleggiare; cioè partecipa a tutte le vicende del mondo in cui si trova, ne gode i vantaggi, ne subisce gli squilibri e gli urti; ma insieme ella rimane al di sopra delle onde delle umane vicende, in un certo superiore distacco, che corrisponde ad una finalità sua propria, sempre rivolta com’è ad un porto, ad un «regno, che non è di questo mondo» (
Jn 18,36).

Si direbbe allora che voi siete venuti sulla nave di Pietro, siete saliti sul ponte di comando, e vi guardate intorno timidamente, curiosamente; per godere un istante di questa affascinante visione, che davvero meriterebbe una contemplazione attenta e prolungata: si potrebbero capire molte cose, sia della Chiesa, sia del mondo, sia delle anime, mettendosi al posto di osservazione proprio del Papa. Ma adesso il tempo è breve. E poiché siete venuti così filialmente a trovarci, sulla Nostra nave, vi faremo vedere una cosa sola, per ora: la Nostra specola; cioè il periscopio, per così dire, che guida il Nostro sguardo, che è poi quello stesso della Chiesa, nell’osservazione del panorama circostante.

State attenti: Il Nostro sguardo possiede una triplice direzione. Non nello spazio, ma nel tempo. Una direzione è rivolta al passato; la Chiesa guarda indietro, con l’occhio fisso al suo punto di partenza, che è Gesù Cristo. Qui la visione è nitida, anche se intrecciata con la storia dei due Testamenti, e se piena di punti luminosi tuttora misteriosi. Questa visione non è mai dimenticata: è essa che guida la rotta della Nostra mistica nave, ed è essa che fa sospettare ad alcuni che la Chiesa viva soltanto del passato e nel passato, guardando unicamente indietro. Ma non è così. Perché la Nostra specola ha un altro occhio, anche questo sempre vigilante, ma mobile questo e adattabile alle più differenti prospettive; è l’occhio sulla scena presente, sulla realtà storica presente, sulla vicenda attuale in cui Chiesa e mondo s’incontrano e si scontrano. Oggi quest’occhio è più che mai aperto su «i segni dei tempi»; e nell’intensità del suo sguardo oggi v’è tanto ottimismo, tanta simpatia, tanto amoroso interesse! Lo dirà lo Schema XIII del Concilio ecumenico, alla prossima sessione. Ma la nostra navigazione spirituale non può limitarsi a questa visione, come ora non pochi fanno. Perché v’è un altro sguardo, che parte da questa specola; ed è l’occhio che si protende avanti sul futuro: questo occhio guarda lontano; e il suo orizzonte è avvolto da una nebbia luminosa, che non lo lascia vedere nei suoi particolari, ma lo fa intravedere in immagini, in segni, in presagi, che bastano a confermare la direzione del cammino intrapreso e ad imprimere al movimento avanzante della Chiesa una singolare energia, una sicura accelerazione; è la speranza finale: è la certezza del futuro incontro col Cristo glorioso.

Carissimi Figli! Vorremmo che il vostro occhio posasse un istante su questa terza prospettiva della Nostra specola, affinché abbiate a sentire in voi una meraviglia nuova, una gioia più intensa, quella di sapervi portati verso un regno magnifico, verso un porto splendido; cioè verso una pienezza di vita e di felicità, che ci fa comprendere quale sia la nostra fortuna d’essere figli della santa Chiesa. «Spes autem non confundit», la speranza invero non fallisce (Rm 5,5). E se la speranza è la molla dell’attività, del lavoro, dell’abnegazione, del progresso la Chiesa ha per quanti a lei si affidano la molla più forte.

Qui può sorgere una questione molto complessa e, sotto certi aspetti, pericolosa, quella del conflitto o dell’accordo delle due speranze; la speranza temporale, oggi tanto cresciuta e affascinante, e la speranza cristiana, oggi spesso discussa e dimenticata. Bisognerà fare attenzione. Bisognerà fare attenzione. Scrive uno studioso contemporaneo: «Ora, in questo mondo, la Chiesa si trova di fronte ad una nuova, potente e seducente corrente storica, che ad essa oppone una specie di escatologia rivale. È una forma di naturalismo, che presume di condurre l’umanità ad un fine immanente alla vita terrestre, mediante le proprie forze dell’uomo, ampliate dalle possibilità della scienza . . . Il naturalismo non è solo diffuso in un mondo esteriore alla Chiesa, ma preme sulla coscienza e l’agire degli stessi fedeli, causando una alterazione del contenuto della speranza cristiana. Questa alterazione si manifesta nella preoccupazione dominante dei beni terrestri e nell’esaltazione dei valori della vita umana».

Bisognerà fare attenzione, sì, per non perdere la speranza cristiana, quella vera, quella escatologica, quella che deve orientare la vita della Chiesa e di ogni fedele cristiano, verso il regno di Dio. Dapprima e soprattutto il regno di Dio! Ma noi sappiamo che le due speranze, quella temporale, e quella cristiana e religiosa, possono anche non opporsi, ma sommarsi nell’attesa e nella ricerca di alcuni fini superiori, per sé terreni, ma coordinati dalla carità al fine supremo della vita cristiana, come sono, ad esempio, quelli di dare un senso vero alla esistenza dell’uomo, di vincere la fame nel mondo, di instaurare la giustizia, la fratellanza, la pace fra gli uomini, di promuovere l’unificazione ordinata e pacifica dell’umanità e così via; e ciò deve accrescere la fiducia nei cuori di tutti, dei giovani specialmente, che hanno tanto bisogno di speranza, e degli uomini pensosi delle sorti del nostro tempo; e deve meritare alla Chiesa di Dio nuova stima e nuovo amore; sì, perché ella, la Chiesa di Dio, è sorgente di vera speranza. Anche le buone e alte speranze umane possono essere sorrette dalla speranza cristiana.

È ciò che auguriamo per voi, carissimi Figli, come frutto di. questa udienza; mentre di cuore tutti vi benediciamo.





Mercoledì, 1° settembre 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Se una visita, come a Noi la vostra, è un incontro spirituale che tende a leggere nel cuore della persona visitata, voi potete oggi facilmente leggere nell’animo Nostro pensando all’esortazione apostolica, che in questi giorni Noi abbiamo rivolto alla Chiesa di tutto il mondo, invitandola a fare speciali preghiere in occasione dell’ormai prossima riapertura del Concilio ecumenico, giunto alla sua quarta e conclusiva sessione; e esortandola a dare a tali preghiere un indirizzo particolare verso la Croce di Cristo, alla quale è dedicata, secondo il calendario liturgico, una delle memorie con cui la Croce è onorata, cioè il 14 settembre, affinché sia a tutti quanti ricordato che dalla Passione del Signore deriva a noi la salvezza, e che alla Passione del Signore, mediante l’orazione e la penitenza, dobbiamo avvicinare i nostri cuori, per ottenere a noi tutti, alla Chiesa e al mondo, quelle grazie, quei lumi, quelle virtù, che il Concilio va, quasi con supremo sforzo, cercando.

Cioè un’intenzione di corroborare e di santificare l’ultima fase del Concilio ecumenico con una fervorosa e comune orazione penitenziale occupa in questo periodo la Nostra mente; e la manifestiamo anche a voi, cari Figli e Figlie che venite a visitarci, affinché siate più strettamente e piamente associati ai Nostri pensieri, ai Nostri desideri e alle Nostre speranze. Noi siamo fiduciosi che voi accoglierete questa Nostra confidenza e asseconderete questo Nostro invito: pregare, in virtù di Cristo Crocifisso, per il buon esito del Concilio! Voi lo farete certamente; e Noi vi ringraziamo. Lo faranno i Vescovi, i Sacerdoti, i Religiosi, i Fedeli; e Noi Ci sentiamo molto confortati da questo coro mondiale di suppliche sintonizzate. Attendiamo questa collaboratrice adesione spirituale specialmente dalle anime votate alla preghiera e tese verso la partecipazione alla vita orante e operante della Chiesa.

Non è nuovo questo invito alla preghiera concorde del Popolo di Dio; ma il ripetersi di questo atto non toglie nulla alla sua importanza; anzi dimostra che la preghiera collettiva è un atto vitale della santa Chiesa; è il suo respiro, che si fa sospiro; è un atto docile all’esortazione di Cristo, che tanto ci ha raccomandato d’essere perseveranti nel chiedere, nell’implorare, nel supplicare quanto attendiamo da Dio per la nostra salvezza; e la raccomandazione del Signore vale tanto per la durata della preghiera (
Lc 21,36), quanto per la sua ripetizione (Mt 7,7) e per la sua insistenza (Lc 11,8 e Lc 18,1-8), se pure ciò deve avvenire nella gravità e nella sobrietà delle parole (Mt 6,7), per indicare che non la quantità verbosa e formale deve prevalere sulla qualità interiore e morale della preghiera.

Aprendo a voi il Nostro animo circa questo grande e specialissimo bisogno di comuni preghiere, crediamo di avviare le vostre menti ad un’esplorazione ben nota, ma in questo caso molto istruttiva e caratteristica della essenza della nostra religione cattolica. Esplorazione immensa per chi la volesse compiere, come quella che ci introduce nella visione generale dei rapporti fra Dio e l’uomo: sono rapporti che, mediante Cristo, ammettono la nostra conversazione con Dio, quasi voce di figli al Padre; sono rapporti che ammettono non solo la Provvidenza vegliante sulla nostra vita, ma che dimostrano come l’ordine soprannaturale così penetri nella nostra vita stessa, mediante la grazia, le virtù ed i doni dello Spirito, da doversi attribuire a Dio ed a noi, quasi compiute in collaborazione, le nostre azioni: «siamo cooperatori di Dio», dice San Paolo (1Co 3,9); sono rapporti perciò che esigono una combinazione dei due principii, estremamente disuguali, Dio e l’uomo, concorrenti ad un unico risultato, il nostro bene, la nostra salvezza. Ora questo concorso di Dio nell’umile circuito della nostra personale operazione, questo incontro della sua volontà, con la nostra, questa mirabile e misteriosa fusione del suo Amore col nostro povero amore, esige da parte nostra, insieme al modesto, ma totale contributo della nostra limitata efficienza, la disposizione migliore per accogliere l’efficienza divina; esige uno stato di desiderio e di implorazione, che si chiama orazione. L’orazione apre la porta dei nostri cuori all’azione di Dio in noi; e se noi credenti e cattolici siamo convinti di questo ordinamento soprannaturale delle cose della nostra vita, instaurato da Cristo, ci persuadiamo che l’orazione è una attività fondamentale, è un atteggiamento necessario e normale per il retto e santo svolgimento della nostra presente esistenza e per il conseguimento di quella futura.

Così è. E questa considerazione semplicissima, ma fondamentale, ce ne suggerisce due altre, che si possono riferire ad un’udienza, come questa.

Avete mai pensato al centro della Chiesa cattolica, alla santa Sede - al Vaticano, come comunemente si dice - come ad una inesausta sorgente di desideri? Come ad un cuore, che sempre attende, che sempre prega? L’immagine consueta, che la gente si forma del Papato, è quella d’un posto di comando, di autorità, di governo; e lo è per la direzione pastorale e dottrinale della Chiesa; ma non si pensa abbastanza che qui, più che altrove, è avvertito, è alimentato, è sofferto il senso della pochezza umana, il senso del bisogno di aiuto divino, il senso umile della nostra radicale insufficienza, il tormento di molto desiderare, con il conforto di molto sperare; e non si vede che qui i desideri acquistano proporzioni immense, mondiali.

Appunto perché la missione della Chiesa è missione di carità, e qui la missione della Chiesa si fa universale, qui la forza, qui la molteplicità, qui l’ardore dei desideri si dispiegano in tutto il vigore possibile al cuore umano; e siccome a questi supremi desideri le capacità umane non possono dare soddisfazione, i desideri qui, più che altrove, si convertono in preghiera. Ascoltate queste precise parole di San Tommaso: «Il desiderare cade sotto il precetto della carità; il chiedere poi cade sotto il precetto della religione» (desiderare quidem cadit sub praecepto charitatis; petere autem sub praecepto religionis - S. Th. II, II, 83, 3 ad 2).

E prosegue: «Noi dobbiamo chiedere pregando ciò che dobbiamo desiderare; e dobbiamo desiderare il bene non solo per noi, ma anche per gli altri» (S. Th. II, II, 83, 7).

Ed ecco perché preghiamo per il Concilio, e perché invitiamo il Popolo di Dio a pregare con Noi. È l’amore per la Chiesa e per il mondo, che ci spinge a pregare. È l’interesse, che il Concilio riveste per la Chiesa, e per il mondo, che a pregare ci spinge. È la fiducia, che abbiamo nella virtù dispositiva alla divina misericordia dell’orazione, che ad essa ci invita.

È la certezza, che al contributo dell’orazione per il bene di tutti ogni cuore buono e pio è valido, che Ci suggerisce di tutti esortare a pregare insieme.

Sarete anche voi preganti con Noi e con la Chiesa? In questa fiducia tutti vi benediciamo.




Paolo VI Catechesi 40865