Paolo VI Catechesi 27011

Mercoledì, 27 gennaio 1971

27011

Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (
Lc 19,1 ss.).

Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1Jn 1,1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.

Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.

Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Ap 1,12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in PS 31,18 PL 36,270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Ph 2,7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Ga 2,20).

Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.

Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Mt 5,38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc Ap 19,11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Mt 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Mt 5,20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Mt 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Mt 11,12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.

Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.

Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.

Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.

Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Jn 1,14).

Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.

Dolore per gli eventi nella Guinea

Non possiamo tacere - avendo occasione di prendere in pubblico la parola - la profonda amarezza che opprime il Nostro animo per tanti fatti dolorosi e delittuosi, che riempiono le cronache di questi giorni.

Fra questi fatti l’orribile e spietata conclusione del processo rivoluzionario di Conakry nella Guinea ci è causa di profondo dolore e di grave delusione, anche se la vita (non il suo onore, non la sua libertà) dell’Arcivescovo Monsignor Tchidimbo è stata risparmiata.

Non è nostra competenza pronunciarci circa questioni proprie d’uno Stato indipendente e sovrano; ma è aperto al giudizio della coscienza morale del mondo l’aspetto morale di questa sciagurata vicenda, in cui l’esercizio del potere giudiziario pare si sia tramutato in uno sfogo passionale di truce e cieca vendetta ed in una collettiva esplosione di odio e di crudeltà.

Per l’impegno che ci vincola alla causa della giustizia e della pace, e per la stima che sempre portiamo ai Popoli Africani, dobbiamo anche Noi deplorare l’offesa clamorosa e disonorante inflitta al sentimento umano, al costume civile, ai diritti dell’uomo.

E dobbiamo tanto di più rinnovare il Nostro amore all’Africa che sale verso la vera libertà e verso la civiltà moderna. Noi la vogliamo esortare vivamente a non cadere nella irresponsabilità della prepotenza e della barbarie, ma a ritrovare nella sua nativa umana bontà e nella sua urgente vocazione cristiana la nobiltà e la fortezza del suo ordinato e sicuro progresso.

Perciò oggi ancora noi pregheremo: per le vittime e per i responsabili. Avremo un particolare pensiero per l’Arcivescovo condannato e per la sua comunità spirituale. Allargheremo le nostre intenzioni anche alle tante altre sventure, e non solo africane, che in questi giorni affliggono il mondo, affinché la misericordia divina tutti ci assista e ci consoli.

Con la Nostra Benedizione Apostolica.

Messaggio alla televisione francese: «Ogni vita è sacra»

Alla fine dell’udienza generale il Santo Padre pronuncia ai microfoni della televisione francese un breve discorso sul rispetto della vita umana.





Mercoledì, 3 febbraio 1971

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A noi Gesù Cristo, dicono molti uomini d’oggi, basterebbe vederlo, almeno vederlo, per farcene un concetto nostro, reale. Abituati come siamo a tutto conoscere, e a tutto riassumere in formule brevissime, pratiche, nominali e sensibili, vorremmo avere la soddisfazione di poterlo conoscere per via di uno sguardo diretto, immediato, con la segreta e temeraria fiducia di poterlo così giudicare, misurare, definire, e di potere finalmente decidere se sì, se no accettare, e determinare finalmente quale posizione assumere nei suoi confronti. Questa attitudine, dicevamo altra volta, è stata quella dei contemporanei di Gesù, questo uomo problematico, chi è?: uno come gli altri? (Cfr.
Lc 4,22) un profeta? (Mt 16,14 Mt 21,11) un seduttore? (Mt 27,63) il figlio di David? (Mt 21,9) e tutti volevano leggergli in viso la sua identità. Ricordate l’episodio accaduto nella Sinagoga di Nazareth, dopo che Gesù, al principio della sua vita pubblica, colà ritornato, lesse in pubblico la profezia di Isaia sul Messia? «Gli occhi di tutti, dice S. Luca, erano fissi sopra di Lui» (Lc 4,20), ammirati prima, sdegnati e adirati poi, quando Gesù ebbe a dire: «Questa scrittura si adempie davanti a voi».


L’ANNUNCIO DI GESÙ

Quanto a noi, vederlo non possiamo, ma da quanto sommariamente sappiamo di Lui, quali tratti, quali aspetti caratteristici ci consentono di figurarcelo vivo davanti al nostro pensiero? Chi era e com’era, ancora ci chiediamo? Cominciamo ad escludere le note, che di solito distinguono gli uomini singolari. Non era un ricco. Dice il Signore di se stesso: «Le volpi hanno le loro tane, e gli uccelli del cielo hanno dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Non era un uomo rinomato di cultura. I suoi compaesani si meravigliano ch’Egli sia tanto saggio ed eloquente: «non è costui il fabbro, figlio di Maria?» (Mc 6,3 Mc 1,27). Non era un uomo politico, un demagogo, un agitatore, Gesù respinge la tentazione del diavolo, che gli offre in cambio d’un atto di servile ossequio i regni del mondo e la loro gloria (Mt 4,8); e fugge, dopo la moltiplicazione dei pani, dalla folla entusiasta che lo voleva proclamare suo re (Jn 6,15). Non era un soldato, un condottiero, un uomo d’armi, come tanti si aspettavano che fosse il Messia, vindice e liberatore della nazione ebraica; non era nemmeno uno zelota, un rivoluzionario, un contestatore del dominio romano imperante nel Paese. Egli dirà a chi su questa scottante questione gli aveva teso l’insidiosa domanda se fosse lecito pagare il tributo a Cesare: «Date a Cesare ciò ch’è di Cesare, e a Dio ciò ch’è di Dio» (Mt 22,21 cfr. O. CULLMANN, Jésus et les révolutionnaìres de son temps, p. 47 ss.). Chi è dunque Gesù? o almeno: come appare Gesù? quale è il suo profilo, la sua figura? qual è l’attività che lo fa conoscere? A questa domanda, che ci trasporta nel quadro evangelico, pare che si possa rispondere: Gesù appariva come un profeta (Cfr. Mt 13,57 Mt 21,11 Lc 7,16 Lc 7,39 Jn 4,19 Jn 6,14 Jn 9,17 ecc ). Lo immaginate un profeta? È un uomo che annuncia oracoli sapienti e misteriosi; vaticinii sui destini nascosti e futuri; ma specialmente un uomo che ascolta e che annuncia messaggi divini. Egli ha la chiave dei segreti di Dio. È l’araldo d’una Parola più grande della sua misura umana (Cfr. Jn 7,16). Pensare Gesù uomo della Parola di Dio ci porta assai addentro al mistero della sua Persona: qui sarebbe da fermare la nostra esplorazione.


«TROVARE CRISTO»

Ma un’altra domanda più facile sorge spontanea: qual era l’annuncio del profeta Gesù? Bisogna riportarsi al principio della sua predicazione, la quale si collega con quella del Precursore, Giovanni il Battista; l’uno e l’altro hanno un medesimo tema profetico. «Fate penitenza, esclama Giovanni, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2). «Fate penitenza, predica subito dopo Gesù, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Qui dovremmo studiare questa coincidenza di parola e fare il confronto fra Giovanni e Gesù. Ma un altro tema ora ci attrae: il grande tema del regno dei cieli, o regno di Dio; tema che forma il nucleo primo e centrale della predicazione di Cristo. Forse non vi abbiamo ancora pensato abbastanza.

Non è certo nel giro di questi brevissimi accenni elementari che possiamo dare un’idea del «regno» annunciato da Gesù. Lo studio di questo tema ci condurrebbe a capire qualche cosa della storia d’Israele e della tensione che al tempo di Gesù s’era prodotta nel Popolo ebraico nell’attesa ardente e impaziente della instaurazione di questo regno, che doveva consistere, nella estimazione popolare, in una liberazione politica, potente e gloriosa, in virtù d’un personaggio prodigioso, l’«unto» di Dio, il Messia trionfatore. Regno e Messia sarebbero i due punti da studiare per entrare nel dramma del Vangelo. A voi il farlo. Per ora noi qui notiamo che Gesù accoglie la parola fatidica di Regno, e la fa propria (come Re dei Giudei infatti Egli sarà condannato alla croce): (Cfr. Jn 19,19) ma Egli vi cambia profondamente il significato. Regno dei cieli, che Gesù annuncia, inaugura e personifica, è il disegno stupendo di Dio, è il piano religioso nuovo, è il «mistero occultato ai secoli e alle generazioni, come dirà S. Paolo, e che ora è stato rivelato» (Col 1,26), è l’economia di misericordia e di grazia, che il Cristo apre agli uomini che credono in Lui, è la Chiesa segno e strumento del Regno in fieri, è l’inizio d’una promessa dinamica che guiderà il cammino dell’umanità redenta ed eletta per lo spiegamento finale in Dio della vita eterna. Oh! quanto vi sarebbe da meditare su questo termine, il Regno così semplice e polivalente, così acquisito alla mentalità umana e così fecondo e innovatore, così invadente la storia del mondo e d’ogni singola coscienza, e così concentrato nella parola e nella figura di Gesù. Sì, Gesù è il profeta dei Regno di Dio. Egli è venuto, e il Regno è vicino. Egli è il personaggio possessore, annunciatore, donatore della formula vera, universale, incomparabile per l’umanità. Egli è il Maestro. Egli è il Pastore. Egli è il Salvatore.

Non vi siete mai accorti come gli uomini più evoluti sono e più fanaticamente cerchino l’uomo che riassuma in sé l’ideale dell’umanità, e da sé diffonda la norma di vivere, la stima di tutti i valori, la speranza di nuovi destini? La nostra storia stessa ce lo prova; ahimé! con quali folli esaltazioni, con quali servili umiliazioni, con quali disperate e talora tragiche delusioni. L’antico sogno continua: io cerco l’uomo.

Ebbene: se noi sappiamo fissare lo sguardo dello spirito su Gesù, con onesto pensiero, con semplice fede, con incipiente amore, la sua figura si farà grave e luminosa; liberatrice e vincolante, davanti a noi; e ancora oggi, per noi, figli di questo secolo esaltante e deprimente, si ripeterà la scoperta decisiva, dei due primi discepoli: «Abbiamo trovato il Messia, che tradotto vuol dire il Cristo» (Jn 1,41).

È il voto che ripetiamo per ciascuno di noi: trovare Cristo.

Con la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 10 febbraio 1971

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In queste settimanali e familiari conversazioni con i Nostri visitatori ci siamo prefissi, a seguito della celebrazione del Natale, di rivolgere qualche riflessione, quasi più per curiosità che non per studio, a Gesù, al suo aspetto esteriore, alla sua figura umana, al suo profilo morale. Tutto resterebbe da dire; ed è già molto se ce ne accorgiamo, e se avvertiamo il fascino di questo tema. Tanto che non sappiamo rinunciare a proporre ancora una duplice sintetica istanza, esortando ciascuno di voi a ripescare nella vostra coscienza cristiana, formata alla scuola della nostra fede cattolica, la duplice risposta: chi era Gesù? che cosa ha fatto Gesù? Personalità ed opera: temi immensi; e proprio questa loro dimensione, superiore ad ogni nostro metro, invece di sgomentarci, ci deve attrarre. Fermiamoci, per questa volta, alla prima suggestiva domanda: chi era veramente Gesù?

Osserviamo subito una cosa. Questa domanda ci pone nel cuore del Vangelo. Si può dire che la storia, di cui il Vangelo ci offre il racconto, è tutta tessuta intorno a questa questione: la identificazione della realtà di Gesù: chi è Gesù? «Non è il figlio del fabbro?» (
Mt 13,55). Così l’anagrafe dell’opinione pubblica lo classifica. «Non è il figlio di Maria?» (Mc 6,3): i più informati sapevano qualche cosa delle sue relazioni domestiche. Appena Gesù appare sulla scena esteriore, Giovanni, il battezzatore, lo vede venire verso il Giordano ed esclama: «Ecco l’Agnello di Dio ...» (Jn 1,29): un titolo strano, che intravede in Gesù una vittima predestinata ad un sacrificio redentore. L’evangelista riporta il seguito della testimonianza del Precursore, la quale, fin da quei primordi, si conclude: «Questi è il Figlio di Dio» (Jn 1,34). Giovanni ripeterà, il giorno dopo, il suo grido: «Ecco l’Agnello di Dio» (Jn 1,36): e uno dei discepoli, Andrea, sarà il primo a decifrare l’annuncio traducendolo in un altro, nel dar notizia dell’accaduto al fratello Simone Pietro: «Abbiamo incontrato il Messia» (Jn 1,41). Ormai intorno a Gesù aleggia un segreto: insomma chi è questo giovane e misterioso profeta? Giovanni stesso, dal carcere, per erudire i propri discepoli, e forse per cederli al nuovo Maestro, li manda a Gesù stesso per fare un’inchiesta risolutiva: «Sei Tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). La curiosità si allarga, si fa tesa ed inquieta, tanto che Gesù stesso la esplora. Ricordate il celebre colloquio di Gesù con i suoi discepoli, nella regione di Cesarea di Filippo? È Gesù stesso che li interroga, non certo per informarsi, ma per stimolarli a precisare il concetto che s’erano fatto di lui, e a pronunciarsi secondo la nuova scienza, la fede che Dio avrebbe dato loro sopra la sua misteriosa personalità: «Chi dicono che sia il Figlio dell’uomo?» (cioè Gesù stesso; così Egli si nominava) ; e poi, dopo le risposte disparate circa le voci correnti su di Lui, la grande domanda: «E voi, chi dite che Io sia?», subito seguita dalla risposta impetuosa di Pietro, ispirata da Dio Padre: «Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-16). La meravigliosa definizione, gioia dei credenti, problema per gli esegeti, tormento e bersaglio degli increduli, grandeggia per due successive conferme: l’una data da Gesù stesso, a suggello eterno della scoperta verità, con la sua risposta: «Beato te, Simone figlio di Giona (Giovanni), perché non te lo ha rivelato la carne e il sangue (cioè la via naturale della conoscenza), bensì il Padre mio che sta nei cieli, e Io dico a te che sei Pietro» (Mt 16,17-18). Com’è bello il commento che vi fa, da pari suo, S. Leone Magno mettendolo sulle labbra di Cristo: «Come il Padre mio ha manifestato a te la mia divinità, così anch’io faccio nota a te la tua eccellenza (Serm. 4, 2; PL 54, 150). L’altra conferma è data dal fatto della trasfigurazione notturna di Gesù, avvenuta sei giorni dopo, sul monte, mentre risuona una voce dalla nube luminosa: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale Io mi sono compiaciuto; ascoltatelo» (Mt 17,5 cfr. 2P 1,16 ss.).

Seguire questo filo evangelico ci porta nell’area evangelica di Giovanni, l’evangelista, storico non meno degli altri, ma con intento dottrinale e spirituale, dove la questione circa l’identità sia personale che operativa di Gesù occupa tutta la trama del racconto. Sarebbe interessantissimo, a questo punto, fare l’elenco dei titoli, con cui è designato Gesù nei Vangeli; ciascun titolo potrebbe essere soggetto di studio e, ancor più, di estatica meditazione. Gesù, il Maestro, il Figlio di David, è detto l’acqua che sola disseta (Jn 4,10), il Pane del cielo (Jn 6,41), la luce del mondo (Jn 8,12), la porta della salvezza (Jn 10,9), il Pastore buono (Jn 10,11), la risurrezione e la vita (Jn 11,25), la via, la verità e la vita (Jn 14,6), ecc. (Cfr. L. DE GRAND MAISON, Gesù Cristo, IV, La Persona di Gesù; L. SABOURIN, Les noms et les titres de Jésus, Desclée de B.; O. CULLMANN, Christologie du N. T., 1955).

E ci porta all’epilogo della vita temporale di Gesù, e precisamente all’istante decisivo del suo processo religioso: Gesù è dichiarato «reo di morte» (Mt 26,66), perché alla domanda risolutiva del principe dei sacerdoti giudaici, che lo scongiura nel nome del Dio vivente di dire «se tu sei il Cristo Figlio di Dio» (Mt 26,63), Gesù risponde affermativamente: «Tu l’hai detto».

E quante altre affermazioni (Cfr. Mt 11,27 Jn 8,52-58 Jn 17,1-6) e testimonianze dovremmo raccogliere (Cfr. Mt 27,43 Mt 27,54 Jn 20,28) se una, un fatto dominante, la risurrezione, non le condensasse tutte e le certificasse, dando alla Chiesa nascente e alla successiva tradizione la fede nella divinità di Cristo. La fede, nell’aderenza rigorosa al dato storico, ma animata dalla chiaroveggenza dello Spirito e dal coraggio dell’amore, riuscirà finalmente a dare la definitiva risposta alla implacabile domanda: chi è Gesù? Ascoltiamo ancora una delle più alte voci, che troviamo nel Nuovo Testamento, quella di Giovanni: «In principio era il Verbo, . . . e il Verbo era Dio, . . . e il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi» (Jn 1,1, ss.). È Dio, il Figlio di Dio, con noi. Ascoltiamo San Paolo: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). E nel gaudio d’aver raggiunto la vetta della definizione di Cristo proveremo quasi un senso di vertigine, come fossimo abbagliati, e non comprendessimo più: non è Gesù che riconosciamo Cristo e che confessiamo Figlio di Dio, Dio come il Padre, che ci diede i documenti d’una sua sconcertante inferiorità? Fu Lui a dire: «Il Padre è maggiore di me» (Jn 14,28). Non incontriamo continuamente nel Vangelo Gesù che prega? (Cfr. Lc 6,42) Non ascoltiamo angosciati il suo gemito sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). E non lo vediamo morto, sì, morto come ogni altro mortale? Cioè: non vediamo in Lui un Essere, che congiunge in sé la divinità e l’umanità? Sì, proprio così. La definizione di Cristo, raggiunta dai primi Concili della Chiesa primitiva, Nicea, Efeso e Calcedonia, ci darà la formula dogmatica infallibile: una sola persona, un solo Io, vivente ed operante in una duplice natura: divina e umana (Cfr. DENZ.-SCH., DS 290 ss). Difficile formulazione? Sì; diciamo piuttosto ineffabile; diciamo adatta alla nostra capacità di raccogliere in umili parole e in concetti analogici, cioè esatti ma sempre inferiori alla realtà che esprimono, il mistero inebriante della Incarnazione.

Qui ci fermiamo, felici, forti, attaccati alla Verità, di cui la Chiesa e questa Cattedra su cui Noi stessi indegni sediamo, godono l’infallibile carisma. Ci fermiamo, impegnandoci a vivere in noi il mistero dell’incarnazione, nel quale il battesimo e la fede già ci hanno innestati; a viverlo: credendo, pregando, operando, sperando, amando, ed esclamando: «Per me vivere è Cristo» (Ph 1,21), pronti ad esplorare e, con la grazia di Dio, a sperimentare l’altro mistero di Cristo, che pure ci riguarda totalmente: la Redenzione.

Qui ci fermiamo. E impavidi lasciamo che la bufera delle avverse cristologie, del secolo scorso specialmente, e di oggi, del nostro secolo tutto luce e tutto tenebre, si scateni contro la nostra fede cattolica. Ammireremo lo sforzo estremamente erudito della cultura moderna su Cristo e su quanto riguarda la sua Persona, la sua storia, la sua documentazione; impareremo anzi anche noi a studiare di più. Ma saremo vigilanti, anzi diffidenti, osservando scuole succedere a scuole, e rilevando che nell’enorme erudizione di tanti maestri di solito s’insinua una loro ipotesi, un loro pregiudizio, una loro discutibile filosofia, che venendo in combinazione col tesoro scientifico da loro accumulato conduce spesso le conclusioni al naufragio nel dubbio invincibile o nella negazione radicale e irrazionale (Cfr. M. J. LAGRANGE, Le sens du christianisme . . . .; G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo par. 194-224; L. de GRAND MAISON, Gesù Cristo; S. ZEDDA, I Vangeli e la critica oggi, Treviso 1965; e per le recenti teorie negative: G. DE Rosa, La secolarizzazione del Cristianesimo, Civ. Catt. 1970, 2877, 2878).

Vigilanti e fidenti: «Chi ci potrà separare dalla carità di Cristo?» (Rm 8,35). Cantiamo il nostro Credo! Con la Nostra Apostolica Benedizione.

Direttori di Esercizi Spirituali

Con particolare compiacimento salutiamo stamane il gruppo dei Direttori di Esercizi Spirituali presenti a Roma per i lavori del loro III Convegno Internazionale.

Abbiamo saputo, figli carissimi, che l’argomento del vostro incontro è la formazione dei Direttori di Esercizi Spirituali per rendere sempre più efficace e più adatto agli attuali bisogni delle anime un lavoro apostolico tra i più fruttuosi nella Chiesa. Ce ne rallegriamo e ci congratuliamo di tutto cuore con voi. Vi guidi il Signore in questo encomiabile impegno, da cui Noi ci attendiamo preziosi risultati, e vi ispiri le misure più idonee a conservare e far rifiorire dovunque una pratica che la Chiesa tanto raccomanda ad ogni ceto di fedeli, onde ritemprare nel raccoglimento e nella preghiera le energie spirituali ed alimentare sempre più l’anelito alla santità e la fiamma della carità apostolica. A questo scopo, come segno della Nostra affettuosa stima e pegno delle più elette grazie celesti, impartiamo a voi tutti la propiziatrice Apostolica Benedizione.

La scuola pontificia «Pio IX»

Porgiamo ora il Nostro particolare saluto al numeroso gruppo - sono circa milleduecento! - della Pontificia Scuola «Pio IX», di Roma: superiori, insegnanti, alunni e loro familiari. La vostra presenza, come già il 29 gennaio 1969, ci procura la gioia di vedere attorno a Noi la grande famiglia del «Pio IX», di quell’istituzione che, fondata da quel grande e non dimenticato Pontefice come prova della sua sollecitudine per la formazione intellettuale della gioventù romana, prospera da 112 anni sotto la guida esperta, prudente, illuminata dei Fratelli di Nostra Signora della Misericordia. Da allora, la Scuola ha preparato numerose generazioni della gioventù, in maggior parte dei quartieri più vicini alla Sede Apostolica, ma anche di altre zone dell’Urbe, con la serietà dell’impostazione didattica, con Ia bontà del metodo pedagogico, con l’impronta familiare dell’ambiente scolastico, col sano agonismo dell’esercizio sportivo. Con quale spirito essa abbia adempito e adempia alla sua missione, ce lo dice la vostra venuta qui, oggi: un vero pellegrinaggio alla Sede di Pietro, per portare al Papa l’omaggio della pietà e dell’affetto, in cui si esprime la vostra fede cristiana.

Ve ne ringraziamo di cuore, ed esortiamo voi, carissimi giovani, a profittare dei tesori di luce e di grazia, che la Scuola «Pio IX» offre alla vostra intelligenza e al vostro cuore, per andare incontro alla vita con la quadratura necessaria ai nostri tempi. Voi sapete qual conto faccia la Chiesa delle scuole cattoliche: ne ha parlato in termini assai alti il Concilio Vaticano II, quando ne ha delineato i compiti nell’aiuto che esse devono dare agli adolescenti perché sviluppino la propria personalità in pienezza di vita cristiana, e nel dovere di «coordinare l’insieme della cultura umana col messaggio della salvezza, sicché la conoscenza del mondo, della vita, dell’uomo, che gli alunni via via acquistano, sia illuminata dalla fede» (Gravissimum educationis).

Camminate in questa luce, carissimi alunni, mettendo a profitto gli insegnamenti dei vostri professori, che integrano la formazione ricevuta dai genitori, ai quali esprimiamo il Nostro compiacimento per l’appoggio che essi danno, con sacrificio, alla buona causa. Su tutti discendano copiose le grazie divine di letizia, di pace e di amore, di cui vuol essere pegno la Nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 17 febbraio 1971

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Nella scia delle feste natalizie (alla quale succede tra poco il ciclo quaresimale e pasquale), ci siamo interrogati sulla nostra conoscenza di Cristo, contentandoci di soffermarci fugacemente su alcuni aspetti appariscenti della sua singolarissima figura; ed ora, a conclusione di questa elementare indagine, vogliamo tentare di rispondere, pur servendoci delle nozioni che supponiamo alla portata di tutti ad una domanda importante: qual è stato lo scopo della vita di Gesù? ha avuto essa un’intenzione, un disegno, un fine? che cosa ha fatto Gesù, Figlio di Dio e di Maria, entrando e operando in questo mondo? La questione assume proporzioni immense e misteriose se noi già abbiamo notizia dell’Essere di Gesù, se sappiamo cioè chi Egli era; la domanda sorge spontanea ed esigente: perché?

Osservando la storia del Signore intuitivamente, con uno sguardo d’insieme, possiamo rispondere: il perché della vita di Cristo, il primo, il più evidente, è l’annuncio della sua Parola. Egli è venuto per predicare il Vangelo. La presenza di Cristo nel mondo è caratterizzata dalla Verità, ch’Egli proclama. La sua vita è la Parola di Dio all’umanità. Questa Parola trova conferma nei miracoli compiuti da Cristo, e trova strumento alla sua diffusione e alla sua permanenza nel tempo mediante la scelta e la investitura degli Apostoli, incaricati di guidare e d’istruire i seguaci di Cristo, di formare la Chiesa, complemento umano e storico, il nuovo Popolo di Dio.

Questo è tutto? abbiamo osservato bene? abbiamo ascoltato bene? Vediamo: non si può trascurare, innanzi tutto, la fine tragica della vita terrestre di Cristo, il dramma della sua morte sulla croce. E non possiamo tralasciare un fatto straordinario, che dà a questo dramma un significato eccezionale: Gesù sapeva che sarebbe morto così. Nessun eroe conosce la sorte che lo attende. Nessun mortale può misurare il tempo che gli rimane da vivere, né sapere quante e quali sofferenze dovrà sopportare.

Invece Gesù sapeva. Possiamo farci un’idea della psicologia d’un uomo che prevede nettamente un martirio morale e fisico, quale Gesù sopportò? Egli predisse più volte, in momenti di traboccante coscienza, la sua passione ai suoi discepoli; la narrazione evangelica è piena di queste confidenze profetiche, che dimostrano la straziante prescienza di Gesù circa il destino che lo attendeva (Cfr.
Mc 8,31 Mc 9,31 Mc 10,33 ss. ). Egli conosceva l’«ora sua»; questa dell’«ora sua» sarebbe una meditazione interessantissima per penetrare un po’ nell’animo di Cristo; l’evangelista Giovanni vi dedica indicazioni frequenti e preziose (Cfr. Jn 2,4 Jn 7,30 Jn 12,23 Jn 13,1 Jn 17,1); Cristo, si direbbe, ha continuamente davanti a sé l’orologio del tempo futuro, e di quello presente riferito ai cicli misteriosi degli avvenimenti visti da Dio; le profezie del passato e quelle del futuro sono un libro aperto davanti al suo occhio divino (Cfr. Vangelo di S. Matteo; Jn 13,18 Jn 15,25 Lc 24,25 ecc.).

Gesù voleva. Il carattere volontario della Passione di Cristo risulta da tante sue testimonianze evangeliche. Quando, ad esempio, Egli predice ai suoi discepoli che occorreva andare a Gerusalemme, per ivi soffrire assai e per esservi ucciso, Pietro protesta e vuole distogliere Gesù da tale sorte, Gesù rimprovera Pietro aspramente (Mt 16,21-23); e ripeterà il rimprovero quando Pietro, nel Getsemani, vorrà difenderlo con la spada: «Metti la tua spada nel fodero, gli dirà; non berrò il calice che il Padre mio mi ha dato?» (Jn 18,11 He 9,14). Ricordiamo ancora ciò che l’evangelista Marco riferisce: «. . . il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita in redenzione per molti» (Mc 10,45 Is 53,10, ss.).

Se riflettiamo a questa vocazione di Gesù, una vocazione di dolore e di sacrificio, possiamo immaginare qualche tratto del volto di Cristo. Un apocrifo forse indovinò: Gesù non rise mai (Cfr. Lettera di Lentulo); pianse talvolta (Cfr. Jn 11,35 Lc 19,4); e volentieri lo immaginiamo sorridere dolcemente ai bambini (Mc 9,36 Mc 10,16); ma quale interiore sofferenza Gesù portò durante tutta la sua vita nel cuore assaporando l’imminente Passione; lo possiamo intuire dalla scena del Getsemani (Lc 22,43). Eppure non era stoico, non era triste; era librato in una comunione interiore e superiore col Padre (Cfr. Jn 12,27-28).

E possiamo rilevare qualche tratto distintivo della sua figura morale, del suo cuore: Gesù era buono d’una bontà divina (Cfr. Mc 10,17-19); aveva l’intelligenza del dolore e delle angustie altrui (Mt 11,28); sapeva comprendere, perdonare e riabilitare; sono noti i suoi incontri con i peccatori. Gesù è stato magnificamente capito e definito, nella discussione cristologica contemporanea, «l’uomo per gli altri». Sì. E San Paolo, cioè tutta la teologia del Nuovo Testamento e della Tradizione cattolica, vide in fondo il segreto della vita terrena di Gesù, il perché, lo scopo dell’Incarnazione, e dice fino a quale forma e a quale misura Gesù fu per gli altri: «Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture» (1Co 15,3). Gesù venne al mondo per noi e per la nostra salvezza. Gesù questo fece: ci salvò. Egli si chiamava appunto così, Gesù, che significa salvatore. E ci salvò facendosi vittima per la nostra redenzione, mistero questo di abbassamento dell’uomo-Gesù, che si fonde con quello di sublimazione dell’uomo-Gesù ch’è Incarnazione, e che entra nelle più importanti verità del sistema teologico cristiano, cioè, per accennare, nel disegno eterno, e solo pienamente svelato con Cristo, dell’amore di Dio per noi (Col 1,26), nel dogma tremendo e oscuro, ma indispensabile, diceva Pascal (Pensées. 434), perché senza di esso nulla potremmo sapere di noi stessi, e nel valore sacrificale della Passione del Signore, universale e sostitutivo dell’espiazione altrimenti da noi dovuta e a noi impossibile.

Ecco l’opera finale e totale di Cristo, la Redenzione. La quale entra così nei destini umani da stabilire un possibile, libero e auspicatissimo rapporto di ciascuno di noi, personalmente, con nostro Signore Gesù Cristo: «Egli ci ha amati, proclama S. Paolo, e si è immolato per me» (Ep 5,2 Ga 2,20). Per me: qui, Fratelli e Figli carissimi, comincia per ciascuno di noi la vita cristiana, vita d’amore, che a noi giunge: luce, fuoco, sangue di Cristo, nello Spirito: e amore, che da noi va, come può, con tutte le forze, verso Cristo e in cerca dei fratelli, sempre nello Spirito. Così sia.




Mercoledì delle Ceneri, 24 febbraio 1971


Paolo VI Catechesi 27011