Paolo VI Catechesi 22175

Mercoledì, 22 gennaio 1975

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Noi parliamo ancora del rinnovamento che l'Anno Santo dovrebbe portare con sé, nelle singole persone e nei popoli. Rinnovamento: la parola è chiara, ma il suo senso è oscuro. E oscuro perché è difficile stabilire a che cosa esso si riferisce. Viene spontaneo pensare: si riferisce a tutto; tutto cio che il mondo è, tutto cio che il mondo ha, tutto cio che il mondo fa, tutto dovrebbe essere rinnovato. Visione magnifica, ma non priva di motivo di gravi inquietudini. Perché essa significa che tutto è imperfetto, tutto è disordine: anzi significa che tutto quanto l'uomo ha compiuto, specialmente in questi ultimi secoli di meravigliose operazioni, tutto il progresso moderno, che ha inondato la terra di prodigiose conquiste, in ogni campo dell'attività umana, non ha saziato che parzialmente i bisogni e i desideri dell'umanità, anzi ha denunciato enormi miserie, enormi ingiustizie, enormi necessità; ha risvegliato inoltre la coscienza delle disuguaglianze sociali, delle arretratezze della maggior parte della gente, della fame di pane, di cultura, di diritti, una fame finora sofferta ed assopita, oggi diventata crudele e intollerabile. Anzi: fenomeno sconvolgente: il bisogno di avere di più, di avere qualche forma nuova e superiore di vita, si è pronunciato più avido e insaziabile nei ceti favoriti dal progresso che non nell'umile gente, quantunque anche questa sia diventata inquieta, e piena di proteste e di rivendicazioni, quasi a dimostrare, da una parte, che nessuna prosperità vale a placare l'insaziabile brama di essere, di avere, di godere, ma produce un più tormentato desiderio draltra cosa, draltra esperienza, che non quella posseduta; e dall'altra parte, che l'ordine, cosi detto, risultante dal progresso economico e sociale del nostro tempo, documenta un disordine iniquo, per la disuguale distribuzione dei suoi vantaggi, per la sua radicale insufficienza quantitativa e, a bene osservare, anche qualitativa, a rendere tutti gli uomini felici, o almeno a soddisfare per tutti certi radicali bisogni, assurti al livello di diritti, a cominciare dalla dignità della persona umana, qualunque essa sia, e poi per passare subito alla libertà e a un sufficiente benessere.

Da questa gigantesca ed amara esperienza ecco allora spuntare fenomeni strani e negativi: la sfiducia, fino alla contestazione, alla rivoluzione; l'odio sociale, fino alla sua istituzionale espressione fra classi, partiti, tribù, popoli, civiltà; la lnoia, e il disgusto cinico della vita, l'indifferenza ideologica, lo scetticismo scambiato per liberalismo speculativo, il pessimismo raffinato e totale, cosmico, si direbbe una specie di suicidio intenzionale dell'uomo idealizzato, come fosse una bugiarda e pericolosa utopia; ed il ricorso pseudo-sapiente, ma in realtà folle e disperato, al piacere istintivo e immediato, all'edonismo egoista ed insieme calcolatore dei mezzi inumani per pianificare e per limitare le statistiche dell'umanità crescente. Questo è il mondo? diciamo: certi aspetti, pur troppo, del mondo; ma non tutto il mondo, chrè ancora pervaso da una grande ed energica speranza, che sembra interpretare la profezia della storia: il mondo puo rinnovarsi, ancora e sempre. Ma come? e questa domanda è fecondissima di risposte; ma le risposte non sono meno feconde di altri travagli e delusioni.

Vi è una via di soluzione? una teoria, che merita preferenza? Una interpretazione, che ricomponga il disegno ideale della vita umana e la conduca ai suoi veri e migliori destini?

Noi crediamo che si. E diciamo questo senza intenzioni polemiche, né con ricorso a formule magiche e trionfaliste. Noi crediamo nel Vangelo di Cristo, e noi sappiamo di potervi attingere il principio dell'autentico rinnovamento. Per questo lo predichiamo in questo fortunato periodo dell'Anno Santo. Il principio del rinnovamento (un principio, ché altri vi sono), è proclamato nell'antica e sempre viva parola di Gesù; questa: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta" (
Mt 6,33)

Parola nota. Ma essa non ha finito di echeggiare nella coscienza dell'umanità, pensosa e volonterosa. E parola attuale. E parola premente, forse indarno, ahimé, nella cosi detta "stanza dei bottoni r, cioè nei centri direttivi, dove maturano le somme decisioni per la guida dei popoli. Essa ha questo, a noi pare, di caratteristico e di imperativo : bisogna stabilire una scala dei fini, ai quali l'uomo puo e deve rivolgersi. Al sommo della scala sta "il regno di Dio e la sua giustiziar; se questo fine è negletto, o negato, la scala si scompone; non si sa più realmente per Chi e perché l'uomo vive. Al posto del primo fine, chrè per noi il primo valore, subentrano altri fini, altri valori; i quali possono, si, potenziare l'attività umana e quindi darle grande energia e molta capacità operativa, ma alla fine senza cio che più conta: l'ordine vero, la sapienza, la felicità, la pace; e quell'inestimabile dono di compenso ad ogni presente deficienza, di sicurezza, di gioia di lavorare e di vivere, che è la speranza escatologica, cioè la certezza druna vita futura.

La ricerca prioritaria del regno di Dio e della sua giustizia produce nella coscienza dell'uomo il confronto fra i beni a cui l'uomo puo aspirare, e sposta l'asse dell'interesse dominante e direttivo delle sue intenzioni, un asse che ha la sua base nel suo cuore, ed il termine nel mistero luminoso e polare della Paternità divina, mentre il suo itinerario fra l'uno e l'altro cardine è nella giustizia, cioè nella derivazione logica dell'arte di vivere umanamente, come Cristo ci ha insegnato, nell'amore e nel sacrificio.

Deriva da questa concezione il rinnovamento della nostra filosofia della vita, con una prima conseguenza: un distacco, una liberazione, una relativa svalutazione dei beni temporali, della ricchezza, dell'auri sacra fames, che fa gli uomini egoisti, e spesso ingordi e crudeli, nemici fra di loro, sfruttatori e antisociali; deriva quella "povertà di spirito r, proclamata dal Vangelo, la quale non troverà sulla terra alcun suo adeguato complemento, ma che meriterà a chi la possiede di gustare con temperato giudizio anche le cose di questo mondo, e di farne allo stesso tempo sentiero di ascensione al Bene sommo, chrè solo degno dressere conquistato e posseduto, il "regno dei cieli r. Quella "povertà di spirito r, che ci rende ricchi e premurosi per i fratelli bisognosi e sofferenti, e ci predispone anche a quelle innovazioni economiche e sociali, che siano atte a portare migliore giustizia, maggiore fraternità sulla terra.

Comprendere la sapienza di questo rinnovamento, chi oggi lo puo? chi lo vuole? Difficile dire: il mondo spesso non ne vuole sentir nemmeno parlare. Ma i "figli del regno r, si, lo possono; si, lo vogliono! Non è vero, fratelli? Con la nostra Benedizione Apostolica.




Mercoledì, 29 gennaio 1975

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Parliamo ancora di rinnovamento. E uno dei temi fondamentali che la Chiesa presenta come programma dell'Anno Santo: ed è il tema che più direttamente (non esclusivamente), riguarda la vita interiore e personale, mentre l'altro tema fondamentale, proposto per l'Anno Santo, la riconciliazione, si riferisce direttamente (sebbene anchresso non esclusivamente), alla vita in rapporto esteriore, di comunione sia con Dio, sia col prossimo.

Ora un rinnovamento personale a che cosa principalmente si riferisce? Si riferisce ad una rieducazione di sé. E cioè? Ad una rifusione della propria psicologia, sia sentimentale, che morale, in modo da imprimere ai propri istinti, ai propri sentimenti, ai propri atti un ordine, unrarmonia, una padronanza, un autogoverno in modo che la propria vita vissuta assuma un carattere umano e cristiano di perfezione, tendenziale almeno, che le conferisca un aspetto di bellezza, di fortezza, di purezza. Diciamo una volta di più la parola di San Leone Magno: dignità; agnosce, christiane, dignitatem tuam, riconosci, o cristiano, la tua dignità. Non è orgoglio, non è enfasi retorica, non è utopia; è la realtà ideale della pedagogia cristiana. E la base, se non addirittura un elemento, della perfezione, della santità; di quella santità che il Concilio afferma solennemente essere vocazione di ogni cristiano, ricordando una parola di S. Paolo, la quale investe tutto il programma, lo stile della vita cristiana: "questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione" (
1Th 4,3 cfr. Ep 1,4 Lumen Gentium, LG 39-40). E prosegue l'Apostolo, sempre riferendosi alla volontà di Dio: questa è "che vi asteniate dalla fornicazione; che ciascuno di voi sappia tenere il proprio corpo in santità e onestà, non lasciandovi dominare dalla concupiscenza, come fanno i pagani, che non conoscono Dio . . ." (1Th 4,3-5).

Quanti insegnamenti in queste sole parole! basterebbe riflettere su questi tre: la complessità del nostro essere, un essere composito, come si sa, di anima e di corpo; il facile conflitto fra queste componenti del nostro essere stesso; e la fede, cioè la vera conoscenza di Dio a noi concessa, quale fonte ed impegno di vita ordinata, in cui l'anima, istruita e sorretta dalla fede e dalla grazia, impone al corpo la sua legge, non senza conferirgli un decoro inestimabile, una nobiltà superlativa: "non sapete, dice ancora San Paolo, che i vostri corpi sono membra di Cristo?... e che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo? . . . Glorificate dunque e portate Dio nel vostro corpo!" (1Co 6,15 ss.).

Qui si aprirebbe una delle grandi lezioni sull'antropologia (cioè sulla scienza dell'uomo) propria del cristianesimo, con il suo tremendo ricordo della disfunzione prodotta dal peccato originale, ereditato anche nelle sue conseguenze da ogni vita umana che viene al mondo, e con l'esperienza, che tutti possono avere, del disordine interiore delle facoltà umane, fra le quali prime a dominare, se non contenute, sono quelle del corpo, quelle che di solito sono classificate col termine di concupiscenza, donde una vitalità difforme dalla legge morale. E sarebbe proprio in questo primo campo della nostra vita che dovrebbe applicarsi quello sforzo di rinnovamento spirituale e morale, al quale la tromba dell'Anno Santo ci chiama.

E con quanta ragione! Proprio perché la dottrina circa la vita umana oggi è profondamente turbata. Spenta, o repressa la coscienza della nostra obbligazione morale in ordine ad una sovrastante (immanente cioè, e trascendente insieme) legge divina, viene meno quel timore di Dio, che la Scrittura definisce principio della sapienza (Pr 1,7 Ps 110,10 Si 1,16); e allora si oscura la differenza fra il bene ed il male; la permissività appare come una liberazione dalle norme severe e sapienti (ora da troppi qualificate "tabù", cioè miti superstiziosi), che dànno alla condotta limiti ragionevoli ed energie rinascenti, e all'uomo unronestà degna di lui e un carattere capace drogni confronto sociale; il criterio della vita diventa fatalmente il piacere, la comodità, l'egoismo, la passione, l'istinto .... ed il livello della dignità personale fin dove discende? Tutti siamo draccordo nel ritenere che l'uomo ha bisogno e diritto ad un suo sempre nuovo sviluppo; ma quale sviluppo ? Spontaneo e istintivo, sciolto da regole esteriori, come ha insegnato e tuttora fa scuola Rousseau, supponendo buona ed intatta la natura umana? Ovvero ha bisogno druna formazione, che tenga conto della necessità druna educazione non solo spontanea ed istintiva, ma terapeutica, in ordine al guasto esistente nell'uomo per la triste eredità di Adamo, e modellata secondo un autentico tipo di uomo, quale Cristo, e per di più Cristo crocifisso (Cfr. Ga 5,24), propose e promosse per dare alla nostra vita la sua vera statura, la sua superiore perfezione, il suo titolo alla felicità escatologica ed eterna?

Qui ci fermiamo. Ma voi sapete quanto si estenda l'esame circa il rinnovamento spirituale e morale, a cui l'Anno Santo vuole educare quanti ne fanno davvero un atto di "conversione r, e non solo occasionale e momentanea, ma tale da imprimere nella vita odierna una sincera impronta cristiana (Cfr. Gaudium et Spes, GS 12). Procuriamo di difenderci dalla facile corruzione morale che dappertutto ci assale; e non ci basti ad immunizzarci la cura di Mitridate, cioè lrassuefazione, ma l'arte propria della pedagogia cristiana, quella di conservarci "santi ed immacolati . . . nella carità r, come ancora ci esorta l'Apostolo (Ep 1,4 Ep 5,27).

Questo il nostro voto, con la nostra Benedizione Apostolica.



Rivolgiamo ora un cordiale saluto al numeroso gruppo di militari italiani, convenuti a Roma per celebrare l'Anno Santo, ed accompagnati all'odierno incontro col Papa dall'ordinario Militare Monsignor Mario Schierano e dai loro zelanti Cappellani.

Ci fa molto piacere che voi stessi abbiate spontaneamente chiesto di poter compiere questo pellegrinaggio: cio basta da solo a manifestare i sentimenti, che vi animano, di fede aperta e convinta, di coerenza cristiana. E sappiamo altresi che vi siete ben preparati a tale atto di pietà e di penitenza, con la consapevolezza che il Giubileo, nelle sue finalità spirituali di rinnovamento e di riconciliazione, deve coinvolgere tutta la nostra vita nei suoi molteplici rapporti con Dio e con i fratelli.

Noi vi auguriamo che la sosta riflessiva e orante, presso i trofei degli Apostoli e dei Martiri, sia per voi feconda di generosi propositi: quelli di fondare la vostra vita su solide convinzioni religiose, etiche e civili.

A tanto vi conforti la nostra paterna benedizione, che estendiamo di cuore a tutti i vostri cari.




Mercoledì, 5 febbraio 1975

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Noi pensiamo ancora a quel rinnovamento promosso dall'Anno Santo della concezione umana della vita che deve caratterizzare l'autenticità e l'efficienza del cristiano, sia nella sua coscienza personale, e sia nella convivenza sociale. E seguendo, col Vangelo alla mano, la traccia di questa ricerca ci incontriamo con una parola programmatica, che ci sembra difficile concordare con l'elevazione dell'uomo, operata dal piano divino della grazia, sul quale piano la dignità e la grandezza dell'uomo, come tante altre volte ci è capitato draffermare, assurgono ad una statura splendida e maestosa, propria drun figlio adottivo del Padre, drun fratello del Cristo Salvatore regale dell'umanità, e drun essere che ospita in sé la presenza luminosa e santificante dello Spirito Santo. l'uomo, nella concezione e nella realtà del cattolicesimo, è grande; e tale deve sentirsi nella sua coscienza, nel valore del suo operare, nella speranza del suo finale destino. Se non che una ingiunzione, la quale investe tutta la personalità dell'uomo, i suoi pensieri, il suo stile di vita, il suo rapporto con i suoi simili, gli impone nello stesso tempo di essere umile. Che l'umiltà sia unresigenza, potremmo dire costituzionale, della psicologia e della moralità del cristiano nessuno potrà negare. Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi termini stessi. Se vogliamo rinnovare la vita cristiana non possiamo tacere la lezione e la pratica dell'umiltà. Come risolvere, innanzi tutto, il contrasto fra la vocazione alla grandezza e il precetto dell'umiltà?

Senza ricorrere alle celebri espressioni di Pascal, circa la grandezza e la miseria dell'uomo (Cfr. PASCAL, Pensées, 400, 416, 417, etc.) noi abbiamo ogni giorno sulle labbra e nel cuore il Magnificat, l'inno sublime della Madonna, la quale proclama davanti a Dio e a quanti ne ascoltano la dolcissima voce, la sua umiltà di serva ("Humilitatem ancillae suae":
Lc 1,48), e nello stesso tempo celebra le grandezze operate da Dio in lei, e profetizza l'esaltazione che di lei faranno tutte le umane generazioni (Lc 1,48-49). Come mai? Come accordare l'umiltà più sincera e più operante col riconoscimento della più alta dignità?

l'apparente contraddizione fra umiltà e dignità del cristiano non poteva avere più alta e autorevole soluzione. E la prima soluzione è data dalla considerazione dell'uomo davanti a Dio. l'uomo religioso non puo non essere umile. Lrumiltà è verità. La coscienza cosmica genera l'umiltà: "che è mai l'uomo, perché Tu (o Dio) l'abbia a magnificare?" (Jb 7,17). S. Agostino, che ha dell'umiltà un concetto sempre presente nelle sue opere, crinsegna che lrumiltà è da collocarsi nel quadro della verità (S. AUGUSTINI De nat. et gr., 34; PL 44, 265). Siamo piccoli; e noi, per di più, siamo peccatori (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 161,0). A questo riguardo lrumiltà appare logica, e cosi facile, che se non fosse temperata da altre considerazioni provenienti dalla misericordia di Dio, ci condurrebbe allo scetticismo, alla disperazione. "Umiliatevi, scrive San Pietro, sotto la mano potente di Dio, affinché Egli vi esalti nel tempo della (sua) visita; ogni vostra ansietà deponetela in lui, perché Egli ha cura di voi" (1P 5,6-7). E l'esempio di Cristo, soprattutto, ci sarà scuola e modello di umiltà (Cfr. S. BERNARDI De gradibus humilitatis et superbiae; PL 182, 941 ss.).

Sotto l'aspetto religioso l'apologia dell'umiltà è facile me vittoriosa(Cfr. 1Co 4,7) ragione di più per riconoscere alla religione un altro suo merito, non certo secondario. Ma possiamo chiederci, non esiste unrumiltà senza un riferimento religioso? Si, esiste. l'umiltà, per sé, è sapienza (Cfr. S. THOMAE Ibid. 1). Socrate, ad esempio, ce ne è stato maestro. Ma la sua consistenza morale non è sempre univoca e sicura, perché facilmente si deprime in avvilimento, o si gonfia di presunzione e di vanità.

E con grande facilità essa, l'umiltà personale, cioè il giudizio retto ed equanime che uno puo avere su se stesso, non resiste in tale sua rettitudine al confronto col giudizio che dobbiamo avere su gli altri. Il confronto personale con quello dei nostri simili non resiste, di solito, alla giusta misura in cui dovrebbe essere contenuto. Possiamo quasi dire che l'umiltà, cioè la conoscenza dei nostri limiti, non è virtù sociale. Il confronto con gli altri ci fa spesso pietosi verso noi stessi, e orgogliosi verso il prossimo; ricordate la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, quando il primo dice di sé: "io non sono come gli altri ..." (Lc 18,11).

Sono messi cosi allo scoperto due malanni capitali della psicologia umana, colpevoli delle rovine più estese e più gravi dell'umanità: l'egoismo e l'orgoglio. l'uomo allora fa centro su se stesso nella estimazione dei valori della vita; egli si fa primo; egli si fa unico. La sua arte di vivere consiste nel pensare a se stesso e nel sottomettere gli altri. Tutti i grandi disordini sociali e politici hanno nell'egoismo e nell'orgoglio il loro bacino di cultura, dove tanti istinti umani e tante capacità drazione trovano il loro profondo alimento, ma dove l'amore non crè più. Ed anche dove questo sovrano sentimento ancora sopravvive, ma intriso comrè dregoismo e drorgoglio, si deforma e si deprava; diventa egoismo collettivo, diventa orgoglio di prestigio comunitario. l'amore vi ha perduto la sua migliore e cristiana caratteristica, l'universalità, e percio la sua vera autenticità, il suo sincero disinteresse, la sua meravigliosa capacità di scoprire, conoscere, servire le sofferenze degli altri, con cuore magnanimo, come Cristo con la parola e con l'esempio crinsegno.

Questa parentela fra l'umiltà e l'amore, fra l'umiltà e la fortezza dranimo, fra l'umiltà e l'esercizio dell'autorità indispensabile alla giustizia e al bene comune, e infine fra l'umiltà e la preghiera, potrebbe e dovrebbe essere oggetto di ulteriore riflessione; basti ora a noi aver rivendicato il posto che le spetta nella rinnovazione cristiana, che andiamo cercando, un posto indispensabile e capitale, quello di una virtù, come dice S. Tommaso, dietro la scorta di Cristo (Mt 11,29 Mt 18,2) è, dopo quelle teologali e la giustizia, "excellentissima et potissima r, l'ottima e la preferibile (S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 161,5; cfr. S. AUGUSTINI De verb. Dom., serm. 69, 1; PL 38, 441).

Con la nostra Apostolica Benedizione.




Mercoledì delle Ceneri, 12 febbraio 1975

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Le Ceneri: questo è un giorno forte nel calendario liturgico e nella formazione spirituale del cristiano, che incomincia la sua preparazione alla celebrazione del mistero pasquale, mediante l'esercizio della penitenza, della preghiera e delle opere buone, al quale esercizio diamo il nome di quaresima. Noi lasceremo ai riti propri di questo giorno singolare l'esplorazione del suo significato e della sua applicazione alle nostre anime, invitate alla severa e grande scuola quaresimale.

Per quanto riguarda il riflesso di questo giorno sul tema, che ci siamo prefissi per questo momentaneo colloquio circa la spiritualità dell'Anno Santo, sul tema della nostra rinnovazione religiosa, della nostra "conversione" cristiana, noi ci limitiamo ora a considerare l'urto, la scossa, lo "choc r, che l'imposizione delle ceneri, con la sentenza funerea che l'accompagna, intende produrre, non solo per ricordare l'inesorabile led effimera fragilità della vita umana soggetta naturalmente alla morte, ma per risalire altresi alla causa di questa terribile sorte, come crinsegna S. Paolo, in una delle sue pagine più gravi e più studiate: "per causa del peccato entro la morte nel mondo" (
Rm 5,12).

Ritorniamo cosi ad un tema ricorrente sia nella predicazione, che nella concezione generale della vita cristiana; ed è il tema del peccato. Che cosa è il peccato? E il conflitto della nostra volontà, di esseri liberi e responsabili, ma nello stesso tempo di esseri creati e piccoli, con la volontà sovrana, buona e paterna di Dio. E unrazione sbagliata, vista nel suo aspetto religioso. E l'offesa, volontaria e cosciente, al rapporto che, volere o no, intercorre fra la nostra vita e la legge di Dio, Chi pensa e comprende questa trascendente ripercussione del nostro operare su la vigilante presenza giusta e amorosa di Dio, sa che cosa è il peccato; anzi ne avverte l'insondabile e abissale gravità; ricordate le parole del "figliolo prodigo" nella celebre parabola evangelica, vero specchio del dramma del peccato: "Padre, io ho peccato contro il cielo e contro di Te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio" (Lc 15,18-21). Il peccato è simultaneamente offesa a Dio e rovina di chi lo commette (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, I-II 55,1-2). Una rovina, mentre ancora siamo nella vita presente, non totale; l'uomo resta uomo, cioè capace di ragionare, naturalmente inclinato al bene, debilitato pero a perseguirlo con forze naturali intatte; l'esperienza del male, che tanti, anche educatori, credono utile alla formazione della coscienza umana, è come una malattia che, potendo, dovremmo risparmiare all'uomo, al giovane specialmente, già infermo per le conseguenze del peccato originale, e ancora inesperto nel ricorso alle risorse della coscienza morale.

Coscienza morale: ecco un altro grande capitolo dell'antropologia, cioè della scienza dell'uomo; un capitolo, ohimé, che l'uomo profano e moderno tenta spesso di lasciare intonso, quando fa l'apologia della coscienza per sottrarsi alle esigenze estrinseche dell'obbedienza, limitando la consultazione della sua coscienza al primo e grande capitolo della coscienza psicologica. La quale, staccata dalla coscienza morale, orientata al riferimento della sua responsabilità religiosa, non è più buona consigliera; essa registra l'esperienza interiore e esteriore delle azioni umane; si contenta delle analisi psicanalitiche, oggi di moda, ma prive di obbligazioni etiche, prive di coscienza morale. Cosi che il criterio distintivo fra bene e male diventa puramente edonistico, utilitario, estetico, igienico. La coscienza gode drun ottimismo fallace e pericoloso, simile, nelle sue applicazioni pratiche, a quello di chi non consulta più, o non consulta mai, la vera e propria coscienza umana, e vive senza scrupoli, beato di concedere a se stesso ogni cosa desiderabile e possibile.

Si parla tanto di coscienza, come somma ed unica norma della propria condotta; ma se la coscienza ha perduto la sua luce morale, cioè la sua sensibilità del vero bene e del vero male, sensibilità che non puo essere avulsa dal polo dell'Assoluto, dal riferimento religioso, dove ci puo condurre? A quali esperienze ci puo abusivamente autorizzare? Basterà il codice penale a rendere buoni, onesti e giusti gli uomini? e basterà una correttezza legale? (l ... io sono un galantuomo; io non faccio del male a nessuno; la mia fedina penale è pulita ... r), basterà ad assicurare all'uomo il suo vero eterno destino? E che diremo di quanti hanno soffocato la propria coscienza morale in omaggio ad una propria irrazionale libertà, una libertà passionale, o venale o crudele, o comunque una licenza ribelle alla legge divina? una libertà, una licenza peccatrice? Dio ci scampi da tale abuso della coscienza! Un giorno, quel giorno fatale, del nostro diretto ed esistenziale incontro con Dio, non potremo sentirci rispondere alle nostre estreme istanze di salvezza: "Non ti conosco r? (4 Cfr. Mt 25,12)

La nostra storia si fa drammatica. Chi ha la sapienza e il coraggio di guardarla in faccia, con la coscienza morale, che apre gli occhi sul passato, si sentirà invaso da uno stato di tristezza, di paura, di tormento, caratteristico della nostra scuola spirituale, e ben conosciuto dalla grande letteratura(Cfr. Oreste di Euripide, Macbeth di Shakespeare): il rimorso. E un momento critico ed intenso, al bivio di due strade decisive, rivolte a direzioni contrarie: la disperazione(Cfr. Gen.4, 3-16; Mt 27,3-10); l'umile e pentito abbandono nell'ancora aperta misericordia di Dio (Cfr. Manfredi, in Dante, 11, 3, 120; lrInnominato del Manzoni): questrultima è la scelta tipica della quaresima, la scelta dell'Anno Santo. Con la nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 26 febbraio 1975

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La spiritualità dell'Anno Santo, promossa dai due principii religiosi e morali, che ormai tutti conosciamo, rinnovazione e riconciliazione, ci porta a considerare la conversione, la ben nota "metanoia r, sotto uno dei suoi aspetti principali, e cioè l'aspetto sacramentale della conversione, aspetto che comunemente chiamiamo sacramento della penitenza, ovvero confessione.

Tema questo, che a tutti è ben noto, almeno nei suoi termini generali e catechistici, e rimanda il discorso alla consueta istruzione religiosa, importantissima sempre, sia per il suo contenuto dottrinale e sia per la prassi pastorale, tanto individuale che comunitaria. Siccome tuttavia il concetto, la stima e l'uso del sacramento della penitenza non hanno sempre e da tutti la considerazione privilegiata, che esso merita, richiamiamo alla nostra memoria, schematicamente, alcuni punti, sulla cui riflessione la nostra spiritualità giubilare puo trovare alimento e conforto.

Scegliamo per ora il punto principale, chrè il posto occupato da questo sacramento nel disegno della salvezza. La domanda relativa, che ha una sua lontana radice storica, al secolo terzo, e una più vicina nella controversia protestante, si chiede se esista nella economia della fede cristiana un sacramento della penitenza, dopo il battesimo. Un cristiano, il quale dopo il battesimo, cada in peccato, puo ancora avere una istanza presso la misericordia di Dio? (Cfr.
2P 1,4) peccati di uno che abbia avuto la inestimabile fortuna della grazia divina, cioè druna associazione della propria vita, per i meriti di Cristo, con quella ineffabile e trascendente di Dio, possono trovare ancora perdono quando questa vitale alleanza sia rotta e tradita da essi? Il cristiano non è per definizione un fedele? e se fedele, ahimé!, non rimane, puo ancora pretendere, o almeno sperare, dressere riammesso nello stato di grazia? Basta, nell'ipotesi druna inesauribile bontà da parte di Dio, la contrizione del peccatore, fondata sulla fede, perché egli ritorni nell'amicizia vivificante di Dio e nella comunione della Chiesa?

Ed ecco la prima, paradossale ma reale verità: nel piano della bontà di Dio la possibilità che anche i peccati drun cristiano, i quali dopo il suo battesimo assumono una maggiore e repellente gravità, siano perdonati, esiste! Lo sappiamo ed esultiamo: esiste! La Chiesa primitiva, vincolata ad una troppo stretta e testuale interpretazione druna parola, che troviamo nella lettera agli Ebrei: "... se volontariamente manchiamo dopo aver avuto notizia della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati" (He 10,26), era restia in alcuni luoghi ad ammettere la remissione di alcuni peccati più gravi e scandalosi: apostasia, omicidio, adulterio; ma quando, specialmente dopo la persecuzione di Decio, papa Cornelio dapprima e poi San Cipriano a Cartagine, ammisero che i lapsi, cioè coloro che per sfuggire al supplizio avevano sacrificato agli dei, potessero essere riammessi alla penitenza e riconciliati, se realmente pentiti (Cfr. A. SABA, Storia della Chiesa, 1, 166; S. CYPRIANI De Lapsis; PL 4, 463-494; G. MERCATI, Le lett. di S. Cornelio papa; etc.), la dottrina e la disciplina della penitenza si svilupparono. Non avevano buon fondamento nelle parole del Signore? (Mt 16,19 Mt 18,18 Mt 18,22, "usque septuagies septies"; Jn 20,23). Nasce da questa salvatrice larghezza la evoluzione della prassi penitenziale, in cui la contrizione, lo vedremo, ha unrimportanza perenne, e da cui deriva la confessione sacramentale, che proprio lo scorso anno, con la pubblicazione del nuovo Ordo paenitentiae, da parte della nostra Sacra Congregazione per il Culto Divino, ebbe la sua rituale formulazione in conformità ai criteri desunti dal recente Concilio Ecumenico Vaticano II. Questo documento è certamente fra i più significativi della recente legislazione liturgica e pastorale, e speriamo anche fra quelli più fecondi di rinnovamento e di riconciliazione spirituale e morale. Lo raccomandiamo al vostro studio.

Ma intanto noi dobbiamo fermare la nostra attenzione, la nostra ammirazione, la nostra esultanza sul fatto che Cristo ci ha ottenuto questo inestimabile favore, quello della remissione dei peccati, tanto illogici e tanto deprecabili, dopo il battesimo, mediante l'istituzione del Sacramento della penitenza (Cfr. DENZ.-SCHON. DS 1601 (844); DS 1701 (911). vero atto d'infinita bontà e misericordia, vero intervento della divina potenza (Cfr. Mc 2,7) per la risurrezione delle anime alla vita nuova e divina.

Diamo a questo sacramento, e, se necessario, restituiamo la devozione, la gratitudine, la gioia, chresso merita dalla nostra fede e dalla nostra pietà. Con la nostra Apostolica Benedizione.





Sabato, 1d marzo 1975

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Noi continuiamo il nostro presente cammino sugli umili, ma salutari sentieri del nostro catechismo, della nostra dottrina comunitaria cattolica.

Docili alla spiritualità propria della quaresima e al clamoroso invito dell'Anno Santo, noi dobbiamo e dovremo ancora soffermare la nostra attenzione sull'atto e sul momento preciso della nostra conversione, cioè sul sacramento della penitenza, che comunemente chiamiamo confessione.

Tutti conosciamo di che cosa si tratta; e noi non ripeteremo qui la lezione su tale tema. Ma esso è cosi importante e cosi controverso,che pensiamo non superfluo richiamare alcuni aspetti di tale tema. Innanzi tutto: noi abbiamo già detto una parola su la parte divina, trascendente, soprannaturale di tale sacramento, veramente prodigioso, come quello che ridà la grazia, cioè risuscita la vita divina, chrè quella che più conta, nelle anime; bisogna ora ricordare che questo intervento salvifico della misericordia trionfante di Dio esige alcune condizioni da parte di chi la riceve; e tutti conosciamo quali. Non è automatica, non è magica la causalità sacramentale della penitenza: essa è un incontro che suppone una disponibilità, una recettività, una predisposizione, una certa condizionante collaborazione umana.

E questa è l'oggetto delle difficoltà, che il dono di grazia, offertoci dal sacramento della penitenza, incontra da parte dell'uomo. Qui si potrebbe svolgere un trattato di psicologia morale e religiosa. Noi ora semplifichiamo lrimmensa analisi, a cui il tema si presta, per accennare ai due punti nodali di questo capitolo della disciplina cattolica penitenziale. Il primo ha un suo nome difficile e doloroso, che si chiama contrizione. Stiamo col Concilio di Trento, il quale ha tanto studiato questa parte della nostra dottrina; ne troviamo la formula essenziale ripetuta nei nostri catechismi. "La contrizione, dice il Tridentino, la quale tiene il primo posto negli atti del penitente, è un dolore dell'animo, e una riprovazione del peccato commesso, col proposito di non peccare più" (DENZ-SCHON.
DS 1676). Dolore dell'animo: non è cosa facile, non è cosa piacevole. Deriva da una coscienza, alla quale, di solito, l'uomo cerca di sottrarsi, la coscienza del peccato, la quale suppone la fede nel rapporto che intercede fra la nostra vita e l'inviolabile e vigilante legge di Dio. Oggi è invalso un costume secolarizzante, talvolta più che pagano, il quale cauterizza la coscienza morale, dopo aver spenta la coscienza religiosa; il peccato, questa immensa misteriosa ripercussione in Dio dell'azione umana disordinata, non ha più consistenza, non ha più peso. l'attività umana, nelle sue ragioni più alte, non ha più per riferimento né la legge, né la bontà di Dio; ma piuttosto altri termini di confronto: l'utilità, l'interesse, il piacere, il successo, l'autonomia assoluta della volontà, o della passione, o del capriccio soggettivo. La contrizione, cioè il dispiacere per l'offesa rivolta a Dio, non ha più possibilità di esprimersi nella cella centrale e profonda, chrè il "cuore" dell'uomo, ermeticamente chiusa dai gelosi sigilli della laicità radicale.

Il pericolo, il danno, il castigo di questa anchilosi morale non staremo noi a descriverli. Chi ha l'occhio semplice, o l'occhio clinico sui fenomeni deteriori della vita moderna, li scorge da sé. Noi diremo piuttosto della efficacia rianimatrice della contrizione per se stessa, quando sia motivata dalla offesa alla bontà di Dio, da un lato, e dalla deformità della malizia del peccato, dall'altro, quando cioè, come dicono i maestri, il dolore del fallo commesso sia "perfetto r: la contrizione cosi concepita è già di per se stessa causa del perdono di Dio, quando sia accompagnata dal proposito di ricorrere alla virtù del sacramento della penitenza, se appena possibile (Cfr. S. THOMAE, Suppl., 5, 1.).

In una lettera drun Religioso ci è stato suggerito di richiamare l'attenzione del nostro uditorio su questa provvidenziale maniera di ottenere la misericordia del Signore per chi si trovasse in punto di morte, senza avere presente il soccorso del ministero sacramentale (Cfr. DENZ-SCHON. DS 1677). E importante saperlo.

l'altro punto nodale di questa materia è la confessione, cioè l'accusa che l'uomo, desideroso del perdono di Dio, fa di se stesso, delle proprie colpe, e per disteso nelle loro qualificazioni morali, ad un ministro autorizzato ad ascoltare il penitente e ad assolverlo. Tremenda cosa, tremenda penitenza; cosi pare. E cosi è per chi non ha fatto l'esperienza dell'umiltà, che ritrova la verità e la giustizia parlanti dentro di lui, e l'esperienza liberatrice, consolatrice dell'assoluzione sacramentale. Forse i momenti druna confessione sincera sono fra i più dolci, i più confortanti, i più decisivi della vita. Comunque sia, noi siamo qui ad un punto obbligato dello svolgimento della nostra salvezza: possiamo attribuirvi la celebre frase di S. Agostino: Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te (S. AUGUSTINI Serm. 169, XI; PL 38, 923).

Anche questo momento della nostra vita cristiana devressere considerato con umiltà infantile e con virile coraggio.






Paolo VI Catechesi 22175