Paolo VI Catechesi 21068

Mercoledì, 2 ottobre 1968 LA PRIMA BEATITUDINE

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Diletti Figli e Figlie!

Se vogliamo continuare nella ricerca delle espressioni peculiari che il Concilio ha messo in circolazione, e che per noi, fedeli ai suoi insegnamenti, formano motivo di considerazione e di impegno, ne troviamo una molto semplice nel concetto, ma difficile nell’applicazione, ed è questa: la Chiesa dei Poveri. È una bella espressione. Ci riporta l’eco del Vangelo; Gesù attribuisce a Sé il vaticinio di Isaia: «Lo Spirito del Signore . . . mi ha inviato ad evangelizzare i Poveri» (
Is 61,1 Lc 4,18); e la sua prima beatitudine, come tutti ricordiamo, suona così: «Beati i Poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). E poi, chi non ricorda la povertà di Gesù e la sua amabilità per l’umile gente, e le raccomandazioni fatte ai suoi apostoli affinché fossero staccati dalle cose terrene e senza pretese di essere forniti d’ingombranti beni temporali? L’esempio del Signore è riassunto in una sentenza lapidaria di San Paolo: Gesù Cristo «si è fatto misero per noi essendo lui ricco, affinché per la sua povertà voi diventaste ricchi» (2Co 8,9). Si delinea da tutto il messaggio della salvezza una esortazione alla povertà, che ci mostra un’intenzione divina penetrante in tutto il sistema dei rapporti soprannaturali instaurati dalla rivelazione fra Dio e l’uomo: il disegno salvifico di Dio si rivolge agli uomini staccati dai beni della terra; la povertà di spirito entra come una componente costituzionale nel piano della religione cristiana. Apposta si è parlato d’una teologia della povertà, la quale non ha mancato di far sentire la sua voce in pieno Concilio, specialmente mediante un ampio ed esplicito intervento del Cardinale Lercaro (Congr. Gen. 35, 6 dicembre 1962), da lui ripreso in altri termini nella terza Sessione (Congr. Gen. 114, 4 novembre 1964), e seguito da altre voci e da particolari proposte (cfr. il progetto alla fine del Concilio dell’Arcivescovo di Vitória).


UN'APOLOGIA ORIENTATRICE

I documenti del Concilio, pur senza dedicare al tema una trattazione speciale, hanno raccolto qualche eco di queste voci e molto ne hanno riportato dello spirito; basti una citazione: «Lo spirito di Povertà . . . è la gloria e .il segno della Chiesa di Cristo» (Gaudium et spes GS 88 e Lumen gentium LG 8); e basti ricordare la diffusa esortazione al Clero nel Decreto sulla vita sacerdotale (Presbyterorum ordinis PO 17). L’idea della povertà della Chiesa diventa feconda. Molti ne parlano, libri interi la illustrano, talvolta con qualche intenzione polemica che ne dimostra le difficoltà e la necessità. Comincia una letteratura canonica al riguardo, specialmente nelle norme rinnovate dei Sinodi episcopali e dei Capitoli religiosi. Recentemente l’Assemblea dei Vescovi dell’America Latina a Medellin dedica a questo tema uno dei suoi documenti finali, concludendo con l’apologia della povertà, dando orientazioni pastorali che fanno di essa una prova di solidarietà con le categorie sociali più umili, una testimonianza esemplare dello stile proprio della vita ecclesiastica ed infine attestato dello spirito di servizio che deve caratterizzare l’attività della Chiesa.



IL LAVORO CORRISPONDE AI PRECETTI DI DIO

Palpita in questa coraggiosa revisione, che la Chiesa fa di se stessa, il rinnovamento spirituale e pratico, auspicato dal Concilio, e che tutti, secondo le proprie condizioni, devono per se stessi ed intorno a sé favorire. Si presenterà a questo punto una grande e complessa difficoltà, oggi più che mai ricorrente, quella dell’atteggiamento da tenere nei confronti con i problemi economici; difficoltà, che diventa più grave dal fatto che proprio il Concilio, ripetendo una nota ottimistica, che si distingue nel concerto dei suoi insegnamenti, ci insegna «ad avere stima per i valori umani e ad apprezzare i beni creati come doni di Dio» (Presbyterorum ordinis PO 17); c’insegna a far progredire i ,beni creati mediante il lavoro umano, mediante la tecnica e la cultura civile (cfr. Lumen gentium LG 3); c’insegna che il lavoro, e in genere tutta «l’attività individuale e collettiva, ossia, quell’ingente sforzo con cui gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio» (Gaudium et spes GS 34); così che «i cristiani, i quali hanno parte attiva nello sviluppo economico-sociale contemporaneo . . . sappiano di contribuire molto alla prosperità del genere umano e alla pace del mondo» (Gaudium et spes GS 72); tanto che Noi stessi abbiamo patrocinato lo sviluppo dei Popoli come indispensabile coefficiente della pace (cf. Enc. Populorum progressio).

La necessità dei beni economici è imposta dalla natura umana stessa, bisognosa di pane (cfr. Mt 6,11 Lc 11,3 Mt 6,32); e dal dovere di trafficare i talenti (Mt 25,15); di procurare ad altri i mezzi per vivere e prosperare (cfr. Mt 20,6). Vi è chi lamenta «l’abitudine di mettere sotto accusa la tecnica, produttrice di ricchezza, come strumento di repressione della libertà umana, mentre si sollecitano i benefici della sua produttività» (L. de Rosen). Tutta la vita moderna, dominata da finalità temporali, e specialmente da quelle economiche, rivolte alla produzione, alla distribuzione, al godimento dei beni terreni, sembra incentrarsi sulla ricchezza, sulla sociologia pro o contro il capitalismo, cioè sopra una concezione contraria alla povertà, alla quale oggi la nostra vocazione cristiana più fortemente ci sollecita. Come si risponde a questa fondamentale difficoltà?

LA CONDIZIONE DEL CRISTIANO

Figli carissimi! Avvertire la difficoltà, cioè la condizione problematica del cristiano a causa del Vangelo della povertà è già una iniziale risposta, è già scoprire la situazione drammatica in cui l’uomo si trova precisamente per la vocazione, che gli è presentata da Cristo, ad una vita superiore e diversa da quella puramente naturale, limitata e vincolata alle leggi e alle necessità dell’ordine materiale e terreno. Piaccia, o non piaccia, la povertà di Cristo, essa è essenzialmente una liberazione, un invito ad una vita nuova e superiore, dove i beni dello spirito, non quelli terrestri, hanno il primato, che per alcuni - i seguaci perfetti (cfr. Mc 10,21) - diventa esclusivo, per altri gerarchico (cfr. Mt 6,33, quaerite primum); è la condizione migliore per entrare nel regno di Dio (cfr. Mt 5,3); è l’iniziazione non all’ozio, non alla miseria, non all’incomprensione del mondo che suda e lavora, che edifica e progredisce, ma all’amore. Per amare bisogna dare; per dare bisogna essere affrancati dall’egoismo, bisogna avere il coraggio della povertà.


RINUNCIA E GENEROSA DEDIZIONE

Il possesso e la ricerca della ricchezza, come fine a se stessa, come unica garanzia di benessere presente e di pienezza umana, è la paralisi dell’amore. I drammi della sociologia contemporanea lo dimostrano; e con quali prove tragiche ed oscure! E dimostrano che l’educazione cristiana alla povertà sa distinguere innanzi tutto l’uso dal possesso delle cose materiali, e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine supremo, ch’è Dio, e del suo ottimo fine prossimo, ch’è il fratello da amare e da servire, dalla carenza di quei beni temporali che sono indispensabili alla vita presente, cioè dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere, è carità provvedere; come oggi saprà distinguersi dalla diffidenza verso il lavoro organizzato e produttivo, la quale non riconosce «il valore liberatore dello sviluppo economico», e quindi il valore morale dello sforzo orientato ad una produzione d’utilità umana e comune.

Il tema, come vedete, si fa ampio e complesso. Noi ci fermeremo qui; all’elogio della povertà, che purifica la Chiesa da superflui e punto esemplari interessi temporali; che le insegna a rifuggire dal mettere il cuore e la fiducia nei beni di questo mondo (cfr. Lc 12,20); che ritrae il cristiano da ogni ruberia e disonestà amministrativa, da ogni illegale e spesso ossessivo affarismo; che sensibilizza gli animi ai bisogni e alle ingiustizie che opprimono tanta umile gente; che abitua tutti a fraternizzare con persone di livello sociale inferiore (cfr. Jc 2,1 Jc 2,16); che sgombra il cuore da tanti affanni d’interessi secondari e gli restituisce la pace e la gioia della preghiera e della poesia (cfr. il cantico di San Francesco).

È una grande, severa lezione quella che il Concilio ci dà sulla povertà: non sia recitata indarno per noi. E con questo comune voto, tutti di cuore vi benediciamo.

Gruppo di Senatori del Vietnam (in francese)

Religiosi della Congregazione di S. Vincenzo de’ Paoli (in francese)

«Piccole suoore dei poveri» (in francese)


Giovani avieri di Latina

Inviamo ora un particolare saluto ai due numerosi gruppi di Avieri, in servizio nell’Aeroporto. di Pratica di Mare e in quello di Latina, i quali partecipano a questa Udienza insieme con alcuni Ufficiali del Comando e con il loro Cappellano.

Siamo veramente lieti di vedervi qui, perché la vostra presenza è particolarmente significativa. Siete giovani, e perciò rappresentate ai Nostri occhi il quadro promettente della gioventù di oggi, piena di speranze e di promesse, alla quale vanno le più premurose sollecitudini della Chiesa, le sue cure, le sue attese, la sua fiducia, la sua trepidazione, il suo incoraggiamento, la sua esortazione. Siete inoltre impegnati nel servizio militare, vale a dire in una esperienza unica, irrepetibile, che certo ricorderete per tutta la, vita, destinata ad allenarvi seriamente ai vostri doveri verso la Patria, ma altresì a forgiare definitivamente in voi un carattere di uomini, provati nella disciplina, nell’ordine, nell’armonia di una comunità viva: e quindi siete, diciamo così, alle soglie di un’età nuova, quella adulta, nella quale darete il meglio di voi nella famiglia che vi formerete, nel lavoro che compirete, nel servizio della società, a cui sarete chiamati. Avete l’onore di compiere l’esperienza militare nell’Arma dell’Aeronautica, il cui spirito di fraternità e di amicizia è grande, temprato com’è ad una scuola quotidiana di ardimento, diciamo pure di eroismo: e questo darà certo particolare tono alla piena formazione umana, a cui attendete.

A tanto vi incoraggiamo con l’assicurazione della Nostra benevolenza, e soprattutto della Nostra preghiera. E vi esortiamo a mettere sempre al primo posto, tra le componenti essenziali di codesta formazione completa, il dovere religioso, che è quello che sublima l’uomo e gli fa raggiungere la sua piena statura, nel tempo e per l’eternità: vogliamo dire la fede, che, come ha sottolineato il Concilio, «tutto illumina con una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo e perciò guida lo spirito verso soluzioni pienamente umane» (Gaudium et spes GS 11); una fede forte, convinta, profonda, matura, nutrita di solidi fondamenti di dottrina; alimentata alla fonte stessa della vita, che è Cristo Gesù vivente nella Chiesa; proiettata in una testimonianza costante di coerenza anche esteriore, espressa nel dominio di sé, nella lotta contro le passioni, nell’esercizio delle virtù, specie della carità. Se vi terrete fedeli a un tal programma, non avrete trascorso invano il periodo delicato e stupendo, ch’è la vostra giovinezza, e potrete affrontare serenamente la vita, pur con tutte le sue prove, perché ovunque e sempre avrete Dio con voi.

Vi conforti a sì alti e virili propositi la Nostra Apostolica Benedizione, che estendiamo di gran cuore anche ai vostri Superiori, ai colleghi tutti, e alle vostre famiglie lontane.




Mercoledì, 9 ottobre 1968 AL CENTRO DEL PIANO DELLA NOSTRA SALVEZZA

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Diletti Figli e Figlie!

Il Concilio, del quale non avremo mai finito di parlare, non per fare dell’erudizione sopra un avvenimento ormai chiuso e passato, ma per renderci conto delle idee vive, che in forza di tale avvenimento devono operare nella nostra vita religiosa e morale, ha messo in grande evidenza una parola antica, piena di significato nuovo. È la parola «servizio». Si è perfino divulgato nella Costituzione sulla Chiesa il termine greco «diaconia» (Lumen Gentium
LG 24); ed è parola riferita direttamente al ministero di coloro che nel Popolo di Dio hanno funzioni pastorali sia come Vescovi (ib. LG 20 LG 24 LG 27 LG 32; Christus Dominus CD 16), che come Sacerdoti (Presb. Ord.), o come Diaconi (Lumen Gentium LG 29), o come Alunni nei Seminari (Optatam totius OT 4 OT 9), o anche come Religiosi (Lumen Gentium LG 46); ma si estende anche ai Laici (Lumen Gentium LG 36 Ap. actuos. AA 29 Lumen Gentium LG 40 LG 42) e perfino ai Coniugi cristiani (Ap. actuos. AA 11). È una parola che fa sentire il suo eco imperativo in altre espressioni, che hanno grande risonanza nel discorso ecclesiastico, là dove si esprime sull’apostolato, sulla carità, sulla giustizia, sul bene comune (cfr. nel volume «L’Episcopat et Eglise Universelle» lo studio di P. Congar pp. 101-132).

Ed è parola da ricordare, perché si trova al centro del piano della nostra salvezza, la quale fu compromessa radicalmente dalla sua originaria negazione : «non serviam», io non servirò (cfr. Jr 2,20), dalla ribellione cioè dell’umanità all’ordine e all’amore di Dio; e dovette essere riassunta dal Messia redentore, chiamato appunto nella profezia d’Isaia «il servo di Dio» (Is 42,1, etc.), e attribuita da Gesù a Se stesso, come un programma suo proprio: «Il Figlio dell’uomo, dice Cristo di Sé, non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28); e in ogni suo aspetto (cfr. Ph 2,6-11) in ogni suo insegnamento (Mt 18,4 Lc 22,24-27), in ogni suo esempio (Lc 9,55 Jl 13,14-15) si presentò e si professò umile e sollecito non del vantaggio proprio, ma di quello altrui. Così gli Apostoli: S. Paolo, a cui non mancò, come apostolo, l’autorità e l’energia per affermarla, è sempre penetrato dal senso d’un suo dovere che egli definisce servizio, come, ad esempio, scrivendo, nella seconda sua lettera ai Corinti: «Nos autem servos vestros per Jesum», noi ci dichiariamo vostri servitori per amore di Gesù (2Co 4,5); e ai Tessalonicesi: «Parvuli facti sumus in medio vestrum» , ci siamo fatti piccoli in mezzo a voi (1Th 2,7-12); preferendo usare indulgenza, piuttosto che comando (cfr. 2Co 7,6 2Co 8,8).



POTESTÀ E AUTORITÀ GERARCHICA

Questa concezione del rapporto fra chi è costituito capo e responsabile della comunità ecclesiale e la comunità dei fedeli si perpetuò nella Chiesa, in riferimento, com’è ovvio, all’esercizio della potestà gerarchica, nella scia del precetto e dell’esempio del primo fra gli Apostoli, Pietro, che esorta specialmente i Seniori (cioè i Vescovi e i Sacerdoti) a comportarsi come pastori, «non come dominatori dei fedeli, ma come modelli del gregge cristiano» (cfr. 1P 5,3); e anche quando tale potestà dovrà rivestirsi di autorità (cfr. 2Co 10,8 2Co 13,10), di dignità (Rm 11,13 2Co 3,8), e di prestigio (cfr. 1Co 4,21 Ga 1,8 2Co 11,28 cfr. S. Ignazio d’Antiochia e S. Cipriano, e la successiva tradizione), essa si attesterà sempre (difetti e esagerazioni a parte) come essenzialmente interprete della celebre formula di S. Agostino: prodesse, non praeesse, cioè: giovare, non dominare (De Civ. Dei, 19, 17; P. L. 41, 647), la quale diventerà protocollare col Papa Gregorio Magno (590-604), che, valendosi di analoghe espressioni già in uso (cfr. S. Agostino, EP 217, P. L. 33, 978) attribuirà a se stesso, come «sommo pontefice della felicissima Urbe Romana» (Giovanni Diacono, Vita S. Gregorii, II, 1; P. L. 75; 87), il titolo, rimasto tradizionale, di «servus servorum Dei» , servo dei servi di Dio (cfr. P. L. 77, 747: «Ego . . . cunctorum sacerdotum servus sum» (cfr. DACL 15, 1, 1360 ss.).

Cioè: il dovere del servizio è inerente all’autorità; e tanto maggiore è tale dovere quanto più alta è tale autorità. È un concetto che nasce dalla esplorazione della natura e delle funzioni della società umana; deriva dall’idea del bene comune e della pubblica utilità, dall’idea dell’eguaglianza fra gli uomini, dall’inviolabilità della persona umana; un concetto che deriva dal diritto naturale (cfr. Taparelli, Saggio di Diritto naturale, n. 426, etc.; Lener, Lo stato sociale contemp., p. 95 ss.); ma concetto che la storia dimostra quanto sia stato alterato e contraddetto dalle passioni umane. Cristo lo rivendicò al suo Vangelo (Lc 22,25); e nella Chiesa rimane; ed oggi la società civile parimente ne fa sua legge, anche se non sempre suo costume (cfr. Coste, Morale internat. 1964).

LE DOTI PASTORALI ED EVANGELICHE DELLA CHIESA

Rimane e rivive, oggi col Concilio; ed è uno dei criteri informatori del rinnovamento della vita ecclesiale. Non è una novità, ma una tradizione. Ci sia consentito citare le famose parole del Manzoni a proposito d’un suo personaggio ideale, Federigo Borromeo; il quale era «persuaso in Cuor suo . . . non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio» (Promessi Sposi, c. 22). E rallegriamoci, noi tanto inclini a parlar male del nostro tempo, perché questo principio che stabilisce essere l’autorità un servizio non è più contestato da alcuno; e nella Chiesa di Dio trova unanime consenso, anche quando certe apparenze esteriori e certe forme consuetudinarie, che cedono gradualmente la successione ad un nuovo stile ecclesiale, conducono il pensiero ad altri concetti di potenza arbitraria, di utilità personale, di prestigio fastoso, di superiorità ereditaria, che la storia dei tempi passati ha accreditati come legittimi ma poi ha tramandati come fossero inerenti alla natura e all’esercizio dell’autorità. La storia contemporanea esige un’evidenza diversa: la Chiesa è servizio. E se ancora, e sempre, l’autorità nella Chiesa è necessaria, perché voluta da Cristo e da Lui derivante (Mt 16,18-19), e conserva perciò il suo indispensabile valore costituzionale e mistico, come veicolo dei misteri divini (1Co 4,1) e come interprete della verità (Lc 10,16) e della volontà di Cristo nella sua Chiesa (Jn 21,15 ss.), essa tuttavia va più palesemente rivestendosi degli attributi che le sono propri, quelli pastorali, quelli evangelici; e come servizio si attesta, come amore perciò, come sacrificio coraggiosamente consumato per il bene altrui, per il bene del gregge di Cristo, per la Chiesa tutta (cfr. Jo Jl 10,11).

Questa purificata visione della struttura gerarchica e comunitaria della Chiesa si presta a lunga meditazione, che la sua odierna vitalità dispiega in vaste considerazioni storiche, in nuovi propositi di sincerità ecclesiale, in sapienti elaborazioni di nuove norme canoniche; e ci induce a riflettere come tutti nella Chiesa abbiamo una nostra «diaconia» un nostro servizio da compiere. Né l’esaltazione della singola personalità umana, né la rivendicazione della civile libertà religiosa, né il primato operativo riconosciuto alla coscienza illuminata dalla dottrina autorevole della Chiesa circa la legge divina, ci dispensano dalla generosa, docile e ordinata prestazione del nostro servizio al bene dei fratelli e dell’incremento della vita ecclesiastica; ché anzi questi nostri personali diritti trovano in tale servizio una loro libera, onorevole e meritoria espressione.


TUTTI CHIAMATI A SVOLGERE UNA MISSIONE VOLUTA E DERIVATA DA DIO

Così pure questa vocazione di servizio, che nel sacerdozio ministeriale diventa missione totale, non cambia per nulla le prerogative delle funzioni della gerarchia, delle sue potestà dottrinali, giurisdizionali e santificatrici, quasi ch’esse derivassero democraticamente dalla comunità ecclesiale, dal Popolo di Dio, come taluno oggi va erroneamente affermando; esse derivano da Dio, da Cristo, dall’ordine sacro e dal mandato di chi nella Chiesa è gerarchicamente costituito; sono invece al bene del Popolo di Dio destinate; e se oggi questa destinazione acquista la sua primaria importanza, e comporta nell’esercizio dell’autorità forme sempre più corrispondenti alla sua natura spirituale e alla sua finalità pastorale, cioè al servizio che la giustifica e la esige piena di umiltà e di amore, tanto più essa vuole in sé rispecchiare l’immagine di Cristo vivente in chi nella Chiesa ne rappresenta, ne promuove, ne perpetua la missione salvatrice.

Voi vi accorgete, Figli carissimi, che così parlando (e prescindendo ora da ogni altro Confratello nella funzione gerarchica) non tanto Noi facciamo la Nostra apologia, quanto la Nostra umile autocritica; e che perciò Ci raccomandiamo alla vostra indulgenza, alla vostra obbedienza, alla vostra preghiera. Vi ricompensi il Signore mediante la Nostra Benedizione Apostolica.

Emigrati in Argentina in visita all’Italia

Un saluto particolarmente cordiale e commosso va ora al numeroso gruppo degli Emigrati italiani in Argentina, che tornano in Patria per un breve periodo di vacanze, per la prima volta dopo lunghe decine di anni. Diletti Figli e Figlie: «viaggio di ricordi» è stato chiamato tanto significativamente il vostro temporaneo ritorno organizzato dal Console italiano in Argentina e favorito da benemeriti Enti: e, certamente, una folla di ricordi vi accoglie ora, negli incontri con i congiunti, gli amici, i conoscenti del suolo natio, che un giorno avete lasciato, e vi seguirà e accompagnerà per tutta la vita, come pegno dolcissimo della vostra permanenza in Italia. Fra questi ricordi, ne siamo certi, voi conserverete quello di oggi; e Noi vorremmo proprio che le Nostre parole si stampassero a fondo nel vostro spirito, per dirvi tutto l’amore, l’incoraggiamento, la sollecitudine che il Papa, Vicario di Gesù Cristo, nutre per voi, perché siete anime umili, generose, buone, che hanno conosciuto strettezze e prove, e sfidato lotte e fatiche, conservando però integra e intatta la fede cattolica. Custoditela sempre in voi, questa fede immortale, come il patrimonio più prezioso e più santo dei vostri padri: e la vostra vita, anche in terra lontana, non mancherà di fiorire di consolazioni incomparabili. Scendano sempre su di voi le effusioni della grazia e della bontà divina: è la preghiera che facciamo per voi, mentre impartiamo a voi e ai vostri cari la Nostra particolare Apostolica Benedizione.

Esponenti colombiani della cultura

Amadísimos miembros de la Delegación Colombiana de «Cor-cultura»:

Un saludo especial de bienvenida y de gratitud por vuestra deferente visíta.

Vuestra laboriosa y primordial taréa, al servicio de la cultura, os convierte en mensajeros singulares, portadores de un fruto lleno de esperanza para el espíritu renovador de nuestro tiempo.

Que vuestra entrega apasionada a promover, cuanto de valor hay en el hombre, os impulse con entusiasmo y responsabilidad constantes, como ciudadanos profesionales y católicos activos, a mantener viva en la conciencia la llama del progreso humano y espiritual.

Nuestra Bendición para vosotros, para vuestras familias, para vuestros compañeros y para todos los hijos de la inolvidable Colombia.

Al personale dell’aeroporto Kennedy

Dear friends from Kennedy Airport,

We extend to you a most gracious welcome to the Vatican, and We wish you a most pleasant stay.

Your represent various national airlines and it is your concern to serve people as they begin or end their visit to different nations. We too experienced your service at Kennedy Airport just over three years ago when We visited the United Nations. When people travel they need assistance and understanding. We encourage you to demonstrate your love by being helpful.

We bless your work, your persons and your families.

Miamsi (in francese)



Mercoledì, 16 ottobre 1968 DEDUZIONI ERRATE E CONSEGUENZE GRAVI

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Diletti Figli e Figlie!

La riflessione sul Concilio, alla quale dedichiamo queste Nostre familiari conversazioni settimanali, s’incontra con un tema difficile, o per meglio dire, impopolare, quello dell’obbedienza nella Chiesa.

È un tema compromesso, in primo luogo, dall’aura di libertà che soffia in tutta la mentalità moderna, contraria alle limitazioni e alle costrizioni della spontaneità e dell’autonomia della persona umana, e anche dei gruppi associati in confronto con un’autorità esteriore; e compromesso, in secondo luogo, dall’apologia della libertà, nei suoi vari aspetti di libertà personale, come esigenza della dignità umana (cfr. Gaudium et spes
GS 17), di libertà dei figli di Dio (cfr. Si 15,14-15), proclamata dal Vangelo (cfr. Gaudium et spes GS 41), di libertà di conversione (cfr. Ad gentes AGD 13), di libertà della Chiesa (cfr. Dign. humanae, DH 13), di libertà nella Chiesa (cfr. Lumen Gentium LG 37 ecc.), di libertà religiosa nell’ambito degli ordinamenti civili (cfr. Dign. humanae), di libertà di ricerca scientifica, libertà d’informazione, libertà d’associazione, ecc. (cfr. Gaudium et spes); apologia che troviamo disseminata nei documenti conciliari. Come si fa a parlare di obbedienza dopo tutte queste affermazioni, tanto conformi allo spirito umano, alla maturità della psicologia contemporanea, allo sviluppo della società civile, alle insofferenze disciplinari delle nuove generazioni?

Perfino il nome di «obbedienza» non è più tollerato nella conversazione moderna, anche là dove, per forza di cose, ne sopravvive la realtà: nella pedagogia, nella legislazione, nei rapporti gerarchici, nelle norme militari, e così via. I termini di personalità, di coscienza, di autonomia, di responsabilità, di conformità al bene comune . . . prendono la prevalenza; e, come si sa, non è soltanto un cambiamento di parole quello offerto, a questo riguardo, dalla nostra società, ma un cambiamento profondo di idee, ed ora, con quali fatti e con quali avvenimenti, piccoli e grandi, ciascuno sa.


LE NEGAZIONI DELL'ANTICA VIRTÙ CIVILE E CRISTIANA

Perché l’obbedienza comporta un duplice elemento esteriore al singolo individuo, o al singolo gruppo: ascoltare un’altra voce che non la propria, ed agire in conformità a questa voce, che suona comando, che attesta un’autorità, che piega l’uditore a un modo di pensare e di fare di cui egli non è l’autore e di cui spesso non vede il perché. L’eccessiva valutazione dei criteri soggettivi non riesce più a comprendere come un altro criterio estrinseco, l’autorità, abbia titolo per interferire nella spontanea e naturale espressione d’un essere o d’un gruppo umano. Filosofi di ieri, fanno ancora da maestri a quelli di oggi, i quali non indietreggiano davanti alle estreme conseguenze della contestazione, della ribellione e perfino dell’anarchia e del nichilismo. Se ne sono vedute alcune violente applicazioni proprio in questi ultimi tempi. E quasi non bastasse a screditare l’obbedienza presso le giovani generazioni, con le negazioni, più o meno radicali, di quella antica virtù civile e cristiana, si moltiplicano le affermazioni esagerate e intollerabili; quelle dell’oppressione totalitaria, imposte con evoluti sistemi di forza e di legalismo poliziesco, e quelle dell’imposizione pubblicitaria, introdotta dai formidabili mezzi di comunicazione «di massa», come ora si dice, accolta insensibilmente e simultaneamente da docili milioni di clienti aderenti a ciò che leggono, a ciò che ascoltano, a ciò che vedono. Deve l’uomo moderno obbedire così? Non è questa invasione di voci, di idee, di esempi, di mode, di concertazioni simultanee una servitù, un’obbedienza, inavvertita e gradita, se volete, che diminuisce e avvilisce l’autonomia della personalità?

NATURA E COMPETENZA DEL MAGISTERO ECCLESIASTICO

E se dal campo profano passiamo a quello religioso, e precisamente a quello della nostra vita cattolica, non è anch’essa dominata da un dogmatismo che soffoca la libertà di pensiero e di coscienza? Quante cose sarebbero da dire anche a questo riguardo, e proprio per le recenti ripercussioni suscitate da determinati atti del magistero ecclesiastico: qual è la sua competenza? qual è la sua autorità? qual è la sua stabilità?

Non parleremo di questo amplissimo tema, che esige, per non essere deformato, trattazione assai ponderata e adeguata, che non vediamo ora possibile.

A Noi ora premerebbe lasciare in voi, Figli carissimi, che assistendo a questo incontro e ascoltando queste umili parole già fate omaggio alla cristiana virtù dell’obbedienza, lasciare in voi, diciamo, un concetto riabilitato di questa virtù. Avremmo tante cose da dire sul relativo primato di essa (cfr. S. Th. II-IIae, 104, 3): non è l’obbedienza in stretta parentela con l’ordine particolare e universale? Con l’equilibrio e l’armonia di qualsiasi società? Col bene comune? Col superamento delle debolezze e inettitudini individuali e col raggiungimento di buoni risultati collettivi e sociali? Dove finirebbe la legge, l’autorità, la comunità, se non vi fosse il culto dell’obbedienza? E nell’ambito ecclesiastico, che ne sarebbe dell’unità di fede e di carità, se una cospirazione di volontà, garantita da un potere autorizzato, lui stesso obbediente al volere superiore di Dio, non proponesse ed esigesse una consonanza di pensiero e di azione? E tutto il disegno della nostra salvezza non dipende da un libero e responsabile esercizio dell’obbedienza? Che cosa è il peccato, se non una disobbedienza al comando divino, e che cosa è la nostra salvezza se non un’adesione umile e gioiosa al piano misericordioso, che Cristo ha instaurato per chi a Lui obbedisce, come discepolo, come fedele, come testimonio? Non potremmo contemplare in sintesi di obbedienza la nostra professione cristiana, la nostra inserzione nella Chiesa, la nostra integrazione, santificante e beatificante, nella volontà di Dio?


IL «FIAT» DELLA NOSTRA PREGHIERA QUOTIDIANA

Il «fiat» che diciamo ogni momento nella nostra preghiera: «Sia fatta la tua volontà», non è l’atto più consueto e più completo della nostra obbedienza al supremo e intimo comando divino? E non sarebbe facile determinare il felice rapporto che esiste fra la vera obbedienza e la libertà, la coscienza, la responsabilità, la personalità, la maturità, la forza naturale, e ogni altra prerogativa della dignità umana, come ogni nostra onorevole e funzionale posizione nella comunità ecclesiale, solo che ci bastasse la pazienza di riandare i titoli legittimi, le esigenze ed i limiti, dell’obbedienza, quale la Sacra Scrittura e l’autentica dottrina della Chiesa ci descrive? E come potremmo parlare ancora di pace senza riferirci al principio che produce, dentro e fuori di noi, quell’ordine che appunto genera e assicura la pace, l’obbedienza, cioè? Oboedientia et pax: formula cara al ven. Cardinal Baronio, e poi al Papa Giovanni XXIII, autore dell’Enciclica Pacem in terris (cfr. Prov. 21, 28).

Sì, avremmo tante cose da dire su questo tema. Si è scritto tanto su di esso, anche in questi ultimi anni (si veda, ad esempio, una nota bibliografica al termine dello studio di Tullio Goffi, Obbedienza e autonomia personale, Ancora, Milano 1967).


«NELLA RIVELAZIONE DI GESÙ CRISTO COMPORTATEVI COME FIGLI DI OBBEDIENZA»

Ma ora una cosa sola diremo; ed è il mistero dell’obbedienza in Cristo nostro Signore (cfr. Adam, Cristo nostro Fratello, II); mistero irradiante da tutto il Vangelo, mistero che definisce Lui nostro Salvatore (cfr. Mt 11,25 Jn 6,37 Jn 26,39 Rm 5,19 Ph 2,8 etc.); e mistero, che a noi si partecipa, in modo che da «questo aspetto fondamentale dell’obbedienza non solo a Cristo, ma di Cristo a noi comunicata, scaturisce il senso cristiano dell’obbedienza» ( Lochet ).

Potremmo proseguire, e godere della scoperta dell’equivalenza che, a questo livello, l’obbedienza acquista con l’amore. Vi sarebbe tutto da dire del nuovo stile, nell’identica sostanza, che l’obbedienza acquista nella Chiesa in seguito agli insegnamenti del Concilio; un cenno vi abbiamo fatto Noi stessi nella Nostra prima Enciclica Ecclesiam suam (A.A.S. 1964, p. 657). Sigilliamo tutta questa dottrina, questa nuova pedagogia, questa nuova pratica dell’obbedienza, con la memoria dell’esortazione, che l’Apostolo Pietro, dal cui sepolcro Noi ora vi parliamo, intimava ai primi cristiani: «Nella rivelazione di Gesù Cristo (comportatevi) come figli di obbedienza» (1P 1,13-14 He 13,17).

Questo per la vostra dignità di cristiani, per la vostra fedeltà, per la vostra felicità, con la Nostra Benedizione Apostolica.



L’80° DELLA FONDAZIONE DEGLI SCALABRINIANI

Salutiamo con particolare riguardo i Superiori e i Membri della Congregazione dei Missionari di San Carlo, che tutti conoscono sotto il nome di Scalabriniani, presenti a Roma per un loro corso di aggiornamento e per la posa della prima pietra dell’edificio, che sorgerà a Roma come sede del Seminario di questa benemerita Congregazione, la quale si accinge a celebrare l’ottantesimo anniversario della sua fondazione.

L’occasione Ci è propizia per rendere onore alla memoria del fondatore di questa Famiglia religiosa, dedicata all’assistenza religiosa degli Emigranti Italiani, Monsignor Giovanni Battista Scalabrini, Comasco d’origine, Vescovo di Piacenza, morto nel 1907, lasciando di sé grande ricordo, specialmente per le sue vedute circa la posizione del Papato nello Stato Italiano e circa la partecipazione, allora sospesa, dei cattolici alla vita pubblica del loro Paese. Ma l’opera sua rimane legata alla Congregazione dei Missionari di San Carlo e alla Società di San Raffaele, ambedue rivolte al bene, come dicevamo, degli Emigranti, specialmente nelle due Americhe. Opera provvidenziale, parallela a quella d’un altro grande Vescovo, Monsignor Geremia Bonomelli; opera preveggente e benemerita verso tanti Lavoratori, esuli in cerca di lavoro e di qualche benessere e abbandonati allora alla misera sorte di stranieri, esposti a tutti i pericoli morali e sociali di ambienti sconosciuti e spesso inospitali. Auguriamo perciò a questi valorosi Missionari di perseverare nello spirito e nella fatica dell’opera scalabriniana, sviluppandone l’efficienza sia religiosa che morale e sociale. Vada ai presenti, ai loro confratelli ed a tutti gli Emigrati da loro assistiti, come pure alle comunità, a cui giunge il loro ministero, il Nostro benedicente saluto.

PARTECIPANTI A CORSI PER DIRIGENTI DEL PATRONATO ACLI

Sono presenti a questa Udienza i Partecipanti ad un corso di specializzazione, promosso dai e per i Dirigenti dei Patronati ACLI, cioè delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani; e con loro sono pure alcuni loro Colleghi provenienti da altre Nazioni. Li salutiamo di cuore.

Che cosa siano i Patronati delle ACLI tutti sanno: sono organi speciali di queste medesime Associazioni per assistere i lavoratori in tutte le loro necessità (all’infuori di quelle sindacali). La società moderna è molto complessa, possiede tante opere e provvidenze, tanti organismi e tante iniziative, in favore dei lavoratori, i quali sono presi ed angustiati da tante assillanti necessità, e sono spesso senza guida e senza assistenza, non solo per mancanza di mezzi, ma anche per mancanza di pratica e di tempo. L’assistenza del Patronato merita lode e sostegno, innanzi tutto perché è opera di fratelli a fratelli, di colleghi a colleghi, tutta pervasa di quel senso di umanità e di spiritualità, che più propriamente noi chiamiamo carità, grande, nobilissimo nome, che ci introduce nel cuore del mistero cristiano.

E merita lode e sostegno l’opera del Patronato ACLI perché intelligente, competente, moderna, addestrata alle arti delle relazioni umane dell’odierna società, dove, senza una specifica preparazione e senza un po’ di cuore, il lavoratore può trovarsi irretito dalle complicazioni burocratiche e dalle difficoltà formali, che gli impediscono di accedere a quelle stesse istituzioni che sono state concepite e promosse in suo favore: così dicasi, ad esempio, della previdenza, delle assicurazioni sia di malattia, che d’infortunio o di vecchiaia, sia per il lavoratore, che per la sua famiglia; dicasi dell’istruzione professionale, del risparmio, della disoccupazione, e così via.

Esprimiamo pertanto la Nostra compiacenza vedendo fiorire una attività, che sempre abbiamo seguito con interesse e favore, ed incoraggiamo quanti, con spirito umano e cristiano, vi dedicano cure, tempo e contributi. È opera, è esempio, è speranza che di cuore benediciamo.

Convegno «Rural Life» di Londra

We extend a special greeting to the distinguished personalities participating in the Symposium on Our recent Encyclical Populorum progressio in the third world, organized by the Intermediate Technology Development Group, of London, and the National Catholic Rural Life Conference, of the United States of America. You are discussing the direction to be given to efforts to assist the third world, and in particular the necessity of helping the individuals of that world as they are, in their actual situation and circumstances. We invoke divine guidance and illumination upon your studies, and thank you for your concern and charitable interest.

Beloved sons and daughters, to each of you and to your families, We lovingly impart Our Apostolic Blessing.

Società ecumenica «Gustave Weigel» di Washington

We are happy to note the presence today of members of the “Gustave Weigel Society” an ecumenical group which addresses its activities towards the ordinary Christian layman and woman.

You begin your pilgrimage in this Eternal City, in which was held the Second Vatican Council. We wish you a pleasant and profitable visit here, and in the other cities of your itinerary, and We pray that your activities, especially by the organization of ecumenical retreats, may be blessed by God with His richest favors and graces.

Obra de Educación y Descanso de España

Bienvenidos seáis vosotros, Trabajadores de la Obra de Educación y Descanso de España, cuya visita agradecemos cordialmente.

Vuestras actividades laborales encuentran unos días de reposo que sirven también para vuestra ulterior formación integral. Por eso habéis llegado a Roma, donde la historia y la vitalidad de la Iglesia tienen tantas expresiones de monumentos y de instituciones que pueden contribuir a robustecer vuestras creencias cristianas. Aprovechad estos días para consuelo y edificación del espíritu. Y sabed que os acompaña la Bendición que a vosotros, a vuestros familiares y compañeros de trabajo, otorgamos ahora.





Paolo VI Catechesi 21068