Paolo VI Catechesi 18871

Mercoledì, 18 agosto 1971

18871
Nella ricerca delle idee maggiori del Concilio non possiamo tralasciare quella della libertà, che troviamo espressamente enunciata nei documenti conciliari; uno di questi documenti vi è intenzionalmente dedicato, quello sulla «Libertà religiosa» (Dignitatis humanae); altri ne parlano come d’un’esigenza fondamentale per dare dell’uomo la sua essenziale definizione: l’uomo possiede di natura sua questa facoltà di potersi autodeterminare; e per assegnare all’uomo la legittima e responsabile padronanza delle proprie azioni. La libertà: se ne è tanto parlato ai nostri giorni, in sede dottrinale per esaltarla e rivendicarla, ovvero per negarla e per ridurla ad una illusione psicologica che rimane ad ogni modo prigioniera d’un invincibile determinismo. E se ne è parlato in sede pratica in ogni campo dell’attività umana, pedagogica, sociale, economica e specialmente politica, per affermarla con la massima energia, ed anche per impugnarla con le forme più diverse di limitazione, di repressione e di negazione. La libertà è uno dei temi principali e caratteristici della cultura moderna, e affermata, discussa, negata essa costituisce uno dei campi in cui l’uomo è costretto a prendere posizione. Strano si è che è ben difficile trovare l’accordo degli uomini in questo campo stesso, dove essi s’incontrano spesso più per dividersi e per combattersi, che per celebrare insieme questa graduale e irreversibile conquista del progresso storico e spirituale della civiltà.

Vi sarebbero moltissime cose da dire in ordine alla libertà, delle quali non è questo il momento di fare parola. È tuttavia sempre opportuno procurare d’avere un concetto chiaro sul significato del termine libertà: esso indica la padronanza di sé, il potere di scegliere, riferito all’azione, l’autonomia (liberum est quod causa sui est) (S. TH.
I 83,1; cfr. Si 15,14), e si riferisce alla volontà: mentre l’intelletto è determinato dalla conoscenza, la volontà sceglie autodeterminandosi, ma, se vuol essere umana, e non schiava degli istinti o di influssi esteriori, trova nella ragione il motivo della sua scelta (Cfr. Jn 8,32; S. TH. I-II 17,1 ad 2); e perciò la libertà dovrebbe, per sé, essere rivolta al bene. Essa non è fine a se stessa, ma è disponibile ed ordinata all’azione diretta alla ricerca e al conseguimento di valori vitali, inseriti nel quadro obiettivo del Bene assoluto e del vero bene a noi relativo.

Questa analisi psicologica circa il gioco tra la ragione e la volontà, le due facoltà spirituali dell’uomo, è molto importante e dovrebbe essere approfondita per scoprire uno dei difetti capitali prodotti in noi dal peccato originale: l’accordo intimo fra ragione e volontà non è sempre felice, pensiero ed azione non sono in noi sempre coerenti (Cfr. Rm 7,15). Saremmo qui tentati di studiare come la grazia, cioè l’azione divina soprannaturale, lo Spirito Santo, possa entrare in questo gioco interiore dell’anima umana, con le sue misteriose e pur sperimentabili ispirazioni, o dando alla mente maggiore luce, maggiore capaciti conoscitiva, ovvero dando alla volontà maggiore rettitudine e maggiore forza di eleggere e di agire, sempre rispettando la libertà dell’uomo: è uno dei problemi più interessanti e più complessi della teologia; S. Agostino vi dedicò fra i primi molte mirabili pagine.



L’USO ESTERIORE DELLA LIBERTÀ

Ma ciò che oggi interessa la pubblica discussione non è tanto questa delicata e indispensabile introspezione circa l’esistenza interiore della libertà, ma piuttosto l’uso esteriore, sociale, politico della libertà. La libertà è diventata un dogma per alcuni, un pericolo per altri. Essa suppone nel suo esercizio degli ostacoli, dei limiti; e perciò ordinariamente la libertà si pone come una lotta di liberazione, cioè di rimozione degli ostacoli che si oppongono alla sua larga e spontanea affermazione. È facile immaginare, da un lato, quale idealismo, spesso nobile e coraggioso, sostenga questo sforzo di liberare l’uomo da ciò che costringe, limita, impedisce l’espansione della sua personalità e della sua attività; si parla di liberare l’uomo dalla schiavitù, dalla tirannia, dalla mancanza di diritti civili, ovvero dalla fame, dalla miseria, dalla ignoranza, dalla precarietà delle sue condizioni: è questa una delle cause che maggiormente impegna oggi uomini saggi e valorosi, anche se talora intemperanti e demagogici. Dall’altro lato, si vede come l’uso della libertà possa facilmente degenerare in disordine: l’individualismo per primo e perciò l’egoismo, la confusione sociale, donde la repressione. la disintegrazione della comunità, e così via: se ciascuno vuol fare a suo modo, col pretesto della libertà, facilmente avremo la decadenza della società civile organizzata come Stato; e facilmente avremo la prevalenza delle forze violente, istintive, passionali sul pubblico ordine morale. È a questo punto che si è posta la polemica dottrinale della Chiesa nei riguardi del liberalismo (al quale dobbiamo riconoscere certi meritevoli aspetti, specialmente nell’ordine pratico), per il suo agnosticismo in fatto di principi trascendenti, sia religiosi che etici; per il suo ottimismo nel risultato della lotta inevitabile fra le varie tendenze, la quale si è risolta spesso nella sopraffazione del più forte, specialmente in campo economico-sociale; per il naturalismo che ne è derivato a danno d’un deontologismo etico ed a favore di un’indifferenza, speculativa almeno, verso i bisogni e le sofferenze altrui; per il fermento antinormativo che ha poi alimentato le inquietudini sociali, favorendone così reazioni rivoluzionarie e totalitarie.


GLI INSEGNAMENTI DEL CONCILIO

Ciò non ostante, la Chiesa «ha scelto la libertà». Il Concilio ha fatto propria la grande istanza del mondo civile moderno per riconoscere all’uomo questa primaria e altissima, naturale prerogativa: la libertà. Due punti meritano d’essere notati. Il primo riguarda la ragione profonda e suprema della libertà dell’uomo: è ancora la sua dignità. Ascoltate come si esprime il Concilio: «La vera libertà è nell’uomo il segno altissimo dell’immagine divina. Dio volle infatti lasciare l’uomo in mano del suo consiglio (Si 15,14 già citato), così che cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga a Lui liberamente con la sua adesione . . .» (Gaudium et Spes GS 17). Togliete dall’uomo questo rapporto intenzionalmente libero e moralmente vincolato verso Dio, e toglierete la ragione più giustificativa della libertà umana. Ed ecco allora il secondo punto, degno di menzione: il rapporto dell’uomo con Dio non deve essere né costretto, né impedito dall’autorità esterna dello Stato, incompetente in campo religioso; è questa la ragione basilare del Decreto Conciliare sulla libertà religiosa nel campo della convivenza civile (Dignitatis humanae). Tralasciamo qui ogni spiegazione, che pur sarebbe dovuta. Ci preme raccomandarvi di saper voi stessi educare cristianamente alla coscienza e all’uso della libertà, che non solo da oggi, ma oggi con più chiaro e completo insegnamento, la Chiesa cattolica predica ai suoi figli. L’ha predicata sempre in rapporto alla fede, esortando il cristiano a dare alla fede il primo posto nella scala dei valori, fino a sacrificarvi per la sua libertà, se occorre, ogni altro bene, anche la vita, con la testimonianza suprema, col martirio. Lo sappiamo: vi sono pagine nella storia della Chiesa, in fatto di libertà religiosa, che meritano riserve e spiegazioni, facilmente derivabili dal contesto storico in cui esse registrarono fatti più conformi allo spirito temporale che a quello evangelico. Ma accogliamo con gioia il nuovo insegnamento più coerente con questo spirito del Vangelo.


COSCIENZA E RESPONSABILITÀ

E avvertiamo una cosa: la libertà è facoltà estremamente preziosa, ed estremamente delicata (Cfr. 1P 2,16). Affinché la libertà resti per noi quel riflesso divino ch’essa è, procuriamo di proteggerla, e dapprima in noi stessi. Vero che la coscienza dev’esserle guida, ma la coscienza stessa dev’essere guidata dalla scienza delle cose divine ed umane; la verità è liberatrice. Vero che la libertà deve poter operare senza ostacoli, ma essa dev’essere orientata al bene, e questo orientamento imperativo si chiama senso di responsabilità, si chiama dovere; vero che la libertà è una prerogativa personale, ma essa non può non essere rispettosa dei diritti altrui, anzi essa non può essere disgiunta dalla carità, la quale non solo ci fa ossequienti alle leggi (Cfr. Rm 13,1-7) e obbedienti all’equilibrio delle convivenze collettive (Cfr. Col 3,20), ma ci vieta l’uso anche delle case lecite, se ciò riesce dannoso al prossimo (Cfr. Rm 14,15 1Co 10,23), ci spoglia da ogni egoismo e converte la nostra autonomia personale in oblazione a Dio (con promesse, o voti, ad esempio), e con volontario e generoso impegno all’altrui servizio.

Quante case! Ve ne dia intelligenza la Nostra Apostolica Benedizione.

La vita consacrata quale servizio


La fondazione RUI

Abbiamo qui, anche quest’anno, uno scelto gruppo di docenti e di A studentesse, che partecipano al corso internazionale estivo «Arte e Cultura a Roma negli anni 70» organizzato dalla Fondazione RUI; ad esse porgiamo il Nostro elogio per la diligenza e per l’impegno, con cui attendono alla lodevole iniziativa. Voi approfondite le vostre conoscenze di storia dell’arte attraverso le lezioni che vi vengono impartite e, soprattutto, mediante la diretta conoscenza del patrimonio artistico e culturale di Roma, così dovizioso, così vario, così eloquente, cosi formativo; e questo perfezionamento, che state compiendo, ha inoltre l’incomparabile pregio di svolgersi a contatto con altre coetanee, di diversa nazionalità e provenienza, con le quali intrattenete scambi fraterni, destinati a dare alla vostra formazione un’impronta assai significativa, per l’arricchimento della vostra personalità, della vostra mentalità, della vostra vita. Formuliamo perciò, voti the il vostro soggiorno romano sia veramente fecondo di luce per la mente, di orientamento per la cultura, di reciproca comprensione e di fratellanza nei rapporti umani, di dedizione e di amore per la missione the sarete chiamate a svolgere domani, ciascuna nella strada the vi i: tracciata. Noi vi accompagniamo col Nostro augurio, affinché la vostra esistenza sia sempre dedicata a scoprire i valori grandi e autentici, per i quali vale la pena di vivere, trafficando i talenti dati dal Signore. E nel suo Nome, tutte vi benediciamo, unitamente ai vostri cari lontani.

Today We have the pleasure of having a group from Iraq. We want you to know how welcome you are, and how happy We are to greet you. Just recently We had the occasion to express to your Ambassador our friendship and esteem for the Iraqi people; today We assure you of our prayers and best wishes.

Our greetings go to the large number of Americans present here this morning. We are particularly pleased to welcome the members of the Special Pilgrimage to Lourdes and Rome from the Archdiocese of New York. It is our prayer that the grace of God will be active in your hearts as you visit the holy shrines, and that the memory of your pilgrimage will long remain with you.

The students from the University of Nanzan are once more among our welcome guests. This occasion prompts us to tell you how much it means to the Catholic Church to unite and develop individuals and civilizations in a oneness that is based on the universality, of man. Because of her mission, the Church can understand and profoundly respect the various customs of all men, who make up a common brotherhood. Be assured of our affection.

With Our Apostolic Blessing to everyone.



Mercoledì, 25 agosto 1971

25871
Ancora alla ricerca delle parole ideali, che caratterizzano l’insegnamento del Concilio, Noi ne troviamo una, posta in vista con particolare insistenza, e degna quindi del Nostro studio; ed è la parola: servire. Sembrerebbe affermazione contraria al termine di «libertà», che abbiamo non meno veduto difesa e proclamata dal Concilio. Ma i due termini: servizio e libertà non si oppongono fra di loro nel pensiero conciliare, perché l’uno e l’altro si riferiscono a contesti dottrinali diversi, anzi possono trovarsi nel medesimo contesto con significati complementari d’un medesimo atteggiamento religioso e morale, come, ad esempio: dobbiamo servire liberamente Iddio, Cristo, la Chiesa, il prossimo.

Dunque, bisogna vedere a che cosa si riferisce, e che cosa significa il servizio, che il Concilio predica come uno dei concetti preferiti della sua dottrina. Il Concilio parte dal disegno divino della salvezza del mondo, la quale ha avuto Cristo per artefice subordinato alla volontà del Padre. Il concetto di dipendenza da Dio Padre, concetto ch’è proprio del servire, scolpisce la figura di Cristo, già prefigurato nella celebre profezia del Servo di Jahve, Israele cioè personificato nel Messia redentore (Cfr.
Is 49, ss.; Is 53), Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, venuto nella storia del mondo, com’Egli stesso ci annuncia, «per servire e per dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È l’idea fondamentale del piano della salvezza che rivela due intenzioni relative al servizio di Cristo: l’inserzione dapprima della volontà di Cristo medesimo nella volontà sovrana, misteriosa e misericordiosa del Padre, Gesù è soggetto, è obbediente «fino alla morte» (Ph 2,8) al volere supremo del Padre; e quantunque Egli stesso fosse di natura divina («in forma Dei esset») (Ibid., Ph 2,6), ha voluto assumere la natura del servo, quella umana, fino all’annientamento di sé (Ibid., Ph 2,7). Si potrebbero moltiplicare le testimonianze di Gesù medesimo a proprio riguardo circa la sua assoluta dipendenza dalla volontà del Padre celeste. Riassumiamole in queste due; prima questa: «Io faccio sempre quello che piace a Lui (il Padre)» (Jn 8,29 Jn 11,31; ecc.); e l’altra, sublime e tragica, nel Gethsemani: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice (della passione); per altro non come voglio Io, ma come vuoi Tu» (Mt 26,39). Non si può comprendere e ricostruire qualche cosa della figura di Cristo, senza avvertire l’essenziale rilievo che in Lui assume il compimento della volontà del Padre (Cfr. ADAM, Cristo nostro Fratello), cioè d’una obbedienza, che lo curva al servizio prima, lo innalza poi alla gloria dello stesso suo Padre celeste (Ph 2,9-11).

Questa la condizione stabilita da Dio e scelta da Cristo! Sarebbe qui da leggere e da meditare la pericope della lettera agli Ebrei (He 10,5-10), la quale ci richiama all’attenzione che guida questa scelta di servizio, di umiltà, di sacrificio; è l’intenzione dell’opera redentrice. Perché Gesù è così disceso da dire di se stesso: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire»? (Mt 20,28 Rm 5,6 Rm 8,34 1Tm 2,6) Perché? Risponde il «Credo» della Messa: «per causa di noi uomini e della nostra salute»i La nostra salvezza è la ragione, è l’amore che ha indotto Cristo a farsi servo, a farsi vittima per noi (Cfr. Lumen gentium LG 5). La parola «servire» non indica più una degradazione insopportabile alla dignità e alla libertà della persona umana, ma, vista nella funzione e nella finalità, per cui Cristo la fece propria, acquista il più alto valore morale, quello del dono di sé, dell’eroismo, del sacrificio, dello sconfinato amore.

Ma nei testi conciliari la citazione di questa dura e grande parola ha un riferimento speciale, sul quale non possiamo sorvolare (anche se altre volte vi abbiamo fatto cenno); ed è il riferimento a coloro che nella Chiesa sono rivestiti d’autorità cioè a coloro che compiono sugli altri e per gli altri una qualche funzione dottrinale, santificatrice, normativa. Per Gesù, per il Concilio, per la Chiesa, l’autorità è servizio. Questa equazione: autorità eguale servizio è severa e perentoria. Non ve n’è un’altra (Cfr. Lc 22,25 Mc 10,42-45 cfr. Manzoni, sul Card. Federigo; «non ci essere giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio», MC c .

Questa è la lezione, che possiamo dire costituzionale, e che il Concilio ha esposto in molte sue pagine. Non per nulla l’esercizio dell’autorità nella Chiesa si chiama ministero; e non per nulla l’autorità della Chiesa ha carattere pastorale: «L’ufficio che il Signore affidò ai Pastori del suo popolo, insegna il Concilio, è un vero servizio, che nella Sacra Scrittura è chiamato intenzionalmente diaconia, cioè ministero» (Lumen gentium LG 24).

L’esperienza storica (come quella che in passato ha abbinato il potere temporale a quello spirituale, e non solo a Roma, ma in tante altre Chiese locali europee), e l’istintiva tendenza umana di fare dell’esercizio dell’autorità un’affermazione di dominio personale, o una fonte di profitto economico hanno reclamato la restaurazione del concetto genuino dell’autorità nella Chiesa (e anche nel campo civile) (Cfr. Gaudium et Spes GS 74): non despotismo, non orgoglio, non egoismo, non trionfalismo, ma ricerca del bene comune e servizio non lieve, non facile a vantaggio dei più bisognosi essa dev’essere, con stile evangelico, cioè pastorale, con forme appropriate e legittime, affinché essa appaia la manifestazione delle virtù, che Cristo irradiò pur chiamandosi «Signore e Maestro» (Jn 13,13): l’umiltà (Ibid., Jn 13,14), la mitezza (Mt 11,29), l’amore, cioè la esplicazione più caratteristica e più piena della sua missione: venire a contatto con gli uomini, per istruirli, per santificarli, per guidarli, creando così una società, la Chiesa, una nella fede e nella carità.

Questa revisione dell’autorità della Chiesa e nella Chiesa, sotto la lente del verbo «servire» può dare occasione, oggi specialmente come si sa, ad altre deviazioni: chi vorrebbe che l’autorità ecclesiastica, com’è oggi in molte società civili, scaturisse dalla base. così che la gerarchia non traesse la sua ragion d’essere e la sua potestà dall’ordinamento stabilito da Cristo, ma dal mandato della comunità, quasi che avendo la gerarchia per fine il servizio del popolo cristiano fosse anche per origine al suo servizio, e traesse dal popolo stesso la sua autorità, come avviene nelle moderne democrazie; e chi vorrebbe perfino contestare la necessità e la legittimità d’una gerarchia, d’un ministero umano investito di potestà divine, come se il rapporto con Cristo non avesse bisogno d’una pastorale mediazione canonica (Cfr. 1Co 4,1 ss.; Ep 3,7). L’autorità, sempre difficile di per sé, è oggi diventata per non pochi «bersaglio di contraddizione» (Lc 2,34). Non saremo ora, né tanto meno Noi personalmente, a farvi l’apologia dell’autorità, della gerarchia e dell’organica strutturazione comunitaria; voi certo ne conoscete i titoli d’origine divina e il coerente sviluppo tradizionale. Chi volesse confortare di buona cultura storica, tuttora valida, il proprio pensiero può trovare ottimo alimento nella rinomata opera di Pierre Batiffol, tradotta anche in italiano, e ora ristampata e aggiornata da una bella prefazione del Card. Daniélou, intitolata: «La Chiesa nascente e il cattolicesimo» (Vallecchi, Firenze 1971). E poi voi sapete come anche su questo capitolo l’attività Post-conciliare riformatrice e innovatrice tende a interpretare i bisogni dei tempi nella fedeltà alle basi costitutive della Chiesa, con nuove istituzioni (Conferenze Episcopali, Sinodo Episcopale, Consigli Presbiterali e Pastorali . ..). in modo che il binomio servizio ed autorità risulti nella Chiesa più evidente e più operante, ed animato da un unico principio, la carità (Cfr. JOURNET, L'eglise . . . , I, 27).

Sia dunque così, con la vostra amorosa collaborazione (come è detto nell’Epistola agli Ebrei) (13, 17): affinché chi ha il formidabile ufficio di guidare la Chiesa «lo possa fare con gaudio e non gemendo». Ed ecco allora a voi la Nostra Apostolica Benedizione.


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Among our guests present here this morning there are students from Sophia University in Tokyo. Through you, dear friends, We express our affection for all the students of your country and extend our greetings to the youth of Asia, for whom We have great admiration and in whom We place so much trust. Be assured of our special interest in your University for which Our predecessor Pius X had such keen concern.

With Our Apostolic Blessing to everyone.

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Nuestro especial saludo a los doscientos trabajadores y dirigentes de la empresa «Porcelanas Lladró», cuya nueva visita nos llena de sincera alegría.

El arte con que trasformáis la materia para el servicio de todos, os hace acreedores de nuestro sincero elogio.

Os animamos en esa noble tarea de perfeccionar y poner las cosas al servicio de los hombres mediante vuestro trabajo, en el cual tenéis que encontrar, cada día más, al mismo Creador, que con amor de Padre hizo el mundo y nos lo entregó para que continuáramos su desarrollo.

Sed ejemplos de vida cristiana entre vuestros familiares y entre vuestros hermanos de trabajo, a todos los cuales también bendecimos con paterno afecto.

Damos también Nuestra cordial bienvenida a los obreros y obreras de Aguilar de Campóo que, guiados por las Hermanas de la «Obra Don Guanella», han querido visitarnos.

Os acompañamos con Nuestras plegarias y Nuestro afecto en vuestro trabajo de todos los días, y os exhortamos de corazón a seguir los pasos y la Palabra de Cristo, que al venir al mundo quiso hacerse obrero para estar muy cerca de vosotros con su amor, su aliento y su esperanza.

En prenda de abundant’es gracias divinas, os otorgamos a vosotros, a vuestras familias y a todos vuestros compañeros trabajadores Nuestra especial Bendición Apostólica.




Mercoledì, 1° settembre 1971

10971
La ricerca delle espressioni caratteristiche e dominanti negli insegnamenti del recente Concilio ci guida a riconoscere facilmente nella qualifica di «Popolo di Dio» il titolo preferito, col quale è definita la Chiesa. La Chiesa è il Popolo di Dio. Non è questa la sola denominazione che compete a questo Ente misterioso e complesso, che è la Chiesa.

Tutti certamente ricordiamo alcune almeno delle molte voci con le quali è nominata nel linguaggio biblico e teologico la Chiesa. Vale la pena di rievocarne qualcuna per meglio comprendere l’importanza e il significato di quella di Popolo di Dio, sulla quale fermiamo ora la nostra attenzione. La Chiesa è in Cristo «un sacramento, un segno, uno strumento», mediante il quale gli uomini possono comunicare intimamente e a proprio salvamento con Dio, e possono costituire fra loro più che una società, una comunione. L’abbiamo altra volta ricordato. La Chiesa è «il germe e l’inizio» del Regno di Cristo e di Dio. Essa è l’ovile, di cui Cristo è pastore. Essa la casa, il tempio, la famiglia di Dio. Essa è la Gerusalemme messianica, la città di Dio. Essa è la Sposa di Cristo, cioè l’umanità unita a Cristo con vincolo d’amore sommo e vitale. Essa è la colonna e il fondamento di verità. Essa è soprattutto il Corpo mistico di cui Cristo è il Capo e di cui noi siamo le membra diversamente strutturate, ma animate da un unico Spirito (Cfr.
1Co 12,12 ss. ; Col 1,18 Ep 1,22-23 Ep 4,15-16); e così via. Ognuno di questi titoli offre motivo a profonde ed esaltanti meditazioni.

Ma fermiamoci a quello prescelto dal Concilio. Una bellissima pagina della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen Gentium (Lumen gentium LG 9), così ci ammaestra:

«In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque Lo teme e opera la giustizia (Cfr. Ac 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo, che Lo riconoscesse nella verità e fedelmente Lo servisse. Si scelse quindi per Sé Israele perché fosse il suo popolo, stabilì con lui un’alleanza, e lo formò, lentamente manifestando nella sua storia Se Stesso e i Suoi disegni e santificandolo per Sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da concludersi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere fatta per mezzo del Verbo stesso di Dio fatto uomo. "Ecco verranno giorni, parola del Signore, nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un’alleanza nuova . . . Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti la imprimerò; essi mi avranno per Dio ed io li avrò per mio popolo . . . Tutti essi, piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore" (Jr 31,31-34). Questa nuova alleanza la istituì Cristo, cioè la nuova alleanza nel suo sangue (Cfr. 1Co 11,25), chiamando gente dai Giudei e dalle genti, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo Popolo di Dio».

Magnifica sintesi storica e teologica dei rapporti fra Dio e l’umanità, secondo la Rivelazione.

Si è attribuita da molti una grande importanza dottrinale e pratica alla precedenza data dalla Lumen Gentium alla trattazione del capitolo secondo, circa il Popolo di Dio, a quella del capitolo terzo, circa la costituzione gerarchica della Chiesa, come se ciò comportasse d’ora in poi un mutamento sostanziale nella compagine della Chiesa stessa, che la obblighi a riformare il suo ordine costituzionale, quale Cristo stabilì e la tradizione interpretò e fissò; mutamento a scapito specialmente delle dottrine dogmatiche del Concilio Tridentino e del Vaticano primo, non che del consueto insegnamento teologico e catechistico, e a vantaggio delle correnti ideologiche democratiche del nostro tempo. Ma così non è. La priorità dello studio in questione ha grande importanza per la visione ampia ed organica ch’essa ci obbliga a contemplare: la realtà umana, a tutti comune, della quale è composto il Corpo mistico e sociale della Chiesa, e la causa finale della Chiesa medesima, cioè la salvezza dell’umanità, del Popolo, sono poste in primo piano, priores in intentione; ma la causa strumentale efficiente, cioè il mandato gerarchico, con le relative potestà generatrici del Popolo di Dio, conferito da Cristo agli Apostoli, conserva la sua indispensabile efficienza, com’è detto nel citato capitolo terzo, con le sue specifiche prerogative: prior in execatione. Non è sotto questo aspetto pseudo antagonistico fra Popolo e Gerarchia che dobbiamo studiare e apprezzare il titolo riconosciuto alla Chiesa intera, Fedeli e Vescovi e Papa insieme, di Popolo di Dio. Una eguaglianza fondamentale (Mt 23,8), un disegno globale, un destino comune investono nel pensiero divino l’umanità; essa forma un popolo, a cui tutti possono accedere. Era un popolo determinato e secondo ragioni etniche e norme religiose, cioè secondo l’antico patto, l’antica alleanza, l’antico testamento, un popolo privilegiato ed esclusivo; ma con la venuta del Messia, di Cristo instauratore d’una «nuova ed eterna alleanza», sorse un nuovo popolo, non definito dal sangue e dalla terra, ma, come scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera, «stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo acquisito», mediante la redenzione di Cristo offerta a tutta l’umanità, a un Popolo di figli di Dio (Cfr. Jn 1,12), a voi tutti, «chiamati all’ammirabile sua luce, voi che una volta non eravate popolo, ma ora siete popolo di Dio» (1P 2,9-10). Questo è il disegno religioso, il piano della salvezza vera, efficace, scaturito dalla misericordia di Dio, dall’eterno amore. Il Concilio ce lo presenta meravigliosamente nella sua realtà storica, esistenziale, nell’arco dei secoli ed oltre.

Facciamo ora attenzione. Questo piano divino, intenzionalmente e potenzialmente universale, cioè cattolico, conserva tuttavia, di fatto, in conformità agli imperscrutabili pensieri di Dio (Cfr. Mt 24,40), ed in omaggio all’inviolabile e fatale libertà dell’uomo (Cfr. Rm 10,16 Jn 12,37) una linea discriminante, la fede, con quanto essa comporta nell’ordine umano e spirituale (Cfr. Mc 16,16 He 11,6), la quale linea segna la configurazione del Popolo di Dio; esso è infatti la comunità dei credenti, di coloro che hanno accolto il Vangelo, la buona novella, e sono perciò entrati in un nuovo, vitale, ineffabile rapporto col Dio vivente, in una nuova, soprannaturale alleanza, che chiamiamo il nuovo Testamento (Cfr. 1Co 1,21).

L’appartenenza al Popolo di Dio, pensiamoci bene. assume una enorme e decisiva importanza; è l’inizio ed il pegno della salvezza. Somma importanza, sia perché questa appartenenza dipende da un complesso mistero di grazia, di misericordia, di amore da parte di Dio e di umana libertà da parte nostra, sia perché tale appartenenza si innesta nel dramma del nostro eterno destino personale (Cfr. Jn 3,18 Ap 7,3 Ap 9,4 Ap 14,1), e sia perché ad essa sono collegati altri immensi problemi quali quello missionario (Cfr. Ad gentes AGD 2-5), e quello ecumenico (Cfr. Unitatis Redintegratio UR 2). Se il Popolo di Dio è la Chiesa di Cristo, l’appartenenza alla Chiesa di Cristo diventa questione capitale.

Chi intravedendo nell’idea e nella realtà di Popolo la somma espressione della vita umana collettiva, ma si arresta volutamente e radicalmente al livello laico e secolare, rinuncia all’assunzione di questa nostra moltitudine d’esseri mortali e sempre insoddisfatti al livello superiore di Popolo di Dio, di Popolo messianico, elevato al destino presente e futuro di Chiesa, Corpo di Cristo risuscitato e risuscitatore: è un rischio pericoloso e può indurre a grave errore.

E chi pensa di poter a suo genio conservarsi cristiano, disertando il recinto istituzionale della Chiesa visibile e gerarchica, o immaginando di rimanere aderente al pensiero di Cristo modellando per sé una Chiesa concepita a proprio piacimento, è fuori strada, e illude se stesso. Compromette e forse rompe, e fa rompere ad altri, la vera comunione col popolo di Dio perdendo il pegno delle sue promesse.

Sarebbe qui da ricordare l’antica sentenza: «fuori della Chiesa non vi è salvezza» (Cfr. DENZ-SCH., DS 2865; DUBLANCHY, Dict. Théol. Cath. art. Eglise , col. Col 2155); ma non è questo il momento di spiegare come essa debba essere intesa. Dio può salvare chiunque come vuole, e noi sappiamo quanto è grande la sua sapienza e la sua misericordia; ma sta il fatto che nella rivelazione del suo amore Egli ha stabilito Cristo con la sua Chiesa come ponte di passaggio, obbligato per noi, dalla nostra sorte infelice alla sua salvezza e alla sua beatitudine.

La coscienza perciò dell’appartenenza al Popolo di Dio, alla Chiesa, con filiale adesione nella fede, nella carità, nella comunione strutturata e visibile legittimamente qual è, dovrebbe essere sempre da noi alimentata ed esaminata con umile e sincera verifica; e dovrebbe essa costituire il fondo spirituale di sicurezza e di gioia, proprio del buon Popolo di Dio, cristiano e cattolico; e mettere continuamente nel nostro cuore l’inno della Chiesa pellegrina: «Quanto sono amabili le tue tende, o Signore Dio degli eserciti! L’anima mia anela e sospira verso gli atrii del Signore! Il mio cuore ed i miei sensi esultano verso il Dio vivente!». Così il Salmista (Ps 83); così Noi e voi tutti, con la Nostra Benedizione Apostolica.

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Un particolare saluto desideriamo rivolgere ai bambini del Piccolo Coro dell’«Antoniano» di Bologna, i quali, accompagnati dai genitori, dai Padri Francescani e dai Dirigenti artistici, stanno per intraprendere un pellegrinaggio in Terra Santa.

Sappiamo, carissimi, che vi siete preparati da tempo e con molto impegno a questo itinerario veramente straordinario, il quale vi consentirà di visitare e di contemplare i luoghi santificati dalla vita, dalla passione e dalla risurrezione di Gesù, nostro Signore.

Auspichiamo, pertanto, che il vostro viaggio, compiuto con fede profonda e con serena letizia, vi ispiri fervidi propositi di bene, affinché la vostra esistenza sia sempre come un canto gioioso di lode a Dio.

Come segno della Nostra benevolenza, vi impartiamo di cuore la propiziatrice Apostolica Benedizione.

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Rivolgiamo ora un saluto, pieno di stima e di cordialità, ai Sacerdoti e ai Coadiutori ch’e compongono la Comunità salesiana del Centro «San Domenico Savio» di Arese, per la rieducazione della gioventù, e che in questi giorni sono riuniti a Roma per lo studio del programma di attività, del nuovo anno scolastico-professionale.

Noi ben conosciamo, fin dagli anni del Nostro ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Milano, lo zelo e la saggezza con cui voi, fratelli e figli carissimi, vi dedicate al compimento della vostra missione: difficile, ma feconda; faticosa, ma provvidenziale. Alla vostra scuola, improntata agli insegnamenti e agli esempi del venerato vostro Fondatore, San Giovanni Bosco, quella cara gioventù trova un valido ausilio per la soluzione dei problemi che la travagliano e la inquietano; sotto la vostra guida esperta e paziente, quei giovani imparano a maturarsi nello spirito, a temprarsi nella virtù, ad inserirsi nei rapporti umani con una visione equilibrata, serena e consapevole del mondo che li circonda.

Mentre vi esprimiamo la Nostra paterna riconoscenza per tutto quanto voi fate in questo delicato ed importante campo di apostolato, vogliamo confortare il vostro impegno con i Nostri voti e con le Nostre preghiere, nella fiducia che la grazia divina farà fruttificare in abbondanza il seme di verità e di bontà, che voi oggi gettate nella mente e nel cuore dei giovani, bisognosi di amore, di comprensione e di incoraggiamento.

Vi sostenga l’aiuto onnipotente del Signore, specialmente in quanto vi è di faticoso e di sacrificato nella vostra opera; e a tal fine vi impartiamo di cuore la Nostra propiziatrice Benedizione, che con grande affetto estendiamo altresì ai giovani affidati alle vostre cure.

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Our thoughts turn in a special way to a meeting, beginning in England, of the Mixed Commission set up between the Catholic Church and the Anglican Communion. The purpose of this Commission is to pursue “a serious dialogue which, founded on the gospels and on the ancient common traditions, may lead to that, unity in truth, far which Christ prayed”. Since We know how important these discussions are, they are the object of our fervent prayer today, and in this prayer We are United with our dear brother in Christ, the Archbishop of Canterbury. We implore the Holy Spirit to give guidance and assistance. Dear sons and daughters -gathered here with us today, and spread throughout the world- We ask you to join us in asking God our Father to bring about perfect unity in Christ.

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Dopo l’udienza generale, il Santo Padre riceve, in una sala della residenza di Castel Gandolfo, un gruppo di sacerdoti dell’arcidiocesi di Milano, che celebrano il 25° della loro Ordinazione sacerdotale.

Paolo VI rivolge agli intervenuti, quasi tutti parroci e che sono guidati da Don Emiliano De Vitale, affettuose parole di augurio, ricordando anche i principali doveri del sacerdote specialmente nei nostri tempi; e i mezzi necessari per dare sempre maggior valore, forza e ricchezza alla vocazione ecclesiastica, per la propria santificazione e per quella dei fedeli affidati.

Il sacerdote, osserva il Papa, deve modellare la sua vita su quella del Cristo, con continuo desiderio di Lui e sempre con entusiasmo. Per quanto riguarda la sua attività ministeriale verso la comunità umana, il sacerdote che si è modellato su Cristo deve impersonare la popolazione di anime che egli è chiamato a servire, interpretarne i sentimenti, soffrire, amare, lavorare per i fratelli: essere, insomma, in ogni momento, più uomo degli altri. Così il peso della vita sacerdotale sarà tanto più lieve quanto più egli vivrà la vita soprannaturale.

Al termine del paterno colloquio, Paolo VI imparte la Benedizione Apostolica e recita con i sacerdoti il Pater noster e l’Ave Maria, terminando con una devota invocazione ai Santi Ambrogio e Carlo. Infine si intrattiene a salutare affabilmente i singoli intervenuti.



Mercoledì, 8 settembre 1971


Paolo VI Catechesi 18871