Paolo VI Catechesi 24021

Mercoledì delle Ceneri, 24 febbraio 1971

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Noi dobbiamo accettare l’esortazione, grave e salutare, che la Chiesa maestra ci rivolge all’inizio del periodo quaresimale, che a buon diritto possiamo considerare come l’itinerario classico verso la nostra salvezza, la quale sarà considerata nella celebrazione del mistero della Redenzione, operata da Cristo crocifisso e risorto. Qual è questa esortazione? È il «memento» che a ciascuno di noi è intimato con il rito impressionante della imposizione delle ceneri sul nostro capo di uomini vivi.


«MEMENTO . . .»

Memento : ricordati! L’esortazione, com’è chiaro, tende a richiamare la nostra attenzione, e a rivolgerla verso un giudizio sopra noi stessi. Siamo abbastanza abituati a compiere atti di riflessione, esami di coscienza, ripiegamenti sulla nostra vita interiore; la grande e perenne lezione della scuola ascetica della Chiesa riceve una certa conferma dallo sviluppo degli studi psicologici e delle analisi introspettive circa i fenomeni della consapevolezza istintiva o razionale, la quale ci rende consueto questo ritorno nella cella del nostro io, e ci sollecita a questo dialogo silenzioso con noi stessi. Ma è raro che questo dialogo, o meglio soliloquio prenda in considerazione complessiva tutta la nostra esistenza, e si avventuri nelle ambigue profondità amletiche dei nostri destini esistenziali.

Di solito noi rimaniamo ignoranti sulla nostra vera natura; non sappiamo esattamente chi siamo, se non per via di qualche avvertenza fenomenica, o di qualche indicazione anagrafica esteriore. E quando arditamente ci interroghiamo sopra il nostro essere, senza il lume di qualche sapienza superiore complementare, rimaniamo sconcertati. Noi sfogliamo mentalmente il libro dei nostri ricordi passati, e subito ci sorprende la vacuità, a cui il tempo, nel quale essi sono iscritti, li condanna: sono passati; che cosa resta della loro realtà? La memoria; osiamo perfino dire: la storia; ma quale entità ha per noi, per il nostro essere personale, una tale registrazione? quale valore? La vita umana avverte l’insufficienza di questi tesori della memoria; l’oblio li consuma, il rimpianto, se pur li fa dolci e istruttivi, denuncia la perdita di ciò che essi conservano, la nullità entitativa del loro contenuto. È un’esperienza amara il bilancio delle nostre rimembranze. E si fa più amara e disperata se questa indagine si rivolge a quanto di fuori ci circonda, persone e cose; perché essa avverte la glaciale solitudine del nostro Io; il rapporto che ci congiunge a ciò ch’è fuori di noi svela la sua inesorabile precarietà; è inutile e forse insipiente per avere sicurezza della nostra esistenza aggrapparsi a quanto possediamo, conosciamo, amiamo, e chiamiamo nostro (Cfr.
Lc 12,15). Che cosa ci resta? l’anima, cioè la nostra persona, la nostra intima vita? Sì. Ma anche a questo riguardo, quale oscurità! Che cosa siamo? che cosa rimane di noi stessi? e che cosa è la morte? il vuoto, l’oceano del nulla; o la misteriosa sopravvivenza del nucleo centrale del nostro essere, l’anima?


SORTE IMMORTALE

A questo punto ci sovvengono le parole del Signore: «Che cosa giova mai all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima propria? o che cosa darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Mt 16,26). Esse ci fanno riflettere alla svalutazione di tutte le cose, nel giudizio cristiano sulla nostra vita; ed è riflessione che riempie le pagine del Vangelo, quelle delle prediche e dei trattati di spiritualità, quelle delle vite dei Santi, quelle degli esercizi spirituali, ecc., a tal punto che è possibile, da parte di chi guarda il cristianesimo solo in alcuni suoi aspetti particolari, accusare il cristianesimo stesso come nemico dei valori temporali e come incapace di apprezzare la vita presente. Il Concilio ha corretto questa visuale ristretta, ed ha riconosciuto gli aspetti che fanno degni di stima i beni della creazione, della natura, dell’opera umana, del secolo presente (Cfr. Ap. act. AA 7; Gaudium et Spes GS 69 Lumen gentium LG 36,ecc).

Il cristianesimo non è pessimista. L’opera di Dio e, a ben inferiore livello, l’opera dell’uomo sono oggetto di altissimo interesse nella valutazione cristiana; ma quando la vita dell’uomo è considerata nella sua duplice prospettiva finale e finalistica, cioè come misurata dal tempo e misurata dal criterio morale, allora, per un verso, è ridotta in cenere, cioè destinata a morire; e per un altro verso, è sopravvalutata nel suo essere spirituale e nella sua sorte immortale, cioè esposta a decidere nel tempo presente del suo avvenire oltretomba.

Questa concezione della vita umana non è certo di moda. Tutto oggi cospira a farcela dimenticare. Si vive con una mentalità tutta protesa nel momento attuale, come fosse permanente e non fosse fatalmente travolto dal momento successivo; e tanto spesso intenta a sottrarsi dalla responsabilità d’un criterio morale e d’un giudizio finale. Si vive così in una duplice illusione, come se fossimo noi i padroni del tempo, e potessimo vivere in un indifferentismo morale, senza doveri fondati sopra una norma estrinseca al nostro arbitrio e alla nostra libera coscienza. Noi conosciamo qualche cosa circa gli effetti pratici e sociali di questa maniera di vivere alla cieca, quasi fossimo esonerati dal disegno reale e morale, nel quale è inesorabilmente innestata la nostra vita.

E siccome siamo abitualmente inclini a dare importanza sovrana ai beni temporali in cui e di cui vive la nostra esistenza terrena, ecco la Chiesa che ci richiama alla realtà: memento! bada! sta’ attento! sii vigilante! verifica la direzione del tuo cammino! essa ci dice, e lo dice con questo rito delle ceneri, grave, lugubre fin che volete, ma salutare, e, in fondo, ottimista, perché ci apre gli occhi sopra la nostra misera situazione di esseri mortali, e situazione miserabile per essere noi peccatori, cioè in stato di morte rispetto alla vera vita, che sola ci viene dalla comunione con Dio, unico e sommo e misericordioso principio di vita. Ci avverte in tal modo la Chiesa che abbiamo bisogno di salvezza, per poi subito indicarci che in Cristo noi troveremo salvezza.


IL «TEMPUS ACCEPTABILE»

Ed ecco che allora questo tempo diventa molto prezioso; ed è proprio questo tempo che stiamo per iniziare; è il «tempus acceptabile», il tempo propizio (2Co 6,2). Per che cosa? Per la metanoia, cioè per il ripensamento, per il ravvedimento, per la penitenza. A questa c’invita la liturgia della Chiesa. A questa il rito austero delle ceneri. Com’è noto, esso è antichissimo; ha derivazioni bibliche ed evangeliche (Cfr. 1M 4,39 Mt 11,21), ed è inserito nella storia della liturgia fino dalle origini del cristianesimo (Cfr. DACL - 2, 2 Cabrol, 2134, ss.; e 3040, ss.). E dobbiamo credere che, compiuto con umile e sincero sentimento di uniformità alla veneranda tradizione ecclesiastica, questo rito avrà ancora per noi la medesima efficacia, ch’esso ebbe per tante generazioni di cristiani nei secoli andati, quella di fare sorgere dalle spente ceneri della penitenza, simbolo della nostra mortalità e della condanna dovuta ai nostri peccati, la nuova scintilla della speranza e della vita, quale Cristo pasquale rinnova nel mondo.

Possa la Nostra Benedizione Apostolica ottenere tanto favore.

Queremos hacer patente, de una manera especial, la intima alegría que colma nuestro corazón en este encuentro con vosotros, amadísimos Superiores y Alumnos del Pontificio Colegio Mexicano, que sois esperanza y gozo de la Iglesia con vuestro Sacerdocio joven, lleno de ilusiones apostólicas, de fidelidad a la vocación, de ansias de superación y de servicio.

Estos años fecundos de preparación seria y silenciosa junto a la Sede de Pedro os comprometen a responder sin reservas al llamamiento y a la predilección de Cristo, que os ha elegido para predicar su Palabra y para derramar por vuestro medio sus gracias entre los hijos de vuestra noble Nación, donde os esperan tantas almas sedientas del Mensaje de salvación.

En prenda de la constante asistencia del Sumo y Eterno Sacerdote, nuestro maestro y modelo, os bendecimos de corazón a vosotros, y en vosotros a todos los amadísimos sacerdotes mexicanos, así como a los fieles de vuestro querido País.

Con profunda gratitud recibimos vuestra visita, amadísimos sacerdotes, religiosos y seglares de diversas naciones, que habéis seguido el curso «Para vivir el Concilio», en un espíritu de renovación interior y de servicio a la Iglesia.

Nuestros votos más sinceros y nuestras plegarias os acompañan en este esfuerzo de fidelidad al Concilio, mediante el cual Cristo nos pide a cada uno, según su vocación específica, una sincera vivencia cristiana y un serio empeño apostólico, para ser verdaderamente luz y sal de la tierra.

En prenda de abundantes gracias divinas y en prueba de nuestro paternal afecto, impartimos de corazón a todos vosotros una especial Bendición Apostólica.


Mercoledì, 10 marzo 1971

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Per noi, - che guardiamo la scena umana con estremo interesse l’interesse del Pastore, l’interesse della guida, l’interesse dell’amore -, appare sempre fenomeno di somma importanza osservare dove vanno gli uomini, dove si dirigono, dove tendono e dove arrivano. Vediamo, nel mondo contemporaneo, che tutti corrono: cioè vediamo che l’attività umana ha assunto una accelerazione impressionante. Fra tutti i valori umani primeggia l’azione. Fare, fare, fare è quello che oggi importa. Muoversi, cambiare, produrre, godere è il programma comune. L’intensità dell’operare è il parametro per giudicare il merito di una persona, d’una società, ovvero d’uno strumento, d’un qualsiasi sistema organizzato. L’energia ha il primo posto fra le cose desiderabili. La potenza quindi, la velocità, la novità, la rivoluzione sono alla testa delle valutazioni correnti. La ridda degli avvenimenti alimenta l’attenzione comune; l’opinione pubblica ambisce l’eccitazione continua, traumatica dei fatti in continua successione; la psicologia della gente è tesa verso l’avvenire immediato; la speranza di cose grandiose e impreviste riempie i sogni d’una fantascienza che lascia intravedere forme immaginarie ed iperboliche della vita di domani; ma anche l’incertezza, la paura, l’angoscia dominano gli spiriti, perché, in realtà, non si sa dove l’umanità andrà a finire minacciata com’è dagli ordigni della sua capacità distruttiva, dalla segreta disperazione, che, riflettendo, porta nel cuore.

L’uomo corre, ma come un gigante cieco. Non sa dove va, precisamente. L’attività è diventata fine a se stessa. Si organizza, sì, si perfeziona, s’incanta di se stessa; ma in realtà non sa alla fine dare ragione di se stessa. Crea una civiltà; ma poi contesta se stessa, e diventa inquieta e furiosa; vorrebbe tutto sovvertire e distruggersi. Manca qualche cosa di essenziale. L’azione si è francata da ogni catena; la legge esteriore è ridotta al minimo per conservare un ordine convenzionale e operativo; la libertà di agire e di operare come meglio piace è la norma preferita, perché è l’abolizione della norma estrinseca ed obbligante: è una perfezione, è una pienezza umana, è un antropocentrismo, un personalismo, che finalmente sembra giustificare tutto il raggiunto sistema operativo; la coscienza rimarrà l’unica cattedra di giudizio, l’unica responsabilità. Ma questa parola magica e terribile di «responsabilità» rompe l’incantesimo del sistema soggettivo: perché postula l’elemento mancante, postula il dovere, postula il fine, il fine trascendente l’azione, postula la molla della libera volontà, postula il concetto e l’esistenza del Bene (Cfr. S. TH.
I-II 1,1). Che, in fin dei conti, è Dio.

Cioè: noi riscontriamo che l’attività umana, oggi così intensa, così complessa, così progredita, può generare in se stessa disfunzioni e disordini, perché difetta di qualche cosa di essenziale, che è il fine, il centro, il perché di tanto suo movimento; difetta dell’autentica nota che rende veramente umana l’azione ed è la moralità, la scienza del dovere, la scienza del Bene, la scienza del vero fine. Dire umano e dire morale è dire la stessa cosa (Cfr. S. TH. I-II 1,3). L’uomo moderno è enormemente progredito nella scienza dei mezzi; rimane invece incerto in quella dei fini; e siccome questa si connette essenzialmente con la religione, il processo di disintegrazione del pensiero religioso e della vita che ne deriva ha generato confusione nella coscienza e nell’attività umana.

Dio è l’asse della vita umana, della vita umana guidata dal senso morale, perché ha ragione di fine; e la causa finale, dice bene S. Tommaso, è fra tutte primaria (Cfr. S. TH. I-II 1,2). Perciò è sommamente importante che questo asse sia determinato nel campo della nostra attività, e determinato secondo la vera rettitudine che fa buona, perfetta e felice la vita dell’uomo.

Bisogna rettificare l’orientamento della nostra vita. È la raccomandazione, che forma il prologo della salvezza: «Raddrizzate la via del Signore» (Jn 1,23). E che torna opportuno, non solo per questa stagione liturgica che precede la Pasqua, ma per la pianificazione ideale di tutta la nostra vita operativa. È facile renderci conto di questa rettitudine, se l’abbiamo, ovvero se la direzione della nostra esistenza è aberrante, rivolgendo a noi stessi, nel segreto del cuore, queste semplici, ma significative domande: che cosa io desidero di più nella mia vita? Che cosa influisce di più sulle mie scelte? Che cosa considero più importante? Dov’è rivolto il mio amore primario? Qual è il criterio che più influisce sulla mia coscienza? Che cosa mi preme sopra ogni altra cosa? il primo precetto del mio vivere? Possiamo dire con una similitudine: quale direzione segna la bussola del mio viaggio nel tempo? E lo possiamo ripetere con un termine biblico, che la liturgia attualizza per questa stagione: «la metanoia», cioè la rettifica della propria mentalità in ordine alla vera e indispensabile interpretazione della vita, la salvezza, dove mi indirizza? Bisogna non lasciarsi travolgere dal turbine babelico del mondo circostante; bisogna dare a se stessi un punto di riferimento, un polo direttivo, un senso (cioè un significato e un indirizzo) per la vita, affinché sia veramente umana, sia cristiana.

Ed ecco Gesù, il Maestro, che ammonisce: «Amerai Dio con tutto il cuore, sopra ogni cosa; amerai il prossimo come te stesso» (Cfr. Mt 22,37-39).

Questo, anche e soprattutto per il nostro tempo, è l’orientamento buono, anzi l’unico buono. Che ciascuno lo faccia proprio!

Con la Nostra Benedizione Apostolica.


Marinai degli Stati Uniti

It is a special pleasure for us today to see present such a large group of officers and men of the United States Marine Corps and the United States Marine Navy. In addition to the membres of the Armed Forces, We welcome also the group of officers’ wives who have come for this audience.

We know that your presence here has been facilitated by the United Service Organization (U.S.O.) which is completing thirty years of devoted service. We are happy to express on this occasion our admiration for all the good it has accomplished in this long period of time, in serving the religious, social and educational needs of thousands of men and women. The visit to Rome of many has been enriched by the assistance of the U.S.O. Upon all who cooperate in its worthy activities We invoke the special Blessing of the Lord.



Mercoledì, 17 marzo 1971

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Rettificare il cammino della nostra vita. Questa è una delle sollecitudini principali della Chiesa in quanto maestra del nostro operare. E lo è specialmente nel periodo che precede la Pasqua, lo è con quella disciplina che sottopone le nostre coscienze ad una riflessione e ad una conseguente revisione della nostra condotta. La vita deve avere un suo orientamento, un suo polo direttivo, che in ultima analisi, anzi in prima intenzione, è Dio, al Quale Cristo ci guida e ci unisce. Deve avere un suo stile, una perfezione; la quale, quando noi abbiamo riconosciuto la definizione del nostro essere e del nostro destino, diventa al tempo stesso amata ed esigente, come per chi è stato educato alla musica e ne gusta il fascino non è tollerabile alcuna stonatura. «Tutti nella Chiesa, dice il Concilio, sono chiamati alla santità» (Lumen Gentium
LG 39).

Deve essere questo comportamento una delle norme fondamentali della nostra personalità. L’uomo dev’essere così: retto, giusto, diritto, cioè onesto, cioè morale. Riflettendo, qui sorge uno dei più importanti problemi, che invade, si può dire, ogni coscienza, e domina il costume del mondo in cui viviamo; e cioè quello della nostra libertà personale. Oggi sarà ben raro trovare chi ne nega l’esistenza, in nome d’un determinismo psicologico, che vorrebbe fare dell’uomo un automa; è certamente assai progredita, anche se non sempre ammissibile, l’analisi degli impulsi istintivi e sugli stati psicologici, che influiscono sull’operare dell’uomo; ma nessuno nega ch’egli, in condizioni normali, sia interiormente arbitro di se stesso, cioè libero; anzi oggi l’esistenzialismo, quello letterario e artistico specialmente, giunge ad affermazioni estreme, come questa: «. . . io sono un uomo, e ogni uomo deve inventare il proprio cammino . . . L’uomo s’impegna nella sua vita, disegna la propria figura, e al di fuori di questa figura, non v’è nulla» (Cfr. J. M. AUBERT, citando Sartre, nella monografia: Pour une redécouverte du sens du péché). Noi possiamo essere d’accordo affermando, e rivendicando, se occorre, la libertà propria dell’uomo. Ma quale libertà? la libertà fisica, la libertà della volontà umana, considerata in se stessa; è questa una prerogativa che fa dell’uomo «causa sui», padrone delle proprie scelte, delle proprie azioni, e che riflette sul suo volto un riflesso dell’immagine divina. Ma la libertà, a bene osservare, ha interiormente dei vincoli, che sono quelli della verità: non siamo liberi di violare le leggi del pensiero, pena la deformazione della nostra stessa persona; è la volontà che è libera, non l’intelletto, il quale è di natura sua fatto per la verità. Ora avviene che, nel dinamismo interiore dell’operare umano, l’intelletto propone alla volontà una verità, la quale da speculativa si fa pratica, si fa «dovere»; il quale vincola moralmente, ma non fisicamente; non è coazione; e la volontà può accettare e può rifiutare di uniformare la sua scelta all’imperativo dell’intelletto: se essa accetta abbiamo l’ordine, la grandezza, la bellezza dell’organismo spirituale e vitale dell’uomo; se invece rifiuta, abbiamo il disordine, cioè un dissidio intrinseco all’uomo, che lo deturpa e poi lo disturba, lo affligge, lo disorienta, lo degrada, lo spinge o alla follia, o al disprezzo di sé. Fate attenzione: se la verità proposta al libero volere fosse, per caso (come avviene comunemente) derivata da un pensiero imperativo estraneo, e superiore al soggetto umano, fosse cioè una legge, il rifiuto volontario a questa verità produrrebbe un disordine che va al di là del soggetto umano stesso, avremmo una trasgressione, una colpa, che è diretta contro il legislatore. Se la legge è quella civile, avremo una colpa sociale, che l’autorità civile giudica e, se crede, punisce. E qui si ferma oggi, ordinariamente, il giudizio morale della sfera secolare.

Ma se quella legge fosse divina? L’offesa prodotta allora dalla sua inosservanza sarebbe rivolta all’Autore della legge divina; mostruosa cosa, se davvero l’inosservanza è avvertita e voluta, ed è relativa a cosa seria e importante; avremmo una colpa grave, avremmo un peccato.

Grande parola! Grande dramma! Grande rovina! La Chiesa non cessa mai di fare uso di questa terribile parola, che investe, come un’eredità infelice, la stessa natura umana, dichiarandola colpita da una disgrazia proveniente, senza colpa personale, ma come una sventura fatale; è il peccato originale. E che denuncia poi una responsabilità personale, quando il peccato è cosciente e deliberato. È dottrina da tutti saputa. Ma che oggi tutti, vittime d’una secolarizzazione limite a se stessa, tentano di dimenticare. Ne abbiamo parlato altra volta (Cfr. Insegnamenti, II, 1171; ecc.). Non si parla più di peccato, perché questa tristissima e realissima condizione dell’uomo peccatore, implica l’idea di Dio. Implica l’idea dell’offesa fatta a Dio. Implica l’avvertenza della rottura del rapporto vivificante e reale con Lui; implica la coscienza d’un intollerabile disordine nell’uomo delinquente; implica il terrore della sanzione collegata col peccato, la riprovazione eterna, l’inferno; implica il bisogno assoluto d’una salvezza, anzi di un Salvatore.

Se viene meno la fede, viene meno simultaneamente il senso del peccato con quello di tutte le sue disastrose conseguenze. Praticamente possiamo dire che si sfascia tutto il castello morale del cristianesimo. Ma la realtà resta. La mancanza di fede non distrugge il piano divino nel quale si svolge il nostro vivere; essa potrà alterare le ripercussioni che questo piano stabilisce per i nostri destini, aggravandole, se la fede è rifiutata o spenta per responsabilità voluta; rimettendole al mistero della bontà di Dio, se essa è ignorata senza colpa; ma, ripetiamo, il piano reale divino, che avvolge l’essere nostro, rimane; e costituisce un assoluto, un necessario, al quale non possiamo sfuggire. Non lo possiamo, in certa misura, anche come semplici uomini, perché la legge divina, in certe sue impreteribili esigenze, parla nel cuore d’ogni uomo cosciente, con la logica del diritto naturale, con l’imperativo dell’obbligazione morale. Non lo possiamo sfuggire noi cristiani, ai quali è data la luce della dottrina del Vangelo, dove peccato e redenzione formano una trama che non possiamo mai dimenticare.

Dobbiamo, fratelli e figli carissimi, pensare al significato profondo e riassuntivo della nostra esistenza nel tempo: è una prova, è un esame. Guai sbagliare, guai fallire. È in gioco una sorte eterna, beata o dannata. Ecco il perché dell’ordine morale, della rettitudine del nostro operare. Ecco la sapienza dell’esame di coscienza. Ecco il senso salutare del bene e del male, dell’onestà e del peccato. Ecco il bisogno impellente di Cristo Salvatore. Ecco la provvidenza della croce, strumento della nostra salvezza e segno d’un misericordioso amore infinito. Ecco la saggezza della penitenza che espia, corregge e riabilita. Ed ecco la fortuna del sacramento della penitenza, della confessione, vera celebrazione nelle anime umili e sincere del mistero pasquale, della nostra risurrezione. Oh! nessuno rimanga estraneo ed escluso da tanta grazia e da tanta beatitudine!

Con la Nostra Benedizione Apostolica.

Sabato, 20 marzo 1971

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Siamo assai lieti di dare il Nostro benvenuto ai millecinquecento Maestri del Lavoro, e ai loro familiari, convenuti a Roma per partecipare all’annuale Convegno nazionale, promosso dalla omonima Federazione Italiana. Voi rappresentate davanti ai Nostri occhi tutti coloro che, come voi, sono stati insigniti della Stella al Merito del Lavoro per le particolari qualità professionali, umane e morali, di cui sono forniti, ed è perciò cosa assai gradita per Noi potervi attestare pubblicamente la Nostra stima e la Nostra benevolenza, per un riconoscimento così alto, che a buon diritto vi onora, coronando la vostra esistenza di buoni cittadini e di degni lavoratori. Ma la vostra presenza è altresì simbolica di un ben più vasto numero di persone: effettivamente, voi ci portate davanti l’immagine di tutto il mondo del lavoro, con la sua somma di attività, di fatiche, di aspirazioni, di benemerenze, di delusioni: mondo ampio e poliedrico, organizzato e volitivo, talora inquieto e tumultuoso, che non nasconde talora le sue diffidenze verso la Chiesa, ma che pure è fatto oggetto, da parte di essa, delle premure più vigili e attente. In questo giorno, che segue la festa liturgica di San Giuseppe, l’umile operaio di Nazareth, ci fa piacere, cogliendo questa occasione di riattestare la materna e continua sollecitudine della Chiesa per i lavoratori, per la difesa della loro dignità umana, e per la loro elevazione spirituale e morale; ne sono prova i più famosi documenti pontifici, ne fa fede l’impegno che essa ha attraverso apposite istituzioni internazionali e nazionali di seguirne e di favorirne lo sviluppo con ogni mezzo a sua disposizione.

Non è Nostra intenzione fare l’apologia di quanto ha compiuto e compie la Chiesa in questo settore; l’abbiamo fatto altre volte, sulla scia dei nostri Predecessori; del resto non ce n’è bisogno, perché tale posizione è chiara come la luce del sole, ed è ben sintetizzata da una frase del Concilio Vaticano II, che nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ha solennemente affermato che «il lavoro umano . . . è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzo. Tale lavoro, infatti, sia svolto indipendentemente che subordinatamente ad altri, procede immediatamente dalla persona, la quale imprime sulla natura quasi il suo sigillo e la sottomette alla sua volontà. Col suo lavoro, l’uomo abitualmente sostenta la vita propria e dei suoi familiari, si associa agli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità, e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione» (Gaudium et Spes
GS 67).

Grandi parole! Sintesi profonda, che getta un fascio di grande luce sulla dignità del lavoro umano!

Ed è appunto su questo valore pedagogico del lavoro sottolineato incessantemente dall’insegnamento e dalla pratica della Chiesa, che Noi vorremmo oggi insistere, per lasciare a voi, carissimi Maestri del Lavoro, un ricordo di questo Nostro incontro, a vostra consolazione, e a vostro incoraggiamento, per riprendere con rinnovato fervore, il corso monotono della vita di ogni giorno. Sì, il lavoro è pesante, è faticoso, è arduo; le moderne condizioni della vita industriale lo portano talora ad un livellamento di atti e di gesti, che sembra mortificare la persona umana; eppure esso, anche quando è svolto nella sfera più libera e creativa dell’iniziativa artigianale o artistica, reca sempre con sé un elemento di sofferenza e di pena. La fede cattolica ci insegna che queste sono le vestigia del peccato originale che ha trasformato il lavoro da un impulso gioioso e fecondo dell’uomo, creato da Dio per sottomettere la terra (Cfr. Gen. 1, 28), in un peso da portarsi con volontà riottosa e renitente, in una lotta continua contro la natura ostile, scardinata anch’essa dal suo equilibrio in conseguenza della ribellione dell’uomo a Dio: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane» (Ibid. 3, 19).

Nella nuova economia della Redenzione, il lavoro trova però tutto il suo valore di ascesi e di perfezione spirituale: unito alla sofferenza di Cristo Gesù, il Quale volle essere operaio nell’umiltà della casa di Nazareth, il lavoratore - sia esso della mano e del braccio, come della penna, della mente, dell’insegnamento, ecc. - dà alla propria opera un valore altissimo: non è solo più la prosecuzione dell’attività creatrice di Dio, ma diventa mezzo di elevazione e di purificazione, di raffinamento interiore nella pace e nella pazienza, di elevazione del mondo, in comunione con tutti i fratelli che, attraverso l’apporto di ognuno, si porgono l’un l’altro la mano in un servizio indispensabile alla comunità umana.

Voi siete «Maestri» del lavoro: dovete dunque viverne, e insegnare agli altri la difficile arte di adoperarne tutte le ricchezze, insite per la propria maturazione umana e cristiana. Il lavoro sia per voi e per gli altri non impedimento, non ostacolo, non remora, bensì scalino per ascendere gradatamente e sicuramente nella comprensione del piano divino di amore verso tutti gli uomini, per portare il proprio contributo alla costruzione non solo della società terrena, ma di quella cristiana, cementata dalla carità e dalla fratellanza, sinceramente vissute.

È questo l’augurio che vi facciamo, assicurando a voi, e a tutti i vostri colleghi di lavoro che un posto di predilezione è riservato per voi nel Nostro cuore.



Assistenti e dirigenti dell’Azione Cattolica Ragazzi

Ed ora una parola di saluto ad altri gruppi di particolare rilievo, che distinguono questa affollata udienza.

Salutiamo anzitutto gli Assistenti e i Dirigenti Nazionali e Diocesani dell’Azione Cattolica Italiana dei Ragazzi, che hanno tenuto la prima assemblea nazionale dopo l’approvazione del nuovo Statuto della stessa Azione Cattolica.

Il vostro è un apostolato tanto necessario; e ci fa piacere costatare il senso di responsabilità con cui affrontate i problemi della vita dei giovanissimi. Oggi i ragazzi crescono prima, si dice; sono più vivaci, più intelligenti, più aperti, conoscono un mondo di cose attraverso le nuove forme della Scuola e per il tramite dei mezzi di comunicazione sociale. Ma proprio per questo hanno maggior bisogno di cure: si sviluppano in mezzo ai pericoli di un ambiente pluralistico, nel quale il bene e il male sono apertamente mischiati, e manca un criterio di buon giudizio perfino per gli adulti. Figuriamoci per i ragazzi, che devono essere guidati da mano amorevole, ma esperta e ferma, se non si vuole che le doti della loro intatta freschezza siano corrose, e forse irrimediabilmente avvelenate. Non comprendiamo quindi perché, da parte di certuni, anche dei nostri buoni Sacerdoti, si tenda a sottovalutare l’importanza della pastorale dei ragazzi, per dare la preferenza a quella in favore dei grandi: certo, è necessaria una gerarchia di valori. Però il metodo di Gesù, e quello dei grandi santi pedagogisti della Chiesa - pensiamo a un La Salle, a un Giovanni Bosco - non è stato questo: e la ricchezza dei risultati ne ha confermato la bontà. Occorre ritornare a centrare le proprie sollecitudini sulla formazione dell’adolescenza, compito che richiede sapienza, esperienza, tatto, buonsenso, forza di persuasione; oggi più che mai.

Un grande e meritato elogio a voi, che lo fate: non lasciatevi scoraggiare dalle difficoltà, ma raddoppiate i vostri sforzi per rivitalizzare anche questo importante settore dell’Azione Cattolica. Ve ne ringraziamo di cuore, e preghiamo il Signore per voi, affinché non vi manchi mai il suo aiuto.

Pellegrini di Reggio Emilia e Guastalla

Ed ora a voi, carissimi familiari dei Sacerdoti, dei Missionari, dei Religiosi e delle Religiose delle diocesi di Reggio Emilia e di Guastalla, venuti col vostro zelantissimo Vescovo, Monsignor Gilberto Baroni, in un pellegrinaggio così qualificato, così significativo. La vostra presenza ci commuove, non solo perché richiama alla memoria la soavità dei ricordi dei Nostri Genitori, ma soprattutto perché è una testimonianza, tanto più formidabile quanto silenziosa, di amore a Cristo e alla Chiesa.

Voi avete dato un figlio, una figlia al Signore; vi siete privati di cullare speranze terrene sull’avvenire di questi vostri figlioli, rinunziando, nella maggior parte dei casi, perfino alla dolcezza di averli con voi, alla sicurezza del vostro domani. Vi siete affidati alla Provvidenza, avete fatto conto su Dio solo! Come Abramo, come Elisabetta, come Maria Santissima.

Il Signore, che non lascia senza la dovuta mercede anche un bicchier d’acqua dato ai suoi apostoli (Cfr. Mt 10,42), non mancherà di aprirvi la fonte delle sue consolazioni: già grandi, inesprimibili, ineffabili, fin da questa terra, ma soprattutto amplissime in Cielo. Il Papa vi ringrazia, comprendendo in un unico abbraccio voi e i vostri figlioli consacrati, e le vostre diocesi, che, in voi, offrono un aspetto così consolante della propria spirituale efficienza.

Suore Agostiniane

Dobbiamo infine una parola di benvenuto e di incoraggiamento alle duecento Suore Agostiniane d’Italia; esse rappresentano oltre mille consorelle di sei diverse Congregazioni agostiniane, e sono venute a Roma per un convegno di preghiere e di studio sul tema «Azione e contemplazione nella vita religiosa agostiniana, oggi». Avremmo voluto maggior tempo a disposizione, per dedicare un approfondito esame ad un argomento tanto interessante; ma fortunatamente avete per voi i testi del vostro grande Patrono e Istitutore, Sant’Agostino, le cui pagine sono come una sorgente di acqua viva e zampillante, profonda e quieta, per indirizzare la vostra vita sul duplice binario dell’apostolato in favore delle anime e della preminente vita di unione con Dio. Chi più di lui fu attivo nell’impegno quotidiano per l’edificazione della Chiesa; e chi meglio di lui fu attento alla voce del Maestro interiore, che parla nel fondo dell’anima in un segreto e continuo e amoroso colloquio? Quale esempio, quale scuola, quale forza per voi, che ne siete le figlie spirituali! (Cfr. la celebre Epistola 211; PL 33, 958, ss.) Vi ripeteremo le parole di S. Agostino alle monache da lui istruite: «Che il Signore vi dia la grazia d’osservare tutte queste cose con dilezione, come amatrici della bellezza spirituale, e come fragranti del profumo di Cristo per la vostra buona condotta, non come serve sotto la legge, ma come fatte libere sotto la grazia» (Ibid. 965).

Non lasciate pertanto consumare il prezioso alimento della vita interiore, da cui sola scaturisce la fecondità delle opere; oggi si è più portati a sottolineare queste a scapito di quella, con conseguenze purtroppo assai funeste. Sappiate compiere la felice, indispensabile sintesi, che garantisce pienezza di frutti alla vostra vita religiosa in seno alla Chiesa, al servizio del Redentore e delle anime acquistate dal suo Sangue prezioso. Con questa intenzione vi ricordiamo nelle Nostre preghiere, e vi assicuriamo la Nostra benevolenza.

Ai menzionati pellegrinaggi, e a tutti coloro che sono presenti a questa udienza, vada il Nostro pensiero beneaugurante, pieno di affetto e di sollecitudine. Il Signore vi accompagni sempre nelle vie della vita, mentre, in pegno dei suoi doni, di cuore impartiamo la Nostra propiziatrice Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 24 marzo 1971


Paolo VI Catechesi 24021