Paolo VI Catechesi 9266

Mercoledì, 9 febbraio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Un'udienza, un’udienza generale come questa, potrebbe definirsi uno sguardo sul mondo. Già altre volte vi abbiamo accennato. Voi venite dal Papa non solo per vedere la Sua Persona, ma per vedere qualche cosa che si lascia intravedere dietro di Lui, le cose ch’Egli porta nel cuore, gli avvenimenti a cui Egli si interessa, il panorama della nostra storia visto dal suo livello, come da una torre da cui l’occhio spazia lontano; voi vorreste, come Lui, per un istante, guardare tutta la Chiesa, tutta l’umanità; guardare il mondo. Sì, la vostra curiosità è legittima e intelligente. Se il Papa è al centro d’una universalità, avvicinarsi a Lui vuol dire prendere visione di quanti Gli sono d’intorno, e vuol dire spingere lo sguardo all’orizzonte più largo e più lontano. Noi pensiamo spesso che sarebbe Nostro dovere associare i Nostri visitatori alla visione che Noi abbiamo davanti per il fatto che il Signore Ci ha affidato questo ufficio, meraviglioso e sbalorditivo, di rappresentarlo in mezzo all’umanità; visione immensa, visione stupenda, visione molteplice e diversissima. Non ve ne facciamo ora la descrizione, perché sarebbe troppo lunga; ma vi invitiamo ad aprire gli occhi sopra un quadro umano che ora più Ci interessa. Volete, un momento?


LO SGUARDO DOVE I FIGLI SOFFRONO

Dove può fissarsi lo sguardo d’un padre comune, d’un pastore di popoli, d’un Vicario di Cristo? Di preferenza; una preferenza che accresce enormemente l’interesse dell’osservazione, ma che sembra nascondere ogni bellezza del panorama. Del resto anche assistendo ad uno spettacolo l’interesse aumenta e diventa assorbente dove un dolore, un pericolo, un dramma si fa manifesto. Ebbene voi comprendete dove è fisso il Nostro occhio, dove è teso il Nostro cuore: là dove gli uomini soffrono, dove piangono, dove muoiono. Oh! la triste visione!

Voi direte: la guerra! Sì. Non possiamo non rimanere vigilanti su questo dramma, che fa tanto soffrire coloro che vi sono impegnati e riempie la terra di sgomento, ma che la buona volontà di tanti Uomini di Stato sembra volgere a migliori speranze d’una pacifica risoluzione.

Ma non è solo la guerra a tener desta la Nostra affettuosa e dolorante attenzione. Guardate l’umanità; sì, questa umanità, così progredita e così potente; guardate: più della metà degli esseri che la compongono è in uno stato di sofferenza, che dobbiamo dire ignobile e intollerabile; soffre la fame! La fame, letteralmente.

Vogliamo credere che voi tutti abbiate sentito parlare di questo tristissimo stato di cose. Nessuno di voi sarà rimasto sordo a questa inattesa notizia. Ma è possibile? tutti si chiedono: è reale! Vi preghiamo di stare in ascolto. I giornali portano qualche voce di quelle regioni dove il fenomeno si riscontra; anzi qualche informazione riferisce che il fenomeno è permanente e crescente.

CONDIZIONI DI ESTREMA GRAVITA

Noi vi diremo di più: in un grande e a Noi tanto caro Paese (lo abbiamo visitato!), l’India, la fame ha raggiunto forme di estrema gravità: milioni di esseri umani si trovano in una penuria di viveri da minacciarli di morte. Pensate quali patimenti! La tradizionale rassegnazione di quelle popolazioni non resiste più all’enormità d’una simile calamità collettiva. Un grido di implorazione si leva come un gemito di popolo languente in una dura carestia, e nell’impossibilità di procurarvi da solo un adeguato rimedio. Condizioni climatiche avverse hanno prodotto tale stato di non prima raggiunta necessità. La gente muore letteralmente di fame. Le pubbliche autorità fanno ogni sforzo, che risulta impari al bisogno, ed hanno levato un grido nel mondo per avere un soccorso straordinario.

Questo grido pietoso è giunto anche a Noi; ma che cosa possiamo fare Noi, che non disponiamo che di ben limitate risorse economiche? Ma non potevamo rifiutare il Nostro obolo, che, nonostante la cifra considerevole per un bilancio modestissimo come il Nostro, ricorda in proporzione ai bisogni quello della vedova del Vangelo, ed ha piuttosto valore di segno - segno di sensibilità, di solidarietà, di affezione, di esempio -, che di sensibile aiuto. Lo abbiamo mandato tramite il Cardinale Gracias ed il Nostro Internunzio Apostolico a Nuova Delhi al Governo centrale dell’India. Analoga offerta abbiamo destinato al Pakistan, dove pure il bisogno si fa molto sentire.

PER LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI

Poi Ci siamo ricordati del miracolo della moltiplicazione dei pani! Noi non abbiamo affatto la virtù prodigiosa di Cristo di far scaturire pane dalle Nostre mani impotenti. Ma abbiamo pensato che il cuore dei buoni può compiere questo miracolo. E siamo ricorsi alle fonti e alle riserve del benessere per avvalorare la domanda di aiuto partita dalla Nazione in disagio. Diciamo ad onore di chi esaudisce queste implorazioni che qualche munifico risultato è già stato raggiunto: si parla di oltre un milione di tonnellate di grano concesse dagli Stati Uniti; la stampa informa che anche il Canadà volentieri invierà soccorsi all’India; altri soccorsi si attendono. Ma occorre uno sforzo maggiore, occorre un contributo generale; occorre specialmente denaro per gli acquisti, per i trasporti, per la distribuzione. La Nostra organizzazione internazionale, chiamata «Charitas», è già all’opera, preceduta e sorretta da quella, ormai famosa e tanto benemerita, dei Cattolici Americani «Catholic Relief Services». Anche le potenti iniziative di carità dei Cattolici Tedeschi vengono in aiuto. La Nostra Congregazione de Propaganda Fide ha stanziato una somma generosa per pagare il trasporto delle derrate, che si raccolgono e si acquistano in America.

Ma il bisogno è grande. In India ed altrove. Diremo a quanti Ci ascoltano: il dovere è di tutti. È questo un fenomeno caratteristico del nostro tempo, nel quale i rapporti fra gli uomini hanno reso di conoscenza comune le vicende d’ogni parte dell’umanità. Nessuno oggi può dire: io non sapevo. E, in un certo senso, nessuno oggi può dire: io non potevo, io non dovevo. La carità tende a tutti la sua mano. Nessuno osi rispondere: io non volevo!


NOI TENDIAMO LA MANO MENDICANDO

Ebbene, oggi, Figli carissimi, quella mano è anche la Nostra. Noi la tendiamo mendicando a voi, a tutti i buoni cristiani, al Popolo di Dio: ai fanciulli, alle donne di casa, ai silenziosi risparmiatori (menzioniamo queste categorie, perché in esse il valore del denaro ha un aspetto cordiale particolare; e le loro oblazioni, anche modeste, hanno un merito, che Dio non dimentica).

Ma poi a tutti rivolgiamo preghiera di venire in aiuto alla fame nel mondo. Viene ora il Carnevale: quanta profusione di denaro per divertimenti spesso immoderati e superflui! quale sperpero di mezzi che potrebbero salvare dall’inedia e dalla morte innumerevoli esseri umani! Viene la Quaresima: quale invito alla penitenza, alla rinuncia, all’elemosina, alla carità!

Chi potrà dire d’essere conforme allo spirito di questo periodo preparatorio alla celebrazione del mistero pasquale, se non s’è ricordato, con qualche proprio sacrificio di borsa e di rinunciabile agio, dei fratelli languenti nella fame e nella povertà?

«Beato colui, esclameremo col Salmista, beato colui che ha l’intelligenza - la comprensione, la solidarietà del cuore e dell’opera - del povero e dell’indigente; nel giorno triste lo assisterà il Signore» (
Ps 40,2).

A voi tutti, diletti Figli e Figlie, ed a quanti giunge l’eco della Nostra voce implorante, auguriamo questa beatitudine, e la auspichiamo con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 16 febbraio 1966

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Nell'udienza generale dello scorso mercoledì, come ognuno sa, Noi abbiamo parlato, ex abundantia cordis, della penosa condizione delle popolazioni asiatiche, di quelle dell’India specialmente, colpite dalla carestia, e abbiamo invitato tutti a concorrere al soccorso, diventato per esse necessario e urgente. Noi non pensavamo che alla Nostra voce sarebbe seguito, provocato dalle medesime informazioni, il coro di molte altre, forti, nobili e autorevoli, le quali, in questi giorni, hanno risonato, qui da noi, e poi nel mondo, nell’America in modo particolare, e hanno scosso l’opinione pubblica circa tale dolorosa situazione.

Questa improvvisa e generosa reazione Ci obbliga, non già a dimenticare l’immanità della sciagura per cui tuttora si chiede aiuto, e per cui Noi stessi ancora cerchiamo di fare quanto modestamente possiamo, Ci obbliga a considerare questo aspetto della scena umana, l’aspetto della sensibilità e della solidarietà di tante persone verso gente lontana, sconosciuta e infelice. L’aspetto consolante e edificante.

Abituati dal Nostro ministero a fermare lo guardo là dove il male, l’errore, il disordine, il dolore si pronunciano, rimaniamo quasi sorpresi, e subito pieni di commozione e di compiacenza, ammirando l’esplosione di bontà, di cui il mondo dà oggi prova meravigliosa. Personaggi grandi e potenti, Istituzioni internazionali, uomini e donne d’ogni ceto, modesti lavoratori e umili bambini, giornali e Radiotelevisione hanno dimostrato un interesse, una prontezza, una generosità, che costituiscono un fenomeno, non certo insolito, ma nuovo per la celerità, per l’universalità e per l’entità delle forme, in cui si è pronunciato.

Dobbiamo registrare con le notizie tristi le notizie liete.

Dobbiamo rilevare che l’umanità vibra con sempre maggiore avvertenza alle sventure che la colpiscono in qualche sua parte; l’unità del mondo si manifesta crescente ed operante; ed il senso umano si fa più vigile, più comune, più provvido, più universale: questo è progresso, questo è civiltà, questo è umanesimo, anzi questo è cristianesimo!

La Nostra letizia è grande; e Noi vi invitiamo oggi a condividerla.

È grande perché in questa dolorosa contingenza si rivela, ancora una volta, come la Provvidenza di Dio sovrasta le vicende umane, e come le stesse nostre disgrazie possono diventare sorgente di beni impensati e immensi. E il primo bene è quello di renderci buoni, di rianimare i cuori, di risvegliare nelle coscienze l’imperativo di doveri inerti e negletti, di far scaturire dalla nostra povertà economica e morale risorse insospettate.

E poi altri, molti altri beni. Non ascoltiamo noi fin d’ora l’invito a studiare le origini del grande malanno che affligge regioni intere, e a prospettare non solo l’invio di soccorsi contingenti, ma lo studio di piani rigeneratori dalla miseria, dalla fame e dalla mortalità? Un bilancio nuovo: di possibilità, di collaborazioni, di opere, si profila vicino; il coraggio, l’ottimismo, la speranza rinascono; forse era necessario che una scossa terribile, come quella apportata dalla presente sventura, vincesse ostacoli secolari, creduti insuperabili, per aprire la via a rimedi radicali degni dell’uomo moderno. E che diremo dell’amicizia nascente fra i popoli, che nel giorno della disgrazia si sono avvicinati a quello sofferente per sollevarlo con mano spontanea e vigorosa? Non è questa la via dolorosa, ma gloriosa della pace? Non è questa la prova, che rivela la validità d’una concezione sociale e la sincerità di un sentimento umano, che aspira all’universalità e alla storia avvenire? E non sembra la verità per la vita galleggiare fra le tempeste delle sofferenze e delle esperienze patite dal nostro tempo, e librarsi luminosa e amorosa, non più puramente umana, ma sovrumana; diciamo il suo nome: cristiana?

E finalmente: non sarà premio - un anticipo, un pegno del vero premio futuro - per tutti coloro che hanno aperto il cuore e la borsa al soccorso, la gioia del bene compiuto, la beatitudine del dare superiore a quella del ricevere? Sì. Possa ognuno che s’è mostrato pietoso e benefico in questa triste e drammatica contingenza, sentire e godere della verità delle parole dell’Apostolo: «Si ha da avere cura dei bisognosi, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “È meglio dare che ricevere”» (
Ac 20,35).

Così: con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì delle Ceneri, 23 febbraio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Questa udienza si è iniziata col rito tanto espressivo e caratteristico per l’apertura della Quaresima, il rito della imposizione delle ceneri, il quale offre perciò il tema della breve conversazione, con cui oggi accogliamo i Nostri visitatori. Crediamo di non mancare alla cortesia ad essi dovuta, se li abbiamo fatti partecipare, attori o spettatori che siano, ad una così severa e impressionante cerimonia penitenziale; innanzi tutto perché voi, pellegrini e visitatori presenti, non disdegnate, bensì desiderate osservare quanto meglio possibile la persona e la vita del Papa nell’esercizio del suo ministero; e ciò per un interesse ben superiore a quello avido di scene singolari e folcloristiche, per l’interesse invece della vostra pietà religiosa e della vostra devozione filiale al successore di S. Pietro e Vicario di Cristo. In secondo luogo perché la cerimonia delle ceneri ha importanza per tutti, e acquista oggi un valore d’attualità, che invita tutti ad associarvi lo spirito: apposta l’abbiamo voluta quest’anno celebrare in questo quadro più solenne e più propizio alla riflessione sul suo impressionante significato.

Il significato del rito delle ceneri è duplice: ricordare la morte, imporre la penitenza; due significati che concorrono in uno, quello di ridestare la coscienza del peccato, causa originaria e fatale della morte, e di portarvi il rimedio a noi consentito, l’espiazione. Nulla di più grave, nulla di più drammatico può essere intimato alla coscienza dell’uomo; lo sanno gli esistenzialisti moderni, che non potrebbero trovare altrove motivi più forti per la loro angoscia.

La Chiesa maestra non teme d’offrire ai fedeli suoi alunni lezioni tremende, come questa: quella della cenere, quella cioè della fine d’ogni cosa creata, quella della caducità fatale di quanto noi siamo e di quanto la nostra vita ama ed ammira, quella della sorte tragica e inesorabile, che soggiace, come un’insidia sempre in agguato, ad ogni più piena manifestazione della vita, l’insidia della morte che sta per divorare quanto abbiamo di più bello e di più prezioso; ed ecco la cenere, spenta e arida e misera conclusione di tutto il mondo della nostra esperienza vitale nel tempo, generatore e distruttore. E quasi non bastasse il simbolo a farci pensare a così terribile sorte, le parole si aggiungono e rincalzano; e non potrebbero essere più gravi e più vere: «Pensa, uomo, che sei polvere, e che in polvere ritornerai»; e con le parole spietate, il gesto; il gesto, che fa tremare chi lo compie e chi lo riceve, dell’imposizione di tale segno di umiliazione e di morte sulla testa d’una persona viva.

Eppure questo non è un rito macabro e disperato. Si pensa al medioevo, quando all’alfabeto del pensiero molto servivano le cose sensibili, e quando la vita spirituale era considerata superiore ad ogni altra forma della nostra complessa esistenza. Ma l’origine di questo linguaggio simbolico risale più indietro, quando non a tutti i fedeli, come ora avviene, s’imponeva sul capo la cenere quaresimale, ma soltanto ai penitenti qualificati, ammessi così ad espiare pubblicamente le loro colpe dinanzi alla comunità dei fedeli e da essa in tal modo parzialmente segregati. Risale anzi ancora più indietro, ai primi tempi del cristianesimo, eredi essi pure d’una tradizione biblica, che associa appunto l’aspersione della cenere alla professione della penitenza, e vi aggiunge l’imposizione di una veste ruvida e povera di umiliazione, il cilicio (cfr. Esth. 4, 3;
Mt 11,21). Vale a dire che l’uso di questo simbolo percorre tutta la tradizione dell’antico e del nuovo Testamento, e entra in quel robusto linguaggio che la divina pedagogia della salvezza impiega non già per sospingerci alla disperazione, ma alla conversione, alla penitenza cioè, principio e via della nostra riabilitazione e condizione per ricuperare ciò che da noi non più e non mai potremmo conseguire: la misericordia di Dio, la sua grazia, la nostra vita soprannaturale, l’unica in cui deve risolversi ogni nostra aspirazione.

Ci si può chiedere, noi moderni, se questa pedagogia sia ancora comprensibile. Rispondiamo affermativamente. Perché è pedagogia realista. È un severo richiamo alla verità. Ci riporta alla visione giusta della nostra esistenza e del nostro destino. Ci presenta la filosofia della sapienza. Essa sorprende l’uomo moderno sotto due aspetti: quello della sua immensa capacità di illusione, di auto-suggestione, di inganno sistematico di se stesso sopra la realtà della vita e dei suoi valori; e ci grida che siamo mortali e che dobbiamo dare una spiegazione soddisfacente a questa nostra sorte, la quale, se compresa e ben meditata, ci obbliga a rivolgere il nostro supremo interesse verso i valori che sfuggono alla condanna della cenere: i valori spirituali, i valori morali. E l’altro aspetto, sotto il quale l’uomo moderno è accessibile da questo crudo insegnamento, è il fondamentale pessimismo dell’uomo stesso. Si può dire che la maggior parte della documentazione umana, offertaci oggi dalla filosofia, dalla letteratura, dallo spettacolo, conclude per proclamare l’ineluttabile vanità d’ogni cosa, l’immensa tristezza della vita, la metafisica dell’assurdo e del nulla. Questa documentazione è un’apologia della cenere. Ma mentre essa nella cenere si affonda e sconsolata rimane, la lezione dell’ascetica cristiana dalla cenere risale alla speranza e alla vita, facendone strumento di penitenza, cioè di conversione, di cambiamento, di nuova ripresa di vigore e di gaudio.

Ed è così che la Chiesa ci impone questa lezione non solo perché è vera, ma perché di più è necessaria. Ed è necessaria sempre: oggi, come ieri. Cambiano, e non poco, le forme della penitenza, ma il bisogno umano non cambia, la legge di Dio non cambia. È ciò che Noi abbiamo cercato di spiegare col Nostro recente documento dottrinale e disciplinare, che si apre con la parola che gli dà il titolo «Paenitemini».

Figli carissimi, farete bene a darvi un’occhiata; e siate sicuri che non solo non resterete rattristati e impediti nelle vostre doverose e intense attività, ma piuttosto istruiti, confortati, e avvicinati a quello spirito, da cui vorremmo fosse rianimata la vita cristiana, dopo il Concilio.

Buona Quaresima perciò, e fin d’ora buona Pasqua! con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 9 marzo 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Ogni riunione di carattere religioso, ma questa riunione settimanale, in modo speciale, che Ci obbliga a considerare il numero e le qualifiche dei partecipanti alla riunione, sveglia in Noi il ricordo della concezione, che il recente Concilio ecumenico ha voluto nuovamente e ampiamente insegnare e quasi proclamare circa il «Popolo di Dio». Ecco, diciamo a Noi stessi guardando a voi qui presenti, ecco una porzione del Popolo di Dio!

Voi sapete come questa nozione di «Popolo» sia stata studiata ed esaltata dalla cultura moderna, sotto i suoi vari aspetti: etnico, sociale, nazionale, politico, eccetera; e sapete anche come nel campo religioso l’idea di «Popolo» abbia avuto grande sviluppo e varie interpretazioni; quella che a noi interessa è l’idea che Dio stesso si degnò di svelarci attuando storicamente il suo disegno di salvezza, prima nell’antico Testamento, e poi nel nuovo Testamento. Dio non ci salva fuori d’un disegno collettivo, ma dentro un piano nel quale ogni anima singola è parte d’una comunità scelta e assistita da Dio. Dice il Concilio: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di loro un Popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse. Scelse quindi per Sé il Popolo israelitico» (Const. de Eccl.
LG 9). Cristo, com’è noto, istituì un nuovo patto fra Dio e l’umanità, chiamando a comporre il Popolo di Dio gente di tutte le nazioni, non collegata da vincoli di razza e di sangue, ma da una stessa fede nella Parola di Dio, da uno stesso Spirito e da uno stesso corpo sociale, chiamato Chiesa «segno visibile e imprescindibile di unità: inseparabile unitatis sacramentum» (S. Cipriano, EP 69,6 P.L. 3,1142).

Ora questo Popolo nuovo, a cui noi tutti abbiamo la fortuna di appartenere, è un Popolo di «santi», di «consacrati», di «pietre vive», che formano la «casa spirituale» di Dio, di anime rivestite d’un sacerdozio santo, che le rende idonee a offrire vittime spirituali gradite a Dio, per mezzo di Gesù Cristo (cfr. 1P 2,5). Si tratta di quel «sacerdozio regale» (ibid. 1P 2,9), di cui oggi tanto si parla e che giustamente si riconosce essere la prerogativa e costituire la dignità, sacra ed incomparabile rispetto a qualsiasi altra dignità terrena, d’ogni cristiano. Non è cosa nuova, se le parole, ora riferite, le troviamo nella prima Enciclica pontificia, nella prima lettera cioè dell’apostolo Pietro ai cristiani dell’Asia; e se S. Ambrogio, fra altri, afferma che «omnes filii Ecclesiae sacerdotes sunt», tutti i figli della Chiesa sono sacerdoti, (Exp. in Lucam, V, 33), cioè abilitati a trattare con Dio, a offrirgli come dono sacrificale se stessi (cfr. Rm 12,1).

Faremo bene a leggere e a meditare le bellissime pagine della Costituzione conciliare sulla Chiesa, dedicate al Popolo di Dio, dalle quali risulta non solo l’eccellenza del Popolo stesso, ma quella altresì d’ogni singola anima, d’ogni singola vita che vi sia iscritta: il titolo stupendo di «Fedele» distingue e riveste di straordinaria bellezza spirituale il cristiano, che cerchi d’essere cosciente della sua vocazione e voglia esservi coerente: Fedele!

È questa qualifica, messa in grande luce dal Concilio, che risplende al Nostro sguardo spirituale, quando, come in questo momento, Ci vediamo circondati da cittadini del Popolo di Dio; una qualifica che Ci riempie di stupore, di riverenza, di stima, di affetto, di fiducia e di gaudio! Ecco la Chiesa, Noi diciamo a Noi stessi; ecco l’assemblea dei Fedeli, cioè dei chiamati al regno di Dio, degli eletti alla figliolanza adottiva di Dio, alla fraternità profonda e soave della carità del Signore; ecco gli spiriti accesi dalla fiamma interiore dello Spirito Santo; ecco i segnati dal carattere di cristiani, di testimoni della vita nuova, di destinati, se essi lo vogliono, alla vita divina ed eterna. Ecco la «personalità, che è conferita al cristiano: ecco il fondamento dei suoi diritti e dei suoi doveri». Ecco i Fedeli, ecco il Popolo di Dio!

Figli carissimi! perché vi diciamo queste cose? Le diciamo, affinché sappiate quanto Ci è gradita la vostra visita, e quale effetto consolante e edificante essa produca nel Nostro animo: da Fedeli, voi venite: grazie, grazie, o Fedeli di Cristo, e della santa Chiesa! E le diciamo perché le andiate a leggere e a studiare nelle grandi pagine dei testi conciliari, e perché a Noi sembra che non potremmo dirvi nulla di meglio: Noi risvegliamo in voi la coscienza, forse dormiente, di chi voi siete; Noi vi richiamiamo al senso della vostra dignità cristiana, al carattere puro e sacro delle vostre persone, al dovere di conservare in ogni momento, in ogni condizione della vita profana l’impegno del titolo, che vi definisce: Fedeli! E Fedeli siate, figli carissimi, all’onore e alla sorte, che Cristo vi ha concessi e che la Chiesa in voi riconosce e difende.

E come Fedeli, Figli carissimi, tutti vi benediciamo.



Mercoledì, 16 marzo 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Al saluto, che vi abbiamo ora rivolto, facciamo seguire una parola. Ma quale parola possiamo dire ai Nostri visitatori di questo mercoledì, quando vediamo che la maggior parte di essi è costituita da alunni di scuole elementari? Perché Noi avremmo delle cose molto belle da dire, ma cose molto grandi e molto alte. Sono le cose che il Concilio ecumenico ci ha insegnate, e che Ci sembrano degne d’essere particolarmente ricordate, perché riguardano tutti i figli della Chiesa, tutti i fedeli, e specialmente quelli che credono d’essere poco considerati nella Chiesa, i Laici; e perciò poco obbligati ad ascoltarne la voce. Invece, come tutti saprete, ha riservato ai fedeli-laici - cioè quelli che non appartengono al Clero o a qualche Famiglia religiosa - messaggi meravigliosi, primo quello della dignità del Laico, in quanto essere umano, e, ancor più, in quanto cristiano, cittadino del regno di Dio, figlio adottivo di Dio, fratello di Cristo e vivente, per virtù dello Spirito Santo, come membro della Chiesa, corpo mistico di Cristo, Dignità; ma non è tutto. Il Concilio, cioè la voce della Chiesa, voce antica e nuova, aggiunge un altro messaggio meraviglioso, anche questo per i Laici: quello della santità.

Santità per i Laici? è mai possibile? forse la santità sarà riservata per alcuni, per quei fedeli molto devoti, molto zelanti, molto buoni. No: la santità - state attenti! - è proposta a tutti! grandi e piccoli; uomini e donne; è proposta come possibile! anzi come doverosa! la santità, diciamo con gioia e con stupore, la santità per tutti!

Vediamo di farci un poco capire dai fanciulli che oggi abbiamo davanti. Siete stati battezzati? sì; e allora siete cristiani. Un cristiano deve essere un buon cristiano, o un cristiano cattivo? è certo: dev’essere un buon cristiano. Un buon cristiano: fino a quale età? fino a dieci anni? no, sempre. Anche quando diventa giovane? quando va soldato? quando va al lavoro? quando si sposa? sì; è chiaro; un cristiano dev’essere sempre un buon cristiano. Può essere infedele? no; si chiama «fedele»! Può essere mediocre, insignificante, vile? no, un cristiano dev’essere perfetto, sincero, forte, buono, veramente buono. Così deve essere. Altrimenti sarebbe come dire: un ragazzo dev’essere sano, o malato? sano, si sa. Debole, o forte? forte, si sa. Bravo, o ignorante e buono a nulla? bravo! Laborioso, o fannullone? laborioso! Onesto, o disonesto? onesto! Bugiardo, o sincero? sincero, è chiaro. Cioè la vita, sia quella naturale e sia quella religiosa, dev’essere piena e perfetta.

E come si chiama la vita perfetta d’un cristiano; come si chiama? si chiama santità! Ogni cristiano dev’essere un vero cristiano, un perfetto cristiano, perciò ogni cristiano dev’essere santo!

Ma allora, voi domanderete, che cosa è questa santità?

Figliuoli carissimi: la risposta è piuttosto difficile; ma voi forse la capite subito: occorrono due cose per fare la santità: la grazia di Dio e la buona volontà. Avete voi queste due cose? sì? Allora siete santi!

Intendiamoci: la santità è unica: consiste nell’essere uniti a Dio, vitalmente, mediante la carità; ma si realizza in tante forme diverse, e anche in tante misure diverse. È diversa la bontà, cioè la santità, d’un bambino dalla bontà d’una persona adulta; è diversa la bontà d’un uomo da quella di una donna; la bontà d’un soldato è diversa da quella, per così dire, d’un malato, o d’un vecchio! ogni condizione di vita ha le sue virtù particolari. Ogni persona, possiamo dire, ha la sua propria maniera di realizzare la santità, a seconda delle proprie attitudini e dei propri doveri. Ma quello che dobbiamo ricordare è questo: ognuno di noi è chiamato ad essere santo, cioè ad essere veramente buono, veramente cristiano.

È difficile? sì e no. È difficile, se contiamo soltanto sulle nostre forze; è difficile, se ci lasciamo impaurire dagli ostacoli che certamente incontriamo, dentro e fuori di noi; è difficile, se prendiamo di mala voglia la nostra vocazione cristiana: chi vuol essere cristiano a metà, sente doppiamente il peso degli impegni cristiani.

Ma chi è coraggioso e chi pone nel Signore la sua fiducia (cioè chi prega, chi ascolta la parola del Signore e si conserva nella sua grazia) trova facile la santità, anzi la trova bella, la trova felice. Soltanto quelli che sono veramente buoni, i santi, sono felici.

Dunque, Figli carissimi, vi diremo: ascoltate la grande chiamata che la Chiesa del Concilio rivolge a tutti i Fedeli: siete santi; dunque siate santi! Tutti, sempre! È facile! è bello! è doveroso! è degno di chi vuol essere vero uomo e vero cristiano! Così: con la Nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì, 23 marzo 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Come la Madonna (della quale celebreremo la grande festa della Annunciazione il giorno 25 di questo mese), come la Madonna ripensava in Cuor suo - «conferens in corde suo» (
Lc 2,19) - gli avvenimenti che avevano circondato la nascita del Salvatore, così Noi, con umile intenzione d’imitare un po’ quella sapiente e incomparabile interiorità, andiamo ripensando gli insegnamenti del Concilio, avvenimento assai provvido e grande per la rinascita del cristianesimo ai nostri giorni; e fra le cose che Ci sembrano degne di ricordo e di comprensione da parte di tutti sono notevoli, a parer Nostro, quelle che si riferiscono ai Laici, a quei fedeli cioè che non hanno ricevuto l’ordine sacro, né si sono inseriti nello stato religioso. Sono la grande maggioranza del Popolo di Dio; sono quei cristiani che vivono nel mondo, sono i «secolari», che s’interessano principalmente delle cose temporali e che sono impegnati in attività non propriamente sacre, ma profane.

Il Concilio, voi lo sapete, ha dedicato molta attenzione ai Laici, in modo e in misura che dobbiamo notare come novità nella vita della Chiesa. Non è che il Concilio abbia detto cose nuove e prima sconosciute. La novità, a questo riguardo, consiste nel fatto d’aver trattato espressamente dei Laici, e d’aver messo in evidenza le dottrine meravigliose che si riferiscono, nella Chiesa di Dio, ai Laici: la loro dignità naturale e soprannaturale, il loro carattere sacro, anzi il loro «sacerdozio», cioè la loro capacità ad esercitare un culto spirituale, professando la fede, offrendo a Dio preghiere degne d’essere ascoltate, maturando frutti di carità; e così via. Cioè la loro «personalità» cristiana, con tanti diritti e doveri, è stata messa in una splendida luce, che sarà bene conoscere ed ammirare. Ne abbiamo parlato altre volte, e altre, a Dio piacendo, parleremo. Abbiamo, in modo speciale, ricordato come dal fatto stesso che un essere umano è cristiano deriva per lui una vocazione alla perfezione cristiana, alla santità. Ma non è tutto.

Un tratto, che potremmo quasi chiamare originale, del Concilio rispetto ai Laici, tanto vi insiste, è un’altra loro vocazione: quella all’apostolato. È cosa che pare strana, e, ad alcuni, non molto gradita, perché attribuisce ai Laici troppe funzioni e troppi obblighi. Eppure il Concilio dedica niente meno che uno dei suoi Decreti precisamente all’apostolato dei Laici; e ciò non tanto per soli motivi storici e contingenti, derivati dalla necessità di promuovere la causa della religione nel mondo moderno, che ne è così facilmente e largamente distratto, quanto piuttosto per motivi intrinseci, per il fatto stesso cioè che uno è cristiano. Dal carattere cristiano stesso risulta il dovere ed il diritto di esercitare qualche apostolato. L’apostolato viene quasi a identificarsi con la vitalità propria del cristiano. Già Pio XI, evolvendo il concetto di azione cattolica, aveva enunciato questa esigenza, quasi un’equazione fra vita cristiana e azione apostolica. Il Concilio è molto esplicito, tanto nella Costituzione sulla Chiesa (cap. IV), quanto nel Decreto citato, dove leggiamo: «La vocazione cristiana . . . è per sua natura anche vocazione all’apostolato» (n. AA 2). E poi: «I laici derivano il dovere e il diritto all’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo Capo. Infatti, inseriti nel Corpo mistico di Cristo per mezzo del Battesimo, fortificati dalla virtù dello Spirito Santo per mezzo della Cresima, essi sono deputati dal Signore stesso all’apostolato . . . A tutti i cristiani quindi è imposto il nobile impegno - onus praeclarum imponitur - di lavorare, affinché il divino messaggio della salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini, su tutta la terra» (n. AA 3). E ancora: «Per loro vocazione è proprio dei Laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i singoli doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui è come intessuta la loro esistenza. Ivi essi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo» (De Eccl. n. LG 31).

Quale tema di riflessione per tutti! Veramente una simile dottrina può rinnovare la vita della Chiesa e, in certa misura, cambiare la faccia del mondo nei suoi aspetti oscuri e negativi.

Ogni cristiano deve diventare attivo, interessato al bene altrui, sostenitore della missione spirituale della Chiesa. Ogni coscienza deve animarsi di un senso intimo di responsabilità, ascoltando la voce interiore della chiamata cristiana: tocca a me, tocca anche a me fare qualche cosa per il regno di Dio. La mentalità neghittosa del cristiano che non vuole fastidi, non vuole occuparsi del bene altrui, non vuole apparire zelante, dovrebbe scomparire. L’egoismo spirituale, il rispetto umano, lo studio di minimizzare i propri doveri verso la Chiesa e verso l’apostolato sociale dovrebbero cedere il posto a un sempre vigile desiderio del bene, ad un coraggioso e continuo tentativo di osare qualche gesto d’utilità altrui, ad un’umile e volonterosa adesione alle forme già organizzate per l’azione apostolica dei Laici. Quale mobilitazione spirituale! quale trasformazione della comunità cattolica! quale somma di energie morali sarebbe in tal modo regalata al mondo moderno!

Ciascuno vi pensi! Le forme dell’apostolato sono molte e varie.

Ciascuno domandi a se stesso: quale va bene per me?

E vi ottenga la Nostra Benedizione Apostolica la luce e la forza per bene rispondere alla vocazione dell’ora, ormai sonata, dell’ora dei Laici.





Paolo VI Catechesi 9266