Paolo VI Catechesi 8971

Mercoledì, 8 settembre 1971

8971

Una parola chiave per comprendere la dottrina generale del Concilio è quella che suona «escatologia». Parola strana all’orecchio non iniziato al linguaggio biblico e teologico, per la sua etimologia greca, che si risolve in questo significato: scienza delle cose ultime: «escatos» infatti vuole dire ultimo. E non solo questa parola (o più spesso il suo significato) è ricorrente in tanti passi dei documenti conciliari, ma domina tutta la concezione della vita cristiana, della storia, del tempo, dei destini umani oltre la morte (quelli che il catechismo e la predicazione chiamano i «novissimi», cioè: morte, giudizio, inferno, paradiso), ma specialmente domina la concezione del disegno divino sull’umanità, sul mondo, sull’epilogo finale, glorioso ed eterno della missione di Cristo. Questa concezione ci richiama ad una Chiesa in cammino verso un’altra vita, non stabilita definitivamente in questa terra, ma provvisoria, e tesa in un messianismo che si colloca oltre il tempo.

Questa visione dell’«al di là» è di somma importanza per ogni ordine di cose: vi è un «al di là»? quale sarà? come lo possiamo conoscere? quale influsso ha su l’«al di qua» la risposta a queste domande? la vita nostra finisce qui, sulla terra, o continua in qualche maniera, e quale, in un altro mondo? La stima dei valori umani e temporali, cioè la filosofia della vita, si capisce, dipende dall’esistenza affermata, o negata, o anche solo supposta (Cfr. Pascal) di una vita futura, dall’immortalità dell’anima e dalla sua responsabilità di fronte a un Dio giudicante. Per di più, la sorte di una singola esistenza umana non è estranea al disegno generale che riguarda l’umanità; e se questa è stata pensata da Dio nella intuizione d’un fine, il raggiungimento di questo fine, cioè la fine della scena umana nel tempo, diventa per la legittima e implacabile curiosità estremamente interessante. L’«al di là», cioè la realtà escatologica, assume dunque un triplice significato, riferito il primo alla condizione del nostro essere personale dopo la morte; riferito il secondo nel senso più proprio al regno di Dio e di Cristo dopo la sua risurrezione e dopo la «fine del mondo»; e il terzo a tutta la realtà soprannaturale. Ecco dunque l’interesse dell’escatologia: la fine dell’uomo e del tempo che raggiunge il fine dell’umanità e della storia, prestabilito da Dio.

Vediamo come il Concilio ci presenta le cose. Naturalmente la lampada della fede rischiara l’immenso quadro misterioso del tempo presente e dell’al di là, dove la Chiesa appare appunto come il disegno di Dio tracciato sullo sfondo dell’universo, e rivela il suo proprio essenziale carattere escatologico.

«La Chiesa, - è detto nella costituzione conciliare che la riguarda - alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale mediante la grazia di Dio acquistiamo la santità (finalità nostra personale), non avrà il suo compimento se non nella gloria del Cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose (Cfr.
Ac 3,21) e col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente congiunto con l’uomo e per mezzo di lui raggiunge il suo fine, sarà perfettamente restaurato in Cristo» (Cfr. Ep 1,10 Col 1,20 2P 3,10-13).

Dunque, vediamo quante verità veniamo subito a conoscere. Una sapienza governa il mondo, e svolge in esso un piano provvidenziale per l’umanità. Questo piano diventa logico e operante in Cristo, e per Lui nella Chiesa. La Chiesa è «in fieri», in divenire, non è al suo stato completo e perfetto; è pellegrina sulla terra e nel tempo. Esiste una vita futura. Esiste un regno avvenire, dove la luce, la vita, la felicità saranno concesse in grado di pienezza e senza limiti di durata. Anche le cose create supereranno lo stato presente, soggetto ad una intrinseca pressione evolutiva, per subire una metamorfosi di nuova perfezione (Cfr. Rm 8,22). Siamo nella fase intermedia dell’esistenza, cioè tra un grado iniziale e un grado superiore, escatologico. Siamo nella fase della speranza (Ibid. Rm 8,23-25).

Così che sappiamo che cosa rispondere all’opinione di quelli che, interpretando gli scritti del Nuovo Testamento circa gli avvenimenti escatologici, sostengono che essi, venuto il Messia, sono già stati realizzati, e quindi non vi sarebbe altro da attendere; il cristianesimo, dicono, riguarda il presente, non il futuro. Noi stiamo alle parole del Signore, le quali ci assicurano che, venuto Lui nel nostro mondo, già «il regno di Dio è in mezzo a noi» (Cfr. Lc 17,21); già noi ora possediamo, nella Chiesa animata dallo Spirito Santo, immense ricchezze di vita nuova; ma poi, con afflato profetico che respira in tutto il Vangelo, Cristo ci ammonisce che la sua venuta storica, quale noi conosciamo dal Vangelo, non è l’ultima. L’ultima, quella escatologica, che con altro termine, distinto per noi ora da un significato specifico, chiamiamo la «parusia» (che vuol dire presenza, avvento, apparizione), sarà «nel giorno del Signore» (Cfr. Is 2,12 Is 13,6 ecc), quando Cristo ritornerà per «giudicare i vivi ed i morti», e per inaugurare la teofania finale, la visione beatifica dell’eternità.

Tutti certamente ricordiamo i grandi discorsi del Signore su questo tema apocalittico, nei quali le prospettive del futuro si sovrappongono misteriosamente, e sui quali dovrà indugiarsi lo studio attento e docile alla interpretazione della Chiesa. Abbiamo la certezza circa le catastrofi escatologiche, ma non conosciamo né il quando, né precisamente il come (Cfr. Mt 24,36-44 Ap 3,3). Ci è perfino impossibile avere un’immagine adeguata, anche puramente fantastica del mondo escatologico; le profezie dell’Apocalisse si esprimono in linguaggio figurato di non facile interpretazione; anche i tentativi più veggenti e più lirici dei poeti e degli artisti restano rappresentazioni arbitrarie ed impari alla realtà (vedi «La Divina Commedia» di Dante, i «Paradisi» di Milton; ecc.). Questa nube di mistero, che nasconde la visione del mondo escatologico, ha dato origine a teorie inaccettabili sul messianismo di Gesù, quasi fosse puramente escatologico e d’imminente attuazione (Weiss, Loisy), e ha dato pretesto a critiche molto negative circa l’interpretazione del Vangelo e circa la mentalità dei primitivi cristiani; come pure offre pretesto alla mentalità moderna di eludere la questione della sorte futura dell’uomo; dei «novissimi» pochi parlano e poco. Il Concilio, però, ci ricorda le solenni verità escatologiche che ci riguardano, compresa quella terribile d’un possibile eterno castigo, che chiamiamo l’inferno, sul quale Cristo non usò reticenze (Cfr. Mt 22,13 Mt 25,41). Il capitolo VII della Lumen Gentium (specialmente nel citato n. 8) riassume chiaramente ed energicamente la dottrina escatologica della Chiesa, dottrina che traspare in non pochi altri testi del Concilio (Cfr. Ad gentes AGD 9 Gaudium et Spes GS 18,38 Lumen gentium LG 6, 8, LG 35) e non attenua, anzi illustra il disegno divino di misericordia, di bontà e di amore della nostra salvezza, di cui tutta la dottrina del Concilio vuol essere documento.

Oggi, mentre da un lato la secolarizzazione ci fa perdere la coscienza del tremendo rischio circa la nostra sorte futura, e mentre dall’altro un facile ricorso ad atteggiamenti carismatici e profetici dà a molti l’ambizioso capogiro d’una propria sufficienza nel sentenziare sulle esigenze rigorose della vita cristiana e sugli umani destini, l’avere presente gli insegnamenti conciliari sui punti cardinali della vita, sui traguardi escatologici della nostra esistenza, quali la Parola di Dio nella Bibbia e il magistero della Chiesa nelle sue autentiche interpretazioni ci assicurano essere realtà, è sommamente provvido e doveroso (Cfr. Si 7,40), e infonde direzione e vigore al nostro passo, pellegrino nel tempo (Cfr. Gaudium et Spes GS 39 Apostolicam actuositatem AA 5), mentre il cuore sospira la conclusione escatologica del Nuovo Testamento: «Vieni Signore Gesù!» (Ap 27,20). Così ripetiamo: «Vieni, Signore Gesù», con la Nostra Benedizione Apostolica.



Le Religiose e lo studio della Sacra Scrittura

Un saluto e una parola di paterno compiacimento desideriamo rivolgere alle Religiose qui presenti, che hanno partecipato a un corso di aggiornamento sulla Sacra Scrittura, offerto ad esse dalla benemerita e a Noi cara Associazione Biblica Italiana.

La quotidiana lettura e meditazione della Sacra Scrittura è raccomandata dal Concilio Vaticano II, come impegno fondamentale, a coloro che professano i consigli evangelici, perché possano attingere alla fonte primigenia e privilegiata «la sovraeminente scienza di Gesù Cristo» (Ph 3,8 Perfectae caritatis PC 6). Una lettura densa, una meditazione attentissima, che suppone uno studio adeguato, per il dovere di fedeltà che abbiamo alle intenzioni di Dio, il quale nei Libri Sacri ci parla al cuore (Cfr. Os 2,14), e alla Chiesa, alla quale il Signore Gesù ha affidato questo incomparabile tesoro. Una lettura veramente intelligente e «sacra», come la definivano i Padri, tale cioè da diventar nutrimento e stimolo per la santificazione propria e le necessità di ogni apostolato.

A sprone e conforto di queste brave Religiose ci piace ricordare che la gloriosa impresa della traduzione delle Sacre Scritture dai testi originali compiuta da San Girolamo, quella Vulgata latina alla quale abbiamo voluto dare nuovo lustro nella Chiesa, fu sostenuta dalle premure delle «serve di Dio», come il grande Dottore chiamava le vergini consacrate del monastero di Betlemme, alle quali egli dedicò il primo frutto del suo provvidenziale lavoro (Prol. galeatus, PL 28, 593).

Con l’augurio che la lettura della parola di Dio sia per voi fonte di santificazione e di letizia, impartiamo di cuore a voi, alle vostre Superiore e alle vostre Comunità la Nostra Benedizione, pegno dei più eletti favori celesti.

Movimento «Plus Ultra»

Con especial afecto os damos Nuestra bienvenida, amadísimos niños de la «Operación Plus Ultra», cuya presencia en esta Audiencia nos llena el corazón de íntima alegría. Procedentes de España y de varios Países de Europa, habéis sido premiados con este viaje por vuestros actos de bondad, a veces verdaderamente heróicos y siempre emocionantes. Os felicitamos paternalmente, y en vosotros felicitamos y saludamos a tantos y tantos niños de todo el mundo, cuyos nobles sentimientos y buen corazón son motivo de viva esperanza cuando pensamos en ese mundo nuevo, en que a vosotros os tocará vivir. Ya desde pequeños habéis tenido ocasión de veros en contacto con el sufrimiento y los problemas de otras personas, a quienes con vuestros gestos de bondad habéis tratado de aliviar en la medida de vuestras fuerzas. Al Señor, que os ama con particular predilección, le pedimos hoy que continúe inspirándoos estos buenos sentimientos, y que encontréis en El constantemente al Maestro y al amigo, cuyos pasos debéis seguir, recordando siempre que de Cristo se pudo decir la alabanza más bella: pasó por el mundo haciendo el bien. A todos y a cada uno de vosotros, a vuestros familiares, a vuestros acompañantes, y a los organizadores de esta iniciativa, así como a todos los niííos del mundo, impartimos de corazón una especial Bendición Apostólica.

Pellegrinaggio di Santo Domingo

Señor Arzobispo, amadísimos hijos Dominicanos:

Nos llena de alegría vuestra visita, meta obligada de vuestra peregrinación que, guiada por el Señor Arzobispo Coadjutor de Santo Domingo, Monseñor Hugo Eduardo Polanco Brito, ha recorrido las etapas de Compostela, Lourdes y Fátima. Sin duda, habréis confirmado vuestro espíritu con la fe que irradian esos Santuarios antiguos y modernos, a donde los hombres se dirigen, hoy como ayer, para pedir la protección del Señor y de su Madre Santísima. Estamos seguros de que vuestra visita a Roma constituirá para vosotros una experiencia religiosa inestimable y un estímulo para difundir constantemente con vuestras vidas el mensaje de Cristo, que en esta Ciudad se hace más cercano por la predicación y el martirio de los Apóstoles Pedro y Pablo. Por otra parte, este encuentro con el Papa, os recordará siempre, cuando volváis a vuestra Patria, el amor que como católicos debéis tener por la Iglesia, vuestra Madre, que espera de sus hijos un creciente progreso espiritual y un esfuerzo cada vez mayor en la caridad y en la fraternidad con todos los hermanos. Mientras os exhortamos a una vivencia cada vez más auténtica de vuestro cristianismo, os impartimos de corazón Nuestra Bendición Apostólica, extensiva a vuestros seres queridos y a los amadísimos hijos de vuestra noble Nación.

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Welcome to the fire fighters of New York and their families, five hundred people who have come to visit us this morning. We assure you of our prayers for all of you, and for your colleagues. May your courageous and unselfish service of your fellow men always be a shining example to others. We bless you and all who are dear to you.




Mercoledì, 15 settembre 1971

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Ieri, 14 settembre, la Chiesa ha celebrato una festa d’origine antichissima, la festa dell’Esaltazione della S. Croce. Gli storici ci dicono che essa ebbe origine a Gerusalemme, dove esistevano due basiliche costruite al tempo e per opera dell’Imperatore Costantino: l’anastasis e il martyrion. La ricorrenza della loro dedicazione era ogni anno celebrata con grande solennità; vi convenivano da diverse parti Vescovi, Ecclesiastici, Monaci e Fedeli, molti dei quali pellegrini; in tale occasione si facevano venerare le reliquie della Croce del Signore; cerimonia questa che prevalse su quella commemorativa della dedicazione, e diede il titolo alla festa, che dura tuttora. Dalla Palestina la festa si diffuse anche in occidente, e fu celebrata a Roma nella basilica del Salvatore al Laterano, e nella basilica di S. Croce in Gerusalemme. L’altra festa (3 maggio) della Inventio, cioè del ritrovamento della Croce, d’origine gallicana più tarda, non figura più nel calendario riformato dopo il Concilio, a compimento d’un proposito invano prospettato fin dal tempo di Papa Benedetto XIV, più di due secoli fa.


CHE COSA DICE IL CONCILIO?

Questo accenno liturgico ci porta a due considerazioni più conformi allo stile del Nostro abituale discorso per le udienze generali. La prima considerazione ci invita a interrogare, anche su questo tema, il recente Concilio: che cosa dice il Concilio sulla Croce di Cristo? E con la domanda stessa Noi passiamo dal culto della Croce, quale strumento della Passione di Cristo, al mistero della Croce, quale simbolo della Redenzione, segno d’estremo obbrobrio per Gesù, Re dei Giudei crocifisso, e segno dell’unica suprema salvezza per noi e per il mondo (Cfr. S. TH.,
III 25,1 ad 1).

Naturalmente i documenti del Concilio non riportano la narrazione della crocifissione, né offrono una lezione dogmatica sulla Redenzione; essi non sono una storia, e nemmeno un catechismo, o un trattato sistematico di teologia; ma essi sono imbevuti della dottrina della salvezza, e perciò hanno continui riferimenti alla Croce, sulla quale si è consumato il sacrificio redentore, e dalla quale irradia come da simbolo estremamente espressivo la storia, la memoria, l’efficacia, il mistero di Cristo Salvatore. La Croce è il distintivo, è il segno della nostra religione, la figurazione sensibile e sintetica della nostra fede.

Qualche accenno desunto dai testi conciliari: il Concilio dice subito che sulla Croce si è consumato un vero sacrificio religioso di Gesù, al tempo stesso Sacerdote e Vittima (aspetto questo d’insondabile profondità teologica), sacrificio che nella Messa si riflette e si rinnova in modo incruento (Cfr. Sacrosanctum Concilium SC 5 SC 7 SC 47; Lumen gentium LG 3); e ripeterà più volte (Lumen Gentium LG 3 Dignitatis humanae DH 11) le parole del Signore, allusive al genere di morte che gli era riservato: «esaltato dalla terra, ogni cosa Io trarrò a me» (Jn 12,32-33). Cercando potremmo trovare nei testi conciliari altri riferimenti diretti alla Croce, ricavati da citazioni bibliche, là dove, ad esempio, la croce è chiamata mezzo di riconciliazione e di pace fra Ebrei e Gentili (Cfr. Ep 2,16 Nostra aetate NAE 4); strumento di liberazione dalla schiavitù del peccato (Gaudium et Spes GS 2) e di purificazione delle attività umane (Ibid., GS 37).

Ma dove l’opera redentrice di Cristo, compiuta per mezzo della Croce, assume l’importanza d’un’idea dominante la teologia e la spiritualità del Concilio è in un’espressione restituita con massimo onore al nostro linguaggio; e questa espressione è «il mistero pasquale», con la quale si vuol significare sinteticamente tutti i principali fatti componenti l’opera salvatrice di Cristo: non solo la Passione e la Morte di Lui, ma altresì la Risurrezione e l’Ascensione al cielo; fatti compiuti non solo nella santa umanità del Signore Gesù, ma altresì con l’intenzionale ed amorosa virtù di comunicabilità a quelli che credono in Lui (Cfr. SC 5 Rm 3,23-25). Mistero Pasquale vuol dunque dire il passaggio (Pasqua infatti significa «Phase», cioè transito, passaggio del Signore) (Cfr. Ex 12,11) dalla morte alla vita, dallo stato presente di esistenza allo stato soprannaturale, escatologico, consumato da Cristo mediante la sua Passione, attraverso il valico della sua Morte, e celebrato poi mediante la sua Risurrezione e la sua Ascensione alla destra del Padre; passaggio reso possibile, anzi offerto a noi per via della fede, dei sacramenti e della sequela di Cristo.

La Croce perciò non descrive tutta la realtà della salvezza; questa comprende anche quella nuova vita che segue la tragedia del Calvario e costituisce la gloria di Cristo (Cfr. Jn 13,1), e che qui è data a noi in forma e misura iniziale (la grazia), con la promessa della futura partecipazione alla medesima gloria di nostro Signore.

Questo è il Mistero Pasquale, la cui menzione ricorre ormai in ogni discorso religioso. E la Croce vi occupa il lato visibile e decisivo, che a noi è dato meglio conoscere e meditare: è l’incontro della colpa con l’innocenza, è lo scontro tra la crudeltà e la bontà, è il duello fra la morte e la vita; ed è pure la composizione della giustizia con la misericordia, è il riscatto del dolore nella speranza, è il trionfo dell’amore nel sacrificio. Tutte queste realtà ed altre ancora il popolo fedele intuisce nel venerdì santo, e quando compie il pio esercizio della «Via Crucis», a cui solo manca per raffigurare adeguatamente il Mistero Pasquale l’ultima stazione: quella della Risurrezione.


LA CROCE DEVE GRANDEGGIARE NELLE NOSTRE COSCIENZE

E la seconda considerazione? Essa viene proprio opportuna a questo punto; e si pone come un esame di coscienza circa il riflesso esistenziale, cioè vissuto nel pensiero e nell’azione, della Croce di Cristo sullo schermo della nostra moderna esperienza.

La Croce non è del tutto scomparsa nei profili dei nostri paesaggi rurali. Riposa ancora sulle tombe dei nostri morti. Non è scomparsa, anzi ancora degnamente appare nelle aule della vita civile. Non è scomparsa dalle pareti delle nostre case. Cristo è là, pendente, morente, col suo tacito linguaggio di sofferenza redentrice, di speranza che non muore, di amore che vince e che vive. Questo è bello, è forte. Ancora, almeno con questo segno, siamo cristiani.

Ma poi: nelle nostre personali coscienze grandeggia ancora questo tragico e insieme luminoso albero della Croce? Non sarebbe forse diventato Cristo crocifisso, anche per noi, «scandalo e stoltezza», come lo era per i Giudei e per i Greci alla predicazione di S. Paolo? (Cfr. 1Co 1,23-25 Ga 5,11 Ep 2,14-16)

Noi tutti ricordiamo certamente che se davvero siamo cristiani dobbiamo partecipare alla Passione del Signore (Cfr. Col 1,24), e dobbiamo portare dietro i passi di Gesù, ogni giorno, la nostra croce (Cfr. Lc 9,23). Cristo Crocifisso è l’esempio (Cfr. Ga 6,14). Ma dappertutto, anche in ambienti cristiani, oggi vediamo come si tenta di abbattere la Croce proprio là dove essa è necessaria, nella coscienza del peccato a cui essa sola può portare rimedio. Il rimedio oggi è un altro; è l’indifferenza morale, la spregiudicatezza. Il peccato, si dice, non esiste, è «tabù» è fantasia di gente psichicamente debole; esso si annulla togliendo ogni sensibilità morale, abolendo ogni scrupolo, soffocando ogni rimorso; e che cosa resta dell’uomo che così inganna e degrada se stesso?

E tutto il nostro sforzo per riconciliare l’uomo col mondo anche quando è tutto penetrato dal male? (Cfr. Jn 5,19) Non è anch’esso un’ipocrita attentato di togliere la Croce di mezzo e di saldare malamente la frattura che essa ha posto a confine dei due regni, di Dio e del diavolo? Si ritorna mondani col pretesto di ritornare uomini, e si scivola sui sentieri equivoci della secolarizzazione con la comoda illusione di salvare il mondo confondendosi con i suoi gusti, i suoi abiti, i suoi costumi. Non v’è pericolo che con questo artificio «sia vanificata la Croce di Cristo?» (Cfr. 1Co 1,17).

Riflettiamo, se vogliamo essere, come oggi si dice, autentici. E non temiamo che la Croce renda imbelle e triste la nostra vita, se questa ne porta con amore le stigmate dolorose e gloriose: Cristo crocifisso «è virtù di Dio, e sapienza di Dio»!

A voi, con il segno della Croce, daremo la Nostra Apostolica Benedizione.

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Con sincera gioia accogliamo stamane anche un gruppo di giovani studentesse, provenienti da varie parti d’Italia, partecipanti al Convegno «Incontro a Roma», promosso dalla Fondazione RUI. Le salutiamo cordialmente queste figlie carissime e cogliamo l’occasione per attestare loro la Nostra benevolenza e la Nostra stima.

Sappiamo che lo scopo di questo vostro incontro è il desiderio di ripensare insieme i problemi più vivi del momento - specialmente quelli riguardanti l’inserimento dei giovani nella società e la libertà personale in rapporto con la personale responsabilità - e di cercarne la soluzione sulla base di una comune volontà di cooperazione. Ci congratuliamo con voi per questo impegno che vi fa onore, e ci sembra che la stessa sede del vostro Convegno, Roma, centro della cristianità, oltre che offrirvi l’opportunità di contatti umani e spirituali più profondi, vi aiuterà ad una più chiara presa di coscienza cristiana dei valori che formano l’oggetto delle vostre discussioni.

Che Iddio, adunque, renda feconde di bene le vostre giornate di studio. Noi glielo chiediamo di tutto cuore, mentre invochiamo su di voi abbondanti grazie celesti, in auspicio delle quali vi impartiamo la propiziatrice Apostolica Benedizione.

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We have pleasure in greeting in a special way the distinguished group of members of the American Academy of Pediatrics. They have a particular claim on our attention because of the services they render to children. Nature itself teaches that the young and helpless should be given special care. Our Lord set up a little Child as a model for his disciples, and said: “Anyone who welcomes a little Child like this in my name welcomes me . . . See that you never despise any of these little ones, for I tell you that their angels in heaven are continually in the presence of my Father in heaven”. You see what a lofty privilege is yours when you care for children. Me pray that you may always be conscious of it, and with all our heart we bless you and your work.

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Nos complacemos en dirigir un especial saludo a vosotros, amadísimos «Cursillistas de Cristiandad» de México que, presididos por vuestro Arzobispo, el Señor Cardinal Miguel Darío Miranda, habéis querido visitarnos.

Os formulamos los más fervientes votos para que esta venida a la Ciudad Eterna os ayude a fortalecer vuestra fe, a avivar vuestra esperanza y a inflamar vuestra caridad, de manera que sirváis siempre a la Iglesia con generosidad y entusiasmo.

En prenda de abundantes gracias divinas, otorgamos de corazón nuestra paternal Bendición Apostólica a vosotros, a vuestras familias, a los «Cursillistas de Cristiandad» y a todos nuestros queridísimos hijos de México.

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Dirigimos, agora, com particular benevolência, a Nossa palavra, ao grupo de sacerdotmes, religiosos, religiosas e leigos, provenientes de Portugal e do Brasil, que se empenharam, em Rocca di Papa, num curso de renovação espiritual, seguido as indicações do II Concílio do Vaticano.

Desejamos que esta Nossa palavra manifeste quanto apreciamos que se aprofunde, cada vez mais, a fecunda mensagem espiritual do Concílio.

Desejamos, igualmente, que ela conforte os generosos cursistas, que, de tão longe, vieram para se dedicar ao aprofundamento desta mensagem, o que, certamente, lhes será de grande auxílio nos seus futuros trabalhos apostólicos.

A fim de que Deus, fonte de toda a grata e da vida espiritual, recompense com abundantes frutos esta prova de zelo, em seu serviço e no da sua Igreja, de todo coração vos damos, caros filhos, a Nossa Bênção Apostólica.


Mercoledì, 22 settembre 1971

22971
Si svolge in questi giorni a Roma il Congresso Catechistico Internazionale; ne avete certamente udito parlare. È avvenimento di grande importanza per il tema, ch’esso considera: l’istruzione religiosa, cioè il ministero didattico e pedagogico della Parola di Dio, nella sua espressione primigenia ed elementare, inequivocabile, la trasmissione dell’annuncio della salvezza, quello che gli studiosi moderni, riesumando una parola antica, chiamano il kerygma, la predicazione cioè del regno di Dio, della verità rivelata circa il disegno divino relativo al mistero dei nuovi rapporti fra Dio Padre e l’umanità, mediante Cristo Salvatore nello Spirito illuminante e santificante (Cfr.
Mt 4,23 Ac 8,5 1Co 1,23 ecc). Si tratta della «catechesi», dell’insegnamento basilare, indispensabile, che precede l’orientamento dell’uomo, la metanoia, la penitenza, per accedere alla fede e alla comunione ecclesiale. Si tratta dell’iniziazione conoscitiva, obiettiva alla vita cristiana. Tutti noi sappiamo che la vita cristiana è una maniera di concepire e di condurre la vita secondo la fede (Rm 1,17 Ga 3,11 He 10,38); ora la fede ha due principi, uno interiore ed operante, ed è la virtù della fede, l’attitudine a credere, che proviene dallo Spirito Santo e che ci è infusa col battesimo; l’altro esteriore e determinante, costituito dalle verità positive da credere, insegnate a noi dalla Chiesa, col «credo», cioè col «simbolo» (che vuol dire sintesi, riassunto) delle verità medesime; ecco il catechismo (Cfr. S. TH., In IV Sent. 4, 2 a. 2, sol. 3 ad 1).

Questo Congresso è perciò assai interessante, perché riguarda un punto fondamentale della vita religiosa, sia nella sua fase docente che discente, l’una e l’altra impegnativa, in forma e misura diverse, per ogni fedele cristiano. L’avvenimento assume particolare rilievo, perché si compie dopo il Concilio, ad illustrazione d’un documento assai autorevole, destinato a ravvivare e rinnovare l’insegnamento della dottrina cristiana: il Direttorio catechistico generale, pubblicato nell’aprile scorso, preceduto in Italia da un altro analogo documento della Conferenza Episcopale Italiana sul rinnovamento della catechesi (2 febbraio 1970), degno parimente d’ogni attenzione.

Ma questi accenni non intendono entrare nel tema, che trova nelle trattazioni e nelle discussioni del Congresso amplissimo commento. Intendono piuttosto condurre la vostra attenzione ad un aspetto del problema catechistico, l’aspetto personale.

La catechesi è un insegnamento che più d'ogni altro esige l’intervento delle persone che vi sono interessate. Essa esige l’opera viva e diretta di tutta la comunità della Chiesa. La catechesi si può considerare come una testimonianza della fede; ora, ogni credente è tenuto a dare questa testimonianza, professando la propria fede, con gli atti, con l’esempio, con la parola. Si dice ormai continuamente che tutti i membri della Chiesa devono essere apostoli, devono essere missionari, cioè per il fatto stesso d'essere partecipi della vita della Chiesa, ne devono essere in qualche modo i promotori, devono essere i «figli della luce» (Cfr. Mt 5,16 1P 2,12 Ep 5,8). Il che comporta un dovere fondamentale, quello di conoscere la propria fede, d’essere istruiti circa le verità della religione. È questa necessità una delle esigenze incombenti e ricorrenti nella storia del cristianesimo. Da essa è nata la catechesi sistematica, da essa l’apologetica (ricordiamo la celebre frase di Tertulliano circa la religione cristiana, fatta oggetto di diffidenza e bersaglio di persecuzione, fin dall’inizio del suo confronto con la società pagana: ne ignorata damnetur, non sia condannata per ignoranza (Cfr. Apologeticum, c. 1). Dall’ignoranza religiosa, quali e quante conseguenze negative derivano! è questa la trama di un’Enciclica di S. Pio X sul catechismo, Acerbo nimis, del 1905. Ed è questo l’argomento tuttora valido per il nostro tempo, nel quale la diffusione della cultura, da un lato, la confusione dei sistemi filosofici e ideologici, dall’altro, obbligano oggi più che mai a dare alla propria professione religiosa sia personale che comunitaria, un fondamento culturale più solido che non sia quello della consuetudine e dell’ambiente. L’istruzione religiosa non si deve fermare alla prima età, all’iniziazione cristiana; deve progredire con la vita, fino all’età adulta (Cfr. Christus Dominus CD 14), fino all’ultima età, ricordando che, in questo fatto vitale e misterioso della trasmissione della fede non sempre basta la lettura, che ciascuno può fare da sé, e non basta neppure la religiosità privata: occorre in certa misura l’umile ossequio all’ascoltazione sensibile della Parola di Dio. Questo riferimento all’aspetto personale della catechesi ci invita a rendere omaggio al ministero della Parola di Dio, nei suoi vari gradi.

Diamolo dapprima al ministero del Vescovo. È questo il suo primo servizio in ordine alla causalità della salvezza; al suo carisma apostolico. E diamolo nell’esercizio della sua predicazione, scritta (con le Lettere pastorali), o parlata, con le Omelie nelle Messe pontificali, o con altre istruzioni: fra queste ultime, quale parola più bella e più sapiente di quella che il Vescovo rivolge, quasi dialogando, a fanciulli neo-comunicandi, o cresimandi, quale catechismo più alto e più vivo? (Cfr. S. AMBROS. De sacramentis, De Mysteriis)

Onore a voi Pastori di anime, a voi Parroci, a voi Insegnanti di religione, che avete coscienza di questo prodigioso ufficio di tradurre in linguaggio vostro il Verbo di Dio e di trasfonderlo in uditori che lo devono non solo ascoltare, ma vivere! Quanto grande il compito vostro, e quanto importante il dovere di assolverlo degnamente! Risentiamo l’eco della voce di S. Agostino: Quidquid narras ita narra ut ille cui loqueris audiendo credat, credendo speret, sperando arnet (De catechizandis rudibus, c. IV, 8; PL 40, 316). Onore a voi promotori dell’insegnamento religioso e della cultura cattolica, che date a codesta fatica il valore della prima carità, quella della verità (Cfr. Ep 4,15), offrendo al pensiero, al costume, alla vita la luce che guida, sostiene, beatifica e salva.

E una parola d’onore meritano quelle Mamme, quei Genitori che si fanno deliziosi maestri dei loro bambini, aprendo le loro labbra alle prime preghiere e le loro menti alle prime nozioni del Dio con noi.

Onore anche a voi Religiosi e Religiose, a voi Laici, che dedicati all’insegnamento catechistico allenate voi stessi alle più preziose virtù cristiane e date alla Chiesa un impagabile contributo di fedeltà e di vitalità.

A voi Catechisti, nelle Parrocchie, e specialmente a voi Catechisti nelle Missioni, Uomini e Donne, veri e primi seminatori della Parola del Signore, ai quali le comunità ecclesiali devono la loro nascente fecondità, e ai quali è affidato un prezioso e spesso insostituibile ministero di supplenza e di promozione per le vostre comunità; a voi la lode, l’incoraggiamento, la riconoscenza dell’intera Chiesa cattolica; e a tutti la Nostra Benedizione.

La quale Benedizione a voi qui presenti, Noi parimente diamo e a quanti hanno a cuore la causa dell’insegnamento religioso: parola di Dio!

Abbadesse dell’Ordine Cistercense

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Ein herzliches Wort der Begrüßung richten Wir noch an die Priestergruppe aus der Diözese Regensburg, die anläßlich ihres vierzigjährigen Priesterjubiläums zu den Gräbern der Apostelfürsten wallfahrten. Wir entbieten Ihnen, liebe Mitbrüder im Priesteramt, zu Ihrem Jubiläum Unsere herzlichen Glückwünsche und geben dem Wunsche Ausdruck, daß Sie noch lange Zeit in treuer Nachfolge des göttlichen Meisters Ihre besten Kräfte dem Heile der Seelen widmen dürfen.


Mercoledì, 29 settembre 1971


Paolo VI Catechesi 8971