Paolo VI Catechesi 10965

Mercoledì, 8 settembre 1965



Diletti Figli e Figlie!

La vostra venuta coincide oggi con una festa cara alla Chiesa e alla pietà mariana: la natività di Maria Santissima. Questa coincidenza Ci obbliga a raccomandare a voi, che desiderate avere da questo incontro qualche impulso spirituale conforme al pensiero della Chiesa nel momento presente, di onorare la Madonna con le vostre preghiere durante questi giorni precedenti alla ripresa finale del Concilio ecumenico, e poi anche durante lo svolgimento del Concilio stesso. Il perché è chiaro. Abbiamo esortato tutti a pregare per tale scopo; e siamo abituati, noi cattolici, a inserire sempre nelle nostre implorazioni un ricorso all’intercessione di Maria, come quella che, nella sua umanissima bontà e nella sua incomparabile prossimità a Cristo mediatore d’ogni grazia, meglio le può per noi interpretare e meglio avvalorare. Quando poi la nostra orazione intende chiedere i favori divini per la santa Chiesa e per il Concilio, ragioni speciali ci spingono all’esercizio della fiducia nella Madonna, e proprio nella festa della sua natività.

La liturgia infatti di questa celebrazione c’invita a vedere non tanto il fatto della nascita della Vergine, quanto il significato e l’importanza che tale fatto riveste nel disegno divino della nostra salvezza: «La tua nascita - dice l’antifona del Magnificat -, o Vergine Genitrice di Dio, è stata un annuncio di gaudio per il mondo intero». Maria è l’annuncio, Maria è il preludio, Maria è l’aurora, Maria è la vigilia, Maria è la preparazione immediata, che corona e mette termine al secolare svolgimento del piano divino della redenzione; è il traguardo della profezia, è la chiave d’intelligenza dei misteriosi messaggi messianici, è il punto d’arrivo del pensiero di Dio, «termine fisso d’eterno consiglio», come Dante si esprime. L’apparizione di Maria nella storia del mondo è come l’accensione d’una luce in un ambiente oscuro; una luce del mattino, ancora pallida e indiretta, ma soavissima, ma bellissima: la luce del mondo, Cristo, sta per arrivare; il destino felice dell’umanità, la sua possibile salvezza, è ormai sicuro; Maria lo reca con sé.

Ora il Concilio, che è senza dubbio un grande episodio nella storia della Chiesa e della salvezza del mondo, ha bisogno di tale prefazione mariana. Ha bisogno appunto d’essere compreso e valutato come un avvenimento collegato con la nostra salvezza e con quella del mondo moderno, un avvenimento provvidenziale, un avvenimento innestato nella trama messianica ed escatologica della storia dell’umanità. Va preso sul serio. Va meditato con sapienza. Va vissuto con umiltà e con devozione. Va celebrato con profonda presenza di spirito. Va considerato come una grazia, di cui non dobbiamo perdere il beneficio. Ecco allora la nostra invocazione alla Madonna; la dobbiamo pregare affinché ci sia data la grazia di capire il Concilio come l’ora di Dio. Fu ora di Dio, ora unica e determinante tutta la redenzione la nascita di Maria; preghiamola che questa nuova ora, in cui quella di lei si continua e si riflette, apporti a noi di nuovo Cristo salvatore, ci ottenga una vera rigenerazione.

E perché ciò sia possibile, più facile almeno, domanderemo alla Madonna che le sue virtù, la sua impareggiabile figura morale, la sua immacolata purezza; la sua dolcezza, la sua umiltà, la sua primigenia verità umana, siano in nuova misura concesse alla Chiesa in Concilio. Così infatti, dentro e fuori dell’aula conciliare, deve essere vissuta l’ora di Dio, in un rinnovato sforzo, di evangelica santità, in una ricerca interiore e in una professione esteriore di quei sentimenti, di quello stile morale e spirituale, che caratterizzano in grado sublime, la forte, l’umile, la dolce, la regale profetessa del Magnificat.

Se così pensiamo, se così preghiamo, otterremo, noi speriamo, due effetti importantissimi: quello di meritare al Concilio una ricchezza di grazie, di luce, di virtù, di carismi, quale è, nei comuni desideri della Chiesa e nei nostri; e quello, non ultimo, anzi non meno degli altri prezioso, di rianimare con saggezza e con fervore il nostro culto a Maria Santissima, come già il Concilio ha insegnato, con profondo senso cristologico ed ecclesiologico: comincerà da ciò, in grande parte, la perfetta rinnovazione della nostra vita cristiana.

Salutiamo dunque con filiale affezione il genetliaco della nostra Madre celeste, e chiediamo di far sua per voi la benedizione che Noi ora vi diamo.

* * *

Diletti Figli e Figlie!

Noi dobbiamo aggiungere un altro invito alla vostra preghiera.

Quello per la Pace, come abbiamo fatto tante volte; ma ora con accento più pressante e più accorato. Conoscete le notizie di questi giorni circa un nuovo conflitto fra due Popoli asiatici. È molto penoso osservare che l’umanità ritorna, a quando a quando in quest’ultimo tempo, ad azioni armate, a fatti di guerra. Ora il conflitto sembra assumere aspetti di particolare gravità. Ne siamo anche Noi particolarmente afflitti e impensieriti. Totalmente estranei alla vertenza, non Ci asterremo tuttavia di fare anche Noi quanto è in Nostro potere e in Nostra competenza perché subito cessi l’impiego delle armi e opportune trattative abbiano a risolvere la lotta in corso e a comporre equamente gli interessi contrastanti.

È ciò che auguriamo di cuore per il bene stesso delle Nazioni impegnate, verso le quali Noi abbiamo stima- e affezione, e alle quali auguriamo il pronto ritorno alla concordia e alla pace.




Mercoledì, 15 settembre 1965

15965

Diletti Figli e Figlie!

Anche questa volta, volendo farvi partecipare ai Nostri pensieri, quasi per dare all’udienza un contenuto spirituale comune per voi che qua venite, e per Noi che qui vi riceviamo, vi diremo, assai brevemente, che due sono gli oggetti principali delle Nostre riflessioni in questi giorni; ed è ovvio: l’Enciclica sull’Eucaristia, che abbiamo poco fa pubblicata, e il Concilio ecumenico, di cui abbiamo ieri aperto la quarta sessione. Noi vogliamo credere che nessuno di voi ignora qualche notizia circa questi due temi: l’Eucaristia e il Concilio, temi grandissimi, temi importantissimi, temi bellissimi, che Noi raccomandiamo alla vostra riflessione, se vi preme di non chiudere gli occhi davanti agli aspetti spirituali più significativi dei nostri giorni, e se vi sta a cuore avere con la Chiesa e con questo suo centro un’armonia di sentimenti degna di buoni cattolici e di figli intelligenti. Che l’Eucaristia infatti sia argomento degnissimo di considerazione tutti sappiamo, se solo ricordiamo che l’Eucaristia è il sacramento della carità (come il battesimo si qualifica piuttosto come il sacramento della fede); e la carità, come tutti sanno, è la legge riassuntiva, il vincolo della perfezione (Col. 3; 14), la base, la radice di tutte le virtù cristiane, il fondamento di tutto il sistema morale cristiano; inoltre l’Eucaristia è al centro del culto cattolico e la vita religiosa vi trova il suo momento di pienezza e di più alta espressione; e, ciò che più conta, l’Eucaristia è al vertice dell’economia sacramentale, perché, se tutti i sacramenti ci dànno la grazia e ci uniscono a Cristo, l’Eucaristia ci mette in comunione con Cristo stesso, presente nell’Eucaristia; con Lui, autore dei sacramenti e fonte della grazia; possiamo perciò dire l’Eucaristia base, centro, vertice della vita spirituale del fedele cristiano (cfr. S. Th. III, 65, 3; e III, 73, 3).

E quanto al Concilio siamo tutti facilmente persuasi che si tratta di avvenimento singolare, di rilievo storico, e di grande importanza per la vita della Chiesa, e di riflesso su quella del mondo.

Ma l’interesse di questi accenni sta in un’altra questione; e cioè nel cercare quale rapporto vi può essere fra due temi, l’Eucaristia e il Concilio, apparentemente così diversi l’uno dall’altro. Vorremmo che vi provaste a cercare tale rapporto!

E vi sarà facile intuirlo (comprenderlo, misurarlo sarebbe meraviglioso, ma non poco difficile), se pensate che il Concilio altro non è che un momento, un’espressione, quasi una sintesi della Chiesa. Allora la ricerca si pone in questi termini: quale relazione vi è tra l’Eucaristia e la Chiesa?

Un valente studioso moderno (non forse sconosciuto ad alcuni di voi) ha enunciato tale relazione in bel capitolo d’un suo bel libro con queste due proposizioni: la Chiesa fa l’Eucaristia; e l’Eucaristia fa la Chiesa! (De Lubac). Provate ad esplorare queste due affermazioni, e vedrete quale ricchezza di dottrina ne risulta. Un altro illustre teologo scrive: «Tutta la grazia santificante del mondo è sospesa alla grazia della Chiesa. E tutta Ia grazia della Chiesa è sospesa all’Eucaristia» (Journet, 11, 672).

Contentiamoci ora di ricordare come l’Eucaristia sia simbolo della Chiesa. È questo uno dei punti più studiati è ricorrenti nella storia e nella letteratura relativa al mistero eucaristico. Esso rappresenta e rinnova il sacrificio di Cristo sulla croce; ed è questo il suo primo e sacramentale, significato; ma esso, per via delle specie del pane e del vino, in cui è contenuto, prende figura anche della Chiesa; o meglio della sua unità. Sentiamo S. Cipriano, il vescovo martire del terzo secolo, dottore dell’unità della Chiesa. Egli scrive: «. . . quando il Signore chiama il suo corpo pane, risultante dall’unione di molti grani, vuol indicare il nostro popolo adunato . . .» (Ep. 76, 6; P.L., 3, 1142). E altrove: «nel sacramento stesso si mostra il nostro popolo riunito» (Ep. 62, 13; P.L., 4, 384). La teologia va oltre, e scopre nell’Eucaristia, cioè nella realtà a cui essa tende, nell’effetto ch’essa produce (oltre che la santificazione dell’anima che si comunica), «l’unità del corpo mistico, senza la quale non vi può essere salvezza» (S. Th. III, 73, 3); quell’unità profonda e ineffabile, di cui parlava San Paolo: «. . . noi molti siamo un solo corpo, noi tutti che partecipiamo allo stesso pane» (
1Co 10,17). Così che l’Eucaristia non è soltanto la figura, ma altresì il principio della carità unitiva dei fedeli a Cristo, ed in Cristo fra loro.

E basti questo per vedere nel Concilio (fatto più d’ogni altro realizzatore e rappresentativo dell’unità gerarchica e comunitaria della Chiesa), un estremo postulato, quasi un. totale anelito della Chiesa stessa verso l’Eucaristia; e per vedervi insieme un supremo risultato, quasi un preludio di comunione dei santi, dell’Eucaristia medesima creduta e celebrata dalla Chiesa di Cristo.

E basti ora questo per la vostra devozione verso la Chiesa, in Concilio e per il vostro culto verso Cristo nel SS.mo Sacramento: cose alte, cose altissime; ma quali altre, se non queste vi può presentare quel Vicario di Cristo, che voi siete venuti a cercare nella umilissima persona che vi parla e che ora, in nome di Cristo, vi benedice ?

L’alto ufficio umano e morale dei medici condotti

Salutiamo con piacere il numeroso e cospicuo gruppo dei Medici Condotti, riuniti a Roma, i quali hanno molto gentilmente, voluto procurarci l’occasione d’incontrarci con loro.

Li ringraziamo di tale cortesia, che Ci trova molto sensibili, anche se gli impegni di questi giorni non Ci hanno concesso la possibilità d’una udienza tutta per loro! Ma i Medici Condotti sono persone sperimentate alle difficoltà pratiche della vita vissuta, e vorranno egualmente credere alla stima che facciamo delle loro persone, della loro professione, e perciò anche di questa loro visita.

Cari Signori! Il primo sentimento che sorge nel Nostro animo alla vostra presenza è quello di riconoscenza per i servizi che voi rendete alla società; e quali servizi! Voi assistete e curate il nostro popolo nelle molteplici sue necessità d’ordine sanitario; curate coloro che non hanno possibilità di scegliersi l’assistenza sanitaria di loro gradimento; curate i malati che ancora non entrano nella rete, ormai vasta e complessa, delle assistenze prestabilite dai grandi organismi sanitari moderni; curate i malati nelle loro case, nelle loro contingenze personali e domestiche, dove voi soli potete loro apportare il primo consiglio, il primo rimedio, e dove voi soli sorprendete alla prima radice l’apparizione delle malattie, che potrebbero diventare fatali o contagiose e che trovano invece in voi chi le individua, le previene, le arresta, o loro oppone il soccorso dei più validi interventi, di cui l’organizzazione medica, pubblica o privata, dispone.

Perciò, il Nostro sentimento verso la vostra categoria di sanitari è quello di ammirazione. Sappiamo in quali condizioni voi dovete esercitare la vostra professione, specialmente in campagna o in montagna. Voi dovete assistere tutti! E tutti hanno diritto di chiamarvi, di farvi correre, intervenire; ad ogni ora, ad ogni distanza, ad ogni necessità! È proverbiale il disagio, la fatica, la solitudine, la responsabilità di codesta vostra disponibilità. Siete davvero dei soldati del dovere! Siete coloro in cui la professione medica arriva al grado più alto di dedizione e di disinteresse! Siete i curatori della gente modesta e povera; siete i medici di tutte le malattie, di tutte le categorie di cittadini, di tutte le età. Per questo vi ammiriamo!

Due pensieri sorgono in Noi nel considerare la vostra professione: il primo si è che la deontologia medica, ricca oramai di una vastissima casistica, cade in pieno sopra di voi; voi siete i medici della casistica più ampia e più svariata; e tutto si richiede da voi. Questa circostanza, che sembra aggravare la vostra professione e toglierle il prestigio e la comodità della specializzazione, è ciò che fa del medico condotto il medico tipico, il medico completo, il medico che deve unire alla comune preparazione scientifica di base una versatilità sua propria, che l’incomparabile abbondanza della vostra esperienza educa alla terapia pratica più saggia e più semplice e avvia anche ad una riflessione scientifica per cui il medico condotto, che ha dato all’esercizio dell’arte sua la passione, ch’essa merita, trae onore e stima e fiducia, quali sono dovute al saggio, all’esperto, all’uomo veramente pratico e benefico. E l’altro pensiero è dato dalla somiglianza che l’esercizio del vostro ufficio ha con quello del Sacerdote in cura d’anime, col Parroco. Anch’egli è legato all’assistenza del popolo, come voi lo siete; lui per il bene spirituale, voi per quello fisico; ed entrambi con dedizione e abnegazione che spesso non hanno misura. Perciò vediamo in voi persone buone, persone amiche dell’umile gente, bravi professionisti nei quali l’aspetto umano - anzi l’aspetto cristiano - delle vostre prestazioni acquista uno splendore incomparabile. Parroco e Medico Condotto dovrebbero sempre essere amici e collaboratori; e lo sono in tanti casi, che danno alla vita della comunità un argomento di familiarità, di fiducia, di stabilità morale.

Avremmo tante altre cose da dirvi, tanto è alto e degno il vostro ufficio; ma concluderemo con una duplice raccomandazione: amate la vostra professione! Avete fatto bene a distinguere e a premiare quelli di voi che sono apparsi più meritevoli; è professione che andrebbe tutta premiata! E l’altra raccomandazione riguarda l’«animus» con cui dovete esercitarla: fate che cotesto «animus» abbia in sé un’infusione di sentimento cristiano; è tanto più facile, è tanto più bello, è tanto più meritorio quando si assiste il dolore umano per amore, per amore di Cristo, il grande e misterioso Paziente che soffre, piange e muore in ciascuno dei miseri e dei piccoli, su cui si curva buona e saggia la vostra professione.

Questo vi dica come Noi seguiamo con la Nostra stima, con i Nostri voti; con la Nostra benedizione i Medici Condotti.



Mercoledì, 22 settembre 1965

22965

Diletti Figli e Figlie!

Noi vogliamo ravvisare nella devozione che vi ha ispirato a farCi questa visita un atto di fede in Cristo e di fedeltà alla sua Chiesa, e non possiamo non essere lieti e riconoscenti d’una così esplicita e nobile professione dei vostri sentimenti religiosi. Voi qui vi professate cristiani, qui vi professate cattolici; e l’effusione della vostra devozione filiale dimostra come voi comprendiate il significato di autenticità e di pienezza che qui acquista la vostra adesione al credo cattolico, ed il valore d’impegno che essa assume, per il fatto che questo momento è vissuto alla presenza del Papa ed è quasi con Lui celebrato nella certezza d’una comune fede, nel gaudio d’una identica carità. Il «Credo», che noi reciteremo insieme, al termine di questa udienza, ci farà in qualche modo sentire la spirituale bellezza di questo così semplice, ma anche così singolare incontro.

È un’esperienza preziosa, se Dio ve la concede, e se voi siete capaci di lasciare ch’essa penetri il vostro spirito. È l’esperienza del carattere assoluto e definitivo della fede, è la scoperta della perennità della Parola di Dio, sempre ferma, sempre eguale a se stessa, sempre vittoriosa; è la sensazione spirituale indicata dalla definizione metaforica, data da Cristo, della «pietra» che rimane e che sorregge, confortando chi vi si appoggia, con la sua certezza e con la sua stabilità.

Diletti Figli e Figlie! Che nessuno di voi esca da questa basilica senza sentirsi confortato e avvalorato dal bagno di fortezza spirituale a voi offerto dall’immersione in questo cenacolo di fede, così antica da chiamarsi apostolica, così moderna da chiamarsi viva ed attuale. Ma fate attenzione: un momento sacro, quale Noi vi descriviamo, avrà una reazione, forse all’uscita stessa da quest’aula inebriante; una reazione, che acutizza una domanda sempre stimolante e spesso conturbante nelle anime dei credenti al giorno d’oggi: come posso conservare e professare questa adesione così bella e così esigente alla mia fede partecipando, come pur devo, alla vita moderna? È un problema immanente nella coscienza dei fedeli, e ciò tanto maggiormente, quanto più essi sono buoni cristiani e vogliono essere sinceri cattolici. Il nostro tempo, dove tutto si trasforma, dove tutto esige accettazione e conformità, pone continue difficoltà a colui che vuol mantenersi libero e coerente e non può, non vuole uscire dal mondo che lo condiziona, lo assorbe, lo plasma, lo soverchia.

Vi avvertiamo di ciò, non tanto per turbare l’ora di luce che stiamo godendo, e nemmeno per darvi ora la chiave di soluzione della complessa e difficile questione dei rapporti fra la professione cristiana e la partecipazione al costume odierno (esigerebbe troppo lungo discorso), ma solo vi avvertiamo, affinché vi prepariate e vi pensiate.

Si riproduce oggi la problematica dei primi convertiti al cristianesimo, obbligati a vivere in una società pagana; bisogna che il cristiano in certe manifestazioni della vita profana si astragga, si difenda, e si immunizzi; bisogna che in altre manifestazioni si interroghi per penetrarle e quasi redimerle con lo spirito buono che la sua fede gli fornisce. È un esercizio, se volete, un po’ faticoso; ma che dà grandi vantaggi e grandi meriti a chi vi si applica; è un esercizio che fa diventare vigilante e militante il cristiano; gli dà coscienza di sé e conoscenza dei problemi del tempo suo; lo abilita a esprimere uno stile di vita, che potremmo chiamare nuovo e santo, disinvolto e austero, aperto e guardingo. È un esercizio che deve diventare caratteristico per i figli della Chiesa, che vogliono essere coscienti e fedeli.

Voi sapete che la Chiesa pensa a questo enorme problema: il Concilio, studiando i rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno, ne tratterà ampiamente; ma intanto ogni credente deve allenarsi a risolvere da sé, seguendo la norma che la Chiesa gli traccia, i moltissimi casi pratici d’ogni giorno circa la questione, che dicevamo: come essere veri cristiani e insieme uomini del nostro tempo?

Noi pensiamo che l’impressione spirituale di questa udienza gioverà a tale risoluzione, corroborando in voi quella fede, che non e avulsa dalla vita, ma della vita è luce e vigore. Ne esprimiamo il voto accompagnandolo con la Nostra Apostolica Benedizione.

Una valida lotta contro la fame

Chers Messieurs,

C’est toujours un plaisir pour Nous de recevoir la visite de personnalités distinguées qui viennent mettre leur bonne volonté, leur compétence, et leurs moyens d’action au service de la campagne contre la faim sous l’égide de la FAO.

Venus de divers pays, vous avez répondu à l’appel de Monsieur le Docteur Sen, Directeur général, et vous vous proposez de mettre sur pied un Comité chargé d’établir une collaboration entre la FAO et l’industrie mondiale, dont vous êtes des représentants qualifiés. Soyez-en, Messieurs, félicités, et sachez que Nous Nous réjouissons hautement de cette noble initiative et que Nous souhaitons la voir couronnée du meilleur succès en faveur de ces centaines de millions d’hommes qui sont’ en situation défavorisée dans le monde d’aujourd’hui, du simple fait de leur origine géografique et de leur état social.

Puissiez-vous faire converger vos efforts avec ceux de tous les hommes de bien, et mettre en commun vos immenses possibilités au service de ces populations qui en ont un urgent besoin. Vous appartenez à des pays dont les noms mêmes sont synonymes de sécurité, de puissance, et de bien-être. Et vous sentez quelle exigence en découle, et quel champ très vaste de recherche et d’action s’ouvre devant vous.

Nous n’avons pas compétence pour vous parler de thérapeutique économique - c’est là votre domaine -, mais Nous voulons du moins vous rappeler quelle doit être sa finalité dernière: l’épanouissement intégral de l’homme à assurer, et l’aménagement terrestre d’une société humaine à promouvoir. Cette tâche exaltante, qui demande énergie et intelligence, compétence et esprit de sacrifice, est bien digne de susciter votre collaboration.

Nous souhaitons de grand cœur, chers Messieurs, que vos projets deviennent une réalité bienfaisante, et que vous réussissiez à mettre toujours davantage la richesse des uns au service du vouloir-vivre des autres, Ainsi, de par vos efforts généreux, l’homme sera plus vraiment un frère pour l’homme, et l’égoisme économique, source de déséquilibre et menace constante contre La paix, sera efficacement battu en brèche. Votre action pour conjurer le dénuement d’une grande partie de l’humanité sera bénie de Dieu et vous vaudra la reconnaissance des hommes.

En formant ce vœu, Nous appelons sur vos personnes et vos initiatives l’abondance des divines grâces, en gage desquelles Nous vous donnons une, particulière Bénédiction Apostolique.





Mercoledì, 29 settembre 1965

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Diletti Figli e Figlie!

Quando noi abbiamo la fortuna di accogliere queste udienze, sempre così numerose e così variamente composte, Ci ricordiamo d’una bella espressione, che oggi l’esegesi biblica, lo studio teologico, la spiritualità fervorosa hanno messo in più larga circolazione, e che il Concilio ecumenico ha grandemente onorato, dedicandole espressamente il capo secondo della Costituzione sulla Chiesa; e l’espressione è questa: Popolo di Dio.

Il vostro numero, la diversità delle vostre origini, delle vostre età, delle vostre condizioni sociali, e nello stesso tempo l’identità della fede e dei sentimenti, che qui vi riunisce, Ci dànno un’immagine visiva, quasi un campione, di quell’immensa comunità spirituale e sociale, a cui compete questo titolo glorioso: Popolo di Dio. Voi siete Popolo di Dio. Vengono alla mente le parole del re Salomone a Dio: «Ho visto con grande letizia il tuo popolo qui radunato» (1 Par. 29, 17).

Non è che questo titolo sia di recente invenzione. Esso ha una storia; anzi sua è la storia sacra, la storia della salvezza, perché l’uso di questo appellativo risale all’antico Testamento, e ci attesta il disegno di Dio sull’umanità. Dio salva gli uomini svolgendo un piano storico e collettivo; dapprima facendo d’una frazione della moltitudine umana un popolo, il suo popolo, una comunità nazionale, tenuta insieme da due coefficienti: la discendenza etnica, cioè il sangue, e l’obbedienza religiosa al patto instaurato fra Dio e quella comunità. Poi Gesù Cristo instaura un nuovo patto, trasferendo il titolo di Popolo di Dio alla comunità da Lui fondata, la Chiesa, che ha il suo principio d’unità non più in un vincolo razziale, ma in un vincolo spirituale e soprannaturale, costituito dalla fede in Cristo vivificata dalla grazia, dalla carità. Soltanto il rapporto religioso con Cristo è costitutivo della società, che da Lui deriva ed in cui Egli vive.

Che cosa risulta da questa grande innovazione portata da Gestì Cristo rispetto al Popolo di Dio? Risultano due conseguenze: che il principio unitivo del Popolo di Dio è squisitamente e solamente religioso; vitale però, ed operante una misteriosa simbiosi, che fa della moltitudine un solo corpo; l’unità è la definizione essenziale del Popolo di Dio; è la perfezione a cui deve continuamente aspirare. «Tutti i fedeli: uno in Gesù Cristo, scrive Bossuet; e mediante Gesù Cristo: uno fra di loro; e questa unità è la gloria di Dio mediante Gesù Cristo, e il frutto del suo sacrificio. Gesù Cristo è uno con la Chiesa, portando i suoi peccati; la Chiesa è una con Gesù Cristo, portando la sua croce» (Lettre IV, Œuvres, XI, p. 114, Paris 1846).

L’altra conseguenza è la varietà di coloro, persone o nazioni, che sono chiamati a far parte del Popolo di Dio. Nessuno è escluso; tutti sono chiamati, a parità di trattamento. Ricordate San Paolo: «Chiunque infatti di voi è stato battezzato in Cristo, si è rivestito di Cristo. Non importa se sia Giudeo o Greco, né se sia schiavo o libero, né se sia uomo o donna. Perché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28). E fate attenzione: questa diversità naturale dei cittadini del Popolo di Dio, cioè della Chiesa, non è soppressa dall’eguaglianza e dalla comunità che compongono i cittadini in unità nella Chiesa medesima; entrando nella Chiesa ciascuno conserva i propri caratteri personali e naturali; non sono abolite le peculiarità nazionali, psicologiche, culturali e sociali. Il che significa che il Popolo di Dio è composto di tanti tipi umani quanti sono quelli che accettano di appartenervi e di abbracciare la sua legge fondamentale di universale fratellanza. E diciamo inoltre: l’unità del Popolo di Dio non solo non significa uniformità, ma significa rispetto e sviluppo delle note caratteristiche di chi lo compone, mediante un meraviglioso sistema morale psicologico (degno di studio a parte), che bene sa combinare l’ordine comunitario con la giusta libertà dello spirito.

Sarebbe qui da accennare alle prerogative del Popolo di Dio in quanto tale, prerogative sacre ed eccelse, che spesso sono ricordate con le parole famose della prima lettera di S. Pietro: «Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento . . .» (2, 9). E sarebbero anche da ricordare le funzioni e i doveri del Popolo di Dio, quali l’adesione e la testimonianza alla sua fede; e tante altre cose, che, conosciute, meditate e vissute, gioverebbero a formare nella comunità cristiana la coscienza della sua elezione, della sua consistenza, della sua missione e del suo finale destino.

Ma basti l’aver ora riconosciuto in voi, cari Figli e Figlie, dei veri cittadini del Popolo di Dio, perché ne gustiate la fortuna, la dignità, la responsabilità e perché la Nostra Benedizione conforti in voi il proposito d’essere sempre di tale Popolo di Dio, che è la Chiesa, membri coscienti, santi e fedeli.




Mercoledì, 6 ottobre 1965

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Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita Ci trova ancora commossi per il Nostro viaggio alla sede dell’ONU, ieri concluso, del quale si è tanto parlato; e Noi non vi aggiungeremo né cronache, né commenti. Lasciamo alla vostra riflessione cercare il significato dei vari aspetti di questo avvenimento, che Ci sembra meritare l’interesse non solo della curiosità e della memoria, ma altresì quello del giudizio sulle vie della storia e della Provvidenza.

Noi Ci limitiamo ad una semplice osservazione spirituale, che possa servire a collegare questa udienza con lo scopo di quel Nostro viaggio, lo scopo di annunciare al mondo la pace. Perché voi potreste pensare, come tanti altri, che la pace è una questione che riguarda. i Governi, riguarda coloro che dirigono le sorti dei Popoli; i quali, sì, s’interessano assai della pace, per goderla quando c’è, per rimpiangerla quando manca; ma senza potere normalmente influire sulle decisioni responsabili e talora fatali, dalle quali la pace dipende.

Sì, è vero, la pace è problema politico nei suoi momenti determinanti; ma è anche un fatto collettivo di popolo nei suoi momenti preparatori e nelle sue ore di goduta stabilità; basta pensare all’influsso dell’opinione pubblica sull’andamento della cosa pubblica per comprendere che il popolo stesso può essere fautore delle sue sorti, della pace, se la vuole, ovvero degli squilibri morali o sociali che la turbano e che la compromettono. Vogliamo dire, semplificando, che la pace è un dovere, un dovere di tutti.

Si è fatta molta propaganda in questi ultimi anni sulla pace, ma spesso, per tanti motivi, poco persuasiva. Dobbiamo riprendere questo grande tema, procurando di considerarlo alla luce dei principii cristiani e di inserirlo nelle nostre coscienze, non certo a scopo demagogico o antipatriottico, ovvero a scopo egoistico e edonistico; ma a scopo veramente umano, per dare alla pace la sua vera espressione, di ordine spirituale e morale, di giustizia e di carità sociale, di servizio di amore verso tutti, in una visione ideale dell’umanità che davvero possa dirsi cattolica, cioè universale.

La nostra visione della pace deve innanzitutto prospettarci un mondo non statico, fermo nel sonno, o nel godimento beato, o nella costrizione obbligata d’una tal quale tranquillità, ma un mondo in cammino, rivolto da un lato alla laboriosa conquista della natura, del così detto progresso, e dall’altro alla sistemazione sempre più equa e benefica degli ordinamenti civili e sociali, in modo che la pace risulti sempre da un continuo sforzo di migliore giustizia e di più benefica partecipazione di tutti e d’ognuno a quei beni temporali che rendono più facile l’accesso ai beni spirituali, che soli fanno l’uomo buono e felice. La pace deve nascere dall’amore, e nell’amore conservarsi e prosperare. E all’amore - parliamo di quell’amore del prossimo che deriva dall’amore di Dio - tutti possono e debbono contribuire. E l’amore genera la giustizia.

Noi ripeteremo qui ciò che ieri dicevamo ai Padri qui riuniti in Concilio: «La pace deve avere per fondamento la giustizia, della giustizia ci faremo avvocati. Perché di giustizia ha grande bisogno il mondo, e di giustizia vuole Cristo che noi siamo affamati e assetati. E perché sappiamo che la giustizia è progressiva; e sappiamo che man mano progredisce la società, si sveglia la coscienza della sua imperfetta composizione, e vengono alla luce le disuguaglianze stridenti e imploranti che ancora affliggono l’umanità. Non è forse questa avvertenza delle disuguaglianze fra classe e classe, fra nazione e nazione la minaccia più grave alla rottura della pace? Sono note queste cose. Ed ecco che esse ci invitano a rivedere che cosa possiamo fare noi per porvi rimedio: la condizione delle popolazioni in via di sviluppo dev’essere oggetto della nostra considerazione; diciamo meglio, la nostra carità verso i Poveri che sono nel mondo - e sono legioni sterminate - deve farsi più attenta, più attiva, più generosa».

Vi ripeteremo anzi un’esortazione bellissima della sacra Scrittura, contenuta nel Salmo trentatreesimo: «Venite, figliuoli, ascoltatemi: io vi insegnerò il timore del Signore. Qual è l’uomo che ama la vita e brama vedere giorni felici? Tieni lontana la tua lingua dal male e le tue labbra dal parlare con frode. Allontanati dal male e fa’ il bene, cerca la pace e continua a cercarla» (vv. 12-15).

Così, diletti Figli e Figlie, vi diciamo, affinché cresca in voi, a ricordo di questa udienza, il desiderio del bene, di quel bene che favorisce e produce la pace. Quando sentirete parlarvi della dottrina sociale della Chiesa, ovvero delle nostre Missioni, ovvero della fame nel mondo, ovvero dell’unità dei cattolici, ovvero della reintegrazione nell’unica comunione di Cristo dei Fratelli separati, eccetera, sappiate intendere il valore pacificatore di tali grandi temi della vita cristiana moderna; e sappiate farli vostri, affinché meritiate come detta per voi la settima beatitudine del Vangelo: «Beati gli operatori della pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (
Mt 5,9). Con la Nostra Apostolica Benedizione.





Paolo VI Catechesi 10965