Paolo VI Catechesi 30366

Mercoledì, 30 marzo 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Dopo il Concilio, voi stessi lo avvertirete, si è fatta più viva la questione dei rapporti fra la Chiesa e il mondo. La grande Costituzione pastorale, discussa e approvata alla fine del Concilio, circa la Chiesa nel mondo contemporaneo, presenta appunto tale questione nei termini più ampi, toccando una quantità di problemi dottrinali, morali e pratici di antico e perenne interesse alcuni, di attuale e contingente importanza gli altri. È questa amplissima e formidabile discussione, che richiama intorno al Concilio l’attenzione non solo dei fedeli, ma altresì dei profani, e che dimostra anche a quelli che non praticano la religione quanto la religione cattolica sia viva in se stessa, e quanto aderente alle realtà, spirituali e temporali, dell’umana esperienza.

La scienza dell’uomo, la filosofia, la storia, l’etica, la sociologia, la cultura in genere, l’economia, le realtà terrestri, come ora si dice, sono poste dal Concilio sotto il cono di luce della teologia cattolica, per un nuovo e audace giudizio, per uno sforzo di comprensione e di classifica, per un atto di studio e di scoperta, che non mai, prima d’ora, il magistero della Chiesa aveva compiuto in forma così diretta, così sistematica e così autorevole. Vi sarà materia di riflessione per molti anni e per tutti.

In questo breve momento Noi ora Ci limitiamo a farvi osservare come il semplice fatto d’aver presentato tale questione fa sorgere negli animi una domanda, oggi molto diffusa sia fra gli studiosi, che fra la gente comune, circa l’atteggiamento fondamentale della Chiesa nei riguardi del mondo: è un atteggiamento di condanna? di separazione? d’indifferenza? di acquiescenza? di simpatia? di alleanza?

La realtà, che è designata con l’etichetta di «mondo contemporaneo», è troppo complessa, perché si possa dare una risposta semplice ed univoca. La Chiesa è positiva nei suoi giudizi, non è aprioristica, non è superstiziosa, non è superficiale. Ella sa che nel mondo, cioè nella nostra realtà umana, vi sono tanti difetti, tanti mali; ella non ignora tutte le ragioni del pessimismo moderno; anzi la Chiesa ne svela la causa fatale e radicale, il peccato originale; ella insegna anche, con tutti i più sinceri e spietati diagnostici dell’animo umano e della storia terrena, che i mali dell’uomo sono profondi, sono rinascenti, sono, di per se stessi, inguaribili. Ella conosce gli abissi del dolore, del peccato, della morte; ella sa vedere le profondità delle ingiustizie umane, delle miserie personali e sociali; ella sa denunciare l’insidia paurosa della «potenza delle tenebre»; ella sa chiamare le cose col loro nome, spesso doloroso, ignobile, criminale; ella sa piangere. La liturgia della prossima Settimana Santa ci dirà parole commoventi e tremende a questo riguardo.

Anzi la Chiesa non smentirà una sua pedagogia, una sua ascetica, «de contemptu mundi», la quale ebbe tanta parte nell’educazione medioevale alla liberazione dell’uomo dalla materialità e dall’animalità della vita pagana e barbara, e continuerà a marcare il distacco spirituale, che deve intercedere fra il cristiano orientato al «regno dei cieli» cioè alla vita dello spirito e alla vita escatologica oltre il tempo, e la concezione autosufficiente della vita terrena, il mondo cioè pago di sé e tutto ripiegato sui beni effimeri e fallaci di questa terra. Non per nulla è diventato abituale il parlare della «Ecclesia pauperum», come della Chiesa ideale, come pure attribuire alla «Chiesa costantiniana» riprovevoli contaminazioni temporali (sebbene l’espressione sia tanto impropria e sembri disconoscere il grande evento storico della iniziale libertà della Chiesa).

Tutto questo è vero, e rimane. Ma non possiamo dimenticare l’ottimismo - dovremmo dire: l’amore -, con cui la Chiesa del Concilio guarda al mondo, in cui ella stessa si trova, e che la circonda, la soverchia, la opprime con i suoi giganteschi e travolgenti fenomeni.

È questo uno degli aspetti salienti del Concilio: esso considera il mondo, in tutte le sue realtà, con l’attenzione amorosa, che sa scoprire dappertutto le tracce di Dio, e perciò la bontà, la bellezza, la verità. Non è soltanto la sua filosofia questa; è la sua teologia. Ecco a che cosa serve la Rivelazione. La luce del Vangelo rischiara il panorama del mondo: le ombre sono là, terribili e forti: il peccato e la morte, soprattutto. Ma dovunque quella luce si posa, il riflesso di Dio risalta. La Chiesa lo cerca, lo coglie, lo gode. Lo trova nel cosmo: nessuno come un vero cristiano può essere attratto dal fascino dell’universo; il suo sguardo incrocia quello lampeggiante di Dio creatore, che, dice la Scrittura: «vide tutte le opere sue, ed erano assai buone» (Gen. 1, 31). Il suo sguardo si ferma sulla faccia dell’uomo, e vi scorge, qui specialmente, il riflesso divino. Si ferma sulla storia dell’umanità e vi trova un filo conduttore, un senso, che arriva a Cristo e in Lui s’incentra; e così via. E si posa, sì, su questo mondo moderno; e non teme, non rifugge, ma contempla e benedice. Contempla. e benedice l’opera umana: la scienza, il lavoro, la società. Vede, come sempre, la miseria e la grandezza; ma oggi, di più, un’altra cosa: la Chiesa vede la sua vocazione, vede la sua missione, vede il bisogno della sua presenza: gli uomini hanno bisogno della sua verità, della sua carità, del suo servizio, della sua preghiera.

Oh! quante cose sarebbero da dire! Ma questa vi basti: comprendete con quale genio, con quale cuore la Chiesa del Concilio si avvicina al mondo moderno; si apre verso di lui, non per contaminarsi con i suoi costumi, ma per infondergli il fermento della sua salvezza; e comprendete come a questa concezione della Chiesa e del mondo dobbiamo d’ora innanzi educare noi stessi. Vi sia auspicio di questo rinnovamento la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 6 aprile 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Siamo nella Settimana Santa; quella che nella tradizione della Chiesa è stata chiamata «la Grande Settimana». Citeremo una bella pagina di S. Giovanni Crisostomo (verso la fine del quarto secolo): «Eccoci finalmente giunti alla fine della santa quaresima, . . . per grazia di Dio siamo arrivati a questa grande settimana . . . Perché la chiamiamo grande? Perché in essa si sono verificati per noi alcuni beni grandi e ineffabili. In essa infatti si è conclusa la lunga guerra, estinta la morte, cancellata la maledizione, soppressa la schiavitù del demonio e strappata a lui la sua preda; Dio s’è riconciliato con gli uomini, il cielo si è fatto penetrabile, gli uomini con gli angeli si sono uniti, le cose ch’erano distanti sono state congiunte, la siepe è stata tolta, rimossa la barriera, il Dio della pace ha reso pacifica ogni cosa, sia in cielo che in terra» (In Gen. Hom. 30, P. G. 29, 273-274). È cioè questa la Settimana in cui la Chiesa ravviva la memoria e rende operante il mistero della nostra redenzione, cioè della nostra elezione alla vita cristiana e della nostra salvezza.

Voi tutti, carissimi Figli e Figlie, troverete perciò naturale che Noi profittiamo di questo incontro per esortarvi ad attribuire a questa Settimana l’importanza che le è propria e a considerarla centrale e decisiva per il corso spirituale di tutta l’annata. Questa doverosa valutazione comporta un dovere, conferisce un diritto: quello di partecipare, in qualche forma e in qualche misura, alla celebrazione della Settimana Santa.

Partecipazione: ecco una delle più ripetute e delle più autorevoli affermazioni del Concilio ecumenico a riguardo del culto divino, della Liturgia; tanto che questa affermazione può dirsi uno dei principii caratteristici della dottrina e della riforma conciliare. Essa ricorre più volte nei termini più espliciti: «. . . i pastori d’anime (il Concilio rivolge prima che ad altri a loro la sua parola) devono vigilare attentamente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che ne assicurano la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (Const. «Sacros. Concilium», n. 11). E poi la raccomandazione si rivolge ai fedeli: «È ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli siano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano - stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo redento (
1P 2,9) - ha diritto e dovere in forza del battesimo». La Liturgia è «infatti la prima e indispensabile fonte, dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano» (ib., n. 14).

Potremmo moltiplicare le citazioni. Il pensiero della Chiesa è chiaro: il popolo cristiano non deve semplicemente e passivamente assistere alle cerimonie del culto divino; deve capirne il senso e deve esservi associato in modo che la celebrazione sia piena, attiva e comunitaria (cfr. ibid. n. 21). Si può veramente dire, a questo riguardo, che l’aggiornamento del Concilio è stato un ritorno alle sorgenti sia storiche, che interiori della spiritualità cristiana (cfr. Jungmann, Tradition lit. et problèmes actuels de pastorale, p. 82).

Di qui, Figli carissimi, due osservazioni, che consegniamo oggi alla vostra riflessione. La prima riguarda le caratteristiche della partecipazione liturgica, tanto raccomandata dal Concilio: cosciente; ecco la prima caratteristica; e basterebbe questa per fare un’apologia umanistica della religione, che la Chiesa inculca ai suoi fedeli; la preghiera della Chiesa non è ermetica, non è sottratta all’intelligenza del popolo; essa piuttosto va incontro alla sua capacità e alla sua avidità di conoscere e di capire; essa fa propria la parola di Cristo: «Tutti saranno alunni di Dio, erunt omnes docibiles Dei» (Jn 6,45); attiva e personale, ecco una seconda caratteristica della partecipazione liturgica; e terza, comunitaria. Ormai sappiamo queste cose. Diremo ancora con Gesù: «Se voi sapete queste cose, sarete beati se le metterete in pratica! Si haec scitis, beati eritis si feceritis ea»! (Jn 13,17).

L’altra osservazione ci riporta alla Settimana Santa. Se v’è Liturgia, che dovrebbe trovarci tutti compresi, attenti, solleciti ed uniti per una partecipazione quanto mai piena, degna, pia e amorosa, questa è quella della Grande Settimana. Per una ragione chiara e profonda: il mistero pasquale, che trova nella Settimana Santa la sua più alta e commossa celebrazione, non è semplicemente un momento dell’anno liturgico; esso è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno liturgico stesso, perché tutte si riferiscono al mistero della nostra redenzione, cioè al mistero pasquale (cfr. Jungmann, ibid. p. 341, ss.).

Perciò, Figli carissimi, non possiamo augurarvi la buona Pasqua senza esortarvi a partecipare debitamente alla celebrazione del mistero pasquale; e voglia il Signore che ciò sia anche in virtù della Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 13 aprile 1966

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Questi giorni pasquali ci obbligano a pensare a due cose: alla risurrezione del Signore; al rapporto che la nostra vita ha con tale fatto, con tale mistero. Sappiamo bene che tutto quanto Gesù Cristo ha compiuto ed ha patito, «acta et passa» , non è circoscritto. alla sua singola vita, ma fa parte d’un disegno divino che comprende anche noi. Egli è il Redentore; vale a dire che tutta la sua opera redentrice riguarda noi uomini; è finalizzata alla nostra salvezza : «propter nos et propter nostram salutem descendit de caelo», così cantiamo nel «Credo»; e siamo soliti a riferire questa sorprendente e consolante verità specialmente alla morte del Signore: è morto per noi, diciamo. Siamo invece meno abituati a considerare la risurrezione del Signore come un fatto a noi relativo; e nella nostra pietà, se non nella nostra dottrina, non diamo alla risurrezione di Cristo l’importanza soteriologica, che le deve essere riconosciuta.

Ricordiamo S. Paolo: «Cristo fu sacrificato per le nostre mancanze, e fu risuscitato a motivo della nostra giustificazione» (
Rm 4,25). San Tommaso, con la consueta precisione, c’insegna che dalla risurrezione del Signore emana una duplice virtù rigeneratrice, non solo delle anime, ma anche dei corpi, una effettiva, l’altra esemplare (S. Th. III 56,2). E cioè: «Gesù Cristo non è venuto sulla terra semplicemente per morire; egli è venuto per unirci a Lui e per associarci al suo trionfo . . . La morte non è che la metà dell’opera redentrice, che reclama la risurrezione come suo complemento necessario . . . Senza la risurrezione la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione il battesimo non ha il suo completo simbolismo» (Prat. II, 252).

Ed ecco il battesimo, che costituisce appunto il primo e fondamentale rapporto vitale e soprannaturale fra la Pasqua del Signore e la Pasqua nostra, fra la sua risurrezione e la nostra. Bisogna ancora ascoltare San Paolo: «. . . quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella morte di lui. Siamo stati infatti sepolti con lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché, come fu risuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita» (Rm 6,3-4).

Questi insegnamenti sono molto importanti, non solo nel campo dottrinale, ma altresì nel campo spirituale e in quello pratico. È a questo punto, che ha origine, nella fede e nella grazia, la nostra inserzione in Cristo, che nasce il nostro titolo di cristiani. Cristiano è colui ch’è battezzato; e il battezzato è un essere umano reso partecipe d’un nuovo principio, reale e morale, di vita, la vita stessa di Cristo; è un uomo nato di nuovo (cfr. Jn 3,7); un uomo che è stato inizialmente salvato «mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento di Spirito Santo» (Tt 3,5); incorporato così a Cristo, e segnato con un sigillo, un’impronta, un carattere, che non si cancella più; il carattere della fisionomia di Cristo, stampato nell’anima, e tale da qualificarlo figlio di Dio: «Tutti quelli che hanno ricevuto Cristo, hanno acquistato il potere di diventare figli di Dio» (Jn 1,12).

Questa sorte, figli carissimi, è la nostra. Il Concilio, in quel grande suo documento, che studia le relazioni fra la Chiesa e il mondo, parte giustamente dal concetto cristiano dell’uomo. Voi ricordate che l’avere un vero ed esatto concetto dell’uomo è il problema capitale e più difficile della filosofia, della sapienza umana; e che il pericolo della civiltà è quello di fondarsi sopra una concezione falsa o incompleta della vita umana. Oggi si parla tanto di «umanesimo», cioè d’un progresso civile derivato da una data definizione dell’uomo. Ma chi sa dire veramente chi è l’uomo? Le molte e grandi difficoltà di dare dell’uomo una vera definizione tentano, ad ogni passo, a dare definizioni parziali, che sembrano solide, perché desunte da qualche esperienza immediata, generalmente a tendenza biologico-materialista. «In realtà - dice il Concilio - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes GS 22).

Noi dobbiamo svolgere questo problema, accogliendo la definizione che la fede ci offre, ricordando che ciascuno di noi, se battezzato, è «uomo nuovo, quello creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ep 4,24). Dobbiamo cioè formarci la coscienza che siamo battezzati, che siamo cristiani, che siamo cittadini della Chiesa, fratelli di Cristo e viventi in Lui, figli adottivi di Dio. Questo senso di dignità, sacra e stupenda, questa consapevolezza della nostra vocazione allo stato soprannaturale, questo concetto luminoso e vero della vita devono formare la nostra saggezza, e devono renderci facile mantenere l’impegno che da questa coscienza deriva. Ecco, è semplice: bisogna vivere da cristiani, se sappiamo ciò che significa essere cristiani. Il costume cristiano, l’educazione cristiana, lo stile morale cristiano e perfino l’arte cristiana hanno la loro radice nella coscienza della nostra elevazione soprannaturale, mediante il battesimo, che ci ha fatti partecipare ai meriti e alla virtù della Pasqua di Cristo, della sua morte redentrice e della sua risurrezione rigeneratrice.

Tutto questo Noi ora pensiamo, vogliamo e invochiamo, quando auguriamo a ciascuno di voi, con la Nostra Benedizione Apostolica, la «buona Pasqua».

Abbiamo anche Noi celebrato la Pasqua di quest’anno 1966 col pensiero dapprima dell’unità dei cristiani fra loro, e poi dell’unione di tutti gli uomini nella pace fraterna e nella collaborazione civile.

È un pensiero che sgorga spontaneamente dalle profondità del mistero pasquale: l’universalità della redenzione deriva dal disegno di Dio e dice la grandezza e la gratuità del suo amore; la necessità che tutti abbiamo della medesima salvezza, ottenuta da Cristo col suo unico sacrificio, obbliga tutti a ricorrere all’identica fonte di perdono e di grazia; la diffusione nel mondo e nella storia del messaggio pasquale è parimente un principio di unità, perché tale diffusione annuncia all’umanità la medesima ed univoca fede, mediante un servizio qualificato di verità e di carità, il ministero cioè del magistero apostolico, rivolto a formare un solo popolo credente, il popolo di Dio, vivente come «un cuor solo e un’anima sola» (Ac 4,32); tutto ciò insomma che Cristo ci ha lasciato di Sé, con la sua gloriosa risurrezione, la sua parola, il suo esempio, il suo amore. La comunione di vita nostra con la sua vita vittoriosa, in noi infusa dalla stessa fede e dai medesimi sacramenti, dalla appartenenza ad una medesima e visibile comunità religiosa, che è la Chiesa, e dalla attesa comune del suo ultimo ritorno, tutto ci parla di unità, tutto ci obbliga all’unità, che più profonda ed essenziale non potrebbe essere, se, come Cristo stesso insegnò nel suo estremo discorso ai discepoli, tale unità fra i seguaci veri di Lui deve modellarsi e generarsi sull’insondabile e consustanziale unità, che fa del Padre celeste e del Verbo suo Figlio, nello Spirito Santo, un solo ed unico Iddio (cfr. Jn 17,11).

Un complesso poi di circostanze ha più fortemente richiamato in Noi questo pensiero dell’unità. La celebrazione del Concilio Ecumenico, ora concluso, il quale, come è detto nel proemio del Decreto conciliare sull’Ecumenismo, ha avuto come uno dei suoi scopi principali «il ristabilimento dell’unità da promuoversi fra tutti i Cristiani». È ovvio che questo intento sia ritornato con urgenza al Nostro spirito nella celebrazione della festa pasquale, che ha ripresentato alla Nostra preghiera tutti i fini del grande Concilio.

Il ricordo del Nostro incontro col Patriarca Atenagora, avvenuto più di due anni or sono a Gerusalemme, ravvivato nella ricorrenza pasquale da scambievoli messaggi augurali; la memoria della cancellazione delle scomuniche del 1054, felicemente celebrata il 7 dicembre scorso alla chiusura del Concilio; e la grata impressione della recente visita dell’Arcivescovo Anglicano Dottor Ramsey, piena di storico e di spirituale significato, sono presenti al Nostro spirito nella festività della risurrezione del Signore, non soltanto come conforto per felici avvenimenti conseguiti sull’incerto cammino verso la reintegrazione di tutti i cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, ma altresì come auspicio di nuovi possibili passi verso questa mèta desiderata.

Perché le difficoltà non mancano, e per sé sono tali da non lasciar prevedere una sollecita e soddisfacente soluzione. Da alcuni si vorrebbero dalla Chiesa cattolica sacrifici dottrinali e costituzionali, ch’essa non può fare senza venir meno alla sua fedeltà alla verità del Vangelo e della tradizione che ne deriva. La Chiesa cattolica desidera piuttosto, dal canto suo, di appianare la via all’incontro pieno e definitivo con i Fratelli separati, cercando di rassicurarli circa la logica, per tutti onorevole, delle posizioni cattoliche; cercando di onorarli col riconoscere certi aspetti di alcune caratteristiche delle loro tesi religiose, meritevoli di comune consenso, e cercando ancora di favorirli, per quanto la realtà storica e pratica lo consenta, col semplificare le esigenze rinunciabili delle forme espressive dell’adesione ad un’unica Chiesa; e si confida che questo sforzo di leale accostamento sarà reciproco.

Ed è questa complessa considerazione, tutta intessuta di ostacoli umanamente parlando insormontabili, che la Pasqua illumina d’una gioiosa speranza, quella della possibilità di raggiungere un giorno la perfetta riconciliazione con tutti i credenti in Cristo risorto.

La risurrezione di Cristo è tale miracolo che Ci fa ripetere, riferendola al nostro caso, la parola del Signore stesso: «Presso gli uomini questo è impossibile; ma presso Dio tutte le cose sono possibili» (Mt 19,26).

Perciò il Nostro animo si protende in umile preghiera al Signore, affinché Egli voglia, intorno a Sé e nella sua unica Chiesa, ricomporre la grande famiglia dei suoi discepoli; si estende in affettuoso e paterno invito a tutti i cattolici, affinché sempre più abbiano in loro e tra loro il senso sublimante dell’unità del Corpo mistico; e si allarga in rispettoso saluto a tutti i credenti in Cristo, mentre già a noi è ineffabile letizia ascoltarne il coro ecumenico, ad Oriente e ad Occidente, inneggiante con noi a Colui ch’è «il primo e l’ultimo: visse e morì; ed ecco, ora è vivente per tutti i secoli».


Mercoledì, 20 aprile 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Vogliamo richiamare la vostra riflessione sopra una ben nota parola dell’epistola prima di San Giovanni, che abbiamo letta nella santa Messa di domenica scorsa, la domenica «in albis»; ed è quella, che in questo luogo ed in questo tempo sembra acquistare particolare significato: «Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede» (
1Jn 5,4). La Chiesa rivolgeva questa parola ai neofiti, a quelli che nella veglia pasquale avevano ricevuto il battesimo, e che, deponendo dopo otto giorni la veste bianca loro imposta a segno e a ricordo del rito sacramentale ricevuto, riprendevano l’abito consueto, rientravano nella vita ordinaria, terminavano la catechesi da cui erano stati iniziati alla professione cristiana; voleva la Chiesa loro ricordare che quei battezzati non erano più quelli di prima; una grande novità s’era prodotta nelle loro anime; essi portavano con sé la fiamma d’una nuova luce, che dà senso alla vita, la fede; e che bisognava conservare accesa quella fiamma; essa li avrebbe guidati nel cammino da percorrere, e li avrebbe così confortati e fortificati da renderli vittoriosi sulle immancabili difficoltà che stavano per incontrare, come cristiani nel mondo.

Questa esortazione dell’apostolo Giovanni: la vittoria sul mondo proviene dalla fede, si ripete in diverse pagine del Nuovo Testamento; si vede che essa costituiva un pensiero ricorrente nella predicazione apostolica. Gesù stesso vi aveva dato origine, esigendo dai suoi, come condizione iniziale e indispensabile della sua azione nelle loro vite, la fede: «Si potes credere - dirà una volta Gesù -, omnia possibilia sunt credenti; se tu puoi credere, tutte le cose sono possibili per chi crede» (Mc 9,23). La fede è l’adesione al Signore, la quale rende possibile la dilatazione della sua potenza operante e salvatrice nel credente. «Non si turbi il Cuor vostro: credete in Dio, ed in me credete» dice ancora Gesù (Jn 14,1). «Colui che crederà e sarà battezzato, si salverà» (Mc 16,16); e così via. Gli Apostoli ripeteranno questo fondamentale precetto della vita cristiana; S. Pietro, ad esempio, scriverà: «. . . Resistite fortes in fide, resistete (al demonio) forti nella fede» (1P 5,8-9); e il capo II della lettera agli Ebrei è una lunga e lirica esaltazione della fede come principio efficiente nella vita di coloro che la professano.

Il che significa che l’esortazione della Chiesa inserita nella liturgia dei neofiti vale per tutti, è permanente, vale per noi: dobbiamo così possedere, così professare la nostra fede, da trarne energia umano-divina di vittoria nelle traversie della vita, nelle tentazioni del mondo. Il che significa ancora che la vita cristiana non è facile; essa incontra ostacoli e opposizioni, pericoli e tentazioni; essa dev’essere vigilante e militante.

Figli carissimi! quale effetto producono in voi queste considerazioni? di conforto o di timore? quale concetto avete voi circa l’efficacia della fede? è una fonte di debolezza, o invece di fortezza? Queste alternative sono possibili; anzi sono frequenti negli animi delle persone del nostro tempo. Spesso la fede appare come un atto molto difficile; e anche quando esso è professato, esso è debole, esitante, dubbioso; appare come un dovere grave e conturbante, piuttosto che come un lume limpido e consolante. L’atto di fede è difficile per la mentalità moderna, tanto abituata al dubbio sistematico e alla critica, e persuasa di limitare la propria certezza entro i confini della propria esperienza (mentre poi la massima parte di ciò che si sa, si fonda sulla fede - umana - di ciò che altri, i maestri, gli scienziati, i competenti ci dicono di credere).

Che cosa diremo? come convertire la debolezza della nostra fede in un atto di fortezza interiore ed esteriore? La risposta si farebbe lunga e difficile, se volessimo costruirla logicamente, come si dovrebbe. A Noi qui basterà ricordare che anche la fede è una grazia. E qui, sulla tomba di San Pietro, primo maestro, dopo Gesù, della fede, domanderemo questa grazia; e sarà grande fortuna, grande gioia l’ottenerla. In secondo luogo ricorderemo che la fede non è un atto puramente speculativo; è atto ragionevole, ma non frutto della sola ragione. Una componente volontaria lo rende possibile e meritorio: bisogna voler credere, quando, è ovvio, vediamo ch’è ragionevole, ch’è umano, ch’è bello il farlo. La certezza diventa un dovere, ad un dato momento (Newman); e la fede che ne risulta diventa un atto religioso; l’atto religioso fondamentale del cristianesimo. «L’atto di fede, omaggio reso a Dio dall’intelligenza umana, è un atto incontestabilmente religioso. Ma lo è a un titolo ancora più profondo: l’atto di fede è un’attività teologale che rende partecipe l’uomo della vita stessa di Dio, un’attività la quale non solo si orienta verso Dio, ma è orientata da Dio» (AUBERT, in Prob. e Orient. II, 694).

Diremo dunque, come l’umile personaggio del Vangelo: «Credo, Domine, adiuva incredulitatem meam; credo, Signore, Tu aiuta la mia incredulità!» (Mc 9,24). E cantando ora il Credo sul sepolcro dell’Apostolo, che ha avuto da Cristo la missione di confermare nella fede i fratelli (Lc 22,32), meglio comprenderemo il valore della fede nella vita cristiana; non più peso essa ci sembrerà, ma energia e gaudio; non più temeremo di immergerci nella vita profana del mondo, dove non saremo sperduti e naufraghi, ma testimoni sereni e forti d’una luce vigiliare e notturna, la fede nel tempo presente, foriera della luce piena del giorno eterno. Con la Nostra Apostolica Benedizione.



Lunedì, 25 aprile 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Siate i benvenuti a questa Udienza, che Ci offre l’occasione di salutarvi e di benedirvi. È un'Udienza, come vedete, tanto numerosa e formata dai gruppi più vari, provenienti da sedi vicine e lontane, le più diverse. Non vorremmo che in voi rimanesse un’impressione poco buona di questa Udienza, come quella che confonde e soffoca ciascuno di voi nella moltitudine e nella ressa dei presenti, e che appena vi consente di vederci e di ascoltare qualche Nostra parola. Vorremmo invece che restasse nei vostri animi un’altra impressione, quella dell’amore. Dell’amore che qui vi accoglie come figli, dell’amore che qui vi rende tutti fratelli, dell’amore, che la vostra stessa riunione mette in evidenza ricordando a ciascuno ed a tutti d’essere membri di quella società religiosa, che si chiama la Chiesa, e che è tenuta insieme, oltre che dalla medesima fede, dalla forza coesiva dell’amore; dell’amore, che scende da Dio e che attribuiamo allo Spirito Santo e chiamiamo «grazia», perché è un dono, una grazia, un’azione sopra-naturale della carità di Dio per noi; e dell’amore, che intercede fra tutti coloro che appunto sono partecipi della medesima fede e della medesima grazia, e formano così una famiglia spirituale, anzi un solo Corpo Mistico, che si chiama la Chiesa, e che dall’amore deriva, per l’amore vive, e all’amore conduce. Se voi riportaste di questa Udienza questo pensiero, vorremmo quasi dire questa esperienza interiore, Noi crediamo che ne avreste buon ricordo, anzi buon frutto spirituale.

Ci aiuta a fissare in questo momento il nostro pensiero su tale tema, il tema dell’amore, che tiene insieme la Chiesa e ne forma il felice e misterioso respiro, il brano di Vangelo che abbiamo letto nella Messa di ieri, il Vangelo del «buon Pastore». Ricordate questa definizione che Gesù ha dato di Se stesso: «Io sono il buon Pastore» (
Jn 10,11): quale immagine semplice, espressiva, attraente, confortante. Quale immagine bella e grande ed eroica, se pensiamo che Gesù ha detto d’essere buon Pastore per il fatto ch’Egli dà la sua vita per il suo gregge; cioè Egli consacra al suo gregge, cioè all’umanità, a ciascuno di noi, il suo amore, l’amore più grande: «Nessun amore è più grande, dice ancora il Signore, di quello di colui che dà la vita per coloro che ama» (Jn 15,13). E ricordate che la figura del buon Pastore, che porta sulle spalle la pecora ritrovata (Lc 15,1-7), è la prima dell’iconografia cristiana. Ancor prima di presentare l’immagine del crocefisso, l’arte e la pietà dei cristiani antichi fissarono lo sguardo sull’immagine di Gesù buon Pastore. Così i primi cristiani delinearono e scolpirono Gesù, così lo pensarono, così lo pregarono. Cioè: il cristianesimo primitivo intuì ciò che noi stessi, con la nostra teologia e con la nostra devozione, ancora comprendiamo e adoriamo: Gesù-amore.

E Noi vogliamo sperare che il pensiero di Gesù-amore, Gesù-Pastore, sia in voi tutti presente per il fatto che siete venuti a cercarne non solo il ricordo e l’immagine nella Nostra missione, anche se la Nostra povera persona non può rendere fedelmente la figura di Colui che a Noi è dato di rappresentare: voi vorrete fare uno sforzo, con la vostra mente e con la vostra fede, di vedere non Noi, ma in Noi, nel Nostro ministero apostolico, nel Nostro ufficio di Vicario di Cristo, Cristo stesso, Cristo nostro Pastore, Cristo nostro amore. E sappiate difatti che il Nostro ministero, di guidare, ammaestrare, santificare la Chiesa, in nome di Cristo, unico e sommo Capo della Chiesa, vuol essere ed è servizio di amore. Sì, questo pensate e ricordate venendo a questa udienza, e riportandone filiale memoria: comprenderete allora come bisogna giudicare la Chiesa, come aderirvi - per amore e con amore -; come difenderla, come servirla. E comprenderete come amando la Chiesa, ed oggi ne date la prova, incontrate Cristo, amate Cristo; «Vescovo e Pastore - così scrive S. Pietro (1P 2,25) - delle vostre anime». Tanto vi ottenga da Lui, dal Signore Gesù, la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 27 aprile 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Se voi, facendo a Noi questa visita, venite con l’animo del pellegrino, che non si contenta di guardare, come un estraneo, la scena esteriore di questa udienza, ma che vuole vedere dentro, qualche cosa della realtà spirituale presente, vuole capire, vuole scoprire il senso di ciò che avvicina ed osserva, sentirete nascere dentro di voi una parola chiara e una domanda oscura; la parola chiara: ecco la Chiesa, la Chiesa cattolica; non tutta la Chiesa cattolica e non la sola Chiesa, si capisce; ma la Chiesa cattolica nella sua espressione più caratteristica e autorevole, la Chiesa cattolica rappresentata dal suo Capo visibile, la Chiesa cattolica nella sua sede centrale, nel cardine della sua fede e della sua storia: qui è la tomba del primo Apostolo, San Pietro, qui è il suo successore, il Papa, qui sono evidenti l’apostolicità, l’unità, la cattolicità, la santità costituzionale della Chiesa, le famose «note», che la distinguono e la certificano; qui è il punto d’incontro con tutti i cattolici del mondo, anzi il punto d’attrazione ecumenica di tutti i cristiani, credenti nel Signore Gesù; e così via: qui, voi dite giustamente, è la Chiesa, a cui voi appartenete, nel suo centro, nel suo segno più denso di significato, nel suo fondamento più sicuro. Questo è chiaro.

Ma poi sorge nell’animo del pellegrino una domanda, che sembra facile, ma non è. La domanda è questa, semplicissima: che cosa è la Chiesa? Voi tutti ricordate certamente la risposta del catechismo, detto di Pio X: «La Chiesa è la società dei veri cristiani, cioè dei battezzati, che professano la fede e la dottrina di Gesù Cristo, partecipano ai suoi sacramenti e obbediscono ai Pastori da Lui stabiliti». Va bene: ma ci dice tutto su la Chiesa questa definizione? Questa è piuttosto una descrizione, esatta e sufficiente per avere una nozione distintiva della Chiesa dalle altre società; ma essa sveglia, piuttosto che soddisfare, il bisogno di capire «per causas», cioè nei suoi principi costitutivi le ragioni intrinseche di questo fatto associativo, tanto diverso da ogni altro, che si chiama la Chiesa. Tutti vorremmo sapere qualche cosa di più su di essa.

Tanto è vero che tutti coloro che hanno qualche conoscenza delle questioni spirituali del nostro tempo avvertono che la scienza sulla Chiesa, la «ecclesiologia», è un bisogno molto vivo nel nostro tempo. Sapere che cosa è la Chiesa diventa decisivo in ordine a tante altre questioni vitali, quella religiosa per prima, quella ecumenica, quella umanistica, eccetera. E tanto più questa conoscenza, specialmente per noi cattolici, è importante, perché tanti errori, tante idee inesatte, tante opinioni particolari circolano nelle discussioni del nostro tempo; l’interesse, che ora attrae l’attenzione della gente che pensa e che aspira alla ricomposizione dell’unità fra i cristiani separati, verso il vero concetto di Chiesa, mette questo tema davanti allo studio e alla coscienza del mondo contemporaneo: bisogna ben sapere che cosa sia la Chiesa, la vera Chiesa, quella verso cui abbiamo doveri inderogabili, quella in cui vogliamo trovare la verità e la salvezza, senza pluralismi contrari al principio unitario e costitutivo della Chiesa, e senza incertezze elastiche ed equivoche, che ci tolgano la fortuna dell’univoca soluzione (anche se varia nelle forme contingenti ed esteriori) della grande questione.

E l’importanza della questione cresce per due motivi: primo, perché tale questione è stata al centro del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, la principale, la più studiata e la più illustrata da affermazioni dottrinali di profondo contenuto e di altissimo valore. Secondo: perché si può dire che il Concilio stesso ha durato fatica a dare della Chiesa un’idea semplice, lineare, e facile; cioè si è trovato dinanzi ad una realtà talmente ricca di significato, talmente grande e complessa, da doverla chiamare un mistero. La Chiesa è un mistero, non solo nel senso della profondità nascosta della sua vita, ma nel senso altresì ch’essa è una realtà non tanto umana e storica e visibile, ma altresì divina e superiore alla nostra normale capacità conoscitiva; come noi oggi la vediamo, la Chiesa è essa stessa un segno, un segno sacro, un sacramento, che ora non possiamo adeguatamente conoscere nella sua vera e interiore pienezza, ma che proprio ora ci attrae ad uno studio nuovo e stupendo.

Come faremo dunque per capire qualche cosa? Ecco: se vi è studio, in cui anche l’amore contribuisce alla conquista della verità, noi crediamo che questo è lo studio della Chiesa: per ben conoscere la Chiesa bisogna amarla. Poi studiarla. Uno degli studi più interessanti, a questo riguardo, è la grande Costituzione dogmatica intitolata «Lumen Gentium»; dove, fra le altre cose degne di nota, è la molteplicità dei nomi dati alla Chiesa; essa è designata con figure e con simboli, com’era costume agli autori dei Libri sacri, alieni dall’uso di termini astratti e di definizioni speculative, come facciamo noi moderni; e basterà fare l’elenco di questi nomi per capire come la realtà della Chiesa sia vasta e complessa: essa è chiamata: l’Israele di Dio, il regno dei cieli, la città di Dio, la Gerusalemme celeste, la Spose di Cristo, la madre dei fedeli, il campo di Dio, la vigna del Signore, l’ovile di Cristo, la casa di Dio, il Popolo di Dio, e finalmente il Corpo mistico di Cristo. Questa molteplicità di appellativi ci indica come la Chiesa possa essere considerata sotto differenti aspetti, ciascuno dei quali è come la luce d’un diamante dalle molte facce.

Figliuoli carissimi, lasciatevi attrarre da queste luci. La Chiesa non è uno schermo che ci impedisca di arrivare a Cristo e di salire a Dio, com’è stato detto da molti estranei alla nostra ineffabile comunione, ma è lo specchio - il segno sacro - in cui dobbiamo vedere Cristo e in Lui Iddio.

La Nostra Benedizione vi ottenga d’essere tutti discepoli di questa meravigliosa scuola, ch’è lo studio della Santa Chiesa.





Paolo VI Catechesi 30366