Paolo VI Catechesi 10372

Mercoledì, 1° marzo 1972

10372

Non possiamo staccarci dal pensiero dominante nella Chiesa durante questo periodo di preparazione alla Pasqua. È il pensiero della penitenza, che contrasta con le nostre abitudini e con la nostra mentalità. Noi siamo rivolti con ogni nostra intenzione e con ogni nostro sforzo a togliere dalla nostra vita quanto ci procura sofferenza, dolore, fastidio, incomodo; siamo orientati verso una continua ricerca di comodità, di godimento, di divertimento; vogliamo essere circondati dal benessere, dagli agi, dalla buona salute, dalla fortuna; tutto facciamo per ridurre sforzo e fatica; siamo, in fondo, gente che vuol godere la vita: un buon pasto, un buon letto, un buon passeggio, un buono spettacolo, un buono stipendio, . . . ecco l’ideale. L’edonismo è la filosofia comune, il sogno della esistenza per tanti nostri contemporanei. Tutto vorremmo facile, soffice, igienico, razionale, perfetto d’intorno a noi. Perché penitenza? V’è forse bisogno di rattristare l’animo con un simile pensiero? Donde viene un così sgradito richiamo? Non è forse un’offesa alla nostra concezione moderna dell’uomo?

Questo monologo apologetico del «comfort», come espressione del modo ideale di trascorrere gli anni del nostro vivere, potrebbe continuare assai, e documentarsi di ottimi ragionamenti e di ancor migliori esperienze; ma ad un certo punto deve arrestarsi di fronte a non meno valide obiezioni: vogliamo rendere molle, mediocre, la nostra vita? Oziosa ed imbelle, e senza la pazienza e lo sforzo di grandi virtù? Dov’è l’agonismo, dov’è l’eroismo, che dà all’uomo la sua vera e migliore statura? Dov’è il dominio della propria pigrizia e della connaturata viltà? E poi: come armare lo spirito di fronte alle sofferenze e alle sventure, di cui la vita non ci risparmia la sorte? E come dare all’amore la sua vera e più alta misura, ch’è il dono di sé, il sacrificio? E non è il sacrificio, questa attitudine, per sé antinaturale, classificabile nel grande libro della penitenza?

E poi ancora: può un cristiano sfuggire alla legge della penitenza? Cristo parla forte: «Se non farete penitenza, voi tutti perirete» (
Lc 13,5). Cioè: il bisogno, il dovere della penitenza non nascono forse da necessità intrinseche al nostro essere di uomini decaduti? Perché tali siamo: noi portiamo in noi una malattia atavica, le conseguenze cioè del peccato originale, le quali rimangono in grande parte anche dopo il battesimo; siamo esseri bisognosi di sorveglianza morale, di riparazione, di espiazione, cioè di penitenza. Che se a questa cronica e comune disfunzione congenita del nostro organismo psico-morale si sono aggiunte altre deficienze e altre rovine, cioè i peccati personali, attuali, come li chiamano i maestri di morale, questa obbligazione di restaurarci nell’ordine con Dio, con la coscienza e altresì con la comunità dei fratelli (sulla quale si riflettono, volere o no, le nostre colpe personali), si fa più grave e più urgente e, pur troppo, spesso ricorrente; il precetto della penitenza, a nuovo titolo dunque, inesorabilmente s’impone.

Ma che cosa è dunque la penitenza? È una autorepressione, una reazione contraria al soggetto che la compie. È una terapia molesta compiuta da chi vuole entrare o rientrare nel regno della salvezza, il regno dei cieli (Cfr. Mc 1,15 Mt 3,2 Mt 4,17). In che cosa consiste? Qui il discorso si farebbe lungo, se dovesse enunciare le varie forme esterne, interne, sacramentali, rituali . . . , in cui la penitenza può essere praticata. Basti dire che questa cura ricostituente e preservativa della nostra perpetua caducità deve durare almeno come sentimento e proposito, per tutta la vita (Cfr. S. TH. III 74,8).

Ma ora fermiamo un istante l’attenzione sopra l’aspetto interiore della penitenza, quello obbligatorio e per tutti possibile, quello che con il termine biblico, divenuto quasi d’uso corrente, si chiama metánoia, che vuol dire conversione, pentimento, cambiamento interiore. Vuol dire mutazione di mentalità. Ed è questa che più importa: mutare pensiero, mutare idee, mutare maniera di giudicare se stessi, mutare coscienza, da falsa in vera.

Questa penitenza interiore è indispensabile, anche per noi credenti, per noi cristiani; perché significa raddrizzare il proprio orientamento logico e morale secondo l’itinerario di quella verità, che rivolge all’ordine, al bene, all’amore, a Dio la nostra vita. E noi, che abbiamo la fortuna di conoscere questa concezione della nostra vita destinata, per congenita vocazione e per l’inserzione battesimale nel disegno della salvezza, alla comunione con Dio, il Padre celeste, mediante Cristo, nello Spirito Santo, dobbiamo avvertire continuamente l’ansia di questa rettifica generosa ed amorosa, come il pilota della nave avverte continuamente il dovere di manovrarne il timone per mantenerla sulla rotta stabilita, dalla quale, per onde e venti, è facile deviare.

Ed in questo periodo liturgico, nel quale l’esortazione a questa metánoia, a questa penitenza interiore, a questo riordinamento della nostra mentalità e della nostra moralità, si fa pressante, dobbiamo domandare a noi stessi con coraggiosa franchezza: che cosa dobbiamo correggere nel nostro segreto, intimo governo personale? Ancora una volta ritorna alle labbra la sentenza scultorea di Pascal: «Tutta la nostra dignità consiste nel pensiero . . . Procuriamo dunque di pensare bene: ecco il principio della morale» (PASCAL, Pensées, 347).

Pensare bene! Sarebbe questa la migliore metánoia, la migliore conversione, la migliore penitenza! Cioè la migliore disposizione per entrare nel piano della salvezza, per bene celebrare il mistero pasquale, per dare al nostro cristianesimo la sua verace e felice espressione, personalmente e socialmente!

Pensare bene! Fratelli e Figli carissimi! Ricordate che da questo punto si deve cominciare. Ricordate che non è facile. Non solo per un certo sforzo mentale a ciò richiesto, che ai professionisti del pensiero, ai filosofi, ai cercatori della verità speculativa può essere faticosissimo e drammatico (ricordiamo i grandi convertiti), ma anche, e questo per tutti, per un certo sforzo morale, che il ben pensare richiede. Il cambiare la propria mentalità errata e difettosa domanda umiltà e coraggio. Il dire a se stesso: ho sbagliato, esige non poca forza di animo. La rinuncia a certe proprie idee fisse, che sembrano definire la personalità: «Io la penso così! io sono libero di pensare come voglio! io appartengo alla tale ideologia, e nessuno me la farà cambiare», ecc., domanda davvero un rivolgimento di spirito, solo possibile a chi sacrifica ciò che ha di più suo, la propria opinione o convinzione, alla verità. E per chi di solito è dominato da istinti passionali o da interessi illeciti, l’innestare un’altra marcia nella guida delle proprie azioni, la marcia dell’onestà, della virtù, della religiosità, è operazione sconvolgente e rinnovatrice assai costosa e meritoria. Perdonare un’offesa, ad esempio, superare un’antipatia capricciosa, un puntiglio d’onore, un’occasione di usare la violenza, ecc., può essere esercizio di penitenza, proprio sulla buona linea dell’amore cristiano.

Del resto, cambiare, demolire, rinnovare . . . non è nell’indole del nostro tempo rivoluzionario? Tutto sta a vedere che cosa, e come, e perché si deve tutto mutare. Per noi cristiani valga l’esortazione, che la Chiesa fa propria, di S. Paolo: «Rinnovatevi nello spirito della vostra mente» (Ep 4,23 Rm 12,2).

Con la nostra Apostolica Benedizione.



Gruppo di Missionari

Ein wort herlicher Begrüßung richten Wir noch an die anwesende Gruppe der Steyler Missionare, die zur Zeit in Nemi ihr Terziat machen. Sie kommen, liebe Mitbrüder im Priesteramt, aus elf Nationen und arbeiten in fünfundzwanzig verschiedenen Missionsgebieten. Diese Tatsache ist symbolhaft für die Universalität der Kirche, die allen Völkern und Nationen das Heil in Jesus Christus künden will. So notwendig die Vertiefung ihrer missionarischen Ausbildung ist, geben Sie den Vorzug immer dem Gebetsleben. Predigen Sie Christus den Gekreuzigten und leben Sie den Nichtchristen durch ein heiligmäßiges Leben vor, was wahres Christentum ist. Dann sind Sie würdige geistliche Söhne Ihres Stifters, des Dieners Gottes Pater Arnold Janssen. Von Herzen erteilen Wir Ihner und allen Anwesenden unseren Apostolischen Segen.

Studenti di Montserrat

Nos complacemos en dirigir un especial saludo a los componentes de la «Escolanía de Montserrat», que con otros cantores de diversos Países habéis venido a Roma para grabar la «Misa Romana» de Pergolesi y habéis querido visitarnos y ofrecernos el homenaje de vuestro arte musical.

Os agradecemos de corazón este gesto filial, a través del cual hoy se nos hace particularmente presente vuestra célebre Abadía, centro de espiritualidad y de devoción a la Santísima Virgen María, quien en el silencio, la austeridad y la belleza de la montaña acoge el amor de los fieles y protege maternalmente vuestra querida tierra. Allí vuestra oración se eleva hacia el cielo revestida con la nobleza del canto sagrado, a cuyas notas se unen la fe y el amor de los peregrinos.

Cuando volváis a Montserrat, os pedimos también una plegaria a la Santísima Virgen por el Vicario de Cristo y por toda la Iglesia. Nós os acompañamos con nuestro paternal afecto y con nuestra Bendición para vosotros, para la Abadía, para vuestros familiares y para todos los amadísimos hijos de Cataluña y de España entera.



Mercoledì, 8 marzo 1972

8372

Se noi vogliamo entrare nell’intelligenza della concezione generale dell’ordinamento religioso cristiano, e se vogliamo applicare questo ordinamento alla nostra salvezza, non possiamo esimerci dal fare menzione d’un capitolo essenziale di questa storia del rapporto oggettivo ed esistenziale fra l’uomo e Dio; e questo capitolo, vastissimo e tremendo, s’intitola il peccato. Non si può prescindere da questo fatto tragico, che parte dalla rovina iniziale del genere umano, il peccato originale, e che si ripercuote in tutta l’immensa e successiva rete delle sventure umane e delle nostre fatali responsabilità, che sono i nostri peccati personali, se si vuole capire qualche cosa della missione di Cristo e della economia di salvezza da Lui istituita, e se vogliamo esserne noi stessi partecipi. Non possiamo entrare nel santuario orante e sacramentale della liturgia, specialmente quando essa celebra non solo la memoria del racconto evangelico della passione, della morte e della risurrezione di nostro Signore, ma il compimento del mistero della redenzione, alla quale tutta l’umanità è interessata, se non abbiamo presente l’antitesi di questo dramma, ch’è appunto il peccato. Il peccato è il nodo negativo di questa dottrina e di questo perdurante intervento salvifico, che ci fa acclamare Cristo liberatore e che ci dà coscienza della nostra sorte, infelicissima prima, beatissima poi rispetto al mistero pasquale quando noi vi siamo associati.


DINIEGHI DELL'UOMO MODERNO

Il peccato: oggi è una parola taciuta; la mentalità del nostro tempo rifugge non soltanto dal considerare il peccato per quello che è, ma perfino dal parlarne. Pare questa parola fuori uso, quasi un termine sconveniente, di cattivo gusto. E si capisce perché. La nozione di peccato coinvolge due altre realtà, di cui l’uomo moderno non intende occuparsi: una Realtà trascendente assoluta, vivente, onnipresente, misteriosa, ma innegabile, ch’è Dio; Dio creatore, che ci definisce sue creature. Volere o no, «in Dio noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo», dice S. Paolo nel suo discorso all’Areopago d’Atene (
Ac 17,28); a Dio tutto dobbiamo; l’essere, la vita, la libertà, la coscienza, e perciò la nostra obbedienza, condizione dell’ordine, della nostra dignità e del nostro vero benessere: Dio amore, vegliante sopra di noi, immanente, invitante al colloquio paterno-filiale della sua comunione, del suo regno soprannaturale. E una seconda realtà soggettiva e relativa alla nostra persona, una realtà metafisico-morale; e cioè la relazione insopprimibile delle nostre azioni al Dio presente, onnisciente, interrogante la nostra libera scelta. Ogni nostra azione libera e cosciente ha questo valore di scelta alla conformità o alla difformità alla legge, cioè all’amore di Dio, ed in Lui, per così dire, si trascrive, ed in Lui registra il nostro sì, ovvero il nostro no. Questo no è il peccato. È un suicidio.

Perché il peccato non è soltanto un nostro difetto personale, ma un’offesa interpersonale, che dalla nostra persona arriva a Dio; non è soltanto una mancanza ad una legalità dell’ordinamento umano, una colpa verso la società, o verso la nostra logica morale interiore; è una rottura mortale del vincolo vitale, obiettivo, che ci unisce alla sorgente unica e somma della vita, che è Dio. Con questa prima fatale conseguenza: che noi, i quali siamo capaci, in virtù del dono della libertà, che l’uomo «a Dio fa simigliante» (Cfr. DANTE, Par. 1, 105), di perpetrare quell’offesa, quella frattura, e con tanta facilità, non siamo poi mai più capaci, da noi stessi, di ripararla (Cfr. Jn 15,5). Siamo capaci di perderci, non di salvarci. Questo ci fa riflettere dove arriva la nostra responsabilità. L’atto diventa stato; uno stato di morte. È terribile. Il peccato porta con sé una maledizione, la quale sarebbe condanna irreparabile, se da Dio stesso non partisse in nostro soccorso un’iniziativa, rivelatrice della sua onnipotenza nella bontà e nella misericordia. E questo è meraviglioso. Questa è la redenzione, la suprema liberazione. Dice una stupenda orazione liturgico-teologica: «O Dio, che massimamente ‘manifesti la tua onnipotenza con il perdono e con la misericordia . . . » (Colletta della decima domenica dopo Pentecoste, nell’antico messale).


RIPRENDERE I RAPPORTI CON DIO

L’idolatria dell’umanesimo contemporaneo, che nega, o trascura questo nostro rapporto con Dio, nega o trascura l’esistenza del peccato. Ne deriva un’etica folle. Folle d’ottimismo, che tende a rendere tutto lecito, quanto piace o quanto giova, e folle di pessimismo, che toglie alla vita il suo senso profondo, derivante dalla distinzione trascendente del bene e del male, e la avvilisce in una visione finale di angosciosa e disperata fatuità.

Il cristianesimo invece, che tanto acuisce la sensibilità del peccato, ascoltando la lezione insuperabile del Divino Maestro (Cfr. Il discorso della montagna), ne profitta per iniziare l’uomo al senso della perfezione, e lo consola col dono della energia spirituale, la grazia, che lo rende capace di tendervi e di conseguirla. Ma soprattutto mette in atto il suo inesauribile prodigio del perdono di Dio, cioè della remissione dei peccati la quale comporta la risurrezione dell’anima nella partecipazione alla vita e all’amore del regno di Dio.

Restauriamo in noi la retta coscienza del peccato, non paurosa, non debilitante, ma virile e cristiana. Crescerà quella del bene in opposizione a quella del male. Crescerà il senso della responsabilità, saliente dal nostro interiore giudizio morale, per allargarsi al senso dei nostri doveri, personali, sociali, religiosi. Crescerà il nostro bisogno di Cristo, il medico delle nostre miserie, il Redentore e la vittima dei nostri mali, il Vincitore del peccato e della morte, Colui che ha fatto dei suoi dolori e della sua croce il prezzo del nostro riscatto e della nostra salvezza. Con la nostra Apostolica Benedizione.



Gruppo assicurativo SIARCA

Ed ora un cordiale saluto ai numerosi Agenti del Gruppo Assicurativo della Società Internazionale di Assicurazioni e Riassicurazioni, i quali, convenuti a Roma per il loro Congresso Nazionale, hanno manifestato il desiderio di partecipare a questa Udienza e di porgerci la espressione della loro filiale devozione.

Questo omaggio graditissimo al Vicario di Cristo, figli carissimi, che avete voluto espressamente inserire nel programma dei vostri incontri romani, è di per sé un esemplare atto di fede e una testimonianza dell’amore che voi portate alla Santa Madre Chiesa; e ci rivela altresì lo spirito a cui s’informa la vostra vita professionale. Ve ne ringraziamo di cuore, e vi diciamo tutta la nostra paterna soddisfazione, incoraggiandovi a continuare sempre con coscienza, coerenza e generosità nell’adempimento dei vostri doveri di cristiani e di cittadini.

Portate il nostro saluto ai vostri colleghi spiritualmente uniti a voi in questa significativa circostanza, e portatelo soprattutto ai vostri familiari. Su tutti il Signore effonda grazie copiose di buona volontà, di pace, di letizia, delle quali vuol essere pegno la nostra Apostolica Benedizione.

Centro internazionale Lasalliano


Mercoledì, 15 marzo 1972

15372
La Pasqua è vicina: siamo pronti? siamo preparati a celebrarla come si deve? Ogni fedele, e possiamo dire ogni uomo informato, sia pure vagamente, del significato di questa festa, avverte che essa è al centro della nostra religione, sia per il mistero di Cristo, di cui la Pasqua è memoria e attualità perenne, cioè la redenzione da Lui operata, sia per la relazione che tale mistero ha con la Chiesa e col mondo, con tutta l’umanità, per cui Egli, il Signore, è morto e risorto; una relazione, che si fa personale per ciascuno di noi, che voglia davvero, cioè vitalmente, partecipare alla salvezza operata da Cristo, vale a dire alla comunione, all’inserimento della propria vita in quella infinita di Dio. La Pasqua è, dunque, per noi per eccellenza, un avvenimento personale; è la riconciliazione, il ricongiungimento della nostra anima con la pienezza dell’Essere divino, in misura ed in forma superiore ai limiti della nostra natura, in modo cioè soprannaturale; è la inaugurazione iniziale della vita eterna, quale speriamo raggiungere pienamente e godere nell’eternità. La Pasqua è la festa della vita, per la nostra vita.

Ripetiamo: la celebrazione della Pasqua è un fatto che ci riguarda tutti personalmente. La nostra personalità è invitata a dispiegarsi nella maniera più sincera e più aperta davanti a questo incontro con Cristo, il Quale vuole celebrare esistenzialmente in ciascuno di noi il suo «passaggio» dalla morte alla vita, la sua e nostra risurrezione. Siamo disposti a sperimentare in noi stessi questo prodigio?

La domanda è molto importante: tocca in profondità la nostra coscienza. Perché la coscienza? Perché essa, davanti a questo sommo atto religioso, si sveglia. Si sveglia precisamente sotto quell’aspetto che essenzialmente riguarda la nostra più autentica realtà umana, la coscienza morale. Qui sarebbe necessario ricordare il grande insegnamento relativo alla coscienza umana; ma diciamo subito che per coscienza s’intende quella conoscenza che uno ha di se stesso (Cfr. S. TH.
I 79,13); è un atto riflesso, che può accontentarsi d’una semplice riflessione circa una qualsiasi circostanza della propria vita, un atto di memoria, un senso dello stato della propria salute, o più propriamente una esplorazione psichica sopra i propri sentimenti, o i propri intendimenti; ma più esattamente noi chiamiamo coscienza il senso, o meglio il giudizio che uno, spesso spontaneamente, dà di se stesso in ordine al proprio modo di agire: al bene (la buona coscienza), o al male (la cattiva coscienza). Giudizio questo che si riferisce da sé all’ordine, che deve presiedere alla nostra condotta, all’uso della nostra libertà, al compimento del nostro dovere, all’orientamento e allo stato della nostra vita soprattutto rispetto a Dio. Intelletto e volontà, nell’atto di coscienza morale, si sentono simultaneamente impegnati a definire tutto l’uomo qual è nel confronto intuitivo (per via di sinderesi) con la propria forma ideale, con la sua immagine perfetta, ch’è quella della somiglianza con Dio. Ed è facile che questo confronto sia negativo, cioè accusatore d’una difformità, che diventa fastidiosa, alcune volte intollerabile: è il rimorso.

Ricordate com’è scolpito nella parabola del figliol prodigo il processo psicologico e morale della coscienza? Dice il divino Maestro circa il protagonista di quella storia simbolica: in se reversus, ritornato in sé (Lc 15,17). Ecco la rinascita della coscienza, ecco l’inizio della salute. Ritornato in sé. Il che significa che quell’infelice figliolo, anche vivendo nell’intensità dei suoi giovani anni, delle sue passioni, dei suoi piaceri, era «fuori di sé». Cioè la sua coscienza non era in fase di attenzione e di verità. Facciamo attenzione anche noi: oggi si parla tanto di coscienza, e si applica questa raffinata e umanissima parola ad ogni sorta di cose presenti nel nostro spirito; dobbiamo anzi dire che del termine «coscienza» si abusa assai spesso. Innanzi tutto per trasferirlo a significati che ne rinnegano il significato più alto e specifico. Quanti narcotici, ad esempio, sono di moda per assopire o per alterare la «dignitosa coscienza e retta» (DANTE, Purg. 3, 8) da cui una persona onesta dovrebbe sempre essere guidata! quanta propaganda oggi si fa per diffondere non la coscienza, ma l’incoscienza nel coonestare con unilaterali teorie sul libero arbitrio, o sulla cosiddetta rivendicazione dell’autonomia dell’uomo moderno, l’azione sottratta ad ogni regola morale.

Più spesso si dà alla coscienza un valore puramente psicologico, che trova oggi nella psicoanalisi e nella relativa psicoterapia grande fiducia e grande espansione, spingendo essa nelle profondità inconscie biofisiologiche degli istinti le sue sottili ricerche. Ma per quanto interessanti ed anche utili possano essere queste esplorazioni della nostra vita istintiva ed emotiva, esse non possono eludere alla fine, né sopprimere nel cuore dell’uomo l’attitudine naturale ad agire secondo la inestinguibile norma morale, violata o repressa la quale, si pronuncia nella coscienza quella peculiare reazione, che chiamiamo rimorso. Il rimorso è la rivincita della coscienza morale; e può dirigersi, come l’esperienza vissuta e letteraria c’insegna, verso le espressioni negative dello spirito, come l’angoscia o la disperazione (ricordate la tragica fine di Giuda) (Mt 27,3-5); ovvero verso quelle positive (ricordate il pianto rigeneratore dell’amore di Pietro) (Mt 26,75 e Jn 21,15-17).

Questo per dire che per celebrare la Pasqua dobbiamo passare attraverso una restaurazione della coscienza morale; la quale non può avvenire senza un profondo rivolgimento interiore, la penitenza, tanto nella sua tempesta psico-morale interiore, quanto nel suo gratuito e felicissimo miracolo sacramentale, la confessione, autodenuncia da parte nostra della triste verità della nostra coscienza, sconvolta dal peccato e ricomposta dal pentimento; e poi riaccensione della vita divina in noi mediante la prodigiosa infusione della grazia risuscitante di Cristo.

È un’avventura straordinaria la Pasqua, che sa di catastrofe e sa di vittoria; sa di duello fra la morte e la vita, sa di libera decisione del destino fatale fra la nostra perdizione e la nostra salvezza. A nulla, noi cantiamo nella notte del sabato santo, ci avrebbe giovato il nascere, se non ci fosse stata concessa la fortuna di rinascere.

Preceda dunque alla celebrazione della Pasqua nella comunione sacramentale con Cristo risuscitato e vivo la celebrazione della Pasqua nella penitenza sacramentale con Cristo morto e risuscitato per la nostra redenzione (Cfr. Rm 4,25).

Con la nostra Apostolica Benedizione.



L’anno della Pace per la Giustizia

Un cordialissimo saluto desideriamo ora rivolgere ai numerosi membri delle Curie Generalizie degli Istituti Religiosi, sia maschili che femminili, presenti a Roma per l’inaugurazione dell’«Anno della Pace per la Giustizia», promosso dall’Unione dei Superiori Generali e dall’Unione Internazionale delle Superiore Generali.

Ben volentieri abbiamo aderito al vostro desiderio, figli carissimi, e vi siamo riconoscenti del servizio che voi rendete alla Chiesa con una iniziativa così opportuna e attuale. Essa ci assicura che il messaggio dell’ultimo Sinodo e il nostro recente appello a lavorare per la giustizia hanno trovato in voi eco profonda e piena rispondenza. La giustizia è un valore che investe tutti i rapporti della convivenza umana, in ogni campo; ed è un valore alla cui attuazione - che si identifica con l’attuazione della pace - tutti sono chiamati a contribuire, ciascuno adducendo quell’apporto che corrisponde alla sua vocazione particolare.

La dichiarazione del Sinodo: «. . . chiunque ha il coraggio di parlare della giustizia agli uomini, deve lui per primo essere giusto ai loro stessi occhi» (III: L’attuazione della giustizia) si applica in maniera speciale a voi, religiosi e religiose, non soltanto perché il seguire i consigli evangelici deve necessariamente esprimersi con l’amore e il servizio del prossimo, ma soprattutto perché la funzione profetica ed escatologica della vita religiosa richiede che voi siate una testimonianza vivente, un segno del messaggio di giustizia e di liberazione che Cristo ha portato al mondo, contro ogni forma di schiavitù e di oppressione che mortifica la dignità della persona umana.

In tutto ciò è cosa lodevole che le Curie Generalizie facciano il primo passo, esaminandosi alla luce del messaggio sinodale e del nostro appello, oltre che sulla testimonianza di giustizia che intendono dare, anche sul ruolo specifico che hanno in questo campo, e come comunità e come organismo centrale di governo e di amministrazione.

Noi chiediamo, pertanto, volentieri al Signore che benedica i vostri lavori e faccia fruttificare i vostri sforzi, sostenendovi continuamente in quanto vi è di faticoso nel vostro nobilissimo compito; e a tal fine vi impartiamo di cuore la nostra Apostolica Benedizione.

L’istituto di Nazareth in Roma e Napoli

Con particolare compiacimento diamo il nostro benvenuto al gruppo delle Religiose di Nazareth, nella lieta ricorrenza del 150° anniversario di fondazione della loro Congregazione, qui riunite con le Insegnanti, le alunne e le ex-allieve degli Istituti di Roma e di Napoli da esse diretti.

Siamo riconoscenti per questa attestazione di filiale ossequio, e ben volentieri esprimiamo a così benemerita Famiglia fervidi voti d’incremento nello spirito e nell’azione, in favore specialmente della gioventù studentesca, tanto pensosa del suo avvenire ed anelante a dare una risposta retta e adeguata ai propri interrogativi.

Ebbene! Noi ripetiamo alle giovani presenti a questo incontro, che in Cristo Gesù è la vera soluzione di tutti i loro problemi. Egli è, infatti, la luce illuminante che risplende tra le tenebre; è «la verità che tanto ci sublima»; è cibo e bevanda per tutti gli affamati e gli assetati di giustizia; è ristoro per chi è stanco e affaticato; è gaudio beatificante per gli oppressi, gli umiliati, i perseguitati.

Alle Religiose di Nazareth, animatrici di preghiera e di studio, va la nostra parola d’incoraggiamento a perseverare con fedeltà nella loro nobile missione, adeguandola, secondo il magistero ecclesiastico e gli insegnamenti conciliari, alle necessità e alle istanze odierne.

Confortiamo poi le docenti nella dedizione alla loro opera educativa: e confermiamo le allieve nei generosi propositi di virtù e di approfondimento culturale.

Sia per tutte, auspicio e pegno della divina assistenza, la nostra speciale Benedizione Apostolica, che estendiamo altres all’intera Congregazione nella fausta circostanza giubilare, e alle rispettive famiglie.

I Fratelli di San Gabriele

We give a special welcome to the group who have come from Tokyo, visiting many holy places on their journey. You have chosen a very significant title for your pilgrim group: "Ab ortu solis". For you are indeed a demonstration of the truth that "from the rising of the sun to its setting (the Lord’s) name is great among the nations". We pray God to show you his favour. To all of you we impart our Apostolic Blessing.

Pellegrini Panamensi

Con viva complacencia os dirigimos un especial saludo a vosotros, amadísimos peregrinos panameños, que habéis querido demostrar con esta visita vuestra filial devoción al Vicario de Cristo.

Confiamos vivamente en que esta venida a la Ciudad Eterna os ayudará a fortalecer vuestra fe y pedimos al Señor que el contacto con los monumentos y los venerables recuerdos de los primeros siglos de la Iglesia avive en vuestros espíritus los sentimientos cristianos que siempre han de inspirar vuestra vida personal y vuestras actividades al servicio de toda la comunidad.

Os acompañamos con nuestras plegarias y con nuestra paternal Bendición para vosotros y vuestros familiares, y también para todos nuestros amadísimos hijos de Panamá, sobre quienes invocamos la constante asistencia y protección del Altísimo.



Mercoledì, 22 marzo 1972

22372
La Pasqua è vicina. Non possiamo, in questa nostra Udienza, staccata da ciò che è fuori di questa aula, per quanto tutti portiamo nell’animo l’esperienza trepida ed intensa della vita vissuta, non possiamo che parlare della Pasqua, che è pure, per noi credenti specialmente, un avvenimento importante della vita vissuta, non foss’altro perché è una giornata che si innesta, con qualche nota singolare di festa e di gioia, nell’assillante vicenda del nostro calendario profano e prosaico.

La Pasqua: che cosa è per noi? Che cosa dev’essere? Un incontro con Cristo. Dicevamo, in un’altra Udienza, un incontro personale. A pensarci, se così è, la Pasqua assume l’aspetto di un fatto molto originale, l’importanza d’un fatto molto interessante, molto bello anche; ma, proprio per questo, non poco imbarazzante. Pensiamo a qualche nostro ipotetico incontro con uno dei personaggi che dominano la scena del mondo; come ci comporteremmo? Che cosa gli diremmo? Faremmo anche noi, come il sarto del Manzoni (A. MANZONI, I Promessi Sposi, Cap. XXIV) all’incontro col Cardinale Federigo, una figura meschina e ridicola? E poi, pensando a Gesù Signore, si profilano davanti alla memoria, come scene alle quali fossimo presenti, gli episodi del Vangelo, nei quali davvero, sensibilmente, Egli, il Maestro divino, s’incontra con la gente di allora, sia prima che dopo la risurrezione, con qualche determinata persona, con cui un discorso si svolge, un fatto, che resterà storico e tipico per sempre, si compie, forse un miracolo si realizza . . .


INCONTRO PERSONALE CON CRISTO

E noi dobbiamo, noi pure, incontrare Cristo, vivo, reale, nell’apparizione, non sensibile, ma sacramentale, concettuale almeno, del suo mistero pasquale? Così dev’essere. E fra le innumerevoli cose, che un tale fatto suggerisce a spiegazione e a commento, noi qui due sole proponiamo un istante alla vostra considerazione.

La prima cosa riguarda il dove ed il come avviene il nostro incontro pasquale con Cristo; diciamo l’incontro che veramente importa e che riveste importanza eccezionale per la nostra esistenza e per la nostra mentalità. L’incontro è interiore. Diciamo interiore, cioè dentro di noi, nella nostra anima, nella cella intima della nostra personalità. Dovremmo aggiungere anche: nella chiarezza della nostra coscienza, e perciò nella folgorante impressione della misteriosa presenza di Cristo in noi, nell’impetuosa confessione della nostra umiltà (Cfr.
Lc 5,8 Mt 8,8), nell’ineffabile esperienza della nostra comunione con Lui (Cfr. Jn 6,57); ma questa, per sé ovvia, effusione dei sentimenti primordiali della coscienza religiosa (Cfr. Lc 1,43 Lc 1,46), non sempre ci è dato gustare; inesperti siamo e spesso rimaniamo, come fanciulli, come forestieri, come infermi, al linguaggio della devozione psicologica, e ancor più della conversazione mistica. Pazienza. Ciò che importa si è che l’incontro con Cristo avviene dentro di noi, nell’ambito della vita interiore, nella sfera personale della nostra religiosità, e innanzi tutto della nostra fede. Non dimentichiamo, dicendo questo, la veste rituale e la specie sacramentale, che determinano sensibilmente l’incontro di cui parliamo; né tanto meno ignoriamo l’aspetto comunitario in cui si celebra la cena-sacrificio della Eucaristia, e l’effetto (la res) principale che scaturisce dalla partecipazione a tale sacramento, cioè l’unità del corpo mistico (Cfr. 1Co 10,17 S. TH. III 73,3); ma ora la nostra attenzione si ferma sull’interiorità della Pasqua, anzi di tutta la vita cristiana, vista sotto questo suo primo aspetto essenziale e generatore d’ogni sua manifestazione soprannaturale: la sua interiorità.

Ci vengono opportune le parole di S. Agostino, maestro di vita interiore, circa l’asse su cui si svolge la vita religiosa: Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas (S. AUG. De vera rel., 39; PL 34, 154). Non voler uscire al di fuori, ma ritorna in te stesso, nell’uomo interiore abita la verità. Ora questo invito alla vita interiore e alla ricerca e all’espressione della verità religiosa, nella ricorrenza della Pasqua, si rivolge all’uomo moderno in maniera particolare; e ci dà ragione sia del perché l’uomo, ai nostri giorni, sia facilmente areligioso, o antireligioso; e sia perché dove egli, l’uomo contemporaneo, ritorni religioso, come tale volentieri si comporti e si esprima. Oggi l’uomo vive massimamente fuori di sé; vogliamo dire: estroflesso; anche quando fa professione di libertà, egli è di solito assai condizionato esteriormente. Se libero è colui che è principio dei suoi atti (Causa sui, come dicono i filosofi - cfr. S. TH. I 83,1; Metaph. II, 9; Contra Gent. II, 48), noi possiamo domandarci se siamo liberi, cioè padroni di noi stessi, quando l’ambiente, i vincoli sociali, l’opinione pubblica, gli interessi temporali, la moda, il linguaggio dei sensi, ci obbligano a vivere prescindendo da un giudizio di verità o di scelta generato dal nostro spirito. Non è la religione che soffoca la libertà; è piuttosto la mancanza di libertà che soffoca la religione, impedisce cioè quell’orientamento razionale e morale e vitale, che nelle sue superiori e naturali esigenze tenderebbe al mondo religioso.


LA NOSTRA AUTENTICITÀ CRISTIANA

Il punto d’incontro naturale con Dio è nel cuore dell’uomo. E così è anche nell’ordine del regno di Dio, annunciato da Cristo. Tutto ciò che l’economia evangelica ci offre d’esteriore è mezzo, è via, è segno, è sacramento per condurci a quella realtà soprannaturale, che si celebra al contatto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Citiamo ad esempio, «Quando tu vuoi pregare (cioè incontrarti con Dio), entra nella tua camera, chiudi la porta, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti esaudirà» (Mt 6,6). Del resto la nostra religione non è una adesione alla Parola di Dio? Per questo ci ammonisce S. Paolo: «La parola di Dio abiti in voi abbondantemente» (Col 3,16). E questa adesione, che altro non è se non la fede, quale primo effetto produce? Ancora S. Paolo risponde: «Per mezzo della fede abita Cristo nei vostri cuori» (Ep 3,17); a tal punto ch’egli dirà di sé ciò che ogni cristiano dovrebbe poter applicare a se stesso: «Io vivo, ma non più io, vive in me Cristo» (Ga 2,20).

A quale grado d’interiorità si consuma l’incontro con Cristo! Esso tende ad una identità. Questo ci dimostra quanto sia saggio lo sforzo della preparazione pasquale, il quale ci aiuta a rientrare in noi stessi, ab exterioribus ad interiora, quando ci invita all’ascoltazione della parola di Dio, ad un po’ di silenzio interiore ed esteriore, ad un po’ di riflessione cosciente, a qualche ritiro spirituale, cioè ad una libera disponibilità all’incontro di Cristo. L’appuntamento vero con Lui che passa (Pasqua vuol dire passaggio) è nel cenacolo silenzioso della nostra persona. Saremo noi là, dentro di noi, pronti all’appuntamento pasquale?

La seconda cosa circa l’incontro pasquale, che potrebbe dare tema ad altro discorso (a cui ora rinunciamo) è l’autenticità; la nostra autenticità cristiana. «Fare la Pasqua», come ordinariamente si dice, significa appunto questo: confrontare la nostra vita con l’impegno che la qualifica cristiana, e attingere da Cristo stesso la grazia per renderla tale. Ma non vogliamo tediare oltre la vostra pazienza. Vi basti sapere che il «fare la Pasqua» è la prova ed è il principio della nostra autenticità di seguaci e di fedeli di Cristo. Ed è questo il nostro augurio per voi, per noi tutti, con la nostra Apostolica Benedizione.



Missionari Comboniani

Partecipa a questo incontro un bel gruppo di Missionari Comboniani, delle Missioni Africane di Verona, i quali han concluso di recente uno speciale corso di aggiornamento e stanno per far ritorno alle loro sedi. Pensiamo che non sia necessario, figli carissimi, nel rivolgervi questa breve parola, di esprimere di nuovo o di riaffermare i sentimenti di commozione e di stima che ci procura, ogni volta, la presenza di chi, come voi, è attivamente e specificamente impegnato nel lavoro di evangelizzazione. Voi siete operai qualificati del Vangelo e svolgete, perciò, nella Chiesa una funzione di primaria ed essenziale importanza. La coscienza di tale servizio vi ha portato a Roma per riflettere ancora sulla vostra vita e sulla vostra missione: ci piace vedere, in questa parentesi, come una sosta davvero opportuna che vi ha dato modo di fare il punto sulle esperienze già maturate, di confrontarle e di metterle a comune profitto, e che vi consentirà di riprender presto, con rinnovato vigore, il contatto con le Comunità, alle quali portate l’annunzio della salvezza.

Noi vi ringraziamo di cuore e desideriamo incoraggiarvi nelle vostre iniziative, nei vostri sforzi, e soprattutto nei sacrifici, tanto più meritori quanto più nascosti, che sono componente quotidiana e costante nell’itinerario di ciascuno di voi. Vi sia di conforto la Benedizione Apostolica, che ora vi impartiamo e vorrete estendere, a nostro nome, ai collaboratori, ai catechisti ed a tutti i fedeli delle vostre Chiese lontane.

Studenti di New York

We greet the "Marching Kings" group and their families. Music is always a great joy: for the one who plays and the one who listens. Your music is an expression of your enthusiasm and your willingness to work together in unity and with discipline. In this way you create beauty and harmony, and so bring happiness to your audiences. For this you are to be commended. You are preparing yourselves to work in a World that needs to be renewed by the harmony of peace, justice and love. We assure you of our prayers that God will guide and assist you always.


Mercoledì Santo, 29 marzo 1972


Paolo VI Catechesi 10372