Paolo VI Catechesi 21966

Mercoledì, 21 settembre 1966 - LA FORZA IMPETRATORIA DEL SANTO ROSARIO

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Diletti Figli e Figlie!

Non vi meraviglierete se facciamo tema di questo breve colloquio la Nostra recente Enciclica, che dalle prime parole s’intitola «Christi Matri», cioè: alla Madre di Cristo. Noi non vi faremo il commento a questo Nostro messaggio al mondo cattolico ed anche a quello profano, e nemmeno l’apologia d’un documento, che può facilmente essere compreso e giudicato da chiunque lo legga.


Voi l’avete letto? Supponiamo che sì; ma Ci farete cosa grata se ne prenderete l’attenta visione, ch’esso Ci sembra meritare. Ora vogliamo soltanto farvi notare alcune semplici caratteristiche di questa Enciclica: che è breve, che è semplice, ch’è di tipo esortatorio, piuttosto che dottrinale, ch’è occasionale. L’occasione è duplice: il mese di ottobre, dalla pietà cattolica dedicato a quella forma di culto e di preghiera a Maria Santissima, che si chiama Rosario. Papa Leone XIII pubblicò diverse encicliche per onorare e per diffondere questo esercizio di devozione mariana; ed i Papi, che lo seguirono, ciascuno scrisse un’enciclica sullo stesso tema. Non volevamo essere Noi meno solleciti dei Nostri Predecessori, convinti come siamo che questa popolare maniera d’orazione, anche se non è propriamente liturgica e ufficiale, conserva tanti pregi, degni d’essere coltivati anche dalla spiritualità moderna: per il ritmo litanico con cui si svolge; per la tematica evangelica ch’essa presenta; per la fusione dell’espressione orale con la meditazione interiore, che la definisce; per la tradizione e per la diffusione, che la rende voce umile, sincera e corroborante del sentimento religioso della gente semplice e devota, e per l’efficacia impetratoria, che le è riconosciuta. Richiamare i fedeli alla recita del Rosario, ecco l’intenzione Nostra, a cui il prossimo mese d’ottobre offre occasione d’esprimersi.

IL VIAGGIO DEL PAPA ALL’O.N.U. E IL SUO ALTO SIGNIFICATO

L’altra occasione è la ricorrenza annuale del Nostro viaggio a New York, il 4 ottobre dello scorso anno. Nessuna solennità esteriore ebbe quel viaggio rapidissimo e brevissimo, salvo quella del gruppo di Cardinali al Nostro seguito, in rappresentanza del Concilio ecumenico, allora in via di celebrazione, e dell’intero mondo cattolico. Ma fu un viaggio singolare, che, nonostante l’umiltà della Nostra persona, assurse ad alto significato, come voi sapete, specialmente per aver Noi potuto invitare, in quel supremo consesso di Rappresentanti della maggior parte dei Popoli della terra, tutti gli uomini a escludere la guerra dai loro costumi, ad affermare la fratellanza umana universale, e a promuovere la pace, leale, stabile, feconda, mediante opere costruttive di comune benessere: condizione a tutto questo una profonda presa di coscienza dell’essere e del destino umano, auspice il senso e l’aiuto di Dio, nostro Padre. Questo avvenimento ebbe risononza nel mondo; e Noi ne ringraziamo il Signore, e ne diamo lode alle persone che lo promossero e lo compresero. Gli incontri, che Noi allora facemmo con Personaggi importanti, commossero il Nostro spirito, accrebbero in Noi la Nostra stima per loro, e Ci misero in cuore tante speranze per le buone fortune dell’umanità. Ecco perché abbiamo voluto commemorare l’anniversario, chiamando tutta la grande famiglia cristiana a ricordare con Noi, a pregare con Noi.

Ma tutto questo perché? Anche questo voi sapete: per la pace. Sì, ancora per la pace. È un tema ricorrente; ma sono i fatti, e quanto gravi, che lo rendono tale. Vale a dire che la pace ha sempre bisogno d’essere perseguita, difesa, promossa, sperata, costruita. La pace è l’equilibrio del mondo: un equilibrio altrettanto indispensabile, quanto oggi debole e oscillante. Si vive nell’ansia, si vive nel pericolo. È un gesto di maniera il Nostro grido d’allarme? Volesse Iddio che così fosse; ma chiunque ha qualche cognizione delle presenti condizioni del mondo non può non trepidare; non può non tremare. Vi è, proprio in questi giorni, chi parla con altissima autorità e competenza, non meno gravemente di Noi.


ELEMENTI DI GRANDE FIDUCIA LA PAROLA E LA PREGHIERA

E Noi, che cosa possiamo fare Noi per la pace! Questa domanda può intendersi come ricerca della valutazione pratica, reale, della Nostra ultima Enciclica. Può chiedere alcuno: a che serve? Occorrono ben altre cose: forze, potenza, denaro, propaganda, peso politico ed economico, gioco formidabile d’interessi, astuzie diplomatiche, gesti clamorosi, ecc., per ottenere qualche risultato nel campo internazionale, specialmente quando lo si voglia mettere d’accordo, svuotarlo dei suoi mille egoismi deformanti e paralizzanti, e convincerlo a perseguire con energica convinzione un bene comune. La Chiesa, il Papa, che può mai fare di positivo e di efficace?

Ebbene, senza rinunciare ad ogni altro tentativo a Noi consentito, rispondiamo, con la Nostra Enciclica alla mano: due cose. Due cose, che indicano, come si suol dire, la Nostra politica. Noi possiamo parlare e pregare. La parola: vale ancora qualche cosa nella storia contemporanea? Noi crediamo di sì: per il mistero di verità, ch’essa contiene e disvela; per la forza inerme e invincibile, di cui dispone, quando è libera, sincera, reale; per la fiducia, che Noi abbiamo negli uomini; sì, negli uomini del nostro tempo, che sono intelligenti, che sono pensosi, che possono ascoltare e capire, che sono, in fondo, sofferenti, e che cercano e attendono una parola di verità e di bontà, della quale Noi, ministri del Vangelo, crediamo d’essere depositari e profeti. Per questo parliamo. Parliamo con fede, che vorrebbe smuovere le montagne. Parliamo con amore, che si rivolge a tutti gli uomini, con assoluto Nostro disinteresse, e con appassionata ricerca del bene altrui, nella giustizia e nella fratellanza universale.

Poi preghiamo. È la seconda nota della Nostra «politica». L’Enciclica tutta lo dice. E siamo convinti che non è opera vana pregare! È la condizione per l’innesto della causalità misteriosa della Bontà divina nel circuito incerto e infermo della causalità umana. Noi abbiamo fiducia. E più l’abbiamo, se voi, Figli carissimi, pregate con Noi. L’abbiamo, se il coro delle voci infantili si unisce alla Nostra voce, stanca dagli anni e dagli affanni. L’abbiamo, se quella gemente e penetrante dei sofferenti rende meno indegna d’essere ascoltata dalla Misericordia divina l’implorazione della nostra umanità peccatrice.

Noi abbiamo fiducia. E vogliamo in voi confortare la vostra con la Nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 28 settembre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Codesta visita, che per molti di voi muove i passi da lontano, così premurosa perciò, così filiale, così compresa del significato ecclesiale e del valore spirituale d’un incontro col Papa, dice a Noi un sentimento, un desiderio che voi tutti avete nel cuore, e che Noi crediamo d’indovinare a vostra lode e a Nostro conforto; e cioè il desiderio di fare qualche cosa per il Papa, per la Chiesa; qualche cosa di utile, di saggio, di personale. Ciascuno di voi chiede a se stesso: che cosa posso fare io, in quest’ora dopo il Concilio, per la causa di Cristo e della sua Chiesa?

Figli carissimi! Se tale davvero è la vostra aspirazione, Noi benediciamo il Signore e Noi di cuore vi ringraziamo. La vostra silenziosa domanda si può formulare in modo diverso, così che la risposta può tornare più facile. Voi chiedete a voi stessi che cosa potete fare per collaborare con la Nostra missione apostolica? Ebbene, ponete la questione così: quali sono oggi i bisogni della Chiesa? Quali sono? È chiaro che sono moltissimi e grandissimi. Non si potrebbero certo elencare, sia che guardiamo al fondo delle esigenze, che potremmo dire costituzionali, della Chiesa, quali sono quelle immense e non mai abbastanza soddisfatte della missione evangelizzatrice e santificatrice della Chiesa stessa, e sia che guardiamo più superficialmente alle sue necessità pratiche, funzionali, anche queste senza numero e senza misura. Ma questo sguardo generale ai bisogni della Chiesa ha un’importanza molto grande nella formazione della vita cattolica. Un’importanza teologica: esso ci ricorda che il regno di Dio è sempre in fieri, non è mai compiuto durante il corso del tempo, ed ha sempre bisogno d’essere portato a compimento. E per di più ci ricorda una verità fondamentale del piano divino circa l’umana salvezza, e cioè Dio, unico principio, libero e sommo, dell’umana redenzione, ha voluto che l’uomo collaborasse all’attuazione del suo piano; fosse cioè ministro e strumento e veicolo della verità e della grazia, portata da Cristo nel mondo. In altri termini: l’opera di Dio ha bisogno dell’opera dell’uomo, non per raggiungere la sua intrinseca validità, ma per raggiungere la sua estrinseca efficacia. La fede, ad esempio, ch’è all’origine della nostra salvezza, ha bisogno d’essere annunciata, predicata, insegnata. «Come crederanno, scrive S. Paolo, in Uno di cui non hanno sentito dir nulla? E come ne sentiranno parlare senza chi lo annunzi?» (
Rm 10,14). E chi vede questo bisogno dell’economia cristiana avverte subito il bisogno d’un ministero, d’un apostolato, d’un lavoro missionario.

Così che l’aprire gli occhi sopra i bisogni del regno di Dio acquista un’importanza morale e formativa di primo ordine. Chi apre gli occhi sopra tali bisogni sente nascere dentro di sé un senso nuovo di responsabilità, quasi un invito, uno stimolo, una vocazione. V’è un capitolo in molte vite di Santi in cui si narra appunto la scoperta che il futuro Santo fa dei bisogni spirituali, morali, o caritativi, che lo circondano; e tale scoperta provoca in lui un imperativo nuovo: io posso, io devo, io voglio. La visione da esteriore si fa interiore; e lo Spirito Santo parla nel cuore a chi ha aperto il cuore alle sofferenze dei fratelli, ai bisogni della Chiesa; e quel soffio misterioso trasforma l’uomo da egoista, da timido, da inetto che era, in un nuovo uomo, coraggioso, ingegnoso, generoso; in un eroe, in un santo.

Ma non occorre che ciascuno arrivi a tanto; come non è necessario che ciascuno faccia di proposito un’inchiesta sui bisogni sia generali che particolari della Chiesa, per trovare modo di testimoniarle col fatto il proprio intento di fare qualche cosa in suo favore. Basta che ciascuno guardi davanti e d’intorno a sé, nel campo della propria esperienza ecclesiale; e vedrà subito quali e quanti bisogni siano lì, presenti, urgenti, imploranti: adesione, fedeltà, collaborazione, preghiera, apostolato, dono di tempo e di borsa, testimonianza, difesa, amore . . . Ciò che importa è suscitare in sé questa attitudine: guardare, vedere, comprendere i bisogni della causa di Cristo, che sono d’intorno a noi.

E poiché voi, Figli carissimi, facendo a Noi questa visita, piena di devozione e di buona volontà, Ci fate comprendere quanto voi siate pronti e disponibili a venire in Nostro aiuto, Noi vi diremo che tutto quello che fate di bene per le necessita della Chiesa a voi vicine, nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie, nelle vostre comunità, lo fate anche per Noi, che della Chiesa abbiamo la prima responsabilità; anzi lo fate per Cristo stesso, Che ha detto (ricordate?): «Tutte le volte che avete fatto qualche cosa in favore dei minimi miei fratelli, l’avete fatto a Me» (Mt 25,40).

Grazie perciò, Figli e Figlie, della bontà che Ci dimostrate; grazie di quella che effettivamente dimostrerete per i bisogni dei poveri e dei sofferenti, per i bisogni della Chiesa! Vi sia pegno delle divine ricompense la Nostra Benedizione Apostolica.

Il 75° de «Il Cittadino» di Lodi

Dopo l'incontro con i Nostri figli, nella numerosissima udienza generale di oggi, Ci è caro sostare un istante in mezzo a voi, che formate il gruppo redazionale del settimanale cattolico diocesano di Lodi, «Il Cittadino», e, stretti intorno al vostro zelantissimo Vescovo, rappresentate ai Nostri occhi non solo la grande famiglia dei lettori, ma tutta la diletta Diocesi, nel Settantacinquesimo di fondazione del giornale.

Vi salutiamo con paterno affetto, e vi ringraziamo di codesta vostra presenza, che, appunto, Ci fa risentire come in famiglia, riportando alla Nostra mente il quadro confortante della vita e dell’attività cattolica, che fiorisce presso di voi, e di cui serbiamo caramente il ricordo, come di un impegno serio, generoso, calmo e ardito e volitivo, fedele alle tradizioni di una secolare pietà e dirittura, e aperto altresì, con responsabilità cosciente, alle esigenze dei tempi.

Ci è caro darvene atto, con un particolare compiacimento, che va in primo luogo al Venerabile Fratello Tarcisio Vincenzo Benedetti, Vescovo di Lodi. E tanto Ci allieta vedere fra voi il valoroso Procuratore della Repubblica di Lodi, il Dott. Francesco Novello.

L’occasione del vostro pellegrinaggio è data dall’avvenuta celebrazione del Settantacinquesimo di vita del vostro settimanale. Sono stati 75 anni di autorevole presenza del pensiero cattolico in un arco di tempo che ha compreso periodi duri e battaglieri, crisi di pensiero, pericoli ideologici e morali. Sono stati 75 anni di azione continua, intelligente, coraggiosa per dare ai Lodigiani una regola di giudizio e di orientamento, alimentandone la fiaccola di fede in Dio e di attaccamento alla Chiesa. Sono stati 75 anni di approfondimento di avvenimenti mutevoli alla luce della Verità «che tanto ci sublima», nell’adesione fedele al Magistero Pontificio, da cui il giornale ha tratto le indicazioni per la soluzione dei più assillanti problemi del tempo.

È una grande e bella grazia del Signore poter gettare indietro lo sguardo, come voi oggi fate, e trovare soltanto motivi di soddisfazione e di gratitudine. Traetene dunque le conclusioni necessarie per il proseguimento della vostra azione, in novità di propositi, in ardore di programmi, in decisione di realizzazioni. La causa della Stampa Cattolica è sacra, e dedicarvisi è un dovere prima che un onore, ed è un merito altissimo che nel dovere matura, e ne corona lo sforzo.

Continuate, con giovanile ardore: la Nostra Apostolica Benedizione, sappiatelo sempre, vi accompagna nella vostra provvida opera, e si estende a quanti, collaboratori e lettori, vi sostengono nell’arduo vostro impegno.




Mercoledì, 5 ottobre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Voi, che siete qua guidati dall’amore alla Chiesa; alla Chiesa nella sua unità, nella sua autenticità, nella sua potestà; a voi, che conoscete qualche cosa dello stato di fervore e di rinnovamento, in cui la Chiesa si trova dopo il Concilio, e che partecipate certamente con buona volontà al processo post-conciliare di risveglio, di riforma, di novità, di sviluppo che pone Clero e fedeli in fermento e in movimento, di pensiero, di attività, di usanze, di istituzioni; a voi, che sentite lo stimolo dello Spirito Santo per uscire dal conformismo, dalla inerzia, dalla tepidezza, e per fare qualche cosa di buono e di utile per la Chiesa, Noi presentiamo ancora la Nostra e vostra domanda: di che cosa ha ora maggiore bisogno la Chiesa? Daremo oggi una risposta semplicissima, che voi, perché buoni, perché fedeli, perché fervorosi, potete comprendere ed accettare: la Chiesa ha bisogno di obbedienza. Sì, Figli e Figlie, che amate la Chiesa: di obbedienza. Ed ancor più che dell’esteriore obbedienza passiva ed esecutiva, dell’interiore e spontaneo spirito d’obbedienza.

Ci pare di ascoltare qualche reazione benevola, se non da voi, da ipotetici commentatori di questa familiare lezione settimanale. Ecco la prima: non si è già parlato più volte di questo tema? Sì, è vero, ne abbiamo parlato altre volte, e con Noi ne hanno parlato Vescovi e Superiori, i responsabili cioè delle comunità, a cui l’obbedienza si riferisce. Ma il bisogno di riparlarne, e chiaramente, rimane. Rimane per una certa insofferenza, un certo spirito d’indisciplina e d’emancipazione, che affiora qui e là in diversi ceti del Popolo di Dio, finora esemplarissimi nell’osservanza dell’obbedienza, fieri anzi ed onorati di dare a questa virtù evangelica la loro luminosa testimonianza. Rimane per la necessità, cresciuta in questo periodo post-conciliare, di coesione interna della compagine ecclesiastica: come rinnovare spirito, opere e strutture nella Chiesa, se ella non è solidale con se stessa? Come avvicinare i Fratelli da noi divisi, se la divisione, anche puramente intenzionale o disciplinare, diminuisce l’armonia, ch’è e deve essere caratteristica della società ecclesiale, raffredda la carità, e attenua la capacità di esempio e di apologia in chi a loro si rivolge? E come parlare al mondo, che vorremmo evangelizzare, se vien meno fra Noi la sapienza e l’autorità di farlo per difetto di quell’autenticità apostolica, che solo l’obbedienza qualifica e vivifica?

Può darsi, che, a questo punto, si pronunci una seconda reazione. L’obbedienza, interpreta lo spirito del Concilio? Non ha parlato il Concilio dei diritti della personalità, della coscienza, della libertà? Sì, ha parlato di questi temi, ma non ha certo taciuto quello dell’obbedienza. In questo momento Noi non intendiamo parlare di questi stessi temi, bellissimi, se pur complessi e delicati, circa la libertà dei figli di Dio, circa il carattere sacro della coscienza e circa la pienezza che la vita cristiana conferisce alla personalità umana; ma vogliamo semplicemente ricordare come queste prerogative dell’anima cristiana non siano offese, sì bene tutelate e moderate dall’obbedienza vigente nel tessuto comunitario della Chiesa, quando si rifletta che l’ordine, cioè la perfezione, la pienezza, a cui mira l’economia della salvezza cristiana, non sono propriamente antropocentriche (come la mentalità moderna è tentata di credere), ma teocentriche. «In Deo salutari meo», in Dio è la mia salvezza (
Lc 1,47), diremo con la Madonna; e aggiungeremo col Concilio, che noi dobbiamo cercare non tanto la soddisfazione dei nostri desideri, quanto il compimento della volontà divina (cfr. Presbyt. Ord. 15). È bello, scriveva P. Wenger giorni or sono su «La Croix» (15-IX-1966), che il Concilio compia questa funzione di motore nel pensiero e nella vita delle persone e delle istituzioni; ma è anche vero che alcuni attribuiscono volentieri al Concilio le loro proprie opinioni e identificano troppo facilmente le deliberazioni conciliari con i loro propri desideri, e cercano così di affrancarsi dalla norma stabilita.

Ma allora, insisteranno forse i nostri commentatori, nulla è cambiato in fatto di obbedienza con il Concilio? Oh, no! Noi crediamo che sia lo spirito, che le forme dell’obbedienza ricevano dal Concilio una rigenerazione. Sarebbe lungo il parlarne. Ma se noi abbiamo compreso qualche cosa della dottrina centrale del Concilio, sul mistero della Chiesa, saremo facilmente persuasi come l’obbedienza, ancor prima d’essere ossequio puramente formale e giuridico alle leggi ecclesiastiche e sottomissione all’autorità ecclesiastica, è penetrazione e accettazione del mistero di Cristo, che mediante l’obbedienza ci ha salvati; è continuazione e imitazione del suo gesto fondamentale: il sì alla volontà del Padre; è comprensione del principio che domina tutto il piano dell’Incarnazione e della Redenzione (cfr. Lumen Gentium LG 3). Così l’obbedienza diventa assimilazione a Cristo, il divino obbediente; diventa norma fondamentale della nostra pedagogia di formazione cristiana; diventa coefficiente indispensabile dell’unità interiore della Chiesa, fonte e segno della sua pace; diventa cooperazione effettiva alla sua missione evangelizzatrice; diventa esercizio ascetico di umiltà e spirituale di carità (cfr. Ph 2,5-12); diventa comunione con Cristo e con chi di Cristo è per noi apostolo e rappresentante.

E questo è tanto più bello quando pensiamo che il rapporto fra chi comanda e chi obbedisce, cioè fra chi nella Chiesa è rivestito d’autorità e chi ad essa è soggetto, esce dal Concilio riaffermato, purificato, precisato e perfezionato: dalle dottrine sulla costituzione organica e gerarchica della Chiesa e sulle virtù operative congeniali di essa (cfr. Lumen Gentium LG 27,37), non che dalle finalità di servizio e dall’indole pastorale della potestà ecclesiastica, come pure dall’esaltazione che il Concilio ha fatto del Popolo di Dio, del sacerdozio dei Fedeli, della partecipazione dei Presbiteri al sacerdozio del Vescovo, e della funzione dei Laici nella Chiesa di Dio.

V’è chi ha voluto ravvisare in ciò un mutamento radicale del rapporto fra autorità e obbedienza, quasi che esso si trasformasse in dialogo vincolante l’autorità e affrancante l’obbedienza; ma più che dialogo, che le toglierebbe il suo merito specifico, e che si addice piuttosto alla collaborazione e al consiglio, possiamo notare come il concetto di tale rapporto, senza escludere quello della responsabilità e della decisione, riservato all’autorità, si arricchisce di elementi non ignoti al costume cattolico, ma ora maggiormente valorizzati, quali il rispetto, la fiducia, l’unione, la collaborazione, la corresponsabilità, la bontà, l’amicizia, la carità . . ., che lo riportano al suo contenuto evangelico ed al suo stile veramente cristiano ed ecclesiale. Dove cioè l’obbedienza si fa filiale, attiva e gaudiosa.

Di questa, dicevamo, ha bisogno la Chiesa, perché non sia reso vano il frutto del Concilio e perché essa, la Chiesa, sia davvero il regno di Dio e la luce delle genti. A voi, Figli carissimi, perciò la raccomandiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 12 ottobre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Fate attenzione: di che vive la Chiesa? Noi ci poniamo oggi questa domanda seguendo la traccia d’un pensiero che, in queste udienze, abbiamo già considerato; il pensiero che si rivolge ai bisogni della Chiesa, con l’intenzione di mettere a profitto la buona volontà, di cui codesta visita al Papa è segno e stimolo, per portare aiuto a quei bisogni della Chiesa, che qui commuovono i cuori credenti e filiali. Di che vive la Chiesa? La questione si dirige verso ciò ch’è principio interiore della sua vita; principio originale, che la distingue da ogni altra società; principio indispensabile, com’è il respiro per la vita fisica dell’uomo; principio divino, che fa del figlio della terra un figlio del Cielo, e che conferisce alla Chiesa la sua mistica personalità: lo Spirito Santo. La Chiesa vive di Spirito Santo. La Chiesa è nata veramente, si può dire, il giorno di Pentecoste. Il bisogno primo della Chiesa è di vivere sempre la Pentecoste.

L’UNIONE DELLA CHIESA E DEI FEDELI

Ascoltate che cosa dice il Concilio: «. . . il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa, e i credenti avessero così per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr.
Ep 2,18). Questi è lo Spirito che dà la Vita, è una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Jn 4,14 Jn 7,38-39)... Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1Co 3,16 1Co 6,19) . . . Egli guida la Chiesa verso tutta intera la verità, la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e la dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti . . .» (Lumen Gentium LG 4).

È nello Spirito Santo che si perfeziona la duplice unione: della Chiesa con Cristo e con Dio, e della Chiesa con tutti i suoi membri, cioè i fedeli. È lo Spirito Santo che vivifica mediante quell’intima azione, che chiamiamo la Grazia, il corpo intero e le singole membra della Chiesa. Siamo tutti persuasi di questa verità teologica della nostra fede, anche se non ci è facile formarci un concetto adeguato della realtà ontologica e psicologica, a cui tale verità corrisponde. Ma a noi per ora basta così, e diciamo: se la Chiesa vive dell’animazione illuminante e santificante dello Spirito Santo, dello Spirito Santo ha bisogno: bisogno primo, bisogno esistenziale, bisogno che non può essere soddisfatto con illusioni, con surrogati: «sine tuo numine nihil est in homine», senza la tua grazia nulla rimane nell’uomo; come dice la bella sequenza di Pentecoste; bisogno universale, bisogno permanente. Qui si potrebbe obbiettare: ma non possiede già la Chiesa lo Spirito Santo? non è già appagato questo bisogno? Sì, certamente la Chiesa già possiede e per sempre lo Spirito Santo: ma, primo, la sua azione ammette gradi e condizioni, per cui la nostra azione è pure richiesta, affinché quella dello Spirito Santo sia libera e piena; e secondo, la presenza dello Spirito Santo può venir meno e può mancare nelle singole anime; per questo si predica la Parola di Dio e si distribuiscono i Sacramenti della Grazia; per questo si prega e si cerca di meritare, ognuno per sé, e ognuno anche per la Chiesa intera, il grande «Dono di Dio», lo Spirito Santo.


FAVORIRE NELLA CHIESA LA SUA VITALITÀ E IL SUO RIGOGLIO

Se perciò vogliamo bene alla Chiesa, la cosa principale che dobbiamo fare è di favorire in essa l’effusione del divino Paraclito, lo Spirito Santo. E se accettiamo l’ecclesiologia del Concilio, la quale dà tanto rilievo all’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, come parimente vediamo nell’ecclesiologia tradizionale della teologia greca, ne dobbiamo accogliere con piacere l’indicazione orientatrice per favorire nella Chiesa la sua vitalità ed il suo rinnovamento, e per allineare su tale indicazione la nostra personale vita cristiana. Dove ci orienta questa stessa indicazione? Verso lo Spirito Santo, ripetiamo; e cioè verso il mistero della Chiesa, verso la comunione vitale, che l’infinita e trascendente bontà del Padre, mediante Cristo, nello Spirito, ha voluto stabilire con l’anima umana e con l’umanità credente e redenta, la Chiesa; verso cioè la ricerca e la conquista di Dio; verso la verità teologica, verso la fede, che ci svela l’ordine religioso della salvezza. Qualcuno ha voluto vedere nel Concilio l’orientamento della Chiesa, per così dire, in senso orizzontale: verso la comunità umana che compone la Chiesa stessa; verso i Fratelli ancora da noi divisi e da noi desiderati e chiamati alla medesima e perfetta comunione; verso il mondo circostante, a cui dobbiamo portare il messaggio della nostra fede e il dono della nostra carità; verso le realtà terrene da riconoscere come buone e degne d’essere assunte nella luce del regno di Dio. Tutto questo è verissimo e bellissimo; ma non bisogna dimenticare l’orientamento, diciamo così, verticale, che il Concilio ha riaffermato come primario per interpretare il disegno di Dio sulle sorti dell’umanità e per dar ragione della missione della Chiesa nel tempo. Dio - il suo mistero, la sua carità, il suo culto, la sua verità, la sua attesa - resta sempre al primo posto. Cristo, che è mediatore fra l’uomo e Dio, è il Redentore necessario e vincolante ogni nostra capacità d’amore e di dedizione. Lo Spirito, che ci fa cristiani e ci solleva alla vita soprannaturale, è il principio vero ed intimo sia della nostra interiorità, che della nostra attività apostolica esteriore.


SIAMO DIRETTI E CONDOTTI ALLA VITA INTERIORE CORROBORATA DALLA GRAZIA

E se noi seguiamo questo incontestabile orientamento, dove siamo diretti? dove condotti? Siamo diretti e condotti alla vita interiore; a quella vita interiore - di raccoglimento, di silenzio, di meditazione, di assorbimento della Parola di Dio, di esercizio spirituale - che sembra venire a noia ad alcuni, (lo diciamo con stupore e con dolore) ad alcuni figli diletti della Chiesa, come se la vita interiore fosse una fase sorpassata, una pedagogia ormai superflua della vita cristiana, che dovrebbe invece essere proiettata al di fuori, nell’esperienza profana e naturalista, che il mondo ci offre, quasi che, abbandonati ad essa e privi dell’energia immunizzatrice e corroborante della Grazia interiore, fossimo con le nostre povere forze capaci di dominarla e di redimerla. No; se vogliamo essere saggi e dare alla Chiesa ciò di cui soprattutto ha bisogno, lo Spirito Santo, dobbiamo essere pronti e fedeli all’appuntamento fissato per il suo vivificante incontro: la vita interiore!

A questa vi guidi e vi conforti la Nostra Benedizione Apostolica.

Gli allievi delle Scuole antincendi

Il Papa è lieto di vederli perché vuol rendere onore alla loro Istituzione, che risponde a necessità di grande importanza; e si felicita con chi ha voluto, con chi dirige la Scuola e con quanti contribuiscono a che essa raggiunga i suoi fini: educare e formare all’adempimento di servizi di grandissima utilità per il civile consorzio, a soddisfare ad evenienze talvolta molto gravi ed urgenti con soccorso adeguato.

Sua Santità esorta i diletti giovani ad assimilare lo spirito della propria Scuola, perché la loro preparazione prima e il lavoro poi abbiano anche una base spirituale. Esigono infatti uno stato d’animo di ardimento, persone votate al coraggio, all’abnegazione, all’eroismo oltre che al senso del dovere, all’amore di Patria, a severa disciplina. Sono, queste, alte virtù che la fede eleva ad un livello degnissimo; nobilita, impreziosisce e rimunera con premi ben superiori a quelle che possono essere le ricompense, la considerazione, la stima degli uomini.

Pertanto con vivissimi auguri per il presente e per il loro avvenire nella società e nelle rispettive famiglie, il Santo Padre invoca su di loro, con speciale affetto, tutte le benedizioni e le grazie celesti.




Mercoledì, 19 ottobre 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Conoscete questa esclamazione del salmo 83 (84): «Quanto sono amabili le tue dimore, o Dio degli eserciti»? Non sorge dai vostri animi, non viene forse alle vostre labbra in questo momento e in questa basilica? non avete voi forse qualche impressione della bellezza della santa Chiesa? Non diciamo ora della bellezza monumentale e artistica di questo grande e magnifico tempio; e non Ci riferiamo nemmeno alla visione spettacolare di questa udienza, sebbene da tale visione possa venire lo stimolo a pensare ed a scoprire la bellezza della santa Chiesa cattolica in se stessa.

Come sorge nella mente questo pensiero? Dalla visibilità della Chiesa. La vera Chiesa, fondata dal Signore è visibile, non solo perché composta di elementi visibili, i fedeli, la struttura e la vita della comunità cristiana, possiede cioè una visibilità materiale, ma soprattutto perché possiede una visibilità essenziale dei tesori spirituali, che Cristo ha dato alla sua Chiesa. «La Chiesa è visibile precisamente come fu visibile il suo storico Fondatore e Capo principale, l’uomo-Dio» (Scheeben, I misteri del crist. 3ª ed., p. 528).

Questa visibilità di ciò che la Chiesa nasconde ed insieme rivela è uno degli aspetti più interessanti, più delicati, e più sorprendenti della vita religiosa cattolica, perché la visibilità interiore ed essenziale della Chiesa non è che un’effusione della sua spiritualità. Visibilità e spiritualità della Chiesa sono due qualità correlative che non devono essere separate nello studio della Chiesa stessa, come non dovrebbero esserlo mai nella vita del popolo cristiano (cfr. Journet, L’Eglise II, 10 ss.). E questo loro mutuo richiamo, questo rapporto, è a noi ordinariamente presentato per due vie: l’una, che possiamo dire intuitiva, ci mostra la spiritualità del tesoro interiore della Chiesa quando l’involucro esteriore, visibile e sensibile, si fa trasparente e ci lascia intravedere e godere qualche cosa della bellezza ineffabile del mistero di luce e di vita, proprio del Corpo mistico di Cristo; ed è per questa via che l’arte, quando possiede il genio del sacro, e quando è veramente arte, cioè offre il suo magico ministero espressivo dello spirituale nel sensibile, si pone a regale servizio della fede; (ecco perché il cattolicesimo è stato e sarà sempre amico e fautore delle arti); l’altra via, che possiamo dire indicativa, intellettiva, ci ricorda, in rispondenza ad un’intenzione divina, come tutto il creato ci parli del Creatore (
Rm 1,20), e come nell’economia dell’Incarnazione sia consentito alla vita religiosa cattolica utilizzare un alfabeto, cioè un modo d’esprimersi e di farsi comprendere, estremamente elementare e vicino all’esperienza comune, servendosi di cose sensibili e familiari per introdurci nel regno misterioso delle realtà spirituali; è la via dei segni (cfr. Guardini, I santi segni). Il segno: questa parola nella nostra dottrina è una parola-chiave, e polivalente.

Voi sapete come su di essa si fondi la dottrina sacramentale; il sacramento è infatti «un segno d’una cosa sacra», non solo, ma avente particolare virtù santificatrice (S. Th. III, 60, 1 e 2); ed anche saprete come questo termine di segno e di sacramento si applica a Cristo stesso, come «immagine di Dio invisibile» (Col 1,15); e ora, dopo il Concilio specialmente, è attribuito alla Chiesa. Dice il Concilio: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento, ossia un segno e uno strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium LG 1 etc.). La Chiesa è il segno sacro che ci esprime e che ci conferisce Cristo. Guardando alla Chiesa noi dobbiamo intravedere Cristo. La visibilità materiale e temporale della Chiesa deve servirci per avere una visione spirituale e intemporale del Signore. La Chiesa non è uno schermo opaco, è un diaframma diafano, che ci abilita a metterci in contatto con Cristo. E questa penetrazione del nostro spirito attraverso la Chiesa diventa normale per chi conosce ed ama la Chiesa, per chi davvero le appartiene e partecipa alla comunione trascendente e totale, ch’essa ci offre. E qualche esperienza emotiva e spirituale di questa via, che a Cristo conduce, noi abbiamo con grande facilità e felicità, quando la Chiesa ci mostra qualche sua «nota» sensibilmente rappresentata: ecco come un’assemblea come questa, che ci dà qualche indizio dell’unità e della cattolicità della Chiesa, possa farci palpitare di giubilo singolare, quasi non solo sapessimo, ma sentissimo che qui è Gesù. Così avviene talvolta quando vediamo la Chiesa in azione, nella celebrazione liturgica specialmente, o nell’esercizio fervoroso della carità: qui è Gesù.

Ma come mai questa trasparenza si rivela di rado? Anzi: come mai che tanta gente vede nella Chiesa un ostacolo, quasi un impedimento, per non dire addirittura una deformazione di Cristo? È noto quanto dagli avversari della Chiesa sia stato scritto su questo tema; e come anche tante singole persone facciano fatica a scoprire nelle forme concrete, in cui la Chiesa si presenta, qualche consolante e folgorante irradiazione cristiana. Leggiamo una testimonianza del nostro tempo; è un’anima non ancora battezzata, che dice della sua avversione alla Chiesa: «. . . la meschinità delle pratiche devote sentiva della muffa degli ambienti male areati. E poi, il fasto esteriore, il gusto del lusso, dell’apparato, la profusione delle devozioni ai santi . . . Qualche settimana prima del mio battesimo mi pareva ancora assai penoso entrare in una collettività così eterogenea, che porta gravi responsabilità nel corso della storia . . . Io conoscevo tanti cattolici spregevoli, amorfi, indifferenti alle ingiustizie commesse sotto i loro occhi . . . eccetera» (cfr. La vie spir. Nov. 1965, p. 602). Quante simili denuncie potrebbero essere citate!

Come mai dunque la Chiesa non mostra la sua virtù di segno, la sua bellezza, la sua prerogativa di presenza di Cristo? Oh! rispondere sarebbe lungo ! Anche il Signore non da tutti fu riconosciuto (cfr. Mt 13,14). Ma possiamo contentarci d’indicare due punti: primo, la Chiesa appare oscura e non diversa dalle cose umane a chi la guarda solo di fuori, a chi non la conosce, a chi non vuol riconoscere in lei un suo segreto trascendente; e secondo, la Chiesa in certi suoi momenti e in certi suoi aspetti non è bella, non è splendida, non è significativa e parlante, perché i suoi figli non sono esemplari e non vivono da veri cristiani. Quale responsabilità, quale colpa hanno talora i figli della Chiesa che non ne riflettono la spiritualità e la santità, e non sono «segni» di Cristo!

Sapete che il Concilio ha applicato questo titolo di «segno» a tutto il Popolo di Dio, a tutti i fedeli? e che così a tutti fa obbligo di «testimoniare» Cristo? lo ha applicato ai Sacerdoti. ai Religiosi, ai Missionari, ai Coniugi cristiani?

Così che tutti siamo invitati a riconoscere e a celebrare nella Chiesa il segno e la bellezza di Cristo; come tutti siamo tenuti a concorrere con la nostra autentica vita cristiana a dare alla Chiesa una più viva ed operante capacità d’irradiare lo splendore salvifico e beatificante di Cristo. L’esortazione è anche per voi, carissimi Figli, che a questa vocazione vogliamo confortare con la Nostra Benedizione Apostolica.





Paolo VI Catechesi 21966