Paolo VI Catechesi 25110

Mercoledì, 25 novembre 1970: Messagero del Vangelo

25110



Sembra a noi, alla vigilia del Nostro viaggio in Estremo Oriente, di non potervi parlare d’altro, ancora una volta, anche se già voi tutto sapete a tale riguardo, ed anche se oggi un simile viaggio è cosa tecnicamente semplice (prodigio del progresso moderno!), è cosa comune e a tutti aperta.

Il fatto che il Papa si metta in viaggio non è più una novità. Novità, se mai, sono le circostanze pratiche, circa l’itinerario, le tappe, la durata; ma il fatto materiale merita poi tanto interesse? Personalmente poi Noi non vogliamo lasciarci prendere dalla fantasia e dall’emozione. Ma non possiamo rinunciare a meditare fin da ora al significato delle cose, al valore religioso e umano di questa iniziativa, per il fatto ch’è da Noi intrapresa in virtù della Nostra missione apostolica. Come Papa ci rechiamo laggiù, non come privato escursionista, e nemmeno come protagonista di feste e di cerimonie, ma come Vescovo e capo del Collegio episcopale, come Pastore e missionario, come pescatore di uomini (Cfr.
Mt 4,19), cioè ricercatore di popoli e di gente del nostro globo e del nostro tempo; andiamo per una serie di incontri, che ci sembrano riflettere scene e parole evangeliche, per visitare fratelli e figli, per avvicinare uomini e istituzioni, per onorare persone che più lo meritano: i responsabili, i poveri, i giovani, gli affamati di giustizia e di pace, i sofferenti, i lontani.


IL DISEGNO CRISTIANO DELLA SALVEZZA

Vi confideremo, carissimi, che Noi avvertiamo come la Nostra iniziativa acquista dimensioni grandi, molto più grandi della Nostra umilissima persona, e ci sembra di ravvisare, quasi in visione plastica e in misure difficilmente calcolabili il quadro caratteristico dell’economia del regno di Dio, cioè della Chiesa che sta storicamente compiendo, quasi a sua insaputa, il disegno cristiano della salvezza. Lo potremmo forse chiamare questo quadro il dramma delle sproporzioni: quando Dio entra in scena, nella nostra scena umana, terrena e storica, quale equilibrio di proporzioni vi può essere? Se l’uomo stesso è un nodo di sproporzioni (Cfr. PASCAL, Pensées, 72), che sarà la sua statura quando egli viene in confronto e in combinazione con Dio, anche se Dio si è fatto uomo per stare con noi a nostro livello? (Cfr. Ba 3,38)

E potremmo figurarci, per comodità concettuale, questo quadro così: lo scenario è la storia, questa nostra storia, questo nostro tempo, nel quale stiamo cercando «i segni dei tempi»; uno scenario disuguale, pieno di luce e di tenebre, devastato da raffiche d’uragano che sembrano irresistibili, le ideologie moderne; e da qualche fresca brezza di primavera, i soffi dello Spirito, che «soffia dove vuole» (Jn 3,8). Su questo scenario tre personaggi: uno, che tutto lo occupa, la moltitudine incalcolabile degli uomini d’oggi, crescenti, salimenti, coscienti, come non lo erano stati mai, carichi di strumenti formidabili che danno loro potenza, che sa di prodigio, angelico o diabolico, salutare o micidiale, e che li rende dominatori della terra e del cielo e spesso schiavi di se stessi; giganti sono, e barcollano deboli e ciechi, agitati e furiosi in cerca di quiete e di ordine, sapienti su ogni cosa e scettici su tutto e sul proprio destino, sfrenati nella carne e folli nello spirito . . . Un carattere pare per tutti comune: sono infelici, manca loro qualche cosa di essenziale. Chi li può avvicinare? Chi istruire su le cose necessarie alla vita, quando tante ne conoscono di superflue? Chi li può interpretare e può sciogliere in verità i dubbi che li tormentano? Chi svelare ad essi la vocazione, ch’essi hanno implicita nei loro cuori? Sono oceano queste folle, sono l’umanità. Essa occupa tutta la scena, essa vi passa lentamente e tumultuosamente: è lei che fa la storia . . .


L'APOSTOLO E LA PAROLA

Ma ecco un altro personaggio. Piccolo come una formica, debole, inerme, minimo fino alla quantité négligeable. Egli cerca di farsi largo in mezzo alla marea delle genti, tenta di dire una parola, si fa ostinato, cerca di farsi ascoltare, e assume aspetto di maestro, di profeta; assicura di non proferire parole sue, ma una parola arcana e infallibile, una parola dai mille echi, che risuona nei mille linguaggi degli uomini. Ma ciò che più colpisce dal confronto che si è prodotto con questa presenza, ecco, è la sproporzione: sproporzione del numero, sproporzione di qualità, di potenza, di mezzi, sproporzione d’attualità . . . Ma il piccolo uomo, e voi avete compreso chi è: è l’apostolo, è il messaggero del Vangelo, è il testimonio; in questo caso, sì, il Papa, che osa misurarsi con gli uomini. Davide e Golia? altri dirà: Don Chisciotte . . . Scena irrilevante. Scena superata. Scena imbarazzante. Scena pericolosa. Scena ridicola. Così si sente dire! e le apparenze sembrano giustificare questi commenti. Ma il piccolo uomo, quando riesce ad ottenere un po’ di silenzio e qualche ascoltatore, parla con un tono di certezza tutto suo; dice però cose inconcepibili, misteri d’un mondo invisibile, e pur vicino, il mondo divino, il mondo cristiano, ma misteri . . . E alcuni ridono, altri gli dicono: ti ascolteremo un’altra volta, come capitò a S. Paolo nell’Areopago di Atene (Ac 17,32-33).

Però qualcuno là ha ascoltato, e sempre ascolta e si accorge che in quella flebile e sicura parola si distinguono due accenti singolari e dolcissimi, i quali risuonano meravigliosamente nel fondo del loro spirito: l’accento di verità e l’accento di amore. Si accorgono che la parola non è che strumentalmente di colui che la pronuncia: è una Parola a sé, una Parola d’un Altro. Dov’era e dov’è questo Altro? Chi era e chi è questo Altro? Non poteva e non può essere che un Essere vivo, una Persona essenzialmente Parola, un Verbo fatto uomo, il Verbo di Dio. Dov’era e dov’è il Verbo di Dio fatto carne? Perché oramai era ed è chiaro ch’Egli era ed è presente! E questo è il terzo personaggio della scena del mondo: il personaggio che la sovrasta e la occupa tutta là dove gli è fatta accoglienza, per una via distinta, ma non insolita al sapere umano, per via di fede.

O Cristo, sei Tu? Tu la Verità? Tu l’Amore? Sei qui? Sei con noi? In questo mondo così evoluto e così confuso? Così corrotto e crudele, quando vuol essere contento di sé e così innocente e così caro, quand’è evangelicamente bambino? Questo mondo, così intelligente, ma così profano e spesso volutamente cieco e sordo ai Tuoi segni? Questo mondo che Tu hai amato, Tu, o fonte della i7ita, fino alla morte; Tu, che Ti sei cioè rivelato in Amore? Tu salvezza, Tu gioia del genere umano? Tu sei qui, dove la Chiesa, tuo sacramento e tuo strumento (Cfr. Lumen gentium, LG 1 LG 48; Gaudium et spes, GS 45), Ti annuncia e Ti porta?

È questa la scena perenne che nei secoli si svolge, e che nel Nostro viaggio vuole avere un suo attimo di ineffabile realtà.

Partecipiamovi spiritualmente tutti insieme, Fratelli e Figli carissimi. Con la Nostra Benedizione Apostolica.

***

Ed ora un caldo, affettuoso saluto alla Comunità Filippina di Roma, che con grande conforto del Nostro animo vediamo presente nell’odierna Udienza.

Figli carissimi, il desiderio che vi ha spinti a porgerci il vostro omaggio prima della Nostra partenza verso l’Estremo Oriente, rappresenta una nota quanto mai suggestiva di questa Udienza, ed accresce in Noi le emozioni della vigilia del Nostro viaggio apostolico. Con ciò, mentre in qualche modo ci fate già pregustare la gioia del Nostro prossimo incontro col vostro popolo, ci manifestate altresì i sentimenti che vi animano e vi uniscono spiritualmente ai vostri connazionali nella trepida attesa di questo avvenimento. Grazie, figlioli, di questa vostra graditissima presenza, grazie dei vostri auguri e soprattutto delle preghiere, con le quali - come ci avete voluto amabilmente assicurare - non cesserete di accompagnarci lungo le tappe del Nostro laborioso itinerario.

Quando raggiungeremo la vostra nobilissima terra, Noi siamo certi di trovare colà cuori ardenti come i vostri, pronti ad accogliere il Nostro messaggio di fede, di fraternità e di pace, per un più prospero avvenire del nome cristiano nel continente asiatico. Che il Signore vi aiuti a corrispondere a queste vive speranze della Chiesa, mantenendo la vostra gente fedele alle sue gloriose tradizioni civili e religiose, e salda in quella fermezza di fede, che tanto la onora.

Il gaudio, la pace e la grazia del Signore siano sempre in voi con la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 23 dicembre 1970

23120
Eccoci di nuovo fra Voi, all’incontro, sempre nuovo e sempre esaltante, di queste Udienze generali, dopo il Nostro grande viaggio nelle terre dell’Estremo Oriente. A Noi sembra di sentire una vostra affettuosa e curiosa interrogazione: «ci dica qualche cosa del suo viaggio». Figli carissimi: non è possibile in questa sede e in questo momento. Troppe cose sarebbero da dire. Del resto voi già conoscete la narrazione, i fatti, i luoghi, gli incontri, le scene, i discorsi,. . . di questo lungo e veloce pellegrinaggio. Vi diremo soltanto, fuggevolmente, alcune impressioni generali.

La prima ci riguarda direttamente. Ciò ch’è alla radice della meraviglia, con la quale la Chiesa e il mondo hanno seguito questo avvenimento, che di per sé, oggi, non ha nulla di eccezionale (chi non viaggia, oggi?, chi non è vinto dal fascino di questi moderni e magnifici mezzi di trasporto?), sembra a Noi che si esprima nei due termini: Papa e viaggio, come se fossero difficilmente associabili, come, di fatto, storicamente così fu. Nel Papa si vede la fissità, il suo stare al posto centrale della Chiesa; è evidente in lui la funzione operativa e rappresentativa dell’unità. Vi furono nei tempi passati altri viaggi di Papi, fuori di Roma e fuori d’Italia; ma, a bene osservare, quei viaggi furono motivati da scopi contingenti particolari.

Non sembra che i Papi abbiano preso spontaneamente l’iniziativa di compiere viaggi in virtù d’un altro principio, ch’è pure personificato nella funzione del Papato, e cioè in virtù della cattolicità, cioè dell’universalità del ministero affidato a Pietro, al Pastore dei Pastori, al missionario per eccellenza (come lo fu Paolo) (Cfr.
1Tm 2,7 2Th 1,11 Ga 3,7). Ebbene l’esercizio di questa funzione aperta verso tutti i Popoli e verso tutti i Paesi, tanto più spiritualmente vicini al cuore della Chiesa, quanto più geograficamente ed etnicamente lontani, è apparso a Noi, nella Nostra coscienza, pur tanto consapevole della Nostra personale esiguità, del tutto normale, come il compimento d’una vocazione giacente nel Nostro ufficio apostolico, e quasi un risveglio, provocato dalla maturità storica del mondo, della connaturata missione di essere a tutti presente, di tutti servitore, per tutti amico ed apostolo, vincolo centrale d’una comunione universale.

La qual cosa, com’è facile prevedere, potrà avere nell’avvenire chi sa quali nuove testimonianze.

Fu così che incontrammo le lontane Chiese dell’Asia e dell’Australia specialmente. È difficile dire, impossibile qui, quale pienezza di emozioni fu per Noi l’incontro con i Vescovi dell’Asia Orientale, riuniti a Manila, e con quelli dell’Oceania, a Sydney! E quale gioia, quasi una rivelazione di famiglia, trovarci fra quelle popolazioni, moltitudini di fratelli, alle Filippine specialmente, e sperimentare, quasi fisicamente, il mistero del Corpo mistico, e trovarne la realtà nelle Isole disseminate nel Pacifico, e nelle modernissime comunità dell’Australia.

E i Sacerdoti, i bravi ed ottimi Sacerdoti, veri operai del regno di Dio, i Religiosi e le Religiose, superiori ad ogni elogio, e folle immense di fedeli, schiere di Laici impegnati nella costruzione della Chiesa, quale visione, quale esperienza, quale tema di lode a Dio, di riconoscenza per chi ieri ha piantato queste Chiese, e per chi oggi con instancabile ardore, le coltiva e le fa crescere nella fedeltà al Vangelo e nel servizio dell’umanità! E quale conforto alla speranza e alla vittoria della fede e della carità trovare sui Nostri passi tanti Cristiani, Fratelli tuttora da noi separati, ma come noi avidi di una riconciliazione completa!

Non vi diciamo di più. Siate felici con Noi; approfondite la vostra coscienza cattolica e missionaria; avvertite il confronto, che si attesta spontaneamente, fra la Chiesa e il mondo, quello che la ormai famosa costituzione Gaudium et spes ha posto in termini così gravi, così chiari e così fiduciosi, e persuadetevi che oggi il dovere della Chiesa non è certo quello di tormentarsi in critiche ed amare contestazioni, né quello di assimilarsi alle tendenze amorali di tanta parte della società moderna, né quello di eliminare dal cristianesimo le verità misteriose o i doveri difficili, ma di mostrarsi coerente a se stessa, forte nella fede, lieta nel canto della sua preghiera, e tutta rivolta a promuovere nel mondo la giustizia e la pace, nella visione dell’unico Salvatore nostro Gesù Cristo.



Mercoledì, 30 dicembre 1970

30110
Il pensiero dominante di questi giorni, dedicati alla celebrazione del mistero natalizio, è deviato dagli avvenimenti della vita internazionale, che assorbono l’attenzione del mondo, e che generano nell’opinione pubblica sentimenti di apprensione, di deplorazione e di disagio: la persistenza della guerra in varie parti del mondo, certi procedimenti giudiziari che tanto commuovono l’opinione pubblica mondiale, lo stato di tensione sociale in varie Nazioni, la delinquenza e la violenza, che moltiplicano casi di rapine, di ricatti, di soprusi, di torture, di estorsioni, di delitti ... Il mondo sembra assalito dalla malattia del disordine, della falsa legalità, della criminalità, della pseudo-politica della forza, della demagogia, della contestazione sistematica, della gara mercantile e militare agli armamenti ... Sì; si fanno anche sforzi generosi per l’ordine pubblico, per le trattative economiche, politiche e diplomatiche allo scopo di promuovere soccorsi e stimoli di progresso rinnovatore; ma tutto insieme, questa non è pace, non è civiltà, non è cristianesimo.

Che cosa dobbiamo fare? noi estranei, noi osservatori, noi uomini del nostro tempo? Deplorare, inveire, lasciarci invadere dallo scetticismo e dal pessimismo, perdere la fiducia negli uomini e nel tempo nostro?

No. Per suggerire qualche cosa, in questo luogo e in questo momento, Noi esorteremo semplicemente a ritornare al filo interrotto dei pensieri natalizi. Procuriamo, innanzi tutto, di conservare la pace interiore dello spirito, non solo con uno sforzo psicologico di dominare in noi stessi le reazioni negative, che i mali circostanti provocano nei nostri animi, ma con un atto religioso di fiducia, positiva ed operante, nell’economia di grazia e di bontà, che il Natale di Cristo ha instaurato sulla terra, e che la festa da noi testé celebrata di quell’avvenimento salvatore, rende tuttora attuale e beato.

Così facendo - e perché, con la fede e con la preghiera, non ne dovremmo essere capaci? -, riacquistiamo una personale libertà di giudizio. Questo è importante: ora che la magia invisibile, ma strapotente, della marea dell’opinione pubblica, alimentata e manovrata dai mezzi di comunicazione sociale, tenta di travolgerci e di dominarci (strega, fata, o angelo che sia), dobbiamo difendere la nostra coscienza nativa, illuminata da principi logici e morali superiori. Allora emerge nella nostra mente un senso primigenio di bene, di giustizia, di umanità; e può essere questo un prezioso vantaggio, che scaturisce da una situazione confusa e disordinata, come quella che in certe ore ci circonda e ci opprime. Nasce in noi, o rinasce più forte e più diritto il desiderio dei valori umani autentici; un’ansia di umanità ideale ridona respiro alla nostra critica; un senso di comunione, che, volere o no, ci collega con le vicende del nostro tempo, purifica ed esalta in noi il senso della solidarietà, e impone il peso e lo stimolo della corresponsabilità, con il conseguente bisogno di distinguerci da ciò che deploriamo e di corroborare propositi nuovi di azione positiva, d’impegno personale, di dedizione coraggiosa alla causa, che crediamo buona.

Ci si accorge così che ognuno di noi deve uscire da uno stato di inerzia morale, e tanto più da qualsiasi forma, attiva o passiva, di acquiescenza alle forze negative dell’operare e della vita comunitaria; una nuova carica della dinamica operativa, cioè il dovere, si rimonta in noi; e sorge la domanda: quale causa servire?

E qui, la nostra psicologia di osservatori, dapprima indolenti e parassiti della scena del mondo, o tentati di fuga dalla sua realtà per rifugiarsi in un egoismo più furbo, o più sognatore, ora svegliati da una vocazione di milizia ideale, progredisce verso una domanda, che può essere per molti poco onorevole scoperta, se rimane senza risposta: so io per che cosa militare? ho idee? ho principi? per quali valori operare e combattere? ho io chiaro il concetto di qualche cosa per cui vale la pena di impegnare e di giocare la vita? vi è qualche idea più preziosa della vita stessa? perché solo questa idea, non solo darebbe significato e statura piena e normale alla vita personale, ma potrebbe fare leva fuori di noi per la sollevazione morale del mondo, cioè per la comune salvezza. Scopriamo cioè che non solo il mondo, ma noi per primi abbiamo bisogno di idee; di idee vere, di idee forti, di idee nuove, di idee alte, di idee che fanno l’uomo più grande di sé.

Dove arriviamo? di idee buone e grandi, umane e degne, ve ne sono molte nel nostro tempo, ma spesso esse sono ostacolate e divorate da altre idee opposte; e alla fine la confusione ancora prevale. Ma, entrati nel dibattito delle idee valide per la salute del mondo, noi siamo per fortunata e misteriosa forza di cose, cioè di esperienza, di attrattiva, di verità, ricondotti alle soglie del presepio: al piccolo e umile Cristo, che possiede il segreto della nostra salvezza. Non terminiamo la riflessione sulle presenti vicende della nostra storia senza ricordarci, col capo chino e col cuore aperto, di Lui! Con la Nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 13 gennaio 1971

13011

Il nostro discorso, un discorso molto breve e molto semplice, si rivolge ora ai cristiani, a coloro cioè che non rifiutano questa qualifica, anzi la rivendicano come una nota essenziale della loro personalità e della loro cultura. Ma in questa moltitudine amorfa di cristiani possiamo notare, grosso modo, due grandi correnti che camminano in direzione contraria: una che tende a diluire il significato di questo nome; lo rende quanto meno aderente possibile alla propria vita personale, lo svuota (oggi si dice: lo demitizza) quanto può del suo contenuto originario, religioso e teologico, ne conserva soltanto alcuni aspetti, divenuti ormai elementi del costume civile, ne accoglie alcuni valori generali ed utili per la definizione, lo sviluppo, il vantaggio dell’uomo come tale, quali la dignità, la interiorità, la libertà, la socialità, la speranza, ecc.; cioè si contenta d’un cristianesimo nobile e umano, se volete, ma vago e disponibile ad ogni personale e occasionale interpretazione. È stato detto: tutti siamo cristiani; ma potremmo aggiungere: ciascuno a suo modo.


IMPEGNO FONDAMENTALE

L’altra corrente invece tende a riconoscere al nome cristiano un riferimento impegnativo a realtà assai importanti: una dottrina, una forma di vita, una religione, una appartenenza alla Chiesa, un mistero di comunione con Dio, e finalmente una relazione personale di fede, di speranza, di amore con Cristo, col Cristo storico dei Vangeli, col Cristo Salvatore, di cui la Chiesa custodisce e dispensa la parola e la grazia, col Cristo pasquale che associa ogni autentico fedele alla palingenesi della sua redenzione, col Cristo celeste, vivo, presente e invisibile, che pende sui destini d’ogni uomo e dell’umanità, e che un giorno, quello della conflagrazione finale della storia, verrà. Cioè oggi, come sempre del resto, i cristiani camminano sopra un piano inclinato: verso un cristianesimo in discesa, nominale ed evanescente, da un lato; e verso un cristianesimo che sale, dall’altro, verso il Cristo vivo, personale, reale.

Noi naturalmente vogliamo inserirci in questa seconda corrente, anche se più ardua, ma più vera: verso Gesù Cristo, Nostro Signore, vivente e vero, Colui ch’è necessario e sufficiente a dare pieno e genuino significato alla nostra esistenza, e Colui che tanto più si dimostra indispensabile e incombente per il nostro mondo moderno quanto più questo cerca di dimenticarlo, di escluderlo, di vanificarlo.


L’IMMAGINE DI CRISTO

E allora sorge in noi, seguaci in spirito di sincerità e di coerenza, un desiderio prepotente: quello di avvicinarlo questo Gesù, di conoscerlo, di vederlo. Vi è un episodio nel Vangelo, appena accennato, ma assai significativo; lo riporta l’evangelista Giovanni quando narra l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, in forma volutamente pubblica e popolare, circondato dalle festanti acclamazioni della folla, che finalmente riconosce in lui il figlio di Davide, il Messia; l’episodio è questo: «Tra quelli che erano saliti alla festa per adorare vi erano dei Gentili, i quali, accostatisi a Filippo (uno degli apostoli), che era di Betsaida di Galilea, lo pregavano dicendo: Signore, vogliamo vedere Gesù» (
Jn 12,20-21). Vedere Gesù: questo è il desiderio costante degli uomini di buona volontà, ai quali sia giunta qualche rilevante notizia del misterioso Personaggio, intorno al quale si concentrano tante inquietanti curiosità, tanti presaghi amori.

Se lo potessimo vedere! Se fossimo almeno capaci di averne un’immagine sensibile e fedele! Noi, immersi nella cosiddetta «civiltà dell’immagine», avremmo grande pretesa di riempire i nostri occhi dell’aspetto fisico del nostro Maestro, del nostro Salvatore. Pare talvolta a noi che se avessimo questa fortuna, questo incentivo almeno, saremmo più disposti a credergli, a seguirlo, come avvenne a coloro che furono spettatori della scena storica e sensibile del Vangelo. Ma proprio dal Vangelo ci viene una parola, che delude la nostra avidità, e ci segna la via, ormai unica e sicura, della fede: «Beati coloro che avranno creduto senza vedere» (Jn 20,29). Sì, bisognerà accontentarci di accostare Gesù mediante questo delicato e non sempre facile processo conoscitivo, che si chiama la fede, che non esclude, anzi reclama, lo studio razionale della rivelazione. Ma la psicologia stessa della fede ha bisogno di qualche immagine rappresentativa; la storia del cristianesimo ci dice che i fedeli, appena superato il divieto giudaico contrario ad ogni raffigurazione di esseri viventi, per timore della allora facile suggestione idolatrica, tentarono di delineare l’immagine di Cristo, prima come personaggio indistinto di qualche scena evangelica (il pastore, ad esempio), poi anche come volto umano (cfr., p. es., nelle catacombe di Commodilla), poi nelle sembianze ieratiche delle figure bizantine; e subito in seguito con la fantasia della pietà e dell’arte, che ancora oggi ci offre i lineamenti di Gesù, quali rispondono al concetto che di Lui la nostra mente si fa (Cfr. il culto all’effigie di Cristo detta della Veronica, DANTE, Par., XXXI, 103-108). Forse la singolare immagine della Santa Sindone meriterebbe studio speciale. Ma il fatto è che «dell’aspetto fisico di Gesù le fonti degne di fede non dicono assolutamente nulla» (G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, 203, ss.). Siamo come ciechi davanti all’amico. Ci aiuti una buona iconografia religiosa dell’arte a supplire alla mancanza d’una rappresentazione sensibile di Lui.


BELLEZZA DELLA VERITÀ

Ma intanto il pensiero lavora: era bello Gesù? Era deforme? Le domande incalzano mentre interpretiamo parole bibliche, che a Lui si riferiscono, e che, enunciando ora l’uno, ora l’altro degli aspetti propri del Messia, ce lo dicono «bellissimo di aspetto fra i figli degli uomini», e poi ce lo presentano come «l’uomo del dolore», che «non ha alcuna bellezza, né splendore» (Ps 45,3). Ritorniamo al Vangelo, e lo vediamo trasfigurato: «Il suo viso risplendeva come sole» (Is 53,2-3); e poi sfigurato: «Uscì dunque Gesù (dal Pretorio), portando la corona di spine e mascherato di porpora. E Pilato disse loro: ecco l’uomo!» (Mt 17,2). Ma allora? Ci contenteremo di passare in rassegna le varie scene evangeliche, dal Presepio al Calvario, all’Uliveto dell’Ascensione, domandando ai maestri della figura di saziare la nostra fame amorosa delle sue sembianze? Questo si fa, e sta bene: la «Bibbia dei poveri», come dicevano una volta, non è forse quella delle immagini artistiche? Ma sia lode a chi ci aiuta mediante queste stesse immagini a fare un passo ulteriore.

Quale passo? Un passo verso il Cristo reale, ch’è quello della fede; il Cristo, che nella sua visibilità rispecchia l’Invisibile Divinità; ricordiamo il Prefazio natalizio: dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur; e ricordiamo la parola rivelatrice di Gesù stesso: «Chi vede me, vede anche il Padre mio» (Jn 19,5). Cioè: noi siamo autorizzati a scoprire Dio in Gesù! (Cfr. Jn 1,18) Avvertiamo noi ciò che questo significa? Noi siamo alle soglie della bellezza suprema (Cfr. S. AGOSTINO, Enarr. in Ps 44 PL Ps 36,239). Che cosa è la bellezza? (Cfr. S. TH. I-II 27,1 I-II 27,3) Oh! quale lungo discorso esigerebbe la risposta a questa elementare domanda! Quali voli dovremmo fare per superare i livelli, spesso fallaci della bellezza degradata, sensibile, puramente estetica, per arrivare a quello della verità risplendente; tale è la bellezza; dell’Essere sfolgorante, della forma diafana della vita piena e perfetta! Diciamo solamente: Cristo è Bellezza, bellezza umana e divina, bellezza della realtà, della verità, della vita, «la vita era la luce» (Jn 1,4). Non è un’enfasi mitica o mistica, che ci fa esclamare questa definizione di Lui: è la testimonianza che dobbiamo al Vangelo. Testimonianza che dobbiamo a voi, Fratelli e Figli, che spinti dall’istinto del nostro tempo andate cercando il «tipo», il modello, l’uomo perfetto. Cristo è il «tipo», l’archetipo, il prototipo, dell’umanità (Cfr. Rm 8,29).

Ricordatelo, con la Nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 20 gennaio 1971

20011

Oggi dobbiamo ricordarci che in questi giorni stiamo celebrando la «Settimana dell’unità», cioè quel momento convenzionale nel quale siamo tutti esortati a meditare il mistero profondo d’una proprietà essenziale e d’una nota esterna della Chiesa di Cristo, cioè dell’umanità vivente della fede e della grazia di Cristo, quella proprietà e quella nota caratteristica della Chiesa cattolica d’essere intimamente fusa in un solo corpo (Cfr.
1Co 10,17), di formare una cosa sola, d’essere animati da un solo spirito (2Co 13,13), d’essere tutti-uno (Cfr. Jn 17,21-22), oggi, nel tempo, mediante l’unione visibile e sociale nella Chiesa una e cattolica, cioè unica ed universale, domani, nell’eternità, nella mistica compagine del Cristo glorioso, sempre coscienti della nostra singola personalità, ma partecipi della totalità dell’unico Uomo- Dio, nostro Salvatore, il Christus-totus di S. Agostino, capo e corpo insieme (In Ep. Io. 1, PL 3, 1979).



COMUNIONE PARZIALE MA NON ANCORA PERFETTA

È una visione sublime, che comprende tutto il panorama dell’umanità e della sua storia, che tocca essenzialmente il destino di ciascuno di noi, e di noi tutti insieme, e che ci obbliga a definire il rapporto vitale fra Cristo e la Chiesa, un rapporto che non può essere né incerto, né equivoco, né molteplice, ma unico, quale Cristo lo ha iniziato e voluto, e che comporta una esigenza, resa drammatica da tremendi avvenimenti storici, un’esigenza insopprimibile di unione fra quanti compongono la sequela di Cristo, cioè la Chiesa. Ci accorgiamo, noi Cristiani, noi credenti in Cristo, noi battezzati, noi componenti comunità insignite del nome cristiano, noi egualmente minacciati dalla irreligiosità moderna, noi in attesa d’un medesimo destino escatologico, ci accorgiamo di trovarci in una condizione strana, potremmo dire assurda: siamo ancora separati, siamo disuniti, siamo spesso tra noi diffidenti e rivali, intenti fino a ieri a fiere polemiche fra di noi, oggi desiderosi forse d’intenderci, di perdonarci scambievolmente, di comprenderci, di operare insieme, ma ancora distanti, ancora privi di alcuni principi essenziali alla perfetta unione, come l’accordo completo nella medesima professione di fede, e nella medesima coesione di carità; cioè siamo in comunione parziale, già profonda, e, se pensiamo alle venerabili Chiese ortodosse orientali, quasi piena, ma non ancora in comunione perfetta. È questo uno dei problemi più gravi della cristianità, e possiamo dire dell’umanità; e noi fortunati, noi responsabili, che finalmente oggi ce ne rendiamo conto. Ed è problema assai difficile; guai a quelli che credono potervi dare soluzioni facili e rapide, trascurando i dati che lo costituiscono, cioè la verità, alla cui adesione siamo obbligati, e la unità ecclesiastica, a cui Cristo ci vuole partecipanti.

Che cosa fare? Il discorso sarebbe molto lungo; ed è già in corso mediante appunto questo annuale richiamo alla considerazione del problema stesso, e mediante l’attività che in seno alle comunità cristiane si sta facendo per risolverlo. Da parte Nostra dobbiamo esprimere la Nostra compiacenza e la Nostra fiducia per il Nostro valoroso Segretariato per l’unione dei cristiani; il Direttorio, ad esempio, che esso ha pubblicato in ordine all’ecumenismo, meriterebbe d’essere conosciuto da tutti, e da tutti i cattolici fedelmente osservato.


LA TENTAZIONE DELL’IRENISMO

Limitiamoci ora ad una parola ai cattolici. Essi si trovano in una strana posizione: essi devono, innanzi tutto, conservarsi fedeli e sicuri; non devono dubitare della loro Chiesa, la Chiesa cattolica, anche se essa presenta nella sua storia e anche nella sua attualità non pochi aspetti censurabili; ma il suo credo, il suo rapporto con Cristo, il suo culto, il suo tesoro sacramentale e morale, la sua struttura istituzionale, la sua definizione dottrinale e pratica, in una parola, non devono essere messi in causa. Non ne abbiamo il diritto. Sarebbe venir meno ad una nostra irrinunciabile responsabilità verso Cristo, verso gli stessi Fratelli separati, se per trovare un terreno d’intesa noi mettessimo in dubbio la nostra autentica professione cattolica, o rinunciassimo alle sue esigenze impegnative. L’irenismo, l’intesa puramente pragmatica e superficiale, le semplificazioni dottrinali e disciplinari, l’adesione ai criteri da cui furono causate le separazioni che ora lamentiamo non produrrebbero che illusioni e confusioni; resterebbe nelle nostre mani una parvenza del nostro cattolicesimo, non la sua vita, non il Cristo vivo, che porta con sé.

Questa chiarezza, questa fermezza interrompono forse il dialogo ancora prima che cominci? No, per nulla; anzi lo rendono doveroso e possibile. Doveroso, perché solo il possesso d’una fede, che crediamo vera e indispensabile, ci rende idonei al dialogo, e costituisce la condizione ad un fruttuoso dialogo; possibile, perché questo zelo per la fede è sorgente di mille risorse per il dialogo, che ci interessa. Accenniamo appena. Primo, noi possiamo talvolta imparare dagli altri a capire e a vivere meglio certi aspetti della nostra fede, e così possiamo modificare una nostra antica mentalità chiusa e diffidente verso i Fratelli separati; e dobbiamo fare uno sforzo amoroso di comprensione verso di loro, sforzo che non sempre abbiamo fatto debitamente. Dobbiamo riconoscere quanto essi hanno di bene, e in non poche cose dobbiamo imparare da loro come perfezionare la nostra cultura religiosa ed umana, la nostra educazione alla giusta tolleranza, alla vera libertà, alla pronta generosità. E dobbiamo cercare di dissipare in loro i timori istintivi, che molti di essi nutrono verso la Chiesa cattolica; quello circa il nostro credo, ad esempio, mostrando loro, forse più con l’esempio e con la naturalezza della nostra psicologia di fedeli cattolici, come l’adesione oggettiva alle verità, che la Chiesa propone alla nostra fede, non sia ossequio supino a formulazioni arbitrarie e alterate della Parola di Dio, ma sia accettazione piuttosto di proposizioni autentiche e univoche di questa stessa Parola e della sua integrazione originaria, non che della sua irradiazione logica e ispirata dalla tradizione storicamente vigilata e vivente, con l’effetto soggettivo di quella pace, che la nostra fede ogni giorno ci diffonde nello spirito, e ci fa ancor più desiderosi che paghi nella ricerca di Dio e di Cristo. È quello, per citare un altro timore, caratteristico dei nostri Fratelli separati, dell’autorità vigente nella Chiesa cattolica, quasi che questa autorità, la quale si esercita nella grande e fraterna collaborazione con tutti i Vescovi stabiliti da Dio per pascere il suo popolo (Cfr. Ac 20,28), non avesse coscienza, oggi più che mai, d’essere servizio e non dominio, e non solo consentisse, ma non proteggesse le varie e legittime espressioni spirituali sia delle singole anime, che delle diverse comunità ecclesiali; e quasi che un’autorità nella Chiesa non fosse d’istituzione divina e non fosse necessaria per mantenere in essa l’unità ed alimentare la carità nell’obbedienza ch’è amore.


UN CAMMINO GRADITO E DIFFICILE

Dicevamo difficile il cammino dell’ecumenismo, cioè verso la ricomposizione dell’unità fra i cristiani; ma non è forse anche molto bello? Non promuove forse nel cattolicesimo stesso un processo di premurosa purificazione, una verifica di identità, uno studio di approfondimento, un esercizio di umiltà, un amore più attivo e più largo? Non ci apre forse davanti speranze sorrette dalle promesse dello Spirito, più liete d’ogni sogno?

Due cose, per concludere: un rispettoso e cordiale saluto ai nostri Fratelli separati; abbiamo sulle labbra e nel cuore tanti nomi rappresentativi delle loro diverse e carissime schiere; e una preghiera al Signore, più viva e quasi impaziente; essa vorrebbe unirsi umilmente a quella stessa di Cristo nell’ultima sera della vita temporale: fa’, o Signore, che siamo tutti uno in Te, che meritiamo di esserlo; venga il tuo regno!

E con l’animo pieno di questi sentimenti, figli e fratelli, vicini e lontani, tutti vi benediciamo.




Paolo VI Catechesi 25110