Paolo VI Catechesi 27570

Mercoledì, 27 maggio 1970

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Fra le grandi questioni della mentalità moderna per noi credenti vi è quella dell’atteggiamento dell’uomo verso il progresso. È una questione che ordinariamente si presenta come un’obiezione: il credente è uomo dalla psicologia statica, fissa, immobile; la sua fede dogmatica non gli consente di comprendere le cose nuove, di desiderarle, di promuoverle. Anzi egli, il credente, è ancora al passato, a quel momento della storia passata, in cui avvenne il fatto evangelico, due mila anni fa; per lui il tempo non passa, il suo sguardo è rivolto all’indietro; e perciò la sua psicologia è tendenzialmente estranea agli avvenimenti grandiosi e precipitosi del nostro tempo; egli diffida dei cambiamenti, che si verificano in ogni campo della vita umana: nel pensiero, nella scienza, nella tecnica, nella sociologia, nei costumi, ecc.; non può essere «uomo del nostro tempo», non può capire i giovani; è senza desideri, senza speranze; è, in fondo, apatico e timoroso; e, nel campo ecclesiale, è preconciliare . . . Occorre una nuova mentalità religiosa, una nuova teologia, una nuova Chiesa.

Questa descrizione d’una figura preconcetta del credente potrebbe prolungarsi senza fine. La questione è grossa, e lo stile del nostro discorso, come al solito breve e elementare, non ci consente altro che presentarlo alla vostra attenzione con l’aggiunta d’una semplice domanda: è esatta questa descrizione? Il credente sfugge davvero all’imperativo dell’attualità, al fascino del progresso? (Cfr. DAWSON, Progresso e religione)



LA FEDE COME PROMESSA

Ammettiamo, anzi difendiamo un aspetto essenziale del credente, del cristiano : egli è uomo della tradizione; della tradizione in cui egli vive; è uomo di Chiesa, cioè è figlio di quel corpo sociale, vivo e mistico,, che trae la sua vita dal suo capo, che è Cristo; il Cristo vissuto nella storia del Vangelo e ora vivente nella gloria celeste, nella pienezza divina, come diciamo nel Credo: alla destra del Padre. Il cristiano vive cioè d’un’eredità, d’una memoria proveniente da un avvenimento storico passato, decisivo per le sorti dell’umanità, il Vangelo, e vive d’un’attualità a lui comunicata nello Spirito Santo da una sfera, ch’è oltre quella del tempo e della realtà naturale: vive di fede, vive di grazia. Se questo filo si rompesse, la vita dell’uomo, in quanto cristiano, si spegne. È questione di vita o di morte.

Ma diciamo subito: questo vincolo con il passato e con il trascendente soprannaturale non astrae il credente dal presente e dal futuro temporale e ultraterreno, anzi ve lo inserisce più intimamente. Perché? perché la fede, a cui egli aderisce, è di natura sua una promessa; o meglio: è l’adesione a verità che devono ancora palesarsi nella loro completa conoscibilità e nel loro promesso godimento. Come descrive la fede la lettera agli Ebrei? È celebre la formula: «La fede è il fondamento di cose sperate, è la certezza di cose che ora non si vedono» (
He 11,1). Perciò la fede ha un rapporto essenziale con la speranza.


DESIDERIO DEL SOMMO BENE

Sì, con la speranza. Ed è la speranza la forza motrice del dinamismo umano, e tanto di più, come virtù teologale, del dinamismo cristiano. Qui sarebbe da fare l’analisi della speranza nella psicologia moderna; a voi la affidiamo. Vedrete subito che di speranza vive l’uomo moderno. Cioè la sua anima è tesa verso il futuro, verso qualche bene da conseguire; ciò ch’egli possiede non gli basta; anzi ciò ch’egli possiede, invece di soddisfarlo, lo stimola e lo tormenta a possedere di più, a cercare qualche cosa d’altro: lo studio, il lavoro, il progresso, la contestazione e perfino la rivoluzione sono altrettante speranze in azione. Questa fuga in avanti, propria del nostro tempo, è tutta alimentata dalla speranza; e chi meno simpatizza col passato o col presente mette il suo cuore nel futuro, cioè spera; dice bene S. Tommaso che la speranza abbonda nei giovani (Summ. Theol., I-II 40,6), salvo che, deluso di raggiungere un qualche miglior bene nel futuro, cada nella disperazione, come avviene non di rado nella psicologia critica e pessimistica di tanti uomini, figli anch’essi del nostro tempo.

Ora il cristiano è uomo della speranza, e non conosce disperazione. E riguardo alla speranza vi è una differenza fra il cristiano e l’uomo profano moderno: quest’ultimo è un vir desideriorum, l’uomo dai molti desideri (fra desiderio e speranza vi è stretta parentela: questa si inscrive fra gli istinti di forza, quello piuttosto fra gli istinti di godimento, ma entrambi tendono a beni futuri); ed è uomo che cerca di abbreviare la distanza fra lui e i beni da conseguire; è uomo dalle speranze a breve termine, le vuole presto soddisfatte, e quelle sensibili, economiche e temporali sono più rapidamente raggiungibili, e perciò, presto esaurite, lasciano stanco e vuoto, e spesso deluso il cuore dell’uomo.

Sono le sue delle speranze che non fanno grande il suo spirito, e non dànno alla vita il suo pieno significato, e spingono il cammino della vita stessa su sentieri di discutibile progresso. Il cristiano invece è l’uomo della vera speranza, quella che ambisce il raggiungimento del sommo bene (Cfr. S. AUG., Conf. 1, 1: «Fecisti nos ad Te»), e che sa d’avere al suo desiderio e al suo sforzo l’aiuto da quello stesso sommo Bene, che alla speranza infonde la fiducia e la grazia di conseguirlo (Cfr. Summ. Theol., I-II 40,7).

Entrambe, le due speranze profana e cristiana, traggono la spinta da una carenza della nostra condizione di vita presente, dal dolore, dalla povertà, dal rimorso, dal bisogno, dal disagio; ma una diversa tensione le sostiene, sebbene quella cristiana possa far propria tutta la tensione veramente umana ed onesta della speranza profana: non è questa l’idea ispiratrice della grande Costituzione pastorale Gaudium et spes del recente Concilio? «Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Gaudium et spes GS 1 cfr. TER., «Humani nihil a me alienum puto»).



IL DONO DELLA SALVEZZA

Concludiamo dunque correggendo la falsa concezione del credente quasi fosse un reazionario obbligato, un quietista di professione, un estraneo alla vita moderna, un insensibile ai segni dei tempi, un uomo privo di speranza; diciamo piuttosto ch’egli è uomo vivente di speranza, e che la sua stessa salvezza cristiana, iniziata e incompleta qual è, è un dono da trafficare, è un traguardo da raggiungere, perché quasi a credito, cioè solo «in speranza siamo fatti salvi» (Rm 8,24); e se egli non vuole cadere nel divoratore relativismo del tempo che passa, e non cede alla foga cieca delle novità staccate dalla coerenza con la tradizione cattolica, non è per questo retrivo al rinnovamento e al progresso improntati al disegno divino, sì bene promotore alacre e intelligente; perché è uomo della Speranza.

Riflettiamo un po’. Con la Nostra Benedizione Apostolica.

Missionari Comboniani e del Verbo Divino

Vogliamo adesso rivolgere il Nostro saluto al gruppo dei Missionari della Congregazione dei Figli del Sacro Cuore di Gesù (Comboniani), i quali hanno seguito, qui a Roma, per un anno, un corso speciale di perfezionamento e di aggiornamento, per ritornare, rinfrancati nello spirito, nel continente Africano, sconfinato campo del loro apostolato.

Tenete sempre presente, figli carissimi, che l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della Chiesa, nel senso che ne diffonde la fede salvatrice, ne allarga e perfeziona l’universale unità, si regge sulla sua apostolicità, realizza l’impegno collegiale della Gerarchia, testimonia e promuove la sua santità (Ad Gentes divinitus, 6).

Voi continuate, in mezzo ai popoli, ai quali vi manderà la Chiesa, l’opera stessa di Cristo. Siete impegnati pertanto a seguire la sua strada, ch’è quella della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio. Siano queste le virtù animatrici e fecondatrici della vostra attività missionaria, in piena fedeltà agli esempi ed agli insegnamenti del vostro venerato fondatore, Mons. Daniele Comboni.

Con questi auspici, volentieri vi impartiamo la propiziatrice Benedizione Apostolica, pegno di copiosi favori celesti.

Queremos dirigir un particular saludo de bienvenida al Grupo de Misioneros del Verbo Divino.

Amadísimos hijos: Nos es grato comprobar, cómo el deseo de infundir nuevos ánimos a vuestro ideal vocacional, y de enfervorizar vuestras inquietudes misioneras, os ha impulsado a transcurir reunidos unos días de reflexión y de sosiego espiritual. Como cooperadores de Dios, mensajeros de la paz entre los hermanos lejanos, vuestro quehacer misional ha de seguir caminos de caridad abnegada, inflamada por el espíritu apostólico, y abierta a todos para conquistar a todos para Cristo.

Os acompañamos con nuestras plegarias, para que sepáis dar testimonio de la presencia de Dios en el mundo; en prueba de Nuestra benevolencia, os otorgamos de corazón una especial Bendición Apostólica.

Gruppi di varie provenienze

Vuestra deferente visita, amadísimos Hermanos Coadjutores de la Compañía de Jesús, nos es sumamente grata. A vosotros y a vuestros Padres Asistentes, nuestra cordial bienvenida.

Estáis celebrando el primer Congreso mundial de Hermanos Coadjutores: una laudable iniciativa que demuestra un verdadero afán de superación en vuestra vida de hombres consagrados, y un no menor esmero por adquirir una preparación sólida, humana y espiritual.

No olvidéis el lema ignaciano: «omnia ad maiorem Dei gloriam». Fieles a vuestra espiritualidad y a vuestras normas comunitarias, entregad generosamente el anima al Sefior, como siervos buenos, y proseguid confiados el camino senalado por las bienaventuranzas. A elle os aliente Nuestra Bendicion Apostolica, que de corazon otorgamos a vosotros y a todos vuestros compafieros.

... in francese

We extend special greetings to Bishop Thomas and to our dear sons and daughters from Australia. Recently we had the joy here in Rome of joining in your bicentennial celebration. At this time we renew our affection for you and assure you that you remain always very close to our heart.

With great joy we welcome Bishop Baroni and our beloved sons and daughters from Khartoum. Through you we greet all the people of your noble land and renew our love for all of Africa. We think often of your continent and of the goodness and greatness that we have found there.

With great joy we welcome Bishop Baroni and our beloved sons and daughters from Khartoum. Through you we greet all the people of your noble land and renew our love for all of Africa. We think often of your continent and of the goodness and greatness that We have found there.

It is a pleasure to have with us also the large group of American sailors. We know that many of you are just back from Vietnam. We take this occasion to tell you how we have prayed and worked for peace and how much we desire to see the end of war and the conquest of love.

To all of you with affection Our special Apostolic Blessing.


Martedì, 2 giugno 1970

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Uno dei caratteri salienti della formazione spirituale del cristiano risultante dal Concilio è certamente il senso comunitario.

Colui che intende accogliere lo spirito e la norma del rinnovamento conciliare si accorge d’essere modellato da una pedagogia nuova, che lo obbliga a concepire e ad esprimere la vita religiosa, la vita morale, la vita sociale in funzione della comunità ecclesiale alla quale appartiene. Tutto nel Concilio parla della Chiesa; ora la Chiesa è Popolo di Dio, è Corpo mistico di Cristo, è comunione. Non è più possibile dimenticare questa realtà esistenziale, se si vuole essere cristiani, essere cattolici, essere «fedeli». La vita religiosa non si può praticare come espressione individualista del rapporto fra l’uomo e Dio, fra il cristiano e Cristo, fra il cattolico e la Chiesa; e neppure si può concepirla come espressione particolarista, come quella che in un gruppo autonomo, avulso dalla grande comunione ecclesiale, trova la propria soddisfazione ed evita interferenze estranee, sia di superiori, che di colleghi o di seguaci, estranei ad un’esclusiva mentalità di iniziati, propria del gruppo chiuso e pago di se stesso. Lo spirito comunitario è l’atmosfera necessaria del credente. Il Concilio ha richiamato alla coscienza e alla pratica della vita religiosa e cristiana il respiro di questa atmosfera.

Facciamo subito due riserve; o meglio, due ovvie osservazioni. Il fatto religioso, nella sua essenza, nella esigenza profonda e irrinunciabile, rimane un fatto personale. Perciò libero e proprio di colui che lo pone. Il rapporto fra l’uomo e Dio si celebra nella coscienza individuale, e proprio nel momento in cui l’uomo si sente persona, pienamente responsabile e tendenzialmente rivolto a decidere del proprio destino (Cfr. Summ. Theol., II-II, 81). Anzi l’adesione alla vita comunitaria della Chiesa, lungi dal prescindere dall’apporto personale del fedele, sia nell’esercizio della preghiera, - la preghiera liturgica -, sia in quello dei rapporti sociali, cioè quelli della giustizia e della carità, lo provoca e lo esige. La fede non ci è data mediante la Chiesa? La grazia non ha i suoi canali attraverso il ministero di lei? Che cosa conosceremmo noi di Cristo, se ella non ci fosse maestra? (Cfr. J. A. MOEHLER, Die Einheit in der Kirche, 1, 1, 7; L’unité dans l’Eglise, p. 21) «La liturgia stessa richiede che l’anima tenda alla contemplazione; e la partecipazione alla vita liturgica . . . e una preparazione eminente all’unione con Dio mediante contemplazione di amore» (MARITAIN, Liturgie et contemplation, p. 14). Potremmo approfondire il tema osservando come lo spirito comunitario, al quale ora ci educa la Chiesa, non è una novità, ma piuttosto un ritorno alle origini della spiritualità del cristianesimo; e come esso, lungi dal soffocare la effusione personale del fedele, la ravviva nel ricordo e nell’atteggiamento pratico di quel «sacerdozio regale», proprio del battezzato, di cui oggi tanto si parla, dopo che il Concilio ce ne ha richiamato l’esistenza, la dignità e l’esercizio (Lumen gentium
LG 10-11 etc.).



LE CHIESE LOCALI

Analoghe osservazioni si possono fare circa la legittima e provvidenziale esistenza di gruppo, che si costituiscono in «religioni» particolari, che si prefiggono l’imitazione di Cristo e la pratica dei consigli evangelici, secondo propri criteri, riconosciuti dall’autorità della Chiesa per il conseguimento della perfezione cristiana (ibid., 43). Ma anche questi, con stile proprio, vivono nella Chiesa, della Chiesa, per la Chiesa; e non sono affatto distolti dall’interna ed esterna comunione con lei; anch’essi hanno, e spesso più di altri, il senso, il gusto, lo zelo dello spirito comunitario.

Così possiamo dire dell’esistenza più che riconosciuta, onorata delle Chiese particolari, con proprie tradizioni, riti e norme canoniche; ma anche per esse la «comunione» è il requisito indispensabile dell’appartenenza all’unica vera Chiesa di Cristo: su questo nome benedetto della «comunione» fa perno tutta la questione dell’ecumenismo, al quale parimente il Concilio ci ha richiamati e ci vuole educati.

Aggiungiamo anche la menzione delle Chiese locali, che non sono frazioni staccate e autonome nell’unità della Chiesa universale, ma sono porzioni aderenti, sono membra vive, sono rami fiorenti di lei, dotate di propria vitalità emanante da un unico principio di fede e di grazia; ma sono espressioni anche esse, nello studio stesso di dare pienezza alla loro interiore ed originale comunione, della totale comunione ecclesiale, testimonianza della geniale e originale armonia della varietà nell’unità (Cfr. Lumen gentium LG 23 LG 26, etc.).

Ma detto questo resta che la Chiesa, rianimata e illustrata dal Concilio, si presenta, oggi più che nel passato, comunitaria. Anzi più si dilata nel mondo, e più si definisce per intrinseca e costituzionale necessità una «comunione» (Cfr. HAMER, L’Eglise est une communion, 1962; e art. su L’Osservatore Romano del 22 maggio 1970). Si noti il vertice sociale di questa definizione: l’umanità può essere considerata come una massa, una quantità numerica, o una semplice categoria di esseri umani, folla amorfa e priva di profondi e voluti vincoli interiori; ovvero una società pluralista ed anonima; ovvero una comunità associata da particolari fini o interessi; un Popolo, una Nazione, una Società di Nazioni . . . Ed infine una «comunione»: questa è l’umanità voluta da Cristo.



LA CHIESA, CORPO ORGANICO

Voi conoscete quali siano i requisiti, anzi i fattori di questa superlativa espressione dell’umanità: la fede, lo Spirito, la gerarchia. È la Chiesa. La nostra Chiesa.

La quale, si è comunione, che cosa comporta? Cioè, qual è la dinamica d’una tale definizione? Se la Chiesa è comunione, ella comporta una base di eguaglianza, la dignità personale, la fratellanza comune; comporta una progressiva solidarietà (Ga 6,2); comporta una obbedienza disciplinata e una collaborazione leale; comporta una relativa corresponsabilità nella promozione del bene comune. Ma essa non comporta una eguaglianza di funzioni; che anzi queste sono bene distinte nella comunione ecclesiale che è organica, è gerarchica, è corpo dalle diverse e ben qualificate responsabilità; eccetera.

La conclusione è questa; dobbiamo aumentare in noi il senso comunitario e l’esercizio delle virtù corrispondenti; cioè dobbiamo crescere nella carità: questo termine deve acquistare senso, valore, pratica; questo è lo spirito comunitario, al quale il Concilio ci vuole formati e fedeli. Come, fin dal principio della Chiesa, ci ha insegnato San Paolo: «Seguendo la verità nella carità progrediamo in tutto verso lui che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo . . . nella misura di ciascuna delle sue parti compie il suo sviluppo, per la sua edificazione nell’amore» (Ep 4,15-16).

Spirito comunitario autentico ! Con la Nostra Benedizione Apostolica.



L’assistenza spirituale alle Religiose

Fra i gruppi di questa Udienza ci piace rivolgere la Nostra particolare attenzione e il nostro saluto ai Sacerdoti incaricati dell’assistenza alle Religiose d’Italia, riuniti a Roma per il loro secondo Convegno Nazionale.

Siamo lieti, Figli carissimi, di incontrarci ancora una volta con voi per riaffermare l’importanza che noi attribuiamo alla vostra delicata missione. Le Religiose sono parte viva della comunità diocesana e sono impegnate, secondo la propria vocazione, a lavorare con dedizione per l’edificazione e l’incremento del Corpo Mistico e per il bene delle Chiese particolari (Cfr. Christus Dominus CD 31). Offrire loro, pertanto, un’assistenza adeguata sia culturale che spirituale, è certamente dovere dei rispettivi Istituti; ma anche l’autorità ecclesiastica diocesana ha l’obbligo di fornire loro i necessari sussidi perché possano vivere più pienamente la loro consacrazione a Dio e assolvere i loro compiti apostolici conforme alla propria vocazione e alle necessità dei tempi.

Ci rallegriamo perciò vivamente con voi, che avete così bene compreso questo dovere e per conseguenza volentieri incoraggiamo il vostro lavoro, lo benediciamo, invocando su chi lo svolge con tanta generosità e così alta coscienza delle necessità della Chiesa, la continua assistenza del Signore.

Gruppo di «non vedenti» di Brescia

Ci rivolgiamo ora, con cuore commosso, al piccolo gruppo di «non vedenti», Nostri concittadini bresciani, venuti dalla nostra diocesi di origine per porgerci i loro affettuosi auguri nel 50° anniversario della nostra prima Messa.

Carissimi Figli, voi avete un particolare titolo, che fra tutti vi rende i più meritevoli del Nostro amore, del Nostro rispetto e della Nostra attenzione: non solo perché ci ricordate, con la vostra presenza, le circostanze e i luoghi delle nostre primizie sacerdotali, ma perché, con la vostra condizione, voi date un magnifico esempio, che vogliamo additare all’ammirazione di tutti: noi ben conosciamo quali sentimenti vi distinguono, con quale dignità sapete portare la vostra pena segreta, quale fedeltà cristiana vi ispira e brilla nelle vostre anime, infondendovi una pace e una serenità, che si irradiano a illuminare e a confortare anche chi ha occhi per vedere, e talora, purtroppo, non vede. Voi avete questa luce spirituale, intensa, ricca, imperturbata, provata nel crogiolo della sofferenza, e perciò durevole e meritoria: la festa della luce, che celebrate ogni anno, lo dice apertamente. Continuate a diffondere questa luce, con la vostra bontà, col vostro fervore, con la vostra dedizione: la Chiesa ha anche bisogno di voi, e voi l’aiutate nell’offrire silenziosamente la vostra infermità. Ve ne ringraziamo di cuore: e mentre vi rinnoviamo il nostro compiacimento per il pensiero avuto per noi, lo ricambiamo con la Nostra particolare Benedizione Apostolica, che vi conforti e accompagni sempre, attirando su di voi, sui vostri accompagnatori e su quanti si dedicano alla vostra assistenza spirituale le continue grazie del Signore.


«Amici di Don Orione»

Un paterno saluto rivolgiamo ora ai partecipanti al Congresso Internazionale degli «Amici di Don Orione», venuti a porgerci l’omaggio della loro devozione.

Vi accogliamo molto volentieri, figli carissimi, e vi ringraziamo di questa testimonianza di affetto. Siamo rimasti assai edificati nell’apprendere il tema del vostro Convegno: «A servizio dei poveri, tesoro della Chiesa»; tema che riassume molto bene lo spirito che anima tutta l’opera del Servo di Dio Don Orione. Prendere coscienza dell’urgenza di questo dovere significa scoprire uno dei tratti più autentici del messaggio di Cristo, nato povero per noi, affinché noi fossimo arricchiti della sua indigenza (Cfr. 2Co 8,9); significa altresì risvegliare una delle più ricche sorgenti di energie spirituali della Chiesa, oggi più che mai obbligata ad effondere i suoi carismi e a prestare i suoi servizi al mondo moderno.

Formuliamo pertanto i migliori voti per voi e per il vostro Congresso, e mentre vi esortiamo a proseguire coraggiosamente in questo impegno, di cuore vi impartiamo la Nostra Apostolica Benedizione.


Il collegio di Tradate

Una parola di saluto vogliamo anche rivolgere agli ex aluuni del Collegio di Tradate, i quali, accompagnati dal loro antico Rettore, Mons. Norberto Perini, Arcivescovo di Fermo, sono qui venuti per esprimere a Noi, in occasione del Nostro giubileo sacerdotale, i loro sentimenti di filiale devozione.

Noi sappiamo, figli carissimi, che, ogni primo giovedì, voi vi riunite nel Duomo di Milano, allo Scurolo di San Carlo, per ricevere da Gesù Eucaristia forza e conforto per una testimonianza cristiana nella vostra vita familiare e professionale.

Desideriamo esprimervi il nostro vivo compiacimento per tale iniziativa, sulla quale invochiamo copiosi favori celesti, mentre auspichiamo che possiate essere sempre ed ovunque coerenti ai preziosi insegnamenti che vi sono stati inculcati nell’adolescenza.

A voi, a Mons. Perini, a tutti gli ex alunni di Tradate, alle vostre famiglie ed alle persone care impartiamo di cuore la propiziatrice Benedizione Apostolica.


Parrocchiani di Acilia

Abbiamo qui un gruppo a Noi carissimo, la cui presenza solleva nel nostro cuore il ricordo di un incontro di intensa commozione, con essi vissuto nel giorno di Pasqua di quest’anno: sono i cinquecento rappresentanti della parrocchia di San Giorgio Martire, ad Acilia, venuti col loro zelante Parroco, Padre Anselmo Zancanella, a offrirci un ricco tesoro di preghiere e di opere buone.

Vi accogliamo con tutto il cuore: questa occasione ci fa rivivere con intatto sentimento di consolazione paterna le emozioni di quel mattino di Pasqua, irradiato della certezza e della gioia della Risurrezione, quando, in mezzo a voi, abbiamo celebrato il Sacrificio eucaristico, segno e rinnovazione del Mistero pasquale; quando ci siamo incontrati con le vostre famiglie, con la vostra gioventù, con i vostri ammalati; quando abbiamo scambiato con voi, a nome e per autorità di Cristo Signore, parole di fede e di incoraggiamento, di luce e di speranza. Come quel ricordo rimane indelebilmente impresso in noi - siatene certi! - così vogliamo sperare che sia sempre custodito nella vostra parrocchia: ce ne dà la prova più bella questa offerta spirituale, che avete voluto presentarci per mezzo dei giovani, speranza del domani, letizia e forza della Chiesa. Sappiate mantenere fede agli impegni del vostro Battesimo, fate sempre onore al nome cristiano, portate nel mondo della professione e del lavoro la testimonianza del Vangelo: e soprattutto rendete ognor più la vostra Parrocchia, come ha detto il Concilio raccogliendo una parola di San Cipriano, «una fraternità che ha una sola anima» (Lumen gentium LG 28). A ciò vi conforta la Nostra Apostolica Benedizione, che estendiamo a tutti i carissimi abitanti di Acilia.




Mercoledì, 10 giugno 1970 50° ANNIVERSARIO DI SACERDOZIO DEL SANTO PADRE

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Noi ci sentiamo in dovere di esprimere a voi che ci ascoltate, affinché la nostra voce giunga anche a tutti quelli che hanno spiritualmente partecipato alla commemorazione del cinquantesimo anniversario della nostra ordinazione sacerdotale, un vivo ringraziamento. Come forse sapete, Noi avremmo personalmente preferito che questa ricorrenza passasse inavvertita, e solo da Noi celebrata, in silenzio, in preghiera, come un fatto ignorato dagli altri, e circondato gelosamente soltanto dai nostri ricordi e dal nostro interiore esame per il carattere sacerdotale, che ha qualificato la nostra umile persona, e fatto di noi un «dispensatore dei misteri di Dio» (Cfr.
1Co 4,1 2Co 6,4 1P 4,10), un ministro della Chiesa. Ma ci siamo resi conto che non poteva essere così; per due motivi.



UN SACERDOTE NON APPARTIENE PIÙ A SE STESSO

Primo, perché un sacerdote non appartiene più a se stesso; e la sua stessa vita spirituale è condizionata dalla comunione dei fratelli, ai quali si rivolge il suo ministero; egli è a loro disposizione, al loro servizio; e ciò che giova alla loro edificazione è scelta obbligata per il sacerdote; e ciò tanto più per noi, che, investiti dell’ufficio pastorale di questa Sede apostolica, spectaculum facti sumus: siamo posti alla vista di tutti (1Co 4,9), col titolo programmatico di «servo dei servi di Dio». Dovevamo quindi concederci all’interesse celebrativo, che tanti figli della Chiesa, e tanti anche oltre i suoi confini canonici, ci hanno voluto dimostrare. Mentre dunque diciamo a tutti quelli che hanno voluto esserci spiritualmente vicini in questa singolare circostanza la nostra viva riconoscenza, al Signore rivolgiamo il tributo di felicitazioni e di voti a noi presentato come un’offerta che non a noi, ma a Lui piuttosto deve essere rivolta, « rendendo sempre grazie per tutto a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo (Ep 5,20). Noi stessi, quasi sopraffatti da tante testimonianze augurali, dobbiamo poi essere, non solo grati, ma lieti che esse rendano onore al sacerdozio, non tanto perché da noi per cinquant’anni, a qualche modo, esercitato, ma perché da Cristo istituito in salvezza della sua Chiesa e della umanità.

E la letizia è tanto più grande quanto più spesso oggi vediamo, con immenso nostro dolore, e con pianto della Chiesa fedele, contestato, discusso, vilipeso, tradito, negato questo misterioso e ammirabile sacerdozio ministeriale, istituzione divina, scaturita dal cuore di Cristo proprio nell’ora in cui Cristo si tramutò in alimento sacrificale per essere comunicato a ciascuno dei suoi seguaci e per far di Sé Redentore principio di carità e di unità di tutto il Corpo Mistico, la Chiesa, vincendo i confini tanto ristretti del tempo e dello spazio. L’Eucaristia è infatti, nelle intenzioni di Cristo, un superamento della solitudine, in cui si trova ogni uomo che abbia vita personale, bambino o vecchio che sia; ed è un superamento della lontananza che la storia e la geografia interpongono fra le generazioni e fra le dislocazioni dell’umanità sulla terra. All’esecuzione di così inaudito e stupendo disegno occorreva uno strumento umano, un potere delegato rinnovatore del miracolo sacramentale, un servizio annunciatore e distributore (come fu all’episodio evangelico, profetico e simbolico della moltiplicazione dei pani), della Parola fatta pane di vita, carne e sangue dell’Agnello pasquale salvatore e liberatore, occorreva un ministero qualificato, occorreva il Sacerdozio di Cristo stesso, trasfuso in uomini, sublimati da discepoli in apostoli e in sacerdoti. Quando la teologia, la liturgia, la spiritualità, e vogliamo aggiungere la sociologia, metteranno in evidenza, nuovamente ai giorni nostri, queste segrete e luminose verità, come si conviene alle realtà divine ch’esse contengono e alle capacità conoscitive dell’uomo moderno, sarà grande fortuna e grande esultanza nella Chiesa e nel mondo; e il divino Sacerdozio di Cristo, comunicato nel Sacerdozio ministeriale, sarà rivendicato nella sua dignità e nella sua missione. Per questo, fratelli e figli carissimi, abbiamo gradito le onoranze, semplici ma sincere, rese al nostro Giubileo sacerdotale; non a noi, fragile creta, ma al Sacerdozio di Cristo, al tesoro divino, a noi, come ad ogni altro Sacerdote, affidato (Cfr. 2Co 4,7).


LA BONTÀ DI TANTI FEDELI

Ma vi è una spiegazione, che dobbiamo ricordare, e che rende ragione della commemorazione del medesimo nostro Giubileo sacerdotale; ed è la bontà di chi l’ha promossa e di chi ha voluto prendervi parte. Oh! non è che Noi la ignoriamo codesta bontà, la vostra bontà, fratelli e figli della santa Chiesa; noi la conosciamo, noi la sperimentiamo ogni giorno. Essa è l’oggetto della nostra ammirazione, della nostra riconoscenza, della nostra fiducia, della nostra preghiera. La bontà dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Religiosi e delle Religiose, del Laicato cattolico, di tanta nostra Gioventù, di tanta infanzia innocente, di tanti pazienti nel dolore, di tanti missionari, di tanti collaboratori, di tanti amici, di tanti fedeli-fedeli . . . . credete voi che possa essere trascurata dalla nostra valutazione della Chiesa odierna? Dubitate forse che il Papa non abbia occhi, non abbia cuore? No certo; voi sapete che codesta fedeltà, codesta bontà sono sempre a Noi presentissime.

Ma in questa occasione è capitato questo: che Noi abbiamo avuto esperienza di tanta bontà. Ne abbiamo avuto una prova, possiamo dire, nuova e sensibile. Noi abbiamo sentito sorgere da voi, dalla Chiesa tutta e da tante altre persone che le sono, per qualche motivo, vicine, un coro, un grande coro, che non poteva non riempirci di commozione e di consolazione. Quante voci, quante voci in armonia, per congratularsi con noi del Sacerdozio di Cristo a noi conferito e da noi per cinquant’anni esercitato. Noi abbiamo ascoltato piangendo e benedicendo Iddio questa onda saliente di voci autorevoli e gravi alcune, di voci affettuose e pie altre, di voci umane vicine e lontane innumerevoli. Lasciate che diamo questo riconoscimento di bontà, di cortesia, di pietà, di augurio a tutte, ma che vi diciamo quanto conforto ci abbiano portato specialmente alcune: quelle delle persone consacrate al Signore, quelle dei nostri Seminari e Noviziati, quelle di Lavoratori cristiani, quelle di tante Scuole ed Ospedali: voci squillanti ed innocenti, voci fioche e doloranti.



DUE VOCI SIGNIFICATIVE

Quanto è buona la Chiesa, ci siamo detti; quanto buona la società stessa profana che ci circonda! Quale attestato delle virtù cristiane ed umane è venuto al povero Successore di Pietro, che nelle presenti vicissitudini non può spesso celare la sua pena per tante cause, a tutti ben note, di apprensione per la fede, per la carità, per la pace nella Chiesa e nel mondo.

Vogliamo, a titolo di esempio, citarvene due di queste voci, due testimonianze orali, senza escluderne nessun’altra! Ecco: quella d’un ragazzo proveniente da un Paese oltre cortina, durante un’Udienza generale; un ragazzo del popolo, timido e ardito, trasparente di semplicità e di innocenza, il quale s’era imparato a memoria alcune parole in latino e alcune nella sua propria lingua per dire a noi la sua fedeltà e quella del suo Paese. Egli ci costrinse a fermarci un istante, perché lo ascoltassimo. Come non farlo, anche in momento così poco propizio, affascinati da tanto candore e da tanto evangelica bontà?

E quella d’un vecchio venerando, un po’ tremante, ma sicuro del messaggio che, dopo una cerimonia in San Pietro, si era prefisso di comunicarci; ed era questo: «Coraggio, Santo Padre, coraggio!». Era Saverio Roncalli, il fratello di Papa Giovanni, quasi interprete del Nostro venerabile Predecessore.

Così! Grazie, grazie a tutti; e a tutti la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 10 giugno 1970


Paolo VI Catechesi 27570