Paolo VI Catechesi 50467

Mercoledì, 5 aprile 1967

50467
Diletti Figli e Figlie!

A ricordo di questa Udienza Noi vi ripeteremo una parola della prima lettera di S. Giovanni: «Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (
1Jn 5,3). L'abbiamo ascoltata nella Messa della scorsa domenica, quando la liturgia della Chiesa era occupata a dare le ultime istruzioni ai neofiti, entrati nella Chiesa mediante il Battesimo, che a loro si conferiva nella notte di Pasqua; ma è parola che si riferisce ad ogni cristiano, e che, mentre svela a lui la realtà drammatica in cui si svolge la vita del cristiano, lo conforta con la certezza ch'egli potrà superare ogni difficoltà, e gliene suggerisce il segreto: la fede. Merita, Figli carissimi, che qui facciamo uno sforzo d'intelligenza per comprendere il significato di una affermazione, che sembra avere un'importanza decisiva nella condotta della nostra vita cristiana. Tre sono le parole in giuoco: vittoria, mondo, fede.

L'ESSENZA E IL VALORE DEL COMBATTIMENTO CRISTIANO

La parola vittoria è relativa all'idea d'un combattimento, che sembra investire sia la condizione, sia la durata della nostra presente esistenza; un'idea punto piacevole all'uomo moderno, che rivolge ideali, desideri, attività a togliere dalla concezione della vita e dal pratico suo svolgimento ogni disturbo, ogni contrasto, ogni presa di posizione forte e militante. La vita comoda, la vita libera, la vita pacifica costituisce il tipo migliore di esistenza, a cui rivolgere aspirazione e ammirazione. Un edonismo fondamentale ispira la filosofia pratica d'ogni individuo. Il benessere gaudente e incurante sembra il vertice delle umane ascensioni. E anche quando si ammette come nobile e necessario lo sforzo, il coraggio, il rischio, non esclusa la lotta, unta tendenza si nota, quella di eliminare il fine (se non il carattere) morale d'un'attività combattiva: si parla di morale senza peccato, si cerca di giustificare ogni sorta di azioni in sede psicologica e sociologica; non si vuole il combattimento né contro il demonio, di cui si nega l'esistenza; né contro il mondo, di cui si celebrano i valori fascinatori; né contro la carne, diventata l'idolo del piacere e della libera esperienza.

Non così la vita cristiana. Essa continua ad asserire la necessità d'un conflitto morale implacabile. Voi tutti, Noi pensiamo, avete rinnovato, in occasione della Pasqua, le rinunce e le promesse battesimali; e tutti ricordate gli insegnamenti di Cristo, il quale non tace l'asprezza della sua sequela, che esige di portare la croce con Lui, e che, per la voce dell'Apostolo, ci ammonisce: «Non vogliate conformarvi alla vita del secolo» (Rm 12,2); e «Non sarà coronato se non colui che avrà combattuto come si deve» (2Tm 2,5). Questa concezione militante della vita cristiana è molto importante, perché la caratterizza, la distingue, la tonifica in modo inalienabile e originale. Ogni cristiano è un soldato dello spirito, è un aspirante alla santità, è un impegnato alla testimonianza.

E donde viene l'ostacolo, che obbliga il cristiano alla resistenza? L'ostacolo è molteplice, perché ciascuno lo incontra dentro di sé, per la disfunzione morale lasciata in noi dal peccato originale: carne e spirito si agitano e si contrastano dentro di noi (cf. Mt 26,41 Ga 5,17; cf. il famoso libretto di Lorenzo Scupoli: Il combattimento spirituale). Poi l'ostacolo lo troviamo spesso vicino a noi, nella convivenza che dovrebbe invece confortarci a virtù (cf. Mt 10,36); e - ciò che ci spaventa - d'intorno a noi, nell'atmosfera spirituale ed invisibile, ma potente ed operante, che oscuramente ci circonda (cf. Ep 6,12). Povera sorte umana, quante difficoltà, quante insidie, quante tentazioni la minacciano! quanta vigilanza è necessaria «per non cadere in tentazione»! (Lc 22,40 Lc 22,46), e quanta preghiera! Non diciamo ogni giorno, con le parole insegnateci da Gesù: «Non c'indurre in tentazione»? (Mt 6,13).

Ma nella frase dell'evangelista Giovanni, che stiamo commentando, l'ostacolo, contro il quale dobbiamo combattere, è un altro: è il «mondo». E qui dovremo fare attenzione al molteplice significato di questo termine, che nel linguaggio di Cristo, riferito dallo stesso evangelista, assume spesso un significato negativo e malefico.


SUPERARE IL «MONDO» OSTILE AL REGNO DI DIO

Mondo può significare il creato, il cosmo: è questo l'immenso universo della creazione, che non avremo mai finito di conoscere e di scoprire, e che può magnificamente servire come scala alla scoperta di Dio (cf. Ac 17,27); noi moderni, noi alunni delle scuole scientifiche, siamo invitati ad una nuova ricerca di Dio, ad una nuova religiosità - non all'ateismo - proprio per questa via, che fedelmente percorsa ci farà conoscere meraviglie non solo naturali, ma anche spirituali. Il mondo è una grande, stupenda, misteriosa parola di Dio.

E mondo può significare l'umanità. È il senso considerato dal Concilio (cf. Gaudium et spes, GS 2), teatro del dramma umano, devastato dal peccato, ma amato e virtualmente salvato da Dio e da Cristo. «Così Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Jn 3,16). È il campo umano in cui si svolge la storia della salvezza.

LA DOTTRINA DI CRISTO VINCE OGNI INSIDIA

Ma vi è un terzo significato del termine «mondo»; ed è il significato cattivo e ostile. Il mondo, in questo senso, è ancora l'umanità, ma quella resa schiava del mistero del male; è la negazione e la ribellione al regno di Dio; è la coalizione delle false virtù, rese tristemente potenti dal loro affrancamento dal fine supremo; è in pratica una concezione della vita deliberatamente cieca sul suo vero destino, e sorda alla vocazione dell'incontro con Dio; uno spirito egocentrista, drogato di piacere, di fatuità, d'incapacità di vero amore. Ed è, tutto sommato, la «fascinatio nugacitatis» (Sap. 4, 12) la seduzione dei valori effimeri e inadeguati alle aspirazioni profonde ed essenziali dell'uomo; una seduzione, che incontriamo ad ogni passo della nostra esperienza temporale, e che ci può essere fatale. Analisi e riflessione da continuare.

Per superarla, diciamo ora, questa seduzione, di che cosa disponiamo? Disponiamo della fede, della sicurezza cioè che Cristo è veramente il Figlio di Dio, e che la concezione della vita che da ciò deriva è vittoriosa di questa terribile insidia. E qui invitiamo i vostri pensieri a sostare, e a ricevere come viatico a questo vittorioso superamento, dopo che insieme avremo recitato la professione della fede cattolica, la Nostra Apostolica Benedizione.



Le corali liturgiche di Francia ...


Mercoledì, 12 aprile 1967

12467

Diletti Figli e Figlie!

La nostra piccola meditazione trae motivo, come di solito, dalla vostra presenza: ecco, Noi sediamo qui, sulla tomba di San Pietro, quasi traendo da lui, non solo l'autorità di cui siamo eredi, ma lo spirito altresì della sua missione, l'esperienza del suo apostolato; e Ci vediamo circondati da voi, desiderosi d'avere da questo incontro e da qualche Nostra parola un conforto alla vostra fede, una luce per la vostra vita.

Volete allora sapere quale strana, ma buona esperienza spirituale Noi pensiamo nasca in Noi da questa conversazione? A Noi pare di leggere nei vostri animi un capitolo della psicologia religiosa del nostro tempo, provocata dal fatto che voi tutti vivete in mezzo ad una società, la quale, per tanti motivi di cui ora non parliamo, mette alla prova la vostra fede. Siete come naviganti in un mare in tempesta; la tempesta dell'incredulità, della irreligiosità, della diversità di opinioni, della libertà e della licenza data alle manifestazioni contrarie alle vostre credenze, allo stile cristiano della vita, a Dio, a Cristo, alla Chiesa. Nulla tanto Ci affligge quanto il vedere sorgere aggressioni, insidie, pericoli per la saldezza e la salvezza dei Nostri Figli. Chi ha cuore di fratello e di padre, come lo deve avere chi è Pastore di anime, vive e soffre in continua e sincera trepidazione, crescente in proporzione del numero dei membri della famiglia cattolica, e in proporzione della violenza, della diffusione, della sottigliezza degli errori e delle seduzioni spirituali e morali circostanti. Questo è noto. Ma ecco il fenomeno strano che in Noi si produce: volendo confortare voi, si comunica, in un certo senso, a Noi il senso del vostro pericolo a cui vorremmo portare rimedio; e viene alla Nostra mente, con la coscienza della Nostra pochezza, il ricordo delle debolezze di Simone, figlio di Giovanni, chiamato e reso Pietro da Cristo.

E allora la meditazione si farebbe lunga, se volesse rievocare la storia e la psicologia dell'Apostolo Pietro, chiamato dal Signore a succedergli nel governo pastorale della Chiesa e nell'ufficio precipuo di «confermare» nella fede i suoi fratelli (cf.
Lc 22,32). Per abbreviare, limitiamoci a queste empiriche osservazioni. La prima debolezza di Pietro e di chiunque è chiamato a seguire il Maestro, la debolezza di tutti, è il dubbio. A chi legge il Vangelo traspare l'incertezza e la gradualità dell'adesione di Pietro al Maestro, che più d'una volta richiamò Pietro alla nuova realtà del regno di Dio: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14,31 Mt 8,26 Mt 6,30). Una debolezza, questa, che ha una sua giustificazione legittima, sia nel processo conoscitivo umano, sia nella natura della verità rivelata, che senza l'aiuto della grazia eccede la capacità intellettiva umana; ma debolezza, che un lume divino vincerà, producendo in Pietro la sua trionfante confessione della messianità divina di Gesù (Mt 16,17); ed in noi la fede.

Altra debolezza di Pietro e nostra: il timore. Quanto spiegabile anch'essa! La vocazione di Cristo è così nuova, è così priva di mezzi terreni, è così esposta alle reazioni d'ambiente, è così avversata dalle potenze del male, che non può non germogliare negli spiriti dei chiamati senza che questi si sentano esposti a rischi e pericoli formidabili. Pietro sperimentò anche questa debolezza, consueta nei figli del regno, e ne fu da Cristo con gli altri Apostoli ripreso (cf. Mt 8,26 Mt 10,28 Lc 12,32 Jn 14,1). Non è anche questa una debolezza comune?

Essa trascina ad una terza forma di debolezza, oggi parimente diffusa, e allora al povero Pietro causa della sua più grave caduta. Voleva nascondersi, voleva camuffarsi, voleva conformarsi all'ambiente, voleva sfuggire le conseguenze della sua devozione a Gesù: e lo rinnegò. Tre volte. E il canto ammonitore del gallo squillò. Povero Pietro! e poveri noi tutti quando vogliamo sottrarci all'impegno cristiano, quando vogliamo adattare e piegare la fede alla mentalità moderna, quando vogliamo sfuggire alla logica della nostra appartenenza alla Chiesa, e cerchiamo una religione modellata sulle opinioni di moda, non escluse quelle dei negatori di Cristo!

Dovremmo accennare anche ad altra debolezza dell'Apostolo Pietro, quella dovuta al suo temperamento generoso e volubile; anche l'entusiasmo può essere una debolezza, quando non si fonda sull'umiltà e sull'aiuto di Dio.

Ma la conclusione è infine consolante. Il Signore avvalorò il suo eletto, e nella professione della fede e dell'amore lo costituì Pastore del suo gregge. La qual cosa - una delle cose più grandi della storia e decisiva per la nostra salvezza - c'insegna che qui ancora, Chi vi parla e voi che ascoltate, possiamo e dobbiamo trovare la virtù che rinfranca la Chiesa di Cristo e noi tutti a superare con sapienza e con fortezza le debolezze proprie del nostro tempo e a rinvigorire con la fede di Pietro la nostra (cf. 1P 3,1 1P 3,4) . Così sia, con la Nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì, 19 aprile 1967

19467

Diletti Figli e Figlie!

Avrete certamente saputo anche voi del conferimento, da Noi compiuto, del santo battesimo l'altra domenica (II dopo Pasqua) nello storico, splendido, restaurato battistero di San Giovanni in Laterano: due nuove creature, Pietro e Paola, sono state da Noi introdotte nella Chiesa di Dio, mentre la grazia di Cristo le rigenerava elevandole allo stato e alla dignità di figli di Dio e di membra di Cristo. Ebbene, abbiamo ascoltato una volta di più, in quella occasione, la grande risposta che è data al ministro del sacramento iniziale della vita cristiana, quando egli, sulla soglia del sacro edificio, domanda: Tu che cosa vieni a chiedere alla Chiesa di Dio? E la grande risposta, semplice e profonda, risuona: la fede; sono venuto a chiedere la fede. Quale parola misteriosa e potente! Stupisce di sentirla pronunciare con tanta sicurezza. Si deve pensare che l'azione dello Spirito Santo è già cominciata, ed ha già maturata la prima fase, la più umana, la più laboriosa, della vocazione dell'uomo al suo più alto destino; tanto che la risposta successiva del brevissimo dialogo, prototipo del dialogo religioso, dice qual è la conseguenza finale della fede, e cioè la vita eterna. Non dice però che cosa sia la fede; la suppone, e poi la inviterà ad un'aperta professione sottoponendo il candidato al battesimo ad un esame (ad uno scrutinio, dice l'antica liturgia): Credi tu?... eccetera; ma la definizione concettuale della fede non viene proferita.

NON VAGO SENTIMENTO RELIGIOSO . . .

Ora questa definizione è molto importante per gli uomini del nostro tempo, per il fatto che dal concetto che uno si fa della fede dipende poi tutta la sua vita religiosa ed banche in gran parte la sua vita morale. È importante e difficile, perché, innanzi tutto, sotto il nome di fede si classificano cose molto diverse. Non è qui che Noi faremo una lezione precisa sui vari significati della parola «fede»; Ci basta accennare a tre principali, in uso nel linguaggio corrente.

Il primo è quello che assimila semplicemente la fede col sentimento religioso, con la credenza vaga e generica dell'esistenza di Dio e d'un qualche rapporto fra Dio e la nostra vita. Fede equivale religione, nel senso più largo di questo termine, e può comprendere le nozioni più elementari della vita spirituale e morale riferita alla Divinità. Trascuriamo ora l'impiego che si fa della parola «fede» per indicare certe ferme convinzioni personali relative ad una qualsiasi realtà d'ordine naturale (per es.: fede nella democrazia, fede nell'agricoltura, fede nell'avvenire, ecc.). Ma più spesso, nel linguaggio ordinario, si dice che uno conserva la fede, quando ancora ammette certe formule religiose ben poco precise, che sono come un sedimento residuo d'una istruzione catechistica dimenticata e d'una osservanza religiosa decaduta, ma dotata di qualche occasionale reviviscenza. È questa purtroppo la fede di molta gente del mondo odierno, una fede d'abitudine, una fede convenzionale, una fede non capita e poco praticata, una fede incoerente col resto della vita, e perciò noiosa e pesante. Non è del tutto morta, ma non è per niente viva.

. . . MA RISPOSTA AL DIALOGO DI DIO

Poi la fede ha un altro significato, suscettibile di cento spiegazioni diverse, dimostrative della ricchezza spirituale del suo contenuto, ma in fondo univoche, almeno tendenzialmente, nel loro fondamento teologico. Fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio, alla sua Parola, alla sua rivelazione. È il «sì», che consente al Pensiero divino d'entrare nel nostro; è l'adesione dello spirito, intelletto e volontà, ad una verità che si giustifica non per la sua evidenza diretta, scientifica, come si dice, ma per l'autorità trascendente d'una testimonianza, a cui non solo è ragionevole aderire, ma intimamente logico per una strana e vitale forza persuasiva, che rende l'atto di fede estremamente personale e soddisfacente. Questo è uno dei punti più interessanti e più studiati della fede. Si dirà allora che la fede è un'attitudine dell'anima, una virtù, che ha le sue radici nella psicologia umana, ma che deriva la sua validità da una azione misteriosa, soprannaturale, dello Spirito Santo, della grazia, infusa in noi, in via normale, dal battesimo: quella virtù, che il neofita va appunto a chiedere al ministero della Chiesa, al sacramento della fede, la quale è infatti quella capacità spirituale, che ci fa cogliere, come corrispondenti alla realtà, le verità, che la Parola di Dio ci ha rivelate. È perciò la fede un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente; è l'atto di Abramo che credette a Dio (Gen. 15, 6), e che da ciò trasse salvezza: «Gli fu computato a giustizia»; è un atto insieme di convinzione e di fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna oramai la sua maniera di vivere. È la sua migliore offerta a Dio, a Cristo Maestro, alla Chiesa custode e interprete del messaggio divino; ed è la sua scelta pili personale, più intima, più caratterizzante più decisiva; è il passo con cui il fedele varca la soglia del regno di Dio, e entra nel sentiero del suo eterno destino. Capite che cos'è la fede? Com'è interiore e propria di ciascuno spirito, eppure a tutti offerta e possibile? Come è importante e fondamentale per la religione e per la vita?

LA DOTTRINA IN CUI CREDIAMO

Queste poche e semplici considerazioni ci fanno pensare al lato soggettivo della fede; ma questo nome benedetto si riferisce anche ad un complesso di dottrine, di dogmi oggettivi; fede non è solo l'atto per cui noi crediamo; è anche la dottrina a cui noi crediamo; è ciò che abitualmente chiamiamo il «credo», quello che noi canteremo tra poco, alla fine di questa Udienza. Non diciamo di più, per ora. Portiamo con noi la famosa definizione della Lettera agli Ebrei: «La fede è la realtà di cose sperate, e convinzione di cose che non si vedono» (11, 1), per aver tema a pensare e ripensare ciò che qui San Pietro, dalla sua tomba e dalla sua successione, con tutta la Chiesa viva, perennemente predica: la nostra fede. Con l'Apostolica Benedizione.


Martedì, 25 aprile 1967

25467
Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita coincide con la festa d'un santo, che Ci è molto caro: San Marco Evangelista. Perché molto caro? Perché, secondo un'antichissima testimonianza del secondo secolo, quella di Papia, riportata da Eusebio nella sua Storia della Chiesa (III, 39, 15), Marco «era stato l'interprete di Pietro». E così tutta la tradizione successiva (cf. Lagrange, Introdud. XXI, ss.), tanto che San Girolamo, nel suo libro sugli Scrittori ecclesiastici, scrive: «Marco, discepolo e interprete di Pietro, pregato dai fratelli (della comunità) di Roma, scrisse un breve Vangelo secondo quanto egli aveva ascoltato Pietro riferire» (c. 8). E che Pietro avesse particolare affezione a Marco ce lo dice, alla fine della sua prima lettera, Pietro stesso, che scrivendo da Roma ai cristiani dell'Asia Minore, verso gli anni 63-64, nomina solo Marco e gli dà il titolo di «figlio mio» (
2P 5,13); titolo che indica un'affezione di lunga data, spirituale, e forse anche fondata su qualche parentela familiare (cf. Hophan, Gli Apostoli, 314, ss.).

PROFONDA BENEVOLENZA DEI PRINCIPI DEGLI APOSTOLI

La storia di Marco (di Giovanni, suo nome ebraico, detto Marco, nome latino; cf. Ac 12,12) è interessantissima; s'intreccia forse con quella di Gesù, nell'episodio del ragazzo che, nella notte della cattura di Lui nell'orto degli ulivi, lo seguiva, dopo la fuga dei discepoli, coperto da un lenzuolo - per curiosità? per devozione? - ma quando coloro che avevano arrestato Gesù, fecero per afferrarlo, il ragazzo lasciò loro nelle mani il lenzuolo, e sgusciò via da loro (Marc. 14, 52). Ma soprattutto la storia di Marco si fonde con quella degli Apostoli: Paolo e Barnaba, specialmente, che egli segue a Cipro nella prima spedizione apostolica (era cugino di Barnaba), e che poi, forse stanco, forse impaurito, giunto a Perge, nella Pamfilia, egli abbandona per ritornarsene solo da sua madre, a Gerusalemme (Ac 13,13). Paolo ne fu addolorato; tanto che non lo volle compagno, tre o quattro anni dopo, nel secondo viaggio, nonostante che Barnaba intercedesse; così che Barnaba e Marco lasciarono Paolo con Sila per navigare a Cipro (Ac 15,37-40). Ma poi Paolo deve aver perdonato a Marco la sua prima infedeltà nella fatica apostolica, perché tre volte lo nomina amorevolmente nelle sue lettere (Phm 1,24 Col 4,10 2Tm 4,11).

E dei rapporti fra l'apostolo Pietro e Marco, oltre a quelli accennati, poco sappiamo; ma ci basta qui far nostra la conclusione della tradizione e degli studi moderni: il Vangelo di San Marco è una riproduzione scritta della catechesi narrativa dell'apostolo Pietro a Roma; esso riflette, senza intenti letterari, ma con grande semplicità e vivezza di particolari, i racconti di S. Pietro circa le memorie di lui; la sua documentazione è principalmente, se non la sola, la parola stessa dell'Apostolo, riportata come la relazione genuina d'un testimonio oculare, che conserva di Gesù la più immediata impressione.

LA RIPRODUZIONE SCRITTA DELLA CATECHESI DI PIETRO

La figura di San Pietro, nel secondo Vangelo, quello appunto di Marco, appare con qualche particolare risalto, sebbene non mai adulata, ma meglio delineata, anche nella descrizione dei suoi falli; ma è la figura del Maestro, quella «di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marc. 1, 1), che campeggia umile e grande insieme, semplice e prodigiosa, meravigliosa, avvincente. Non è una figura idealizzata, descritta con fantasia d'artista; è una figura veduta, quella veduta da Pietro. «Raccontando la storia del Cristo, egli la viveva di nuovo. Egli udiva parlare il Signore, lo vedeva muoversi ed agire» (Huby, S. Marco, XXII).

Perciò San Marco ci ha lasciato in brevi pagine disadorne e non sempre ordinate, ma estremamente sincere e vive, l'immagine di Cristo, come San Pietro la ricordava e la portava scolpita nella semplicità fedele, umile ed entusiasta del suo cuore, realisticamente. Ecco perché Ci è caro San Marco: egli ci riporta il profilo di Cristo, nello sfondo del disegno sinottico primitivo (cf. Vannutelli), visto da San Pietro. E San Pietro, offrendoci la visione sensibile e scenica di Cristo, c'introduce alla conoscenza di Cristo quale veramente è; una conoscenza che solo la fede in qualche modo può afferrare e penetrare.

L'INSEGNAMENTO PER I FEDELI DI OGGI

Ed ecco anche perché a voi, diletti Figli e Figlie, che oggi vediamo in così grande numero ed in tanto fervore intorno alla tomba di San Pietro, raccomandiamo ciò che più preme, ciò che più vale: la conoscenza di quel Gesù, che Pietro qui a Roma, per il mondo intero, annunciò; l'adesione a quella fede in Cristo Signore, per amore del Quale egli fu apostolo e fu martire; fede che qui potete attingere, dove l'autenticità evangelica la sigilla, e dove essa si perpetua nella sua nativa e limpida veracità e nella sua coerente e secolare fecondità nel magistero della Chiesa ed è simboleggiata dalla stabilità della pietra, che da Cristo all'Apostolo fu data in nome e alla Chiesa per fondamento.

Poco altro sappiamo di San Marco; da Roma egli si recò in Egitto e fu il fondatore riconosciuto della Chiesa di Alessandria; le sue reliquie, Venezia gloriosa e devota le custodisce; ma il suo Vangelo di qua soprattutto rifulge, dove Pietro e Paolo, suoi maestri, fecero di Marco l'Evangelista contrassegnato dal simbolo del leone. Un atto di fede in Cristo, e un atto d'amore a Lui sono attesi da voi, Figli carissimi, per dare a questa Udienza il suo pieno significato ed il suo merito; ed è ciò che vi invitiamo a fare col Credo, che alla fine dell'udienza, prima di congedarvi con la Nostra Benedizione Apostolica, insieme noi canteremo.


Mercoledì, 3 maggio 1967

30567

Diletti Figli e Figlie!

Oggi il breve discorso, che Noi siamo soliti inserire nello svolgimento dell'udienza generale della settimana, si limiterà a dare a voi per primi l'annuncio d'un Nostro prossimo pellegrinaggio a Fatima, per onorare Maria Santissima e per invocare la sua intercessione a favore della pace della Chiesa e del mondo. Sarà un pellegrinaggio rapidissimo (i Nostri viaggi hanno questo carattere della rapidità e della brevità, che i mezzi moderni di trasporto Ci concedono, e che gli impegni del Nostro ufficio apostolico Ci impongono). È fissato, a Dio piacendo, per sabato 13 maggio, vigilia di Pentecoste, e in forma del tutto privata. La partenza avverrà al mattino, per aereo, diretto ad un campo d'aviazione vicino a Fatima, dove celebreremo la S. Messa, diremo una parola ai Fedeli colà adunati, saluteremo quanti avremo occasione di incontrare, e verso sera riprenderemo il volo per essere di nuovo a Roma durante la notte.

Voi immaginate quali ragioni Ci abbiano indotto a intraprendere questo pellegrinaggio. Fra tali ragioni la prima è quella dell'autorevole, ripetuta, cortese pressione dell'Episcopato Portoghese, il quale, forte del desiderio del Signor Cardinale Cerejeira, Patriarca di Lisbona, dell'appoggio del Signor Cardinale da Costa Nuñes (che abbiamo nominato Nostro Legato per presiedere alle prossime celebrazioni di Fatima), e amabilmente interpretato da Monsignor Pereira Venancio, Vescovo di Leiria, è riuscito a rendere per Noi obbligante l'invito ad intervenire almeno con un breve atto di presenza alla commemorazione del cinquantesimo anniversario, che si festeggia proprio in questo mese, delle apparizioni della Madonna a Fatima, non che a quella del venticinquesimo anniversario della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria, compiuta da Papa Pio XII, di venerato ricordo.

Ma il motivo spirituale, che vuol dare a questo viaggio il suo proprio significato, è quello di pregare, ancora una volta, e più umilmente e vivamente, in favore della pace.

Ci sembra di dovere alla causa della pace questo Nostro singolare atto di religiosa impetrazione. È causa così grande e così bisognosa di sempre nuovo interesse, che Noi non esitiamo a tributarle un altro segno particolare della Nostra pastorale sollecitudine.

Ci sta infatti molto a cuore la pace interiore della Chiesa, alla quale Ci preme sia assicurato il generoso fermento del Concilio Ecumenico nell'integrità dell'autentica fede, nella coesione della carità e della disciplina ecclesiale, nel fervore dell'espansione apostolica per la salvezza del mondo e nella sincera ricerca d'avvicinamento ecumenico con quanti sono insigniti del nome cristiano. E non meno Ci sta a cuore la pace civile e sociale nel mondo. Sì, la pace dell'umanità. Noi osserviamo come questo nome benedetto, questa causa suprema della pace penetri sempre più nella coscienza degli uomini, come un postulato indispensabile d'ogni benessere e d'ogni progresso, e come un coronamento sopra ogni cosa desiderabile di tutti gli sforzi rivolti a dare all'uomo una vita degna, nella verità, nella giustizia, nella libertà e nell'amore (com'ebbe a proclamare il Nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII). Nessuno ripudia la pace, in linea di principio; chi la ripudiasse di proposito, si costituirebbe da sé nemico dell'umanità. Così vediamo che tante iniziative di Uomini responsabili e autorevoli, di Stati, di Enti internazionali, di libere associazioni, di organi dell'opinione pubblica si muovono alla ricerca, al consolidamento, alla promozione della pace. È questo uno degli aspetti migliori della storia contemporanea; Noi lo ammiriamo, Noi lo incoraggiamo.

Ma nello stesso tempo vediamo insorgere ostacoli formidabili non solo allo sviluppo della pace, il quale, come abbiamo scritto nella Nostra recente Enciclica, reclama provvedimenti e rimedi molteplici e gravi, ma alla stabilità stessa della pace presentemente vigente nel mondo. L'ideale della concordia universale e del primato del bene comune, che la tragica esperienza della guerra e la paura di altra peggiore avevano acceso sul panorama del nostro secolo, sembra svanire in un sogno irrealizzabile. È questo che Ci rende trepidanti ed afflitti. Una volta ancora la storia umana dovrà forse documentare la parola della nostra liturgia, echeggiante il Vangelo, che il mondo non è capace di darsi la pace, quella vera e fraterna, quella sicura e durevole? (cf. Colletta della Messa per la pace, e
Jn 14,27). È così? È così? Il mondo è condannato a disperare di sé? Un fatalismo scettico dovrà guidare le sorti dell'umanità, e rinunciare al grande, impellente dovere di scongiurare a tempo l'immane sciagura d'una guerra «scientifica», cioè per tutti orrendamente micidiale? Ci dovremo accontentare dei tentativi, finora sterili, per mettere fine al conflitto nel Vietnam, che tutti tiene in ansia e in dolore; ovvero vi è altro da fare? Indubbiamente vi è altro da fare. A questo proposito Noi vogliamo ancora sperare che le nuove proposte di trattative per una composizione onorevole del conflitto, la quale assicuri la libertà dell'una e dell'altra parte contendente, non siano respinte, ma siano piuttosto studiate e finalmente accolte, favorite come possono essere da imparziali mediazioni e presidiate da autorevoli garanzie per il bene di tutto il Popolo vietnamita, sia dell'una che dell'altra regione, e per l'equilibrio ordinato e pacifico di tutto il Sud-Est Asiatico. Ma intanto che cosa si fa?

Lasciando a chi spetta il giudizio e l'azione sul piano della causalità temporale, Noi, senza perdere la fiducia negli uomini, ricorriamo alla speranza, che nasce da un'altra causalità, quella non mai stanca, non mai lontana, della bontà di Dio che ci è Padre; e per meritare l'intervento risolutore di questa misteriosa e provvida causalità, ecco che Ci rimettiamo in condizione di sperimentarne ancora una volta l'ineffabile e onnipotente assistenza; Ci rimettiamo in preghiera.

Ed a Colei, che per l'incolumità di questo nostro mondo moderno ha ancora mostrato il suo materno volto dolce e luminoso ai fanciulli, ai poveri, e ha raccomandato come rimedi sovrani la preghiera e la penitenza, Noi ricorriamo. Questa è la ragione del Nostro pellegrinaggio.

AccompagnateCi con l'adesione dei vostri cuori e delle vostre orazioni.

E, sicuri di ciò, paternamente vi benediciamo.


Mercoledì, 10 maggio 1967

10567

Diletti Figli e Figlie!

Ai nostri visitatori nell'Udienza della precedente settimana Noi abbiamo annunciato il Nostro pellegrinaggio a Fatima, che, a Dio piacendo, compiremo sabato, 13 maggio, molto velocemente, con sincero proposito di compierlo, secondo il suggerimento della Ma,donna stessa, in spirito di penitenza e di preghiera, per i bisogni della Chiesa e del mondo, specialmente in ordine alla pace. A voi oggi diremo che, per questa occasione, Ci disponiamo a pubblicare un'Esortazione, rivolta a tutta la Chiesa, al culto e all'imitazione di Maria Santissima: uscirà sabato, nel giorno stesso del Nostro viaggio, per metterne in maggior luce il significato religioso e perché sia tributato alla Madonna, in modo migliore di quanto il brevissimo tempo del Nostro soggiorno a Fatima Ci consentirà di fare, un omaggio di filiale pietà, secondo la dottrina e lo spirito del recente Concilio Ecumenico.

LA VERA DEVOZIONE A MARIA

E, seguendo il filo dei pensieri circa la fede, sui quali si soffermano ora questi Nostri familiari colloqui settimanali, richiameremo alla vostra attenzione due parole. Troviamo la prima nel paragrafo 67 del capitolo VIII della ormai celebre Costituzione conciliare Lumen Gentium, sulla Beata Vergine, dove è dichiarato questo principio: «Si ricordino i fedeli che la vera devozione non consiste né in uno sterile e passeggero sentimento, né in una certa vanta credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio e siamo spinti da filiale amore verso la Madre nostra e all'imitazione delle sue virtù». Noi pensiamo che questa sia la buona via, l'unica sicura, per promuovere il nostro culto, la nostra spiritualità in ordine alla Madonna Santissima. È noto come questo santo e benedetto nome di Maria sia divenuto oggi, in un certo senso, come quello di Cristo, «signum cui contradicetur», bersaglio di contraddizione (
Lc 2,34): vi è chi esalta, in modo talvolta eccessivo, oltre i limiti delle debite proporzioni dottrinali, o cultuali, che innestano la pietà mariana armonicamente nel quadro teologico e liturgico, proprio della Chiesa cattolica; e vi è chi deprime e impugna, come indebita, come soverchiante il culto a Cristo solo dovuto, la devozione a Maria. A quest'ultimo riguardo è consolante osservare come molti Fratelli cristiani, ancora da noi divisi, guardino con maggiore serenità ed obiettività alla dottrina cattolica sulla Madonna; non è più per loro l'«eresia cattolica», anche se per essi il dogma mariano costituisce ancora uno dei maggiori ostacoli all'unione nell'unica fede con la Chiesa cattolica. In questi ultimi anni la controversia mariana s'è fatta più calma nel tono, più dottrinale nel contenuto: e, per quanto Ci riguarda, Noi siamo convinti che la fede, sia come virtù che ci abilita a riconoscere vera la rivelazione divina interpretata e insegnata dal magistero ecclesiastico, sia come dottrina obiettiva, a cui ogni fedele deve aderire, offra la luce, la misura, il gaudio del nostro culto alla Madre di Cristo, ch'è perciò, sotto diverso aspetto, Madre di Dio e Madre nostra (cf. R. Laurentin, La question mariale).

«TE BEATA, CHE HAI CREDUTO!»

L'altra parola, che richiama la fede accanto al nome soave e regale di Maria, è quella che ci propone la Madonna come esempio di fede (cf. Lumen Gentium, LG 58 LG 63). E su questo, se la brevità e la semplicità del Nostro discorso non Ce lo impedissero, Ci piacerebbe aprire una lunga meditazione, quella sulla fede della Madonna, in sé ed in ordine alla nostra filiale imitazione che subito appare quanto mai doverosa e feconda.

Una circostanza molto importante va rilevata nella narrazione evangelica relativa a Maria: Ella fu certamente illuminata interiormente da un carisma di luce straordinario, quale la sua innocenza e la sua missione le dovevano assicurare; traspare dal Vangelo la limpidezza conoscitiva e l'intuizione profetica delle cose divine che inondavano la privilegiata sua anima. Ma tuttavia la Madonna ebbe la fede, la quale suppone non l'evidenza diretta dell'a conoscenza, ma l'accettazione della verità per motivo della parola rivelatrice di Dio. «Anche la Beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede», dice il Concilio (ibid. LG 58). È il Vangelo che ne indica il meritorio cammino, che Noi ricorderemo e celebreremo con il solo elogio di Elisabetta, elogio stupendo e rivelatore della psicologia e della virtù di Maria: «Te beata, che hai creduto!» (Lc 1,45). E potremmo trovare la conferma di questa primaria virtù della Madonna in quante pagine il Vangelo registra ciò ch'Ella era, ciò ch'Elia disse, ciò ch'Ella fece, così da sentirci obbligati a sedere alla scuola del suo esempio, e ma trovare negli atteggiamenti, che definiscono l'incomparabile figura di Maria davanti al mistero di Cristo, che in Lei si realizza, le forme tipiche per gli spiriti che vogliono essere religiosi, secondo il piano divino della nostra salvezza; sono forme di ascoltazione, di esplorazione, di accettazione, di sacrificio; e poi ancora di meditazione, di attesa e d'interrogazione, di possesso interiore, di sicurezza calma e sovrana nel giudizio e nell'azione, di pienezza infine di preghiera e di comunione, proprie, sì, di quell'anima unica piena di grazia e avvolta dallo Spirito Santo, ma forme tutte altresì di fede, e perciò a noi vicine, da noi non solo ammirabili, ma imitabili.

Chiediamo, Figli carissimi, a Maria questo dono supremo, la fede; questo dono, oggi tanto più prezioso quanto meno custodito e valutato; questo dono, che ci dà modo di assimilarci alla Vergine più d'ogni altro, recando esso in noi quel Verbo di Dio, che nel suo seno s'incarnò; quel dono che dal crepuscolo di questa vita presente deve condurci all'aurora del giorno eterno.

Lo auguriamo, con la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 17 maggio 1967


Paolo VI Catechesi 50467