Paolo VI Catechesi 41268

Mercoledì, 4 dicembre 1968 IL MAGISTERO CATTOLICO E GLI ODIERNI PROBLEMI DIDATTICI

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Diletti Figli e Figlie!

Quando noi vi parliamo, quando il dovere del Nostro ministero Ci obbliga ad esprimere ciò che crediamo vero e necessario alla salvezza («guai a me se non annunciassi il Vangelo!», ammonisce S. Paolo:
1Co 9,16), quando qualche interiore testimonianza ci dà l’inebriante certezza della nostra fede (cfr. Rm 8,16), Noi siamo presi da uno spirituale sgomento, che solo il dovere e l’amore del Nostro ufficio Ci fa superare; ed è quello di non sapere parlare, di non saper dire ciò che vorremmo e ciò che dovremmo; vengono sempre alla mente i gemiti del profeta Geremia: «Ah! ah! ah! Signore Dio, ecco ch’io non so parlare» (Jr 1,6); e ciò non solo per la Nostra inettitudine, ma per due altri motivi: primo per la grandezza, per la profondità, per l’ineffabilità di ciò che si dovrebbe dire; e per il dubbio se chi Ci ascolta possa comprendere ciò che diciamo.

Quest’ultima difficoltà, quella cioè di farsi capire, diventa ai nostri giorni per quanti hanno la missione d’annunciare la dottrina della fede sempre maggiore, sempre più impegnativa, e sempre più problematica. Come tradurre in parole comprensibili le verità religiose? come conservare al dogma cristiano la sua intangibile ortodossia e rivestirlo d’un linguaggio accessibile agli uomini del nostro tempo? come mantenere gelosamente l’autenticità del messaggio della salvezza e come insieme farlo accogliere dalla mentalità moderna? Voi sapete come questa difficoltà didattica crei oggi problemi formidabili al magistero della Chiesa, e come induca alcuni maestri della religione e non pochi pubblicisti (la cui arte è di tutto rendere comprensibile, anzi facile e impressionante) a fare uno sforzo di esprimere chiaramente, felicemente la verità religiosa, in modo che tutti la possano accogliere e, in certa misura, comprendere.


PREDICAZIONE INSEGNAMENTO APOLOGETICA

Questo sforzo è plausibile, è meritorio; esso determina e qualifica l’annuncio del messaggio rivelato, cioè la predicazione, l’insegnamento, l’apologetica, la riflessione teologica. Se il contatto fra Dio e l’uomo avviene normalmente per via di parola, e non solo per via di fatti, di segni, di carismi (cfr. 1Co 2,5), occorre che la parola sia in qualche modo comprensibile; essa conserva la sua trascendente profondità, ma, mediante l’analogia dei termini in cui si esprime, può essere accettata, capita, ridotta nelle anguste proporzioni di chi l’ascolta (ricordiamo la sentenza scolastica: quidquid recipitur per modum recipientis recipitur; cioè: ciò che è contenuto, lo è secondo la capienza del recipiente). E qui si giustifica l’arte pedagogica della gradualità, dell’esemplificazione, del linguaggio parlato, come pure quella dell’eloquenza, o della rappresentazione figurativa, applicata alla comunicazione, alla trasmissione, alla diffusione del verbo rivelato.

LA PAROLA DI DIO NELL'UNIVOCO SIGNIFICATO E NELLA OBBIETTIVA AUTORITÀ

Questo sforzo di adattamento della Parola rivelata alla comprensione degli uditori, cioè dei discepoli di Dio (cfr. Jn 6,45) è esposto al pericolo di andare oltre l’intenzione che lo rende lodevole, e oltre la misura, che lo mantiene fedele al messaggio divino; cioè al pericolo di ambiguità, di reticenza, o di alterazione dell’integrità di tale messaggio; quando non sia addirittura indotto nella tentazione di scegliere nel tesoro delle verità rivelate quelle che piacciono, tralasciando le altre, ovvero nella tentazione di modellare queste verità secondo concezioni arbitrarie e particolari, non più conformi al senso genuino di quelle verità. Pericolo e tentazione, che sono di tutti, perché tutti, venendo a contatto con la Parola di Dio, cercano di adattarla alla propria mentalità, alla propria cultura; di sottoporla cioè a quel libero esame, che toglie alla medesima Parola di Dio il suo univoco significato e la sua obbiettiva autorità, e finisce per privare la comunità dei credenti dell’adesione ad una identica verità, ad una medesima fede: la «una fides» (Ep 4,5) si disintegra, e con essa quella stessa comunità, che si chiama la Chiesa unica e vera. Basterebbe questa osservazione per convincersi della bontà del disegno divino che vuole protetta la Parola rivelata, contenuta nella Scrittura e nella tradizione apostolica, da un canale trasmittente, vogliamo dire da un magistero visibile e permanente, autorizzato a custodire, a interpretare, a insegnare quella Parola.

LA RICCHEZZA DEL NOSTRO PATRIMONIO DOTTRINALE

Voi comprendete quanto sia grave e delicata la questione del nostro linguaggio religioso (cfr. Denz.-Sch. DS 1500 782 DS 2831 1658 DS 3020 1800 DS 3881 2309; Giov. XXIII, A.A.S. 1962, 790, 792): da un lato, esso deve rimanere rigorosamente conforme al Pensiero divino e a quella Parola, che ce ne ha dato originaria e originale notizia; d’altro lato, esso deve farsi ascoltare e, per quanto è possibile, capire da coloro a cui è rivolto. Nessuna meraviglia se l’insegnamento religioso appare di natura sua - per il contenuto, e per l’espressione autentica che lo comunica - difficile; e neppure v’è da stupirsi se quello sforzo di adattamento, di cui dicevamo, ossia di «aggiornamento» come ora si dice, possa talvolta riuscire imperfetto sia a riguardo della dottrina da esporre, sia a riguardo degli uditori a cui farlo accettare. E nessuna meraviglia se le forme di studio e d’esposizione teologica sono molteplici; e una può essere impegnata alla considerazione d’un dato aspetto della dottrina, e un’altra rivolta piuttosto ad un aspetto autentico ma diverso; anzi questa molteplicità di forme è auspicabile; essa indica la ricchezza del nostro patrimonio dottrinale, indica la fecondità inesauribile delle esplorazioni esegetiche, speculative, storiche, letterarie, morali, bibliche, liturgiche, mistiche, eccetera, di cui esso può essere oggetto; indica altresì la relativa libertà di studio e di esposizione, che consente agli studiosi, ai maestri, agli artisti ed anche ai semplici fedeli di attingere alla fonte d’acqua viva della dottrina della fede quanto occorre alla nostra sete.


ASSOLUTO RISPETTO ALL’INTEGRITÀ DEL MESSAGGIO RIVELATO

Ma una condizione è necessaria, quella che dicevamo dell’assoluto rispetto all’integrità del messaggio rivelato. Su questo punto la Chiesa cattolica, voi lo sapete, è gelosa, è severa, è esigente, è dogmatica. Le formole stesse, in cui la dottrina è stata meditatamente e autorevolmente definita, non si possono abbandonare; a questo riguardo il magistero della Chiesa, anche a costo di sopportare le conseguenze negative dell’impopolare involucro della sua dottrina, non transige; non può fare altrimenti. Gesù stesso, del resto, ha sperimentato la difficoltà del suo insegnamento; molti dei suoi uditori non l’hanno capito (cfr. Mt 13,13); anzi perfino ai suoi prediletti discepoli, ai quali, come a tutti i presenti, pareva duro il suo discorso e ne provavano scandalo (Jn 6,60-62), quando Egli annunciò loro il mistero eucaristico, Gesù non esitò a proferire una domanda molto dolorosa: «Volete andarvene anche voi?» (ibid. Jn 6,68).

È un problema sempre angoscioso. La funzione poi del magistero ecclesiastico è oggi diventata difficile e contestata. Ma esso non può venir meno alla sua consegna, e deve dare la sua fedele testimonianza, a qualsiasi costo, quando in materia di fede e di legge divina ciò fosse necessario; ma tuttavia esso per primo studia ed incoraggia quanto possa rendere più accetto agli uomini del nostro tempo il suo insegnamento dottrinale e pastorale.

Voi, carissimi Figli, che certamente avvertite la prova, a cui ora è esposta la missione docente della Chiesa, la vorrete condividere e sostenere, con la vostra fedeltà, con l’appoggio ai buoni studi teologici e didattici, con la promozione dell’autentico insegnamento religioso, con la professione, nella preghiera liturgica e nella vita morale, della vostra fede cristiana, e anche con una certa indulgenza di famiglia alla non infrequente imperizia del discorso ecclesiastico e cattolico, scritto o parlato che sia. Fiduciosi di ciò, ve ne ringraziamo con la Nostra Benedizione Apostolica.

I giovani coltivatori diretti

Desideriamo ora rivolgere un saluto particolarmente cordiale ai cinquecento partecipanti al Congresso Nazionale dei Gruppi Giovani Coltivatori e del Movimento Donne Rurali, guidati a questa Udienza dal benemerito Presidente Nazionale della Confederazione dei Coltivatori Diretti, l’on. Paolo Bonomi, e dallo zelante Consigliere Ecclesiastico Monsignor D’Ascenzi. L’interesse con cui Noi vi seguiamo, e l’importanza del tema del Congresso, che considera «La gioventù rurale di fronte al problema della formazione della nuova famiglia coltivatrice», avrebbe richiesto molto maggior tempo di quello che abbiamo a disposizione, per potervi dire quella parola che vi attendete da Noi. Ma sappiamo che, sia in fase di preparazione ai lavori congressuali, sia in questi giorni, avete approfondito e continuerete a studiare l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia, quale l’hanno dato i Nostri Predecessori, quale l’ha illustrato il Concilio Ecumenico Vaticano II, e quale Noi stessi, con la recente Enciclica Humanae vitae, abbiamo proposto, per il bene della società, e la serenità delle famiglie.

Vi esortiamo pertanto a far vostro, sempre più vostro quell’insegnamento, chiaramente conosciuto nelle sue linee maestre e generosamente vissuto nella sua pratica esistenziale. La famiglia rurale attraversa oggi un periodo di difficoltà, le cui implicanze materiali non sono certo le più ardue in confronto col cambiamento della mentalità in atto e con le sollecitazioni edonistiche dell’ambiente esterno. A voi giovani, che guardate al domani con sguardo realistico e positivo, è data la grande responsabilità delle famiglie dell’avvenire: come vivranno, come si moveranno nel contesto del progresso sociale, come, soprattutto, saranno centri di coesione spirituale e di energia morale per ciascuno dei componenti; a voi, donne, è affidata la parte più difficile, perché più nascosta, di assicurare alle vostre famiglie, di oggi e di domani, il tepore dell’affetto, l’assiduità delle cure educative, la dirittura del costume cristiano, il fervore della pietà e la ricchezza della fede.

Preparatevi ai vostri compiti; quali artefici di un’umanità equilibrata e operosa, sappiate acquistare giorno per giorno quella ricchezza di doti personali, di nozioni professionali, di risorse spirituali, che vi sono e saranno di insostituibile aiuto per dare il meglio di voi stessi in questo ampio, severo ma entusiasmante dovere. Il Signore, che ve ne chiederà conto, ve ne dà altresì la grazia per corrispondervi degnamente: Noi lo preghiamo ardentemente per voi, affinché vi conceda l’abbondanza delle sue grazie, di cui vuol essere pegno affettuoso la Nostra Benedizione Apostolica a voi, ai vostri cari ed all’intera dilettissima Confederazione dei Coltivatori Diretti.




Mercoledì, 11 dicembre 1968

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Diletti Figli e Figlie!

Sul tema più alto, più proprio, più fecondo, più gioioso della nostra professione di credenti e di religiosi non vi diciamo ora che pochissime parole, appena un cenno, quasi per ricordare che questo tema esiste ed ha una ragione d’essere fondamentale; ma non di più, perché troppo vi sarebbe da dire, e perché oggi non se ne vuole sentire parlare.

Qual è questo tema? Questo tema è Dio. Sì, Dio stesso; Che quando noi affermiamo che esiste, e che possiamo e dobbiamo conoscere essere Egli la prima, la somma, l’assoluta, l’infinita Realtà, dobbiamo subito soggiungere che non sappiamo bene Chi Egli sia, se non con uno sforzo discorsivo, non con una intuizione adeguata e immediata, del nostro pensiero, il quale, arrivando al termine della sua ascensione, si sente come accecato dal Sole divino, e deve balbettare definizioni negative su Dio, dicendo ciò ch’Egli non è, non potendo dire che in termini di sublimazione analogica qualche cosa su di Lui, al Quale è pur obbligata a tendere la nostra intelligenza (cfr. S. Th. I, I, 7, ad 1). Dio è mistero. Ed allora non solo l’Oggetto stesso del nostro atto religioso rimane infinitamente ineffabile (cfr. Garrigou-Lagrange, Dieu, p. 712, ss.), ma la nostra intelligenza umana, la nostra educazione scientifica della conoscenza, la nostra mentalità ,moderna resta perplessa, e facilmente ripiega sopra un complesso d’inferiorità, rinunciando facilmente a porsi la questione della fede in Dio e facendo un atto di fede nel rifiuto di Dio (cfr. Maritain, La signification de l’athéisme contemporain, p. 16).

Se noi consideriamo questo secondo aspetto della questione religiosa, quello cioè soggettivo, entriamo in un campo, oggi facilmente ingombro dalle varie negazioni ateiste, ma immensamente interessante, perché riguarda quello dell’esperienza religiosa, piuttosto che quello propriamente teologico: quello pedagogico, quello pastorale; e ci si presenta un difficile, ma inevitabile, e non insolubile problema: come può oggi l’uomo trovare Dio? Quali sono le disposizioni d’animo necessarie, affinché la mentalità odierna possa stabilire un rapporto autentico e vivo con Dio?


PROBLEMA DI COSCIENZA PSICOLOGICA . . .

Quale problema! Lo possiamo considerare principalmente - e per ora almeno - un problema di coscienza. Di coscienza psicologica, innanzi tutto. Sia detto subito: disporre la propria coscienza ad avvertire Dio, la sua vivente Realtà, la sua incombente Presenza, la sua tacita Azione, non vuol dire spegnere il nostro occhio critico e raziocinante, per abbandonarci ad un incantesimo fabulista, ad una suggestione pietista, ad una debolezza miticizzante; vuol dire piuttosto acutizzare il suo senso percettivo della verità spirituale, la sua vigilanza purificata da distrazioni, da pregiudizi, da ignobili transigenze morali-. Non per nulla il Signore ci avverte che sono i «puri di cuore» quelli che «vedranno Dio» (cfr.
Mt 5,8). Anche la nostra vita umana può diventare luce (cfr. Jn 1,4), riflesso di Dio, specchio dove tutto fa allusione a Lui (cfr. R. Guardini, Le Dieu vivant, p. 79-93). .


. . . E PROBLEMA DI COSCIENZA MORALE E CRISTIANA

Il problema diventa, come vedete, di coscienza morale, e si distende su l’immensa gamma delle sue esigenze: dalla onestà del pensiero (e non è, ad esempio, interdire al pensiero di arrivare alla conoscenza essenziale delle cose, cioè metafisica, una frode, oggi tanto diffusa, alla sua virtù conoscitiva?), e arriva alla rettitudine della ricerca, alla pazienza della verifica, ecc., per giungere alla limpidezza dalle torbide ed opache ossessioni della sensualità. Ricordate ciò che dice S. Paolo: «L’uomo animale non capisce le cose dello Spirito di Dio» (1Co 2,14).

Diviene problema di coscienza cristiana; e, ben sapendo come il Vangelo interessi tutta l’umanità, diciamo di coscienza umana. Il primo e sommo precetto del Vangelo, quello che per Cristo riassume, con il precetto dell’amore del prossimo, tutta la legge e i profeti, è l’amore a Dio, in quattro espressioni superlative: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente» (Mt 22,36) e «con tutta la tua forza» (Mc 12,33). Nessun volere di Cristo è espresso con pari energia. Vi è quasi una tensione nelle sue parole, che sembra lottare con la difficoltà che gli uomini incontrano nell’osservanza di questa legge suprema, quasi che il Signore sapesse quanto essi sono deboli e ambigui amatori, più portati all’amore di sé, che a quello di Dio (cfr. S. Agostino, De civ. Dei XIV, 28; P. L. 41, 436: «fecerunt itaque civitates duas amores duo . . .». Ed è strano come si possa ai nostri giorni spingere l’interpretazione naturalista del messaggio evangelico fino a parlare d’un cristianesimo senza religione, tutto proteso in linea orizzontale, cioè umana e sociologica, e quasi dimentico della linea verticale, cioè teologica e soprannaturale.


NATURALE TENDENZA AD AMARE E CONOSCERE IL SOMMO BENE

Ciò che invece, a questo riguardo, può presentare difficoltà è la questione se sia possibile amare Dio senza prima conoscerlo; la questione si presenta in termini pratici assai frequenti, quando la ignoranza religiosa spegne ogni pensiero di Dio. Ed è ovvia la risposta (evitando i tanti problemi qui insorgenti), la quale riconosce in noi (anche se profani o peccatori) l’esistenza innata d’una tendenza naturale «che precede ogni conoscenza e s’identifica con la inclinazione naturale della nostra volontà» (cfr. Garrigou-Lagrange, Dieu, 61, 306) verso il Bene, della quale la nostra conoscenza profitta, sia applicandosi alla ricerca di Dio, sia gustando e godendo di ‘quanto su Dio, tanto per la via normale d’intelligenza speculativa, che per via di amore, del dono di sapienza, può conoscere di Lui (cfr. S. Th. II-II, 45, 2; Contra Gentes, III, 19; e cfr. S. Agostino, Soliloquiorum 1. I; P. L. 32, 869 ss.).

E questi profondi e ardui aspetti del nostro tema, si fanno pratici e concreti se consideriamo la coscienza comunitaria, o sociale, in cui la vita religiosa, sia individuale, che collettiva, si svolge. E cioè l’ambiente esteriore, in cui è immersa e in cui trascorre la nostra vita, può avere un influsso assai importante, se non rigorosamente determinante, circa la nostra conoscenza e la nostra credenza in Dio. Per questo esiste una storia religiosa dei Popoli, e per questo tanto si esercita la propaganda pro e contro il nome di Dio.

LA LITURGIA SCUOLA DI DIVINITÀ

L’educazione può moltissimo in questo senso. La cultura assai. L’apostolato a questo mira. E aggiungiamo la liturgia, cioè la professione religiosa vissuta nell’autenticità dei suoi dogmi, nel linguaggio sensibile e spirituale dei suoi riti, nella consonanza corale delle voci e degli animi della comunità inneggiante a Dio; può dare tale genuina esperienza, tale interiore testimonianza della verità di Dio, tale sincerità di gaudio, da costituire l’efficacia di una scuola di divinità, e da infondere in chi degnamente la celebra e vi partecipa la certezza ed insieme l’attesa, il senso di Presenza e di Speranza, di cui la nostra religione sola conosce il segreto e dispensa la ricchezza (cfr. S. Ambrogio, Contra Auxentium, 34). La preghiera e la fede si fondono insieme e segnano il momento di pienezza della nostra vita pellegrinante verso l’eternità.

Siatene sicuri, Figli carissimi, con la Nostra Apostolica Benedizione.

I gruppi di lingua italiana: quest’oggi, si distinguono i gruppi di sacerdoti. Se sapeste, cari Fratelli, cari Figli, quanto Ci commuove la vostra presenza e come questo titolo, che portiamo, sì, di sacerdoti, Ci commuove tutte le volte che abbiamo occasione, incontrandoli, di quasi discorrere di questa nostra elezione, con confratelli quali voi siete! Ci viene in mente tutta la grandezza del nostro sacerdozio, della nostra vocazione. Il mistero di questa elezione, perché il Signore ci ha scelto; la missione a cui siamo destinati, che cosa passa attraverso di noi, di grazie, di carismi, di potestà. E perché? per il Popolo di Dio. Siamo gli strumenti, i canali di trasmissione della parola, della grazia, della direzione spirituale, del governo della Chiesa. Dobbiamo fare di questa grande famiglia, che è il Popolo di Dio, un corpus organico, che dobbiamo compaginare, tenere insieme e calmare e anche svegliare. Come Ci vengono in mente guardando a voi, gruppi di sacerdoti, tutti i problemi che adesso il sacerdozio, direi quasi, solleva da sé, che esso tende a mettere in questione, come dicono i francesi «mettre en cause»! Ebbene, c’è tanto di bene in questo atto riflesso che i sacerdoti fanno su se stessi, quando cioè si domandano: ma sono io quello che devo essere, sono al mio posto, faccio quello che devo fare? . . . e così via! Ci sembra che queste gravissime domande abbiano per voi una facile risposta: fate bene quello che la Chiesa vi dà da fare; non crediate che nelle novità quasi sovversive che sono talora proposte possiate trovare una migliore soluzione, un migliore impiego della grande scelta, che il Signore ha fatto delle vostre persone.

Vi sono due motivi ricorrenti in questa agitazione: quello di trovare l’autenticità, e siamo tutti d’accordo; guardiamo di essere veramente sacerdoti autentici di Cristo e della Chiesa. E la seconda questione: vogliamo essere vicini al mondo; anche su questo non avremmo che da lodare chi ha queste preoccupazioni e queste intenzioni, salvo che per essere più vicini al mondo alcuni vorrebbero quasi rompere i quadri, uscire dalla disciplina che la Chiesa ha creato e che sta sempre perfezionando, e credere che, o cambiando l’abito, o assimilandosi alle abitudini mondane dei laici, o avendo un mestiere profano da esercitare, si possa meglio avvicinare il mondo. Guardatevi da questa casistica: che il sale non diventi senza sapore! Perché allora a che cosa servirebbe un sacerdote assimilato al mondo che egli deve convertire? Tale assimilazione dà l’impressione di una immediatezza di contatti; ma guardiamo bene che essa non faccia perdere l’efficacia e la specifica funzione che il sacerdote deve compiere, che lo distingue, che lo mette nella innervazione del popolo, ma non lo assimila materialmente, socialmente al popolo stesso, a cui deve rivolgere il suo messaggio. Quindi il vedere, ripetiamo, un gruppo così bello e così promettente di sacerdoti davanti a Noi Ci riempie l’animo di grande contentezza; e vi ringraziamo della vostra visita e raccogliamo questa vostra presenza come se fosse un invito ad una comunione spirituale più stretta. Volentieri vi assicuriamo la Nostra preghiera, la Nostra benedizione, la Nostra comprensione, il desiderio di farvi davvero strumenti più efficaci, più genuini, più autentici del Vangelo del Signore. Noi stessi vorremmo darvi l’esempio: essere fra di voi appunto per essere fra le vostre file e conoscere meglio le vostre difficoltà; e vorremmo anche dirvi, pensando al clero italiano, già così innestato nelle file del popolo, che la fecondità del vostro ministero la potete trovare sulle soglie delle vostre canoniche, delle vostre chiese: il popolo è lì, non avete che da aprire il cuore, da comprenderlo, da servirlo e anche la funzione ministeriale, sacramentale che vi è affidata non ha paragone con nessun’altra missione. Esercitata bene, oltre che dare una grande pienezza a colui che si sente strumento vivo della trasmissione della Grazia di Dio, essa acquista un’efficacia che non potrebbe essere in nessun altro modo guadagnata e sostituita. Coraggio, quindi, Fratelli, coraggio.

E salutiamo così gli studenti teologi gesuiti e Superiori della Facoltà teologica di Posillipo (Napoli). Dio vi benedica, Dio vi benedica. E a voi aggiungeremo alle parole che stavamo dicendo così, come nascono dal cuore, la compiacenza di sapere che appartenete a quella Compagnia, a quell’esercito militante, che con la sua fedeltà, con tutta l’energia e la sua genialità lo ha sempre distinto. Siate veramente figli di S. Ignazio. Continuate fedelmente, fedelmente le vostre tradizioni e troverete davvero da ringraziare il Signore, che vi ha scelto e che vi ha chiamato a questa grande e privilegiata elezione nella Chiesa di Dio.

E poi salutiamo un gruppo di centocinquanta sacerdoti, diocesani questi, che sono assistiti dal Movimento dei Focolari.

Eccoli qui. A voi auguriamo che appunto dal focolare della carità e dell’unità su cui fa perno il Movimento, voi possiate trovare un grande impulso a meglio comprendere e a meglio esercitare la vostra elezione sacerdotale. Vogliate portare alle vostre parrocchie, ai vostri posti di lavoro, alle clientele spirituali che gravitano intorno a voi, al vostro ministero, il Nostro saluto e la Nostra benedizione.

Sempre nel campo sacerdotale, salutiamo tre novelli sacerdoti della Società del Verbo Divino con i loro familiari ed amici.

Salute a voi che cominciate e che siete anche voi iscritti in una famiglia tanto meritoria e tanto bene guidata: sappiamo il bene che compie, in tutto il raggio mondiale delle sue missioni, specialmente nelle scuole e nella vocazione alla pietà, che il vostro fondatore vi ha prescritta. Salutiamo in voi tutta la Società del Divin Verbo.

Voi tutti sapete che quest’anno, fra i centenari che si sono celebrati, c’è anche quello della Basilica di Maria Ausiliatrice di Torino. E allora i bravi Salesiani hanno mandato a questa udienza una quarantina di premiati del concorso catechistico internazionale, promosso appunto dalla Congregazione di Don Bosco. Dove sono? Eccoli. Vi salutiamo di cuore, con la raccomandazione di essere davvero coerenti e fedeli con questa vostra appartenenza alla grande linea, al grande fiume della tradizione di Don Bosco, la tradizione salesiana, incentrata specialmente in una delle attività fondamentali della Chiesa e dell’educazione cristiana, quella dell’istruzione religiosa, che si chiama catechistica. Grazie della vostra visita; auguri a tutti i salesiani di Torino; dite per Noi una «Ave Maria» nella basilica di Maria Ausiliatrice e salutate i vostri confratelli e le vostre famiglie.

Elogio per la «Vox Christiana»

Herr Prälat! Meine Damen und Herren!

Bei unserem Besuch in Lateinamerika hatten Wir Gelegenheit, die Radiostation Sutatenza ihrer Bestimmung zu übergeben. Dadurch sind Wir inmittelbar mit Ihrer wichtigen und anerkennenswerten Tätigkeit in Radiodienst «Vox Christiana» in Verbindung getreten.

Es freut Uns daher, Sie heute bei Uns willkommen heissen zu können. Wir danken Ihnen herzlich für Ihren Besuch als Ausdruck Ihrer Liebe und Verbundenheit zum Stellvertreter Christi. Er ist Uns willkommener Anlass, die persönlichen Verdienste von Monsignore Wissing um das Rundfunkapostolat zu würdigen. Wir möchten aber auch nicht versäumen, Ihnen als seinen Mitarbeitern sowie allen kirchlichen und staatlichen Stellen, die Sie unterstützen, Unseren besonderen Dank für Ihre opfervollen Bemühungen um die Finanzierung und Fertigstellung religiöser, allgemeinbildender und sozial ausgerichteter Rundfunk-Sendungen auszusprechen, die in Südost-asien und Lateinamerika bereits hervorragende Erfolge verzeichnen.

Ihre Tätigkeit ist Pionier-arbeit auf dem Wege des sozialen Aufstieges der in der Entwicklung befindlichen Völker. In Zusammenarbeit mit den Bischöfen und den zuständigen örtlichen Verbänden wird sie wesentlich zum Frieden und zur Verständigung unter den sozialen Schichten sowie zur Förderung der Würde und Rechte der menschlichen Person beitragen. Wir geben der Zuversicht Ausdruck, dass es Ihnen gelingen möge, durch die Einbeziehung des Fernsehens Ihrer Tätigkeit eine fruchtbare Intersivierung zu geben.

Gott gewähre Ihnen Mut und Kraft für Ihre Aufgabe! Als Unterpfand hierzu erteilen Wir Ihnen allen von Herzen Unseren Apostolischen Segen.




Mercoledì, 18 dicembre 1968 CRISTO NOSTRO MAESTRO

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Diletti Figli e Figlie!

Il breve sermone, che riserviamo a queste Udienze generali, ha per scopo di immettere negli animi dei Nostri visitatori una. parola, semplice e viva come un seme, che dovrebbe poi essere coltivata, e dare da sé il segno della sua profondità e della sua fecondità. Noi qui Ci limitiamo a fare, come un Parroco ai suoi fedeli, dell’umile catechismo: grande dottrina in termini popolari.

E la dottrina, che ora Ci interessa, è quella che tormenta l’uomo moderno, quella su Dio, quella sul modo di cercare Lui, e sulla valutazione dei risultati, ai quali possiamo arrivare in questa difficile e inevitabile ricerca. E sappiamo una verità fondamentale: abbiamo un Maestro. Più che un Maestro, un Emmanuele, cioè un Dio con noi; abbiamo Gesù Cristo. È impossibile prescindere da Lui, se vogliamo sapere qualche cosa di sicuro, di pieno, di rivelato su Dio; o meglio, se vogliamo avere qualche relazione viva, diretta e autentica con Dio (cfr. Cordovani, Il Rivelatore).

Non diciamo che prima di Gesù Cristo Dio fosse sconosciuto: l’antico Testamento è già una rivelazione, e forma i suoi cultori ad una spiritualità meravigliosa e sempre valida: basta pensare ai Salmi, che alimentano ancor oggi la preghiera della Chiesa con una ricchezza di sentimento e di linguaggio insuperabile. Anche nelle religioni non cristiane si può riscontrare una sensibilità religiosa e una conoscenza della Divinità, che il Concilio ci ha ammonito a rispettare e a venerare (cfr. Dichiar. Nostra aetate,
NAE 2; cfr. Card. Konig, Dizionario delle Religioni, Herder, 1960, Roma). Ed in genere l’uomo, che pensa, che agisce, che comanda, che soffre, che si esprime artisticamente, coglie qualche cosa di Dio, al quale, per tanti titoli, la nostra vita è collegata; lo studio delle religioni ce lo dimostra; la storia, la filosofia, la psicologia, l’arte ce lo confermano. Ogni aspirazione alla perfezione è una tendenza verso Dio (cfr. S. Th. I 6,2 ad 2; De Lubac, Pour les chemins de Dieu, c. 11, pp. 7 e 8).


L'ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO

Ma sta il fatto, enunciato nel capo primo del Vangelo di San Giovanni: «Nessuno ha mai veduto Iddio; il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha fatto conoscere» (v. Jn 1,18; cfr. 1Co 2,9). Come pure sta il fatto che le condizioni reali, esistenziali dell’uomo denunciano il bisogno d’un aiuto della rivelazione divina anche per quelle verità religiose alle quali la ragione, per sé, potrebbe arrivare (cfr. S. Th. I 1,0; Denz. Sch. DS 3005 [1786], Conc. Vat. I, De Fide, c. 2), e ciò per ragione di speditezza, di sicurezza e d’integrità. Così che, ferma restando la capacità naturale dell’uomo a ragionare delle cose divine, non che il dovere di bene impiegare le nostre facoltà conoscitive allo studio teologico e alla vita spirituale (cfr. Denz. Sch. DS 3019-3020 [1799-1800]), è saggio, è utile mettersi alla scuola della Parola divina, e accogliere con fede gli insegnamenti ch’essa ci rivela, e che la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura offrono «come uno specchio, nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal Quale tutto riceve, finché giunga a vederlo a faccia a faccia, com’Egli è» (Cost. dogm. Dei Verbum DV 7).

Il Concilio, testé celebrato, si svolge tutto in questa luce, la quale conferisce alle sue dottrine una bellezza, una pienezza, una forza, che lo caratterizzano: né dubbi, né controversie, né anatemi, e nemmeno enunciazioni astratte dei dogmi della fede troviamo nel tesoro dottrinale lasciatoci dal Concilio, ma un senso di realismo vivo e di spiritualità animatrice tutto lo percorre, e irradia la corrente di verità e di grazia, dalla quale la Chiesa sta derivando il suo rinnovamento.

IL MISTERO E LO SPLENDORE DI GESÙ DIO ED UOMO

È ovvio pertanto che Cristo sieda maestro sulla cattedra conciliare (Dei Verbum DV 4), e che stimoli così la nostra risposta di fede alla grande, ricorrente questione, posta inizialmente da Lui stesso su Se stesso: «Chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,14), come Gesù usava chiamare Se stesso. Sorge cioè ancora una volta, dopo le molte e interminabili questioni della generazione precedente alla nostra (cfr. Lagrange, Le sens du christianisme d’après l’exégèse allemande, Gabalda, 1918), la domanda chi sia veramente Gesù. Un celebre scrittore russo fa chiedere ad un suo personaggio: «Un uomo colto, un europeo del nostro tempo, può credere ancora, può credere alla divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio? Poiché, alla fine, tutta la fede è là» (Dostojewski); e un famoso teologo cattolico tedesco commenta: «Il mistero di Cristo infatti non consiste, propriamente parlando, nel fatto ch’egli sia Dio, ma in ciò che Egli sia insieme Dio e uomo. Il prodigio inaudito, incredibile, non è soltanto che sul volto di Cristo risplenda la maestà di Dio, ma che un Dio sia al tempo stesso un uomo, che un Dio si sia mostrato sotto la forma di un uomo» (Adam, Iesus Christus, 1934). La nostra generazione risente la pressione di questa grande dottrina; e pur troppo le voci non cattoliche, che si diffondono oggi nel mondo ripetono con nuove parole, ma con motivi vecchi, le risposte aberranti (Mt 16,14): è un personaggio straordinario, si dice; ma non si sa bene chi Egli sia; meglio andare al sicuro, e con l’aria di magnificarlo moralmente, si finisce per minimizzarlo essenzialmente. Alla dottrina cattolica si fanno obbiezioni d’essere mitica, ellenica, metafisica, soprannaturale . . . . e l’apologia che gli autori eterodossi di moda fanno di Cristo si riduce ad ammettere in Lui «un uomo particolarmente buono», «l’uomo per gli altri», e così via, applicando a questa interpretazione di Cristo un criterio, diventato decisivo e dispotico, quello della capacità moderna a capirlo, ad avvicinarlo, a definirlo. Lo si misura col metro umano, con un dogmatismo soggettivo; e alla fine con uno scopo, seppur buono, ma utilitario, lo si accetta per quello che Cristo oggi può servire, uno scopo umanitario e sociologico.


LA PIENA RISPOSTA DI PIETRO E DELLA CHIESA

La verità non conta che nella misura della sua comprensibilità; il mistero perde il suo contenuto teologico e religioso, e si risolve nei riflessi pratici applicabili alla società moderna e ai volubili gusti d’un mondo in trasformazione. Per nascondere il vuoto dottrinale, che così si produce, si ritorce talvolta su la Chiesa cattolica, fedele alla sua secolare cristologia, l’accusa di non averlo abbastanza imitato, il Signore: d’averlo chiuso in formole dogmatiche incomprensibili e superate. Pensiamo a queste accuse, amaramente, onestamente, serenamente. Ma Noi non vogliamo ora entrare in discussioni né polemiche, né apologetiche; non è qui la sede. Vogliamo solo mettere sull’avviso voi, Figli fedeli, e con voi quanti si fidano della confessione vittoriosa di Pietro sul mistero di Gesù, il Figlio dell’uomo: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente» (Mt 16,16), a rimanere «forti nella fede» (1P 5,9). Noi dobbiamo stare alla parola del Pontefice, teologo del mistero dell’Incarnazione, S. Leone Magno, che c’insegna: «Il Verbo di Dio, Dio Lui stesso, perché Figlio di Dio, . . . si è fatto uomo: così piegandosi a prendere la nostra piccolezza, senza abdicare alla sua grandezza, da rimanere ciò che Egli era e da assumere ciò che Egli non era, e da unire la vera natura del servo alla natura ch’Egli aveva eguale a quella di Dio Padre» (Serm. XXI; P.L. 54, 192).


IL MEDIATORE UNICO NECESSARIO PER NOI

È la dottrina del Concilio di Calcedonia (Denz-Sch. DS 301-302 [148] anno 451); è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale, per nulla dimentica dell’aspetto dell’«Uomo per gli altri», preferito da una cristologia moderna non cattolica, ripete di Cristo l’incisiva parola di S. Agostino: «Fortitudo Christi te creavit, infìrmitas Christi te recreavit», la potenza (divina) di Cristo ti ha creato, la debolezza (della passione) di Cristo ti ha rigenerato (In Ev. Io. XV, 6; P.L. 35, 1512); la Chiesa nostra ben sa che per annunciare con pastorale efficacia il dogma di Cristo oggi deve studiare con amorosa premura le risorse della sua pedagogia e le esigenze della psicologia moderna (cfr. Volk, L’homme d’aujourd’hui et le Christ, nel volume: Problèmes actuels de Christologie , pp. 264-294, Desclée de Br.), ma non cambia, non mutila la verità, di cui è depositaria e maestra, nella certezza che in tale verità sarà sempre e a tutti possibile ritrovare il vero volto di Cristo, e nel volto di Cristo la visione, a noi ora possibile, del Padre, come pure la visione, sempre da scoprire, dell’uomo.

L’amore, Figli carissimi, l’amore a Cristo sperimenta questo prodigio. L’umanità di Cristo, c’insegna S. Teresa, è il tramite per arrivare a Dio (cfr. Vida, c. 22; Castillo, c. 7); e S. Caterina ci descrive il corpo crocifisso di Cristo come una scala, che l’amore percorre per salire alla perfezione (Lettera 74), e ci parla del Signore come d’un ponte che ripara l’abisso prodotto fra Dio e l’uomo dal peccato. Cristo, come sempre ci ricorda il Concilio, è il Mediatore della nostra salvezza (cfr. Sacr. Conc. n. 5). Il Mediatore unico, necessario, nostro, dolcissimo. Viene il suo Natale: così pensiamolo! Con la Nostra Benedizione Apostolica.




Gioventù Cattolica di Francia

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Consiglio Nazionale degli Ingegneri Italiani

Salutiamo ancora con particolare compiacimento i Membri del Consiglio Nazionale degli Ingegneri Italiani.

La delicatezza dei sentimenti che vi ha portati a questa Udienza non Ci lascia insensibili, e ve ne ringraziamo di cuore, lieti dell’occasione che Ci si offre per attestarvi la Nostra simpatia e la Nostra stima. Simpatia e stima dovute alle vostre persone e alle funzioni che voi svolgete con alto senso di responsabilità, come rappresentanti di una categoria, la quale con la sua operosità e competenza professionale tanto contribuisce alla sicurezza del lavoro, alla pace sociale e allo sviluppo del Paese. Di questo contributo siate benedetti, cari Signori. Da parte Nostra, Noi siamo accanto a voi col Nostro cordiale incoraggiamento e con la preghiera, invocando su di voi, sulle vostre attività e su tutti i vostri cari la continua assistenza del Signore, di cui vuol essere pegno la Nostra Apostolica Benedizione.




Paolo VI Catechesi 41268