Paolo VI Catechesi 21667

Mercoledì, 21 giugno 1967

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LA FEDE PRINCIPIO DEI NOSTRI RAPPORTI CON DIO

Diletti Figli e Figlie!

Parliamo ancora della fede, come da qualche tempo siamo soliti a fare in questo umile e breve colloquio settimanale, È oggi molto importante, per tutti, parlare della fede: la fede è il principio dei nostri autentici rapporti con Dio; è il criterio logico e l'energia spirituale, entrambi rinvigoriti, che devono regolare l'orientamento spirituale e pratico della nostra vita (iustus ex fide vivit); la fede è la nostra fortuna, che ci qualifica cristiani e che ci assegna il nostro posto di credenti in mezzo all'umanità priva di questa scienza di Dio e dell'uomo; la fede è il nostro conforto nella risoluzione dei problemi fondamentali dell'esistenza, la nostra sicurezza, la nostra consolazione; poi la fede è il nostro primo dovere, davanti a Dio che parla e vuole che noi gli crediamo; davanti alla Chiesa maestra, che espone la dottrina della fede e che assiste i suoi figli nel conoscerla e nel tradurla in preghiera ed in opera; e davanti al mondo che ci domanda ad ogni passo: Tu ci credi? e attende da noi la testimonianza, di cui oggi spesso si parla.

Dicevamo, altra volta, appena accennando, delle difficoltà, che l'uomo d'oggi incontra davanti alla fede. Ma vi è una difficoltà, o meglio una condizione di fatto, che sempre espone l'uomo al pericolo di non avere la fede, perché la fede, nel suo vero significato teologale, è un dono, un dono di Dio. È la dottrina di. S. Paolo, che insegna: «Voi siete stati salvati per grazia mediante la fede; e ciò non è da voi, ma è dono di Dio» (
Ep 2,8); ed è il grande insegnamento di S. Agostino, il quale dimostra che anche l'inizio della salvezza è opera della grazia, quando egli scrive: «Fidem, qua christiani sumus, donum Dei esse . . .» la fede, che ci fa cristiani, è dono di Dio (De praedestin. sanctorum, P.L. 44, 961); e sarà l'insegnamento della Chièsa ripetuto dai suoi Concili (cf. Denz.-Schoen., DS 375 (178); DS 1553 (813)) e dai suoi maestri, da S. Tommaso, per esempio, il quale afferma che nemmeno il miracolo, per se, è causa sufficiente della fede (S. Th. ): per credere occorre un principio interiore, che non può venire se non da Dio; occorre il «lumen fidei» (ibid. 1, 4 ad 3), una luce interiore che dispone la mente ad assentire alle verità rivelate da Dio; è la virtù in noi infusa dal battesimo.


NECESSARIA LA NOSTRA COOPERAZIONE PER LA SALVEZZA

Questa gratuità della fede, tutta dipendente da Dio, sembra annullare l'opera dell'uomo, e quasi insinuargli un rassegnato e inerte fatalismo, che tutto attende da Dio e nulla offre di suo. Ma così non è. Davanti al mistero che circonda l'azione divina a riguardo della nostra salvezza non vengono meno le nostre responsabilità, non è annullata la nostra collaborazione. Dio offre, a noi l'accettare. La salvezza, come ancora insegna il Dottore della grazia, S. Agostino, non è raggiunta «nisi volentibus nobis», senza che noi vogliamo (ibid. 965).

Questa dottrina apre un vastissimo campo di considerazioni sul dramma della fede: perché molti non credono? come possono salvarsi quelli che non hanno la fede? e quali sono i nostri doveri verso questo dono divino? come si ottiene? come si conserva? quali disposizioni nei nostri animi corrispondono al disegno di Dio di collegarsi con noi e di salvarci mediante la sua Parola, e quella accettazione della sua Parola, che si chiama la fede?

Voi comprendete quanto studio richiederebbero le risposte a questioni così gravi e così complesse. Noi qui diremo semplicemente, primo, che bisogna davvero considerare la fede come grande, felicissimo dono di Dio, perché esso è il primo segno, il primo regalo della carità divina verso di noi. L'amore di Dio si manifesta a noi dapprima con la vocazione alla fede. La sua Parola è l'espressione della sua Carità. Non potremo mai incontrarci effettivamente col pensiero salvifico di Dio, se non ascoltando la rivelazione della sua Verità. La fede è in Dio una chiamata d'Amore. E dev'essere da parte nostra una prima fondamentale risposta d'amore. E la nostra fortuna, è la nostra felicità, è la chiave del nostro destino. Bisogna perciò fare grande conto della fede! Quale poca saggezza dimostrano coloro che si concedono gli atteggiamenti più spregiudicati, più fatui, più irresponsabili davanti alla questione della fede. Purtroppo grande parte della gente giudica questa questione con estrema leggerezza, con incosciente volubilità, non pensa ch'è questione capitale. La fede richiede, sì, una libera adesione; ma appunto per questo impegna ad una riflessione ponderata e virile. L'uso della libertà non è un giuoco irrilevante. Definisce l'uomo nella sua grandezza e nel suo destino.


CERTEZZA E GAUDIO SPIRITUALE

Ed ecco allora un secondo dovere, dopo quello della giusta valutazione e della custodia, verso la fede: la ricerca, cioè la conoscenza dei termini in cui il problema della fede si pone, sia circa le verità da credere e sia l'atto spirituale, logico, psicologico e morale, a noi richiesto per credere, sempre ricordando che la fede non mortifica il nostro pensiero, anche se non ne soddisfa il naturale processo, ma lo abilita ad una conoscenza, ad una certezza, ad un gaudio spirituale di grado superiore a quello normale.

E accenneremo ad un terzo dovere, quello di pregare per avere, per conservare, per accrescere la fede. Il rapporto fra fede e preghiera dovrebbe essere esaminato con grande cura: e lo sarebbe certo con grande soddisfazione. «Bisogna rendersi ben conto che anche la fede (soggettiva) è vita, e come tale ha le sue evoluzioni e la sua storia. Non è una conoscenza ferma, stabilita una volta per tutte, comunque vada Ia vita, così come si conosce la tavola pitagorica, quando la si sia imparata . . . La fede si alimenta con le forze dello spirito e del cuore, col giudizio e con la fedeltà, vale a dire con tutta la vita interiore . . . La fede deve perseverare e con lei la preghiera» (Guardini, Introd. alla preghiera, p. 187).

Ed è ciò che Noi vi raccomandiamo, Figli carissimi, affinché quel prezioso dono di Dio, ch'è la fede, sia perseverante, sia forte, sia attivo, sia gioioso nei vostri animi; con la Nostra Apostolica Benedizione.


Professori e studenti della facoltà teologica di Salonicco (in francese)




Mercoledì, 28 giugno 1967 INCOMPARABILE TESTIMONIANZA

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Diletti Figli e Figlie!

Domani la Chiesa celebra la festa dei Santi Pietro e Paolo, a Roma, che custodisce le tombe dei due Apostoli, giustamente solenne, e quest'anno ancor più, a causa della celebrazione centenaria del loro martirio. Perché è da notare che la festa ha per motivo la «passio», cioè la morte, cioè il martirio di questi primi e maggiori annunciatori del Vangelo. Noi siamo abituati a questo uso della Chiesa, il quale lega il ricordo dei seguaci esemplari ed eroici di Cristo più che alla loro vita e alla loro storia, alla loro morte; e sappiamo che l'origine del culto dei Santi nella Chiesa è da cercare nell'intenzione di onorare e di invocare colui che per il nome di Cristo ha dato, in modo cruento, la propria vita. Un fatto di sangue, una tragedia, esecranda per la meditata ingiustizia di chi la compie, e pietosissima per l'inerme innocenza di chi la, subisce, è l'oggetto della memoria, sempre commossa, sempre pia, della Chiesa; la quale tuttavia non arresta il suo pensiero al delitto commesso e subito, ma ne cerca il valore morale, e cioè l'esempio sia di fortezza, che di mansuetudine, il quale traspare dalla morte commemorata; ed ancor più la Chiesa osserva e celebra nell'eroe ricordato il significato spirituale, il perché religioso di quella uccisione, e lo chiama testimonianza, lo, chiama martirio. Il martirio costituisce così un fatto relativo alla fede; esso è stato sofferto a causa della fede, e si traduce perciò in un attestato in favore della fede.

NECESSITÀ DI UNA PROFESSIONE RELIGIOSA FRANCA E COMPLETA

La considerazione di questo aspetto della festa dei santi Apostoli, celebrati innanzi tutto perché martiri, si presta a molti studi e a vari pensieri, che al Nostro scopo pratico di questo colloquio settimanale, possono ridursi ad una semplice, ma importante osservazione: la fede comporta un pericolo, comporta un rischio, forse comporta un attentato alla propria tranquillità e alla propria incolumità.

Ecco un altro aspetto che rende difficile la fede; ed oggi, tacitamente e intimamente risoluti, come siamo, a non volere fastidi, a non affrontare molestie e danni a causa delle nostre idee, la difficoltà si fa molto grave. Raramente siamo disposti a batterci per dei principi, non legati a immediati interessi; raramente esponiamo la nostra persona al giudizio altrui, tanto meno alle altrui vessazioni; ci piace pensare per conto nostro ciò che non incontra critiche e pericoli; e nella conversazione sociale ci piace facilmente aderire senza sforzo all'opinione pubblica, ovvero ci torna comodo dar ragione al più forte, anche se non è il più ragionevole; faci!mente diventiamo gregari e conformisti; ed in fatto di religione non vorremmo mai ch'essa ci procurasse delle noie; vorremmo anzi spesso una religione che ci mettesse al riparo d'ogni malanno in questa vita e in quella futura. La Chiesa, allora, organo della religione, dovrebbe concepirsi come un sistema di assicurazione spirituale, e per di più, se possibile, di qualche utilità temporale. E vogliamo molto spesso essere in sintonia con gli altri; aderiamo facilmente oggi ad un «pensiero di massa».

IL SOMMO DOVERE DELLA VITA: ADERIRE A DIO

Questa tendenza all'adesione ad un pensiero comunitario può essere molto buona e molto nociva a seconda che tale pensiero è o non è conforme alla verità: e su questo punto la riflessione critica, o la guida d'un magistero saggio può essere molto importante. Ma di solito chiamiamo «rispetto umano» l'istinto ad evitare lo sforzo d'avere un pensiero personale da difendere, e a schivare la responsabilità e l'affermazione delle proprie convinzioni e delle proprie azioni; e questa è una debolezza, talora una ipocrisia, e qualche volta viltà.

Per ciò che ci riguarda occorre, Figli carissimi, ristabilire una prima persuasione: la fede è una forma di pensiero che deve profondamente occupare la nostra mentalità, la nostra psicologia, la nostra personalità. Essere credenti significa qualche cosa di molto serio, qualche cosa di veramente nostro, di intimo, di personale, di decisivo. Dal giorno in cui la nostra vita ha incontrato Cristo (fu il giorno del nostro battesimo, o della nostra conversione), essa è stata incorporata a Lui; essa ha una sola fisionomia, una sola legge dominante: essere cristiana, pena la decadenza, pena il tradimento, non solo verso Cristo, ma altresì verso noi stessi, verso la nostra coscienza, verso la nostra vita.

Questo è ciò che hanno compreso le generazioni veramente cristiane: qual è il sommo valore della vita, per non dire insieme il sommo dovere? È quello di aderire, mediante Cristo, a Dio, che è la Vita, non soltanto in Sé, ma anche per noi. Aderire a Dio, alla Vita vera, è ormai la questione principale per noi; la fede perciò deve valere per noi, in caso di confronto, o di conflitto, più della nostra vita. La bilancia dei valori ci mostra che la fede ha maggior peso della nostra stessa esistenza mortale. Tremenda e stupenda verità: e questa è la prima. (Vale la pena di vivere, se noi abbiamo ragioni superiori di vivere!).

IL PRECETTO DEL DIVINO MAESTRO: «NOLITE TIMERE»

La seconda accresce la nostra posizione drammatica di credenti; ed è che la fede bisogna professarla. In qualche debita forma, s'intende, che non esclude, anzi esige misura, tatto, prudenza; ma sta il fatto che la fede interiore deve diventare, in date circostanze e in date maniere, fede esteriore; per l'onore della fede stessa, cioè di Cristo e di Dio; per la coerenza ed il vigore della personalità del credente; e per la testimonianza ai fratelli ed al mondo.

Perciò dicevamo che la fede è difficile. Ma aggiungiamo subito: è difficile ai fiacchi e ai paurosi; la fede richiede forza d'animo, grandezza di spirito; anzi la conferisce a chi si esercita nella sua semplice e nobile professione. E concludiamo col ricordare che quel Cristo, il Quale vuole i suoi seguaci così forti e militanti, è quello stesso che dà loro la grazia di esserlo, magnificamente, quando occorre.

La storia dei martiri di ieri e di oggi lo dice. Riflettete, Figli carissimi, a ciò, e siate sicuri. Vi diremo col Signore: «Nolite timere» (
Mt 10,28), non abbiate paura! Con la Nostra Benedizione Apostolica.

L'unione Italiana delle Camere di Commercio

Sentiamo di dover porgere un saluto tutto particolare al cospicuo gruppo dell'Unione Italiana delle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura, che partecipa a questa Udienza Generale con circa cinquecento rappresentanti: salutiamo il conte Radice Fossati, che conoscemmo a Milano nella sede del suo alto lavoro, e con lui diamo a voi il Nostro cordialissimo benvenuto. Abbiamo ancora vivo in Noi il ricordo dell'incontro avuto con codesta Unione, il 13 febbraio del 1964, nel Palazzo Apostolico: e se l'intensità degli impegni di questi giorni, tanto sovraccarichi, non rendesse alquanto scarso il tempo a disposizione, avremmo vivamente gradito rinnovare oggi quell'incontro, in forma riservata, tanto più che sappiamo con quale desiderio, con quale insistenza, con quale speranza voi stessi l'avete richiesto.

Ma non vogliamo lasciar passare inosservata la vostra presenza: sia per la circostanza, che qui vi ha portati, cioè il ventesimo anniversario di fondazione della vostra Unione; sia per la stima, la considerazione, l'affetto, profondi e paterni, che abbiamo per voi, membri qualificati ed esperti dei principali enti economici di ciascuna provincia italiana, artefici silenziosi e abili della lenta e progressiva rinascita economica della diletta Italia, dalle gravi crisi che la travagliarono dopo gli sconvolgimenti bellici - nel momento delicato, in cui sorse l'Unione - lungo tutta l'ascendente ripresa della Nazione. Voi rappresentate l'opera assidua, tenace, oscura, ma non per questo meno attiva e intelligente e vivace, di tutti gli operatori economici delle varie province italiane; e collaborate all'armonioso sviluppo economico e sociale di tutto il territorio nazionale, in feconda simbiosi di apporti e di esperienze, che in questi vent'anni hanno prodotto i loro validi risultati.

Per Nostro apostolico ministero, che Ci sospinge con instancabile cura a cercare ogni possibile contatto con tutti i rami dell'umana attività, siamo lietissimi di questo incontro, che si ripete a distanza di oltre tre anni con voi: non perché abbiamo un'autorità o competenza in campo economico, che anzi il Vangelo di Nostro Signore e l'universale mandato a Noi affidato Ci sospingono in altra direzione; ma perché la vostra presenza, qui, dice a Noi, e dice altresì a codesta schiera di fedeli, che affolla l'Udienza di oggi, come voli sappiate subordinare l'attività economica ai supremi interessi dello spirito, e trarne i principi, le indicazioni, gli orientamenti validi perché quell'attività sia situata nel suo giusto ordine, e produca i suoi frutti. E, come già vi dicemmo, questa presenza è assai indicativa della «coscienza dei rapporti che devono esistere tra il Sacerdote e gli uomini di affari, a causa dei vincoli tra la morale e l'economia. È vero conforto il sapere che il mondo moderno riconosce ed apprezza questi vincoli in una luce spirituale superiore» (Insegnamenti di Paolo VI, II, 1964, pp. 1041-1042).

Per questa rinnovata testimonianza di serietà e di alto impegno morale, Noi vi ringraziamo, vi lodiamo, vi incoraggiamo: che il traguardo ventennale, ora raggiunto, vi sia di sprone a nuovo slancio operativo, nel rispetto gioioso della Legge divina, e con piena confidenza filiale nell'aiuto celeste. A tanto vi conforti l'Apostolica Nostra Benedizione, che impartiamo di cuore a voi, ai vostri collaboratori, ai centri della vostra quotidiana attività, e alle vostre dilette famiglie.


I Giornalisti Cattolici del Belgio


Mercoledì, 5 luglio 1967 «ERITIS MIHI TESTES»

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Diletti Figli e Figlie!

Abbiamo in questi giorni celebrato la festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e ricordiamo quali sono stati i motivi che hanno dato singolare interesse a questa celebrazione; si è parlato del centenario, il diciannovesimo, del loro martirio; di questo martirio pure s'è parlato, come del fatto culminante, riassuntivo, memorabile fra tutti della loro vita, per aver convalidato tutta l'opera apostolica precedente da loro compiuta, e per averle conferito, al grado supremo, quello del sangue, il carattere da Cristo voluto, quello di testimonianza. «Eritis mihi testes», mi sarete testimoni (
Ac 1,8), aveva detto Gesù agli Apostoli, prima di congedarsi per sempre dalla scena della loro vita temporale; ed in termini analoghi aveva predetto la missione di Paolo: «. . . Egli deve portare il mio nome ai popoli gentili, ai sovrani e ai figli d'Israele» (Ac 9,15). Perciò la commemorazione, che si vuoi fare di questi Apostoli maggiori, si incentra principalmente sull'aspetto, che meglio li definisce; quello d'essere maestri della fede. Questa fu la loro missione: annunciare Cristo e fare nascere la fede in Lui. La fede è l'eredità degli Apostoli. La fede è il dono del loro apostolato, della loro carità. Accettando la fede, noi ci mettiamo in comunione con loro, entriamo nella loro scuola, partecipiamo al piano di salvezza, che Gesù Cristo affidò loro di svolgere e d'instaurare nell'umanità. Perciò abbiamo qualificato come «Anno della Fede» la memoria che per dodici mesi intendiamo dedicare a questi grandi trasmettitori di Cristo, gli Apostoli Pietro e Paolo. Il fatto ch'essi, insieme con gli altri apostoli e con gli annunciatori autorizzati del Vangelo, sono gli intermediari fra noi e Cristo, caratterizza il cristianesimo in modo essenziale, e genera un sistema di rapporti indispensabili nella comunità dei credenti, i quali non possono prescindere dalla funzione docente, che tali li rende.

LA VOCE DI PIETRO VICARIO DI CRISTO E MAESTRO

Ricordiamo, ad esempio, una parola significativa di San Pietro stesso, cosciente d'essere vivo strumento generatore della fede dei primi cristiani. Così egli parla al primo Concilio della Chiesa nascente: «Uomini fratelli, voi già sapete che Dio, fin dai primi giorni, dispose fra noi che i Gentili ascoltassero la parola del Vangelo dalla mia bocca e credessero» (Ac 15,7). Vedete: l'Apostolo è maestro; non è semplicemente l'eco della coscienza religiosa della comunità; non è l'espressione dell'opinione dei fedeli, quasi la voce che la precisa e la legalizza, come dicevano i modernisti (cf. Denz-Schoen. DS 3406 (200)), e come ancora oggi alcuni teologi osano affermare. La voce dell'Apostolo è generatrice della fede; come essa apporta il primo annuncio del Vangelo, così ne difende il senso genuino, ne definisce l'interpretazione, ne guida l'accoglienza dei fedeli, ne denuncia le erronee deformazioni.

LE VIE DELLA SALVEZZA INDICATE DA SAN PAOLO

E San Paolo non è meno dogmatico; egli afferma: «. . . Se qualcuno evangelizza contro l'annunzio che avete ricevuto, sia anàtema», cioè sia condannato, sia maledetto (Gal. 1, 9). La verità religiosa, derivante da Cristo, non si diffonde negli uomini in modo incontrollato e irresponsabile; essa ha bisogno d'un canale esteriore e sociale, reclama un magistero autorizzato; e solo con l'ausilio di questo. servizio (la carità della verità) conserva il suo univoco significato divino ed il suo valore salvifico. Sì, questo sistema è vincolante, non certo in modo contrario all'approfondimento, allo studio, alla meditazione, all'applicazione vitale della verità religiosa (ché a ciò piuttosto ci educa e ci spinge), e nemmeno per sé è vincolante all'espressione verbale di essa verità religiosa (sebbene le formule dogmatiche siano così intimamente legate al loro contenuto, che ogni cambiamento o nasconde, o provoca un'alterazione del contenuto stesso); ma non consente ciò che a tanti uomini d'oggi e d'ieri piace: un libero esame della Parola divina; un distacco cioè della Parola scritta, la Sacra Scrittura, dalla Parola parlante, viva, fedele e attuale del magistero ecclesiastico, e quindi un'interpretazione quale più aggrada. Sant'Agostino ammonisce: «Voi, che nel Vangelo credete a ciò che vi piace, e non credete a ciò che non vi piace, credete piuttosto a voi stessi, che non al Vangelo» (Contra Faustum, 17, 3: P.L. 42, 342). In questo campo il Concilio ci. ha insegnato assai bene i principi, i metodi, la larghezza di vedute consentita e il riconoscimento dei valori dottrinali e spirituali nelle Chiese e nelle Comunità cristiane da noi divise (cf. Lumen Gentium, LG 20 LG 23, ecc.; Unitatis red. UR 3 UR 11 UR 21, ecc.). Faremo bene ad averne notizia.

IL SEGNO LA FORZA IL GAUDIO DEI VERI FIGLI DELLA CHIESA

Per concludere, noi cercheremo di collegare la nostra devozione ai Santi Apostoli al dono ch'essi ci hanno fatto, con la parola e col sangue, la testimonianza a Cristo, la quale genera in noi la fede e instaura rapporti ecclesiali particolari con la gerarchia docente e con la comunità credente.

Tributeremo omaggio d'amorosa devozione ai Santi Pietro e Paolo. Anche a questo riguardo il Dottore africano c'insegna: «Celebriamo la festa consacrata per noi dal sangue degli Apostoli: amiamo la loro fede, la loro vita, le loro fatiche, le loro sofferenze, le loro confessioni, le loro predicazioni: ci sarà di profitto spirituale questo amore: proficimus enim amando» (Serm. 295: P.L. 38, 1352).

E sarà nostro profitto avere dell'integrità della fede, della sua purezza, della sua ortodossia quell'adesione, quella passione, che dev'essere il segno, la forza, il gaudio dei veri figli della Chiesa Apostolica.

A voi, incoraggiamento ed auspicio, la Nostra Benedizione Apostolica.



Paterne accoglienze a un secondo pellegrinaggio del Vietnam (in francese)


Mercoledì, 12 luglio 1967: I RAPPORTI COL MONDO CONTEMPORANEO

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Diletti Figli e Figlie!

Uno dei risultati del Concilio, forse il più diffuso, e, sotto certi aspetti, il più importante, è la persuasione che la Chiesa deve accostarsi al mondo, in cui essa vive e noi tutti viviamo. Il Concilio, con la sua ormai celebre Costituzione pastorale Gaudium et spes circa i rapporti che intercedono e che bisogna instaurare fra la Chiesa e il mondo contemporaneo, ha dato alla Chiesa una grande e difficile consegna, quella di ristabilire il ponte fra lei e l'uomo moderno; e questo impegno suppone e richiede, come ognuno sa, molte cose. Suppone intanto che il ponte ora non vi sia, o sia poco comunicativo, o che sia addirittura caduto; e, a ben pensarci, questo stato di fatto è un dramma storico, sociale e spirituale di tremende proporzioni; vuol dire che la Chiesa, stando così le cose, non sa più offrire Cristo al mondo in modo e in misura sufficienti; e vuol dire che il mondo non apprezza più la Chiesa quanto dovrebbe, non vede abbastanza Cristo in lei, non ha più in lei la fiducia ch'ella merita; vi è insomma una distanza, e talora un'ostilità, che fa della Chiesa una straniera, una sopravvissuta, una nemica della società e dello spirito dei tempi nuovi. Come ricuperare la fiducia dell'uomo, si domanda la Chiesa; come persuaderlo ch'ella gli è madre, gli è amica, gli è necessaria? Due parole riassumono la psicologia della Chiesa davanti a questo problema: salvezza e servizio. La Chiesa cercherà di riavvicinarsi all'uomo offrendogli la salvezza, di cui è depositaria, ed il servizio, di cui l'uomo ha bisogno, e che, in un certo senso, solo la Chiesa gli può prestare.

IMMUTABILITÀ DELLE PROMESSE BATTESIMALI

Andare al mondo, ecco dunque la missione che la Chiesa, dopo il Concilio, si propone con nuova lucidità di visione e con nuovo spirito di carità e di sacrificio. Ma questa missione solleva una serie di problemi interni per la Chiesa, ai quali non si potrà lasciar mancare una risposta, se si vuole che la Chiesa non smentisca se stessa e fallisca subito nella rinnovata missione, ch'ella si propone; e ciò è tanto più opportuno, se pensiamo che la Chiesa siamo noi, ciascuno di noi, quando vogliamo far nostro il programma che il Concilio propone appunto a ciascuno di noi. Accenniamo appena, e solo a titolo di esempio.

Possiamo noi avvicinarci al mondo, quando il carattere, non solo morale, ma sacramentale, che ci definisce cristiani, ci distingue dal mondo, anzi ci obbliga a certe radicali rinunce, che sembrano separarci in maniera irriducibile dal mondo? Le promesse battesimali significano ben qualche cosa, e quale cosa! Esse cercano d'immunizzarci da uno spirito mondano, cioè da una concezione incompleta ed errata della vita; e perciò lo stile del nostro pensiero e della nostra condotta deve nettamente qualificarsi diverso da quello che la vita profana, quando non è illuminata dai principi superiori del Vangelo, offre ai suoi seguaci. Come potrà il fedele accomunarsi alla gente del mondo, se l'impegno verso Cristo tanto lo possiede e lo governa?

IL VERO SIGNIFICATO DELL'«AGGIORNAMENTO»

E ancora: anche se vivono insieme, il cristiano e l'uomo del mondo, non camminano in senso inverso? L'uno cerca il regno di Dio, l'altro il regno della terra. Non sono incompatibili queste due posizioni, queste due direzioni?

E possiamo aggiungere un'altra obiezione, ch'è forse la più grave. Un avvicinamento della Chiesa al mondo contemporaneo non esige dalla Chiesa un rivolgimento profondo di tutto il suo essere? di tutta la sua dottrina? di tutta la sua legge morale e canonica? Si è parlato di «aggiornamento»: dunque è consentito l'abbandono della tradizione, dei dogmi, della disciplina filosofica? delle strutture ecclesiastiche? Si può dunque modellare a piacimento una concezione nuova della costituzione della Chiesa, e si può sottoporre la sua dottrina ad un'interpretazione nuova e ricavarne una «teologia moderna», che tenga maggiormente conto della mentalità corrente e della sua ripugnanza ad ammettere verità superiori al suo spontaneo intendimento, che non dell'insegnamento definito autorevolmente dalla Chiesa, anzi, talora, della stessa parola scritturale? Per andare al mondo non è più facile accettare il suo modo di pensare? o dobbiamo almeno offrirgli un modo originale e punto impegnativo di concepire le cose della religione?

E potremmo aggiungere anche un altro modo di pensare e di agire, che sembra, ma non esattamente, uniformarsi in pieno all'indicazione conciliare, quello cioè di concepire la missione della Chiesa come rivolta primiera,mente e principalmente al servizio dell'uomo, piuttosto che al culto di Dio e all'apostolato religioso. Voi forse saprete come questa concezione della missione della Chiesa, e del sacerdozio in particolare, abbia interessato ed anche turbato le discussioni nel campo cattolico.

LA CHIESA DEVE PROFONDAMENTE E AUTENTICAMENTE RIMANERE SE STESSA

Sarà bene aver presente questa molteplice problematica per risolvere nel senso giusto, voluto dal Concilio, e solo idoneo a quell'avvicinamento della Chiesa al mondo contemporaneo, solo dal quale la Chiesa può avere conferma della sua funzione salvifica e dal quale solo il mondo può trarre luce, forza, rinnovamento, elevazione e salvezza. Faremo Nostre le parole d'uno scritto recente: «La Chiesa adempirà il suo compito con tanto maggiore fedeltà ed efficacia, quanto più profondamente e più autenticamente ella sarà se stessa» (Dumont). E le rivolgeremo ad ogni singolo cattolico: cerchi egli d'essere se stesso, cioè un vero e buon cattolico, e saprà essere sale e luce nel mondo, come Gesù ci ha detto. Con la Nostra Benedizione Apostolica.


A pellegrini del Congo (Brazzaville)



Mercoledì, 19 luglio 1967

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Diletti Figli e Figlie!

Noi dicevamo, nelle semplici parole dell'Udienza di mercoledì scorso, che tra la Chiesa e il mondo - il grande tema nel quale è sfociato il Concilio, e che ormai tutti deve interessare - vi sono difficoltà d'intesa molto serie e che sarebbe calcolo errato il pensare di risolverle col degradare la Chiesa, coi diluire le sue esigenze dottrinali e morali, con l'assimilare pensiero e costume della Chiesa a quelli del mondo, nell'intento di togliere quelle difficoltà, di abbreviare e annullare le distanze e di ringiovanire la Chiesa col farmaco della mondanità e della modalità d'un compiacente ed effimero storicismo. Perderebbe se stessa, Noi dicevamo, e non salverebbe il mondo.

Ma, riaffermata la necessità che la Chiesa, o meglio i fedeli della Chiesa, rimangano nella coscienza, nella dottrina, nella disciplina, coerenti al proprio essere marcatamente cristiano, non dobbiamo dimenticare il dovere nostro di avvicinare il mondo qual è. La Chiesa è, sì, essenzialmente un'istituzione a sé stante, che trae da se stessa le sue ragioni di vita, le sue energie spirituali, le sue norme d'azione; si ricordi San Paolo: «Che cosa ha a che fare il fedele con l'infedele»? (
2Co 6,13); ma la Chiesa non è un «ghetto», non è una società chiusa, non è un ente che bada solo a se stesso, che si isola assolutamente dall'ambiente umano in cui si trova: un ente che non possiede il senso storico del divenire e del moltiplicarsi delle forme culturali; che si contenta di rapporti occasionali e inevitabili col mondo.

LA CHIESA È IMMERSA NELLA SOCIETÀ UMANA

La Chiesa è nel mondo, non del mondo, ma per il mondo.

La Chiesa non prescinde da questo dato di fatto fondamenta!e; che essa è immersa nella società umana, la quale, esistenzialmente parlando, la precede, la condiziona, la alimenta; e ciò costituisce, a bene osservare, un rapporto degnissimo e fecondissimo fra la Chiesa e il mondo. Sarà sul filo di questo rapporto che la Chiesa tesserà la sua prima trama col mondo; ella non sarà mai antisociale, antistatale, anticulturale e, aggiungiamo pure, antimoderna; la Chiesa non sarà mai forestiera là dove mette radice, perché la Chiesa sorge dall'umanità; è l'umanità stessa elevata ad un grado superiore di vita nuova. La Chiesa non è perciò rivoluzionaria; riformatrice, sì, rinnovatrice, sì; ma non mai capace di odiare e di uccidere. È il caso di applicare a questo nativo rapporto la parola dell'Apostolo: «Nessuno mai ha avuto in odio la propria carne» (Ep 5,29). Così la Chiesa rispetto al mondo.

Bisogna conoscere i testi del Concilio a questo riguardo. Eccone uno di densità biblica e di vigore classico: «La Chiesa, procedendo dall'amore dell'eterno Padre, fondata nel tempo da Cristo Redentore, radunata nello Spirito Santo, ha una finalità salvifica ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente, se non nel mondo futuro. Essa poi è già presente qui sulla terra ed è composta da uomini, i quali appunto sono i membri della Città terrena, chiamati a formare già nella storia dell'umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente fino all'avvento del Signore» (Gaudium et spes, 40).

GIÀ NEL TEMPO LA FAMIGLIA DEI FIGLI DI DIO

Ma allora, si chiederà, dov'è la novità del Concilio? La novità, già più volte si disse, consiste nel risveglio che mette in cuore alla Chiesa il desiderio di riavvicinare la società, il mondo, che, per certe sue enormi e formidabili trasformazioni, s'è allontanato da lei. Un desiderio amoroso, un desiderio missionario, un desiderio apostolico. Questo desiderio, da un lato, deve rinsaldare nella Chiesa la coscienza di sé, la sua interiore fedeltà; dall'altro spinge la Chiesa a rincorrere il mondo, a riavvicinarsi al mondo, a comprenderlo, a servirlo, a rigenerarlo cristianamente.

Una nuova pedagogia pastorale guida le ansie e i passi della Chiesa. «Oggi la Chiesa (questa è la grande novità) - leggiamo in questi giorni - parla al mondo, parla ai popoli di tutt'altre tradizioni, di tutt'altra formazione mentale», che non quella così detta occidentale, latino-germanica. Ma, prosegue lo scritto: «Vi sono in lei (nella Chiesa) ad ogni momento della sua storia infinite forze preziose per tale azione; un San Benedetto, un San Francesco d'Assisi, sono aspetti dei valori universali della Chiesa. Siamo in molti a pensare che nulla debba essere toccato della fede in Dio . . . Si badi che il mondo non chiede una Chiesa accomodante; il venire incontro alle passioni, ai vizi del mondo le sottrarrebbe anzi prestigio» (Jemolo).

L'IMPEGNO DI CIASCUN CRISTIANO ALL'APOSTOLATO

Questo problema delle relazioni fra Chiesa e mondo, voi lo sapete, viene oggi ad incidere nella coscienza di ogni fedele della Chiesa, con la formulazione d'un principio, che il Concilio parimente ha messo in evidenza, il principio dell'impegno, che urge su ciascun cristiano di interessarsi dell'apostolato, di qualche forma di apostolato, in modo tale che nessun membro della Chiesa sia inerte, nessuno sia ozioso, nessuno sia passivo. E qui fermiamo il il Nostro discorso con un'affettuosa esortazione, che Noi paternamente rivolgiamo a ciascuno di voi: tu, devi essere consapevole di questo dovere, di questa chiamata, di questo onore, che non tanto la Chiesa, quanto il Signore stesso ti offre. Ricordi le sue parole, nella celebre parabola dei vignaiuoli: «Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? . . . Andate anche voi nella mia vigna» (Mt 20,6-7).

Sì, Figliuoli carissimi! Vi è tanto da lavorare nella vigna della Chiesa! Noi ve lo possiamo ben dire con cognizione di causa. Perché non verreste a dare una mano? Avreste, come prima ricompensa, la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 2 agosto 1967


Paolo VI Catechesi 21667