Paolo VI Catechesi 20867

Mercoledì, 2 agosto 1967

20867

Diletti Figli e Figlie!

Il nostro animo è ancora troppo pieno e commosso delle impressioni riportate dal Nostro recente viaggio a Istanbul (la Bisanzio, anzi la Costantinopoli d'un tempo) e poi a Efeso e a Smirne, perché Noi, ad una settimana di distanza, vi parliamo d'altro che di questo avvenimento, semplice per sé, ma che ha Noi pare molto significativo.

ACCOGLIENZE DEFERENTI E GENTILISSIME DELLE AUTORITÀ CIVILI DELLA TURCHIA

Non vi diciamo nulla della breve, ma intensa cronaca del Nostro itinerario; già la pubblicità giornalistica e radiotelevisiva vi ha dato amplissima illustrazione; e voi ne siete certo già informati.

Dovremmo piuttosto dire dell'accoglienza ufficiale e gentilissima, che ci è stata riservata dalle Autorità civili della Turchia, accoglienza tanto più apprezzabile per il fatto che la Nostra visita coincideva con giornate funestate dal terremoto in alcune località di quella Nazione, alla quale Noi stessi abbiamo voluto tributare l'espressione del Nostro dolore per tale calamità. La Turchia è stata molto cortese e deferente per Noi; e Noi serberemo perciò la più grata memoria del Nostro breve soggiorno in quell'illustre Paese, pieno di bellezze naturali, di storia, di arte, ed ora di vivaci impulsi di moderno sviluppo sociale ed economico. Ma questo aspetto del Nostro viaggio meriterebbe molte considerazioni, piene di drammatiche memorie storiche, ed ora piene invece di stima e di voti per la nuova ed a Noi cara Turchia. Non è questa la sede per tali commenti.

INCONTRO DEGNO DI MEMORIA STORICA NELLA VITA DELLA CHIESA

L'altro tema del Nostro discorso dovrebbe riguardare il Nostro incontro col Patriarca ecumenico Atenagora; incontro da Noi voluto in anticipo su quello ch'egli ha annunciato di procurarCi con una sua prossima visita, affinché davvero non altro stimolo favorisca questo tanto desiderato avvicinamento, se non l'amore; l'amore, di cui parla San Paolo: «Caritate fraternitatis invicem diligentes, honore invicem praevenientes», vogliatevi bene scambievolmente con amore fraterno; prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore (
Rm 12,10). Ed è sfato incontro bellissimo; degno, sì, di memoria storica nella vita della Chiesa di Dio, se al confronto delle amare controversie del passato, dell'esitante, stagnante e diffidente psicologia reciproca che ne derivò, e delle prospettive, che tale incontro lascia intravedere per il futuro, questo incontro segna un punto nuovo e sublime, successivo e coerente a quello segnato dall'abbraccio di Gerusalemme, nelle relazioni della Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, del quale incontro perciò Noi pensiamo il primo a godere è in cielo Cristo stesso. Ed Egli ci assista!

Ma anche questo tema, solo a volerne dire qualche cosa, Ci porterebbe troppo lontano; e poi Noi pensiamo che in altre occasioni dovremo ancora parlarne.

ONORE ALLA MEMORIA DEI PRIMI CONCILI ECUMENICI

Accenniamo piuttosto, in questa confidenziale conversazione con voi, ad un'altra ragione, che Ci ha indotto ad intraprendere la Nostra rapida escursione; ragione a cui già accennammo in precedenti discorsi, ma meritevole d'essere richiamata per il suo riferimento al nostro recente Concilio, dal quale è sempre preso il Nostro animo e dal quale questi Nostri familiari sermoni settimanali prendono spesso argomento. E la ragione è questa: il desiderio di onorare la memoria dei primi celebri Concili ecumenici, i quali ebbero nel vicino Oriente le sedi che li definiscono: Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451). Non sono questi i soli Concili ecumenici celebrati in Oriente; ma questi quattro Concili furono e rimangono degni di particolare riverenza. Furono essi che diedero alla Chiesa, dopo i primi secoli di vita perseguitata e quasi clandestina, la coscienza della sua compagine costituzionale e unitaria. Furono essi che misero in evidenza e stabilirono in autorità i dogmi fondamentali della nostra fede, sulla SS.ma Trinità, su Gesù Cristo, sulla Madonna; e che perciò diedero al cristianesimo la sua dottrina basilare, impegnando il pensiero umano, come già gli Apostoli avevano fatto, a esplorare il senso, la realtà teologica, la verità rivelata dal Vangelo, e ad offrire al linguaggio religioso le prime espressioni inequivocabili e irreformabili.

ALTISSIMO RIFERIMENTO DI S. GREGORIO MAGNO

È notissimo come i primi quattro Concili ecumenici ebbero anche in Occidente indiscussa e suprema autorità. Fra le altre si suole, a questo proposito, citare le parole del Papa Gregorio Magno (590- 604), il quale, nell'epistola sinodica, da lui inviata ai Patriarchi d'Oriente, non esita ad affermare: Dichiaro di, accettare e di venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, così i quattro concili; «sicut sancti evangelii quattuor libros, sic quattuor concilia suscipere et venerari me fateor» (Ep. 1, 25; P.L. 77, 478; Hefele, 2, 31-33). Motivo questo sul quale il grande Pontefice ritornerà più volte con eguale sentenza.

Ciò fa vedere due cose, ai nostri giorni, meritevoli di considerazione; e cioè fa vedere come una dottrina autorevole e indiscutibile sia derivata, per opera del magistero ecclesiastico, dallo studio e dal culto della sacra Scrittura; e come le definizioni promulgate dai Concili sono rimaste e devono rimanere nel contenuto, ed anche nelle formule che lo esprimono, immutabili. L'Oriente è maestro; c'insegna come il credente è chiamato alla speculazione della verità rivelata cioè alla formulazione d'una teologia che possiamo dire scientifica (cf. Denz. Schön. DS 3135 ss.); ma altresì è obbligato al riconoscimento del carattere soprannaturale della verità rivelata, il quale non consente di risolverla in termini di pura razionalità naturale, ed esige un testuale rispetto anche alla terminologia con cui essa è stata autorevolmente enunciata (cf. Denz. Schön. DS 824 (442), DS 2831 (1658)). L'Oriente ci dà l'esempio di fedeltà al patrimonio dottrinale, e ci ricorda la norma, ch'è pur nostra, spesso oggi da Noi riaffermata nell'insorgenza dei tentativi, tante volte bene intenzionati, ma non sempre riusciti, di esprimere una nuova teologia conforme alla mentalità contemporanea; la norma del Concilio Vaticano primo, che auspica un progresso nella «intelligenza, scienza e sapienza» della dottrina della Chiesa, purché tale dottrina rimanga sempre pari a se stessa (cf. De fide, IV; VINCENZO LERIN., Commonitorium, 28; P.L. 50, 668).

ESORTAZIONE A VENERARE L'ORIENTE CRISTIANO

E all'Oriente, col Nostro viaggio; abbiamo voluto dare assicurazione che la fede nei Concili, celebrati in quella terra benedetta e riconosciuti dalla Chiesa latina come ecumenici, è tuttora la nostra fede; essa costituisce una base molto larga e molto solida per avviare gli studi intesi alla ricomposizione della perfetta comunione cristiana fra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica in quella dottrina univoca e ferma, che il magistero ecclesiastico, guidato dallo Spirito Santo, proclama autentica. Vi esortiamo perciò, Figli carissimi, a venerare anche voi l'Oriente cristiano, a conoscere le questioni religiose e dottrinali che lo riguardano ed a pregare per la loro felice soluzione. Con la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 9 agosto 1967 ATTO DI FERMA ED OPEROSA VOLONTÀ

9867

Diletti Figli e Figlie!

Si parla molto oggi, e si scrive, anche fuori dell'ambito ecclesiastico, di temi religiosi, di discussioni teologiche, di movimenti spirituali. Si cerca di attribuire al Concilio ogni sorta di novità, specialmente nel modo di concepire la fede e di presentarla al mondo contemporaneo, mettendo spesso in questione dottrine fondamentali del cattolicesimo, dichiarando opinabili verità definite dalla Chiesa e rivendicando alla libertà di coscienza e all'ispirazione dello Spirito Santo il giudizio arbitrario e personale circa principi importanti e talora costituzionali del pensiero e della disciplina ecclesiastica. Un certo fervore critico sembra giustificare questa inquietudine spirituale e conferire speranza di rinnovamento cristiano all'intenzionale eccitazione d'un impaziente disagio verso la norma tradizionale della vita cattolica e verso le forme autorevoli, che la raccomandano e la promuovono.

Noi non parleremo ora delle manifestazioni che queste tendenze innovatrici vanno assumendo. Lasciamo ad altro momento e ad altra sede questo esame. A voi diciamo piuttosto una semplice parola sugli atteggiamenti che devono assumere di fronte a tali fermentanti opinioni coloro, come voi, che vogliono essere sempre fedeli alla Chiesa, e fedeli soprattutto quando l'esserlo può esigere un atto cosciente di ferma ed amorosa volontà.

Quali atteggiamenti assumere? di stupore? di dolore? di difesa? ovvero di avventura? di adesione? di gregarismo? Queste prime e spontanee reazioni si spiegano nella mentalità post-conciliare, che per alcuni era piena di fiducia nel risveglio primaverile delle energie spirituali della Chiesa e nell'accresciuto senso del suo mistero di unità e di carità; per altri invece gli effetti del Concilio dovevano consistere in un rivolgimento dottrinale e istituzionale.

UNA VIGILANZA ATTENTA E SERENA

Una delle osservazioni, ad esempio, che obbliga i fedeli (parliamo sempre di questi) a rendersi conto di queste inattese correnti di opinioni in seno alla Chiesa è quella che avverte come certi inquietanti problemi sono sollevati per opera di membri della Chiesa, i quali più degli altri dovrebbero, per la loro formazione, per i loro impegni, per le funzioni loro affidate, essere sostenitori e devoti della Chiesa stessa.

Dunque, che cosa devono fare i figli fedeli?

Il primo atteggiamento da prendere sembra a Noi quello della vigilanza; una vigilanza attenta e serena, che non cede al sonno della consuetudine, dell'indifferenza, dell'ottimismo convenzionale, ma guarda la realtà dei fatti e alla realtà degli spiriti; e di questa, di solito, la gioventù è indice istintivo ed istruttivo. Una vigilanza non sospettosa, ma umile e buona, che sa trarre motivo d'esame di coscienza e stimolo a sempre migliori propositi da ogni fatto osservato, anche se questo presentasse aspetti sgraditi e punto giustificati. E finalmente una vigilanza che sa riconoscere gli aspetti positivi di questi movimenti spirituali e ciò che vi può essere di buono; come c'insegna l'Apostolo: esaminate ogni cosa, e ritenete ciò che è buono: «Omnia autem probate; quod bonum est tenete» (1 Thess. 5, 21).

COME COMPORTARSI DI FRONTE AL RINNOVAMENTO DELLA CHIESA

Un altro atteggiamento, o meglio orientamento, riguarda la decisione interiore che il figlio della Chiesa sente il dovere di prendere di fronte al rinnovamento, che in lei, in quest'ora storica, deve avvenire ed a cui ogni credente deve partecipare, anzi concorrere. E questa decisione ha due maniere possibili di esprimersi, due direzioni tra cui scegliere. La prima è quella che chiameremo, parlando molto empiricamente, del distacco: per rinnovare la Chiesa, si pensa da alcuni, bisogna distaccarsi da molte e gravi cose, che sono pur sue, della Chiesa, ma sembrano ora imbarazzare e appesantire il suo passo, se questo vuol correre con i tempi nuovi, e vuole arrivare al mondo contemporaneo: tradizione, autorità, filosofia, cultura, diritto canonico, istituzioni, e perfino certi dogmi, certe forme d'interiorità e di culto; in una parola, si dice, bisogna liberarsi dalle «strutture», e avvicinarsi alla vita vissuta, al costume di pensiero e di usi della moda corrente, rinunciare perfino al sacro, all'aspetto confessionale del cattolicesimo, e così via. Questa direzione sembra seducente; e certo nessuno contesta, seguendo il Concilio, che molte forme contingenti della vita della Chiesa possano e debbano essere, con prudenza e con coraggio, abbandonate e sostituite da altre migliori. Ma se questa operazione di distacco, a cui i responsabili della Gerarchia e del Laicato nella Chiesa di Dio stanno laboriosamente attendendo, è compiuta come sufficiente a se stessa e come consentita all'iniziativa di tutti, può avvenire che il cattolico sostituisca alla propria genuina coscienza quella di chi cattolico non è; e può avvenire che in lui alla presenza del mistero di Cristo si sostituisca, come un surrogato quasi ossessivamente ricercato, la presenza mitica di quel mondo a cui si voleva portare il messaggio della salvezza, e da cui invece si attinge, come da nuovo e profano maestro, la norma e lo stile della vita cristiana, con la probabile e desolante conseguenza di smarrire, nella metamorfosi pericolosa, la fede, la sua sicurezza, la sua forza, la sua pace.

AMORE UMILE INSTANCABILE GIOIOSO DI PERFEZIONE

E la seconda direzione? La seconda è quella che chiameremo della scoperta. Sì, della scoperta, o della riscoperta delle meravigliose ragioni, che giustificano le forme concrete in cui si realizza la vita della Chiesa, che le dimostrano come suoi fenomeni vitali, come l'oblazione della Chiesa, preparata con laboriosa esperienza e con lungo amore, per Cristo, suo mistico sposo; come tentativi di adeguare nel pensiero, nella parola, nel costume, nell'istituzione, nello sviluppo storico l'idea seminale del Signore per la sua Chiesa. Non è detto con ciò che tutto sia perfetto e definitivo nelle famose «strutture», ché anzi questa ricerca e questa scoperta delle loro interiori radici accrescono il bisogno ed acuiscono il genio del loro progressivo e coerente miglioramento; ma la loro direzione, piuttosto che esteriore, è interiore; piuttosto che suggerita dalle manchevolezze della Chiesa, è persuasa della sua indefettibile fecondità; piuttosto che mossa dalla noia e dalla critica della vita ecclesiastica, o da qualche carismatica presunzione, è guidata dall'amore, umile, instancabile, gioioso del suo perfezionamento.

E allora, Figli carissimi, se davvero volete dare sincera testimonianza alla santa Chiesa di Dio in queste sue presenti vicissitudini, e volete contribuire a rendere efficace la sua missione salvatrice nel mondo, procurate di non mai dissociare a suo riguardo questo binomio: risveglio e fedeltà.

Questo Noi vi raccomandiamo per il bene della Chiesa e vostro: risveglio e fedeltà! Con la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 16 agosto 1967 LA VERA REALTÀ DELLA VITA

16867

Diletti Figli e Figlie!

Che cosa dobbiamo dirvi questa volta? Una semplice parola, ma, Noi pensiamo, illuminatrice di tutta la vita cristiana, considerata nelle sue presenti circostanze.

Una di queste circostanze, la più semplice e la più immediata, è data dal fatto che voi siete pellegrini, viaggiatori, visitatori, turisti. Siete fuori; fuori del vostro solito ambiente, fuori delle vostre consuete occupazioni, fuori di voi stessi. E una delle prerogative delle vacanze, quella di consentire un'evasione, una distrazione, quella di lasciare riposare le attività dello spirito e di offrirgli impressioni facili e nuove, dall'esterno, senza fatica, anzi con diletto, tenendolo desto non a spese proprie, ma come a uno spettacolo divertente, a spese della scena esterna. Avviene tuttavia che, ad un certo momento, se non si vuole sperimentare il vuoto prodotto interiormente da questo atteggiamento passivo, si desidera riflettere, rientrare in sé, valutare il senso e il valore delle cose vedute e delle esperienze subite. La realtà vera della vita è ancora quella propria, quella personale, quella interiore, quella capita, assimilata, confrontata al metro dei principi, che costituiscono la verità. Se no, tutto che cosa vale? La sazietà, la stanchezza, la sapienza sopravvengono; e un'amara esperienza riporta a noi la sentenza pessimista della Bibbia: vanità, ogni cosa è vanità (
Qo 1,2).

E questo comune processo spirituale fa pensare ad un'altra circostanza, che investe tutta la nostra vita moderna e che determina e caratterizza l'orientamento generale del pensiero e dell'azione; . . . la proiezione cioè dell'uomo al di fuori di sé. L'osservazione metodica e lo studio scientifico del mondo, in cui ci troviamo, hanno dato risultati enormi e strabilianti; siamo ormai abituati a giudicare la vita moderna dalle sue scoperte e dall'impiego strumentale delle sue conoscenze, e perciò dalle grandi trasformazioni che l'industria e la ricchezza recano con sé. Sta bene. Ma questa immensa e progressiva conquista del mondo non soddisfa alla fine il cuore umano, se i suoi desideri, invece di placarsi, si moltiplicano e si inaspriscono, per farlo passare dalla fase creativa della prosperità al suo godimento, con tutte le esaltazioni, le illusioni e le delusioni finali proprie dell'uomo che cerca nella cultura e nel piacere di ricuperare se stesso. La parola di Cristo echeggia eterna a questo riguardo: «Che cosa giova all'uomo conquistare anche l'universo, se poi perde l'anima sua?» (Mt 16,26).

IL CENTRO E L'ORIGINE DELLA CARITÀ

E, cambiando sentiero, per venire su quello percorso oggi con maggiore convinzione e più dinamico ardore dal cristiano, dall'apostolo che desidera porsi al servizio del messaggio della salvezza e si mette al confronto della società che lo circonda, noi osserviamo qualche cosa di analogo; un movimento spirituale e pratico cioè che tutto si protende al di fuori del volenteroso seguace del Vangelo; l'azione prevale sulla contemplazione, l'interesse esteriore su quello interiore, la «missione» sul «culto». La carità sostiene e spinge certamente questo orientamento pastorale, missionario, apostolico; ma se la carità si consuma nelle opere esteriori e si inaridisce nelle sue sorgenti interiori, non vien fatto di pensare al monito dell'Apostolo: «Se io distribuissi tutte le mie sostanze e se dessi il mio corpo affinché sia bruciato, e non avessi la carità, a nulla mi giova» (1Co 13,3)?

E cioè: non bisogna perdere di vista il focolare originario e alimentatore della carità, il punto d'inserzione dell'Amore divino nel nostro, che di quello divino vuol essere testimonio, anzi veicolo; non dobbiamo dimenticare il dove e il come lo Spirito Santo, del Quale tanto si parla come se il suo ineffabile e delicato contatto con la nostra vita autonoma e agitata fosse sempre a nostra disposizione, si concede e realizza in noi la presenza invisibile, ma vera ed operante di Cristo.

Questo volevo dirvi, Figli carissimi; bisogna che diamo alla vita interiore l'importanza che le spetta, tanto nell'equilibrio dello sviluppo pedagogico delle facoltà umane, quanto soprattutto nel compimento della nostra e dell'altrui salvezza cristiana. L'uomo moderno, diremo con una similitudine d'un filosofo di questo tempo, è uscito di casa e ha perduto la chiave per rientrarvi; è «fuori di sé». Che così non sia del cristiano! Ricordiamo le ripetute parole dell'insegnamento apostolico, che ci richiama a considerare l'uomo . . . che sta al di dentro, «homo . . . qui intus est» (2Co 4,16), l'uomo interiore, «inteviovem hominem» (Rm 7,22), l'uomo nascosto nel cuore, «absconditus est cordis homo» (1P 3,4), sapendo che dobbiamo essere fortemente corroborati mediante lo Spirito di Cristo nell'uomo interiore, perché «Cristo abita mediante la fede nei nostri cuori» (Ep 3,17).

SOMMA IMPORTANZA DELLA VITA INTERIORE

Questa valutazione della vita interiore è di somma importanza, perché è impossibile che il piano divino della nostra vocazione alla partecipazione alla vita divina mediante la grazia, e della nostra missione alla diffusione del regno di Dio fra i nostri fratelli si compia senza questa nostra prima personale accoglienza dello Spirito, che ci fa cristiani, ch'è appunto la vita interiore. La lezione non avrebbe più fine su questo tema, voi lo sapete; e certo sapete quanti e quali maestri di vera spiritualità ne hanno parlato. Sapete quale delicata e perenne pedagogia dobbiamo applicare a noi stessi per concentrare nel silenzio esteriore ed interiore la nostra meditazione, e per acquistare qualche capacità di preghiera e di colloquio con la misteriosa presenza di Dio; sapete quale senso del sacro è dentro di noi, templi come siamo dello Spirito Santo (cf. 1Co 3,16-17), senso del sacro che dobbiamo coltivare verso noi stessi per essere, come ora si dice, autentici; autentici cristiani e promotori del regno di Dio.

Non sia perciò difficile condurre la ricreante esperienza delle vacanze estive, come quella più larga dell'educazione contemporanea, a questa felice conclusione: il bisogno di trovare ciò che più vale, ciò che tutto vale, l'incontro con Dio, e la vera felicità d'avvertire che l'appuntamento per l'incontro felice, dopo tante ricerche ed escursioni nel mondo esteriore, è ancora fissato nell'umile e quieto raccoglimento del cuore. A voi cercatori profani, a voi anime semplici e religiose, a voi giovani avidi delle più alte realtà, a voi anziani desiderosi ormai di ciò ch'è veramente essenziale, con la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 23 agosto 1967 IL «SACERDOZIO REGALE» DI TUTTI I FEDELI

23867

Diletti Figli e Figlie,

La Chiesa è in un periodo di rinnovamento. Questo rinnovamento può consistere nel dare nuove forme all'organizzazione esteriore e sociale della Chiesa, come può consistere nell'imprimere nuova attività alle membra della Chiesa, nuovo fervore, nuovo movimento, e può anche consistere nello svegliare nel Popolo di Dio, nel Clero e nei Fedeli, una coscienza nuova: la coscienza della propria vocazione, della propria elevazione, della propria destinazione; la coscienza del proprio carattere messianico, della propria santità, del proprio concorso alla missione profetica della Chiesa, del proprio soprannaturale rapporto con Dio, della propria configurazione nell'unità e nella dignità del Corpo mistico, che è la Chiesa.

Questo risveglio di coscienza nella Chiesa e della Chiesa, cioè del suo proprio essere, del mistero suo proprio, che fa degli uomini seguaci di Cristo un Popolo distinto ed eletto, è stato particolarmente studiato dal Concilio ecumenico, testé celebrato; ed è certamente nelle sue maggiori intenzioni di illustrarlo e di promuoverlo, come uno dei fattori principali del rinnovamento cristiano. Quale risultato di questo sforzo di chiarezza interiore e di ricerca della radice rinnovatrice della vita della Chiesa è stata la migliore valutazione del carattere sacro degli appartenenti alla Chiesa stessa, la considerazione approfondita del «sacerdozio regale», di cui sono investiti tutti i cristiani. Si è così ampiamente parlato di questo sacerdozio regale, cioè del sacerdozio comune a tutti i Fedeli.

Questa considerazione interessa, e giustamente, la curiosità delle correnti spirituali, che oggi percorrono lo studio teologico e la meditazione religiosa dei commentatori del Concilio, ed ha in sé la speranza dell'auspicato rinnovamento della coscienza e della vita della Chiesa. Non è considerazione nuova, non è una scoperta; ma il suo ritorno nell'attenzione comune può avere grande importanza.

LA CHIESA TEMPIO SPIRITUALE VIVENTE

Non è nuova, diciamo; essa ha una storia, ha una tradizione ricchissima (cf. Dabin, Le Sacerdoce royal des Fidèles, 2 voll. 1941 e 1950). Com'è noto, la parola, che fa perno in questa dottrina, è quella della prima lettera dell'Apostolo Pietro: «Sacerdotium sanctum», «Regale sacerdotium» (
1P 2,5-9), con la quale l'Apostolo, scrivendo a gruppi di primi cristiani dell'Asia minore, convertiti per lo più dal paganesimo (cf. Holzmeister, Commentarius, 155), intende confortarli, derisi e accusati com'erano, ricordando a quei neofiti «i privilegi dei quali furono insigniti, entrando nel Cristianesimo. Tra questi, a due riprese, elenca la dignità sacerdotale» (De Ambroggi, Scuola Catt. 1947, 52-57). Ma S. Pietro fa proprie reminiscenze bibliche (Ex. 19, 6; Is. 43, 21, ecc.), e trasferisce in nuovo significato ciò ch'era detto d'Israele, essere questo quasi un popolo sacro dedicato al culto di Dio e rivestito di dignità regale, affermando che l'incorporazione a Cristo fa dei fedeli una stirpe eletta, un tempio spirituale, ch'è la Chiesa, formata da pietre spiritualmente vive, che sono i fedeli stessi, destinati a offrire sacrifici interiori e spirituali (cf. Cerfaux, Regale Sacerdotium, «Revue de Sc. Phil. et Théol.» 1939, p. 25). La tradizione commenterà senza fine questo nucleo di antropologia cristiana, chi esagerando nel vedere in queste espressioni di S. Pietro la definizione di un solo sacerdozio cristiano concesso a tutti i credenti, come se non esistesse altro Sacerdozio (cf. Tertulliano, De exhort. cast. 7; P.L. 2, 922; così poi i Riformatori Protestanti); chi invece vedendovi una prerogativa sacra comune ai laici e al clero (cf. S. Ambrogio: «Omnes autem sumus . . . iustitiae sacerdotes», In Luc. 1, 8, 52; P.L. 15, 1782; «Populus ipse qui est nisi sacerdotalis?». De Sacram. 4, 1, 3; P.L. 16, 436; ecc.).

L'INTERA VITA CRISTIANA DIVENTA SACRA

S. Tommaso preciserà che i fedeli tutti, i quali hanno ricevuto l'impronta di Cristo, cioè il carattere sacramentale nel battesimo e poi nella confermazione, sono in qualche misura resi partecipi del sacerdozio di Cristo (III, 63, 3). Così che, come splendidamente insegna il Concilio, «i battezzati, mediante la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo, sono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire con tutte le opere del cristiano spirituali sacrifici» (Lumen Gent. 10); tutta la vita cristiana diventa sacra, ed insieme idonea, com'è proprio del sacerdozio, a comunicare con Dio; anzi, dice ancora il Concilio: «Tutti i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Iddio, offrono se stessi come vittima viva, santa e gradevole . . .» a Dio medesimo; sacerdoti perciò e vittime essi stessi, come appunto fu Cristo, unico e sommo sacerdote e unica vittima efficacemente espiatoria. Ma due sono i sacerdozi nella Chiesa di Dio, quello comune e quello ministeriale, perché, soggiunge ancora il Concilio, «il sacerdozio comune dei fedelli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, sebbene differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza d'una vita santa, con l'abnegazione e con l'operosa carità» (Lumen Gent. 10).

IN OGNUNO SIA ESPLICITA ED OPERANTE LA FEDELTÀ AL SIGNORE

Da ciò si vede, Figli carissimi, come sia nuova e come sia essenzialmente religiosa la vita del cristiano. Non si può avere un concetto adeguato di lui senza pensare alla sua elevazione soprannaturale, alla sua personale dignità. Vengono alla memoria le celebri parole di San Leone Magno: «Agnosce, christiane, dignitatem tuam», renditi conto, o cristiano, della tua dignità; e si presentano allo spirito le conseguenze e le esigenze, sia morali che ecclesiali, derivanti da tale coscienza della personalità cristiana.

Dobbiamo chiedere a noi stessi se tale coscienza del carattere sacro della nostra vita, compaginata a quella di Cristo, sia davvero in noi sveglia ed operante; se essa ci aiuti a ben giudicare del bene e del male morale; e se la doverosa premura di distinguere il sacro dal profano, tanto nel campo del sapere come in quello dell'operare, ci faccia spesso dimenticare che siamo tutti rivestiti d'un carattere sacerdotale, per dissacrare la nostra mentalità, il nostro abito, la nostra attività; vi è una tendenza a far scomparire il nome di cattolico, a tutto laicizzare e desacralizzare. Sarebbe tale tendenza conforme allo spirito del Concilio? avrebbe essa la virtù di animare quel rinnovamento che il Concilio intende promuovere? Fatte le debite distinzioni, a Noi non sembra. Ed a voi, chiamati dal Concilio alla consapevolezza e all'esercizio del «sacerdozio regale» d'ogni cristiano, che cosa sembra?

Vi aiuti a ben riflettere e a ben rispondere la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 30 agosto 1967 - IL FRATERNO SERVIZIO AGLI INFERMI

30867

Diletti Figli e Figlie!

Salutiamo fra i vari gruppi presenti quello che si qualifica col titolo di «Apostolato della sofferenza» e che merita, proprio per questo titolo, una speciale Nostra considerazione. Lo salutiamo e lo benediciamo, rivolgendo il Nostro affettuoso pensiero a quanti promuovono ed assistono questa ed ogni altra forma di spirituale assistenza e di fraterno servizio agli ammalati; e agli ammalati stessi corre il Nostro pensiero e si estende dappertutto, dovunque sono infermi, pazienti e minorati, dovunque il dolore fisico, e con esso quello morale, tormenta, mortifica ed umilia membra umane, quelle specialmente di fratelli Nostri nella fede e figli Nostri, come appartenenti al gregge di Cristo, che di esso Ci ha fatto pastore. Ricordiamo tutti questi aggregati alla immensa e diffusa città del dolore, negli ospedali, nelle cliniche, negli ospizi, ed anche più quelli che sono rimasti nelle loro case, custoditi dalla pietà e dalla bontà dei loro familiari, e quelli ancora che mancano di assistenza sanitaria e di conforto spirituale, portando con la pena della malattia quella, spesso non meno grave, della solitudine e della povertà. Noi abbiamo ancora presenti gli incontri, sempre per Noi commoventi ed ammonitori, che avemmo occasione, e quasi vorremmo dire fortuna, di avere con l'umana sofferenza, misteriosa e pietosa nei bambini, e quasi intollerabile nei giovani, nelle vittime del lavoro e del dovere, nelle persone su cui appoggia la cura d'una famiglia, desolata anch'essa per la malattia di chi ne era il cuore ed il sostegno; e quella triste e quasi senza speranza dei vecchi, dei cronici, degli alienati. Oh, fratelli sofferenti, oh, figli doloranti sparsi nel mondo, Noi vorremmo che la Nostra voce arrivasse a tutti ed a ciascuno di voi per ripetervi, mentre Noi stessi piangiamo con voi, la parola di Gesù, l'uomo del dolore: «Non piangere» ()!

LA DOTTRINA CRISTIANA DEL DOLORE

Perché questa nostra compassione? Per il sentimento comune che rende sensibile chi ha cuore d'uomo verso il dolore dei suoi simili, e lo sollecita, per uno dei più nobili impulsi della natura umana, a dirsi ed a farsi solidali e pronti al soccorso dei mali altrui? Sì, certamente; noi, uomini come siamo, vogliamo essere partecipi a questa compassione filantropica, che fa gli uomini civili e stringe gli uni e gli altri nei vincoli sentimentali e morali di una sorte comune; vogliamo anzi onorare l'educazione e l'organizzazione, che la nostra società moderna, ripudiando certa rediviva spietata fierezza pagana verso i deboli e verso i sofferenti, va saggiamente promovendo. Ma dobbiamo aggiungere che noi, come seguaci di Cristo, e ministri della sua parola e della sua carità, abbiamo anche altri motivi per curvarci, con immensa riverenza e con vivissimo interesse, su quanti soffrono e piangono.

La dottrina cristiana sul dolore è un'enciclopedia; investe tutta la vita umana, pervade la storia della redenzione, entra nella pedagogia ascetica e nell'iniziazione mistica, si collega col destino eterno dell'uomo. Se in questo breve momento vogliamo contentarci d'uno sguardo su questo vasto mondo, dove il conflitto fra il male ed il bene sembra placarsi nella sublimazione della sofferenza, cercando un sentiero per percorrerlo ed esplorarlo, potremo soffermarci sulla considerazione della posizione che il cristiano occupa nella Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo; ogni cristiano è un vivente inserito in questa comunione soprannaturale, dove nessuno è confuso, dimenticato ed inutile: ciascuno è membro; cioè ha una sua funzione insostituibile da compiere, ciascuno una vocazione sua propria, articolata ed armonizzata con quella di tutti gli altri membri del corpo ecclesiastico; e tutti traggono identica vita e ordine singolare dall'unione col Capo della Chiesa: Cristo, il Quale effonde il suo Spirito vivificante in tutta la compagine dei cristiani. Ognuno è cristiforme.

SUBLIMITÀ DI COOPERAZIONE CON IL REDENTORE

Già questa è verità consolantissima per chi soffre. Nessuno soffre solo. Nessuno soffre inutilmente. Anzi, secondo panorama, chi soffre ha titoli speciali per avere maggiore partecipazione alla comunione con Cristo: nel sofferente, ce lo ricorda il Concilio (Lumen Gentium,
LG 8), si rispecchia in maniera più fedele l'immagine di Cristo; più intima, possiamo dire, se Gesù stesso ha voluto identificarsi con i minimi suoi fratelli (cf. Mt 25,35 ss.); chi soffre diventa, in modo singolare, conforme al Signore (cf. Apostolicam actuositatem, AA 16 in fine).

Di più: chi soffre, chi soffre con Cristo, coopera alla redenzione di Cristo, secondo la celebre e luminosa teologia di San Paolo: «Compio nella mia carne ciò che manca alle passioni di Cristo a vantaggio del corpo di Lui, che è la Chiesa» (Col 1,24). Il sofferente non è più inerte e di peso negativo per la società umana e spirituale a cui appartiene; è un elemento attivo; è uno, come Cristo, che patisce per gli altri; è un benefattore dei fratelli, è un ausiliario della salvezza. Solo che questa estrema valorizzazione del dolore esige due condizioni: l'accettazione e l'offerta, l'accettazione paziente e capace d'intuire (altra meravigliosa visione del dolore cristiano!) d'intuire un ordine dietro e dentro il dolore stesso, la mano paterna, anche se grave, del medico divino che sa trarre il bene, un bene superiore, da un male, il male della sofferenza; e l'offerta, che al dolore dà valore proprio della vittima, che annulla in se stessa le esigenze della giustizia e che da se stessa trae la somma espressione dell'amore; dell'amore che dà, dell'amore totale.

L'EROISMO ANNUNCIATO DALL'APOSTOLO PAOLO

Oh! Quanto vi sarebbe da meditare e da dire su queste prospettive cristiane del dolore, le quali sembrano e sono estremamente lontane dalla concezione naturalistica della vita, ma sono, in pari tempo, di facile conquista per chi sente e subisce e patisce la severa e spesso atroce realtà del dolore. E aggiungiamo l'ultimo paradosso: di facile godimento. Ditelo voi, cari malati cristiani; ditelo voi, cari sofferenti delle più varie pene, che avete fede in Cristo Signore, e che proprio in virtù di codeste pene sperimentate una strana, ineffabile comunione col Crocifisso; non potete forse anche voi, in un impeto interiore di eroismo cristiano, ripetere le parole dell'Apostolo: «Sovrabbondo di gaudio in ogni tribolazione nostra» (2Co 7,4)? Sia detto tutto questo ad istruzione nostra: così è la vita cristiana; e sia detto a consolazione dei Nostri figli e fratelli sofferenti, con la Nostra confortatrice Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 27 settembre 1967


Paolo VI Catechesi 20867