Paolo VI Catechesi 12375

Mercoledì, 12 marzo 1975

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La Quaresima, che stiamo celebrando in preparazione alla Pasqua, e l'imminenza ormai di questa santa e drammatica festività, ci obbligano a integrare la nostra sommaria catechesi col richiamo allo spirito di penitenza, che non puo mancare in chiunque consideri la Pasqua come un avvenimento centrale della nostra osservanza religiosa, e come un impegno ad entrare nel mistero della salvezza con personale e intensa partecipazione (Cfr. Paenitemini, IX, 2, 27-11-1966).

Lo spirito di penitenza reclama per una sua logica intrinseca una qualche pratica di penitenza, anticamente molto impegnativa per tutto il popolo fedele; oggi invece resa molto più elastica e più ridotta nei suoi atti obbligatori (il digiuno, ad esempio, è obbligatorio per soli due giorni, il mercoledi delle Ceneri, e il Venerdi Santo, per chi è prescritto); ma cio non toglie che altre tre pratiche penitenziali siano tanto di più raccomandate alla spontanea volontà drogni fedele: la preghiera, la mortificazione e l'esercizio di opere di carità.

Ma un atto sacramentale, classico e obbligatorio, rimane a qualificare e a impreziosire questo periodo di conversione e di espiazione; ed è, come tutti sanno, quello della confessione, o penitenza, per antonomasia, circa la quale la recente riforma liturgica ha emanato eccellenti norme ed istruzioni. Anche queste noi le supponiamo conosciute; anzi le raccomandiamo sia alla divulgazione dei Pastori e dei Maestri nella Chiesa di Dio, sia allo studio e alla riflessione delle comunità ecclesiali, e non meno dei singoli fedeli.

In questo nostro colloquio, questa volta, noi richiamiamo l'attenzione sull'aspetto ministeriale di questo sacramento della Penitenza. Oggi una tendenza aberrante vorrebbe prescindere dalla disciplina rituale ed ecclesiale, che questo sacramento necessariamente comporta, con la consueta, ottima, ma incompleta apologia del carattere interiore e personalissimo, che la penitenza, quandrè autentica, esige e produce nell'animo di chi ha compreso la necessità e la natura della penitenza, come conversione del cuore a Dio e come nuovo collegamento della vita umana, franata nel peccato e percio nella morte, con la Vita divina. E da notare che questo aspetto interiore, intimo, profondo, segreto, intenso della riconciliazione drunranima peccatrice con Dio è non solo conservato, ma reclamato ancor oggi, anzi oggi più che mai (data la maturazione della coscienza dell'uomo moderno, e data la semplificazione dell'ascesi pubblica e privata richiesta dalle norme ecclesiali vigenti); ma se questa riconciliazione personale del peccatore con Dio è possibile sempre e, in casi di necessità, sufficiente ad ottenere il perdono risuscitante della grazia, mediante un atto di contrizione perfetta, come insegna il catechismo, dobbiamo ancora ricordare che tale atto deve includere, almeno implicitamente, il proposito di ricorrere, appena possibile, al ministero qualificato del Sacerdote, rivestito della prodigiosa potestà di rimettere i peccati e di riconciliare il fratello infedele con Dio e con la comunità vivente della Chiesa.

Qui viene opportuno notare che il peccato, il quale, se grave, spezza il vincolo vitale del peccatore con Dio, produce un altro effetto negativo, a cui la Chiesa ha sempre dato, specialmente e pubblicamente nei primi secoli grande importanza, la rottura del vincolo sociale e spirituale con la comunità della Chiesa. Il peccato non è solo offesa di Dio e rovina per chi lo commette; il peccato ferisce altresi la comunione ecclesiale (Cfr. Ordo Paenitentiae, 5), tanto che a certi gravi peccati determinati è inflitta dal Codice di Diritto Canonico la scomunica, cioè l'esclusione, ipso facto (l Latae sententiae" dicono i canonisti) del figlio infedele dalla partecipazione ai benefici della carità ecclesiale. Il peccato nuoce anche alla Chiesa; e questo danno alla comunità ecclesiale si ritorce sul reo di questa offesa: succede, si potrebbe dire, che il peccatore interrompe da sé il flusso vitale che lo teneva unito alla pianta vitale della Chiesa, anche se questa non interviene con un atto esplicito di rigetto, di scomunica canonicamente pronunciata. Ricordiamo questa triste possibilità per confermare la necessità del ministero sacerdotale, umano si, nelle sue forme e nei suoi limiti, ma sovrumano nella sua potestà di realizzare la parola divina, di cui il Sacerdote autorizzato è ministro: "A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, ed a chi li riterrete, saranno ritenuti" (
Jn 20,23). Vangelo sublime!

Vangelo chiarissimo, consolantissimo. Vangelo obbligante. Vangelo trasfuso e operante nella disciplina della santa Chiesa di Dio. Vangelo, che ci suggerisce una duplice raccomandazione. Ai Sacerdoti la prima (che meriterebbe assai lungo e assai interessante discorso): Fratelli Sacerdoti, abituatevi seriamente, specializzatevi severamente in questo ministero di salvezza; delicatissimo e oneroso, ma superlativo, veicolo immediato di grazia, vera terapia delle anime, fonte di luce e di sapienza, esercizio inesauribile di bontà, scuola per il ministro stesso di esperienza e di umiltà. Non lo trascurate, non lo abbracciate; e non mai, non mai lo profanate! Fatene l'esercizio paziente e sapiente della vostra carità sacerdotale!

Ai fedeli tutti la seconda raccomandazione: abbiate fiducia nella Confessione sacramentale, momento tipico, difficile dapprima, consolantissimo poi, dell'esperienza della misericordia divina. Come scegliete cautamente un bravo medico per la salute fisica, o studiosamente lo psicanalista saggio per le cure della mente, sappiate scegliere, se potete, il medico dell'anima, discreto, ma saggio, buono, vero dispensatore di conforto, di consiglio, di ammonimento, di grazia; la grazia della risurrezione, la grazia pasquale!

Con la nostra Apostolica Benedizione.





Mercoledì, 26 marzo 1975

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La celebrazione liturgica della Settimana Santa esige da noi fedeli (ma potremmo dire: da ogni persona intelligente), una riflessione introduttiva sul significato oggettivo dell'avvenimento, che tale celebrazione vuole non solo rievocare e rappresentare, ma in un certo senso rivivere.

E questo il primo aspetto dell'atto liturgico, che srimpone alla nostra attenzione, aspetto sommamente interessante, che la mentalità religiosa, educata al senso trascendente e estratemporale dei rapporti con Dio, trova ovvio e attraente: è proprio della religione conferire ai fatti religiosi, caratterizzati da una divina presenza, anzi da un divino disegno, una virtualità permanente. "Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo r, dice Pascal (Cfr. PASCAL, Le mystère de Jésus). Il mistero pasquale continua misticamente nel tempo; esso si compie oggi.

Percio è a noi concesso non solo di assistere alle cerimonie celebrative della Liturgia, ma altresi ci è consentito, anzi raccomandato di prendervi parte. La partecipazione alla Liturgia, sempre insegnata dalla Chiesa, è diventata un programma favorito dal recente Concilio. Noi possiamo, si, assistere come spettatori al rito liturgico; ma se siamo veramente compresi del suo significato e delle sue finalità, noi dobbiamo in certo modo esserne attori, o almeno dobbiamo metterci in sintonia con l'azione celebrativa da trasferire la nostra psicologia religiosa al momento e alla scena, che vi diede origine. Dovremo cosi considerarci commensali dell'ultima Cena, presenti alla Via Crucis, folgorati dalle misteriose apparizioni di Gesù risorto. Il linguaggio liturgico vuol essere un diaframma trasparente, che consente alla nostra fisica ed attuale umanità di associarci agli avvenimenti e ai sentimenti ai quali esso si riferisce. Noi oggi siamo tosi presi da una specie di incantesimo, al quale l'incessante invadenza dello spettacolo moderno, sia teatrale che cinematografico, ci abitua con soverchiante interesse; ma con questa essenziale differenza, rispetto alla rappresentazione liturgica: che lo spettacolo profano, ben lo sappiamo, ci diverte, ci assorbe forse, ma non ci inganna circa la sua sostanziale estraneità, e, per lo più, circa la sua gratuita irrealtà; tocca i sensi, invade la fantasia, commuove forse lo spirito; ma siamo consapevoli che esso non ci riguarda in realtà; lo spettatore vi è passivo e libero sempre di sottrarsi al fascino di quel "divertimento r, nel senso etimologico di diversione, di distrazione dalla realtà concreta da noi vissuta (Cfr. ancora PASCAL, 11; cfr. BOSSUET, Sur la Comédie, CEuvres XII, 237). Invece nella rappresentazione liturgica non è soltanto rievocata la memoria dei fatti e delle parole di Cristo, ma è resa operante la sua azione salvatrice (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae,
III 56,1 ad 3; VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, p. 98 ss.). E parimente ben diversa la memoria, anche degnissima, presentata circa una grande personalità (p. es. di Socrate), da quella umana divina di Cristo, in quanto Egli è principio sempre operante della nostra salvezza; tale memoria rivive in effetti suoi propri, sia esemplari, sia reali (Cfr. Mediator Dei, 161), che conferiscono alla celebrazione liturgica un carattere suo proprio, una dignità incomparabile; è una rappresentazione "sui generis r, che si inserisce nella attualità, nella vita vissuta.

Cosi che il senso della distanza e dell'estraneità non esiste nel fedele, che partecipa alla Liturgia. E allora, celebrando la Pasqua, il fedele è invaso, sopraffatto anzi, dalla drammaticità dell'l ora" vissuta da Cristo, la "sua ora", come Egli la chiamo (Cfr. Jn 2,4 Jn 12,23 Jn 17,1; etc.).

Ed allora la drammaticità, veramente superlativa ed unica, della rievocazione liturgica, esplode nella sua incomparabile violenza. Che cosa è un dramma, si chiede un Autore moderno espertissimo in materia (il compianto e sagace Silvio DrAmico)? "Dramma si potrebbe definire: la rappresentazione scenica drun conflitto" (Storia del Teatro drammatico, 1, 23); e se il conflitto segna l'urto mortale di forze trascendenti e immanenti non è forse tragedia? E la tragedia non registra forse graduazioni che ne classificano la violenza, la grandezza, la fatalità, il mistero? "Non puo essere personaggio tragico, commenta un critico acuto e indiscusso, pure lui compianto (Renato Simoni), quello che non partecipa pienamente . . . del dolore umano. Per questo sono si tragici il grido di Gesù: Padre, se è possibile, allontana da me questo calice amaro!, e quel r consummatum est r che con la più eroica angoscia, riassume la più grande delle catastrofi" (Storia del Teatro drammatico, 11-12). Che cosa diremo noi allora quando sappiamo (oh! più nelle parole, più nei testi teologici, che nella incommensurabile realtà spirituale, ontologica, cosmica) che la tragedia, di cui Cristo è protagonista, si chiama redenzione, il mistero che la dottrina cattolica qualifica fra tutti il più difficile, dove il duello della morte e della vita si combatte in modo sbalorditivo (Cfr. seq. pasch.: mors et vita duello conflixere mirando), dove la profondità abissale del male, il peccato nella sua totalità negatrice e mortifera, si misura con la profondità eccelsa dell'Amore, nella sua onnipotenza vivificante e risuscitante?

Veramente vi è di che rimanere esterrefatti e quasi paralizzati, se nello svolgimento di questa ineffabile vicenda noi non sapessimo che Gesù è morto e risuscitato con noi, per noi, in noi! (Cfr. L. BOUYER, Le mystère pascale, 11.12; G. BEVILACQUA , l'uomo che conosce il soffrire; S. AUGUSTINI Ad Galatas, 28; etc).

Conclusione: colpevoli responsabili, spettatori, partecipi, salvati dal mistero pasquale, non sia indarno per noi celebrato in questranno di grazia! con la nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 2 aprile 1975

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La Pasqua è tale festa che deve essere non solo celebrata, ma ripensata, e poi vissuta. Essa esige questo prolungamento spirituale per la preparazione, che l'ha preceduta e che ha inserito negli animi dei fedeli, dei neofiti specialmente, una grande ricchezza d'insegnamenti, i quali non avevano un carattere transeunte, ma volevano iniziare i cristiani, i neo-cristiani soprattutto, a un modo nuovo e caratteristico di pensare e di vivere; questa pedagogia non tramonta, ma prosegue con la celebrazione del grande giorno pasquale. Inoltre il mistero pasquale introduce negli animi tali motivi di pensiero, tali verità da credere e da applicare alla vita vissuta che reclamano una continuità spirituale e morale, la quale dà al fedele la sua più saliente qualifica di cristiano.

Quali sono gli aspetti di questo ripensamento? Sono parecchi; e primo dovrebbe essere il silenzio interiore. Tante sono le voci, che hanno scosso e commosso i nostri spiriti, che sarà cosa saggia riascoltarne gli echi interiori, meditarne il significato, rigoderne le sante emozioni. Non si tratta ora di quel silenzio che spegne le voci ascoltate e cade nell'inerzia e nel sonno; ma piuttosto quel silenzio in cui lo spirito, sottratto agli stimoli dei suoni esteriori, ascolta se stesso, rievoca le voci e le impressioni entrate nella sua coscienza, le medita, le rumina, le assorbe, le consegna alla memoria e alla volontà; e cio per diffonderci a considerare quel silenzio mistico, chrè già colloquio con Dio e già muta risposta al colloquio con l'ineffabile linguaggio dello Spirito Santo, quando Egli stesso, lo Spirito, interprete della parola del Cristo, divenuto maestro del cuore, esprime a noi, e per noi a Dio un modo di pregare inesprimibile (Cfr.
Rm 8,26-27).

Ma forse non sarà a tutti facile rientrare subito dopo la Pasqua in questa cella interiore di grande silenzio, nella quale chi è allenato all'arte della preghiera puo intercettare gli accenti misteriosi del mistero pasquale. Più facile, più comune, e perfettamente legittimo è invece un altro modo di ripensare tale mistero pasquale, specialmente se la sua celebrazione è stata preparata e partecipata; ed è l'esperienza d'una grande onda di esultanza; ed è esperienza non solo passiva, ma provocata, come possibile, dall'anima stessa, consapevole delle dimensioni (qui il termine sembra appropriato), dell'amore di Cristo: "la larghezza, la lunghezza, l'altezza, la profondità", cosi le denota San Paolo (Ep 3,18-19): come non cantare? come non proclamare "magnalia Dei" (Cfr. Ac 2,11) le cose grandi di Dio, come la Madonna col suo Magnificat? come non effondere la pienezza di sentimenti accumulati durante il laborioso tirocinio quaresimale e il drammatico rito del triduo pasquale?

Ma a questo punto, cioè a quello del ripensamento immediato e globale della Pasqua, trionfo della Vita nuova, già perfetto in Cristo, iniziato e promesso in proporzionata pienezza un giorno anche per noi, come trovare espressioni adeguate? La Chiesa, che ben sa a quale vertice d'ineffabilità puo arrivare il sentimento religioso, ha trovato una soluzione, quella di condensare il giubilo, l'emozione, l'amore in una sola parola, in una sola esclamazione: alleluia! Questo è il grido pasquale, ed è un grido biblico, antichissimo; lo troviamo già nell'Antico Testamento (Cfr. Ps 135,1 ss.), ed è largamente passato nelle liturgie del Nuovo Testamento. Significa: lodate il Signore!, e poi è servito specialmente per dare alla gioia spirituale la sua nota spontanea ed esplosiva, che tutto dice e più vorrebbe dire; il canto sacro vi ha trovato il testo per le sue incantate e incantevoli divagazioni melodiche, come la voce per le sue potenti acclamazioni collettive; ma sempre per esprimere un gaudio prorompente dal cuore, riboccante di fede e di amore (Cfr. Ap 19,1-7).

Alleluia! fermiamoci a questo grido pasquale! Per farlo nostro, con la liturgia della Chiesa. E poi per mettere nel codice della nostra mentalità cattolica questo canone fondamentale: la nostra fede, la nostra vita religiosa, è fondamentalmente ottimista. Anzi è per la beatitudine. Drammatica, dolorosa, terribile perfino in certi suoi accenti ed in certi suoi gravissimi dogmi, l'adesione a Cristo e alla sua Chiesa è orientata verso la gioia, verso la felicità. Il cristiano, il fedele, il santo non puo essere che fede. Sempre, anche nelle tribolazioni (Cfr. 2Co 7,4). "E nessuno, dice Cristo, vi potrà togliere il vostro gaudio" cristiano (Jn 16,22). Alleluia dunque! con la nostra Benedizione Apostolica.





Lunedi, 7 aprile 1975: UDIENZA SPECIALE

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Si rinnova oggi per noi la gioia e la consolazione di ricevere, nelle sue rappresentanti del Capitolo Generale ormai concluso, l'intera famiglia delle Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa: famiglia che sappiamo estesa nelle varie parti del mondo nel gioioso esercizio del suo apostolato; famiglia che è e rimane cara al nostro cuore, anche per i titoli personali di ricordo e di collaborazione che datano fin dal nostro ministero pastorale a Milano; famiglia che riteniamo percio qui tutta presente in spirito, e alla quale mandiamo il nostro saluto, il nostro incoraggiamento, il nostro augurio.

In questo periodo, che si è concluso, voi avete riflettuto a fondo sul carisma proprio dell'Istituto, e vi siete chieste come vi rispondete nei gravi e crescenti problemi della vita religiosa di oggi. Avete certamente delle difficoltà, che voi non volete nascondervi insieme con i confortanti e numerosi elementi positivi: non avete trascurato nulla nel delineare il quadro completo della sempre numerosa e diffusa Congregazione, nelle sue varie attività, nelle sue esigenze di formazione e di spiritualità, nel suo programma di servizio della Chiesa e delle anime. E pertanto davvero si dischiude davanti ai nostri occhi stamani, tutto un magnifico spettacolo di anime che unicamente prese dall'amore di Dio, si prodigano nei vari Continenti nelle attività educative della gioventù, in opere sociali, nella collaborazione pastorale, negli ospedali e nella cura dei malati, portando dappertutto il segno sorridente della bontà operosa, che si dona senza chiedere contraccambio : una presenza che riverbera quella, dolcissima e silenziosa, della Vergine Maria, di Maria Bambina, particolare modello di vita consacrata a Dio, umile, povera, gentile, raccolta, generosa. Nel conformarvi a Lei, dilette figlie in Cristo, non vi manchi mai la consapevolezza che in questa imitazione è il segreto della vostra disponibilità totale alle esigenze della Chiesa di oggi, ed è anche la responsabilità, per ciascuna di voi e delle vostre Consorelle, di attualizzare continuamente nel mondo di oggi, di far sentire presente nelle sue tensioni, il cuore materno e sollecito di Colei che è la Madre della Chiesa.

Avremmo tante cose da dirvi, se il tempo non ci fosse tanto scarso: come l'attenzione da dedicare in primo luogo alla cura delle vocazioni, problema certo acuto, ma che occorre affrontare su un piano di fede totale: come la qualificazione professionale delle singole Suore, per rispondere pienamente alle esigenze sia della vita ecclesiale che della legislazione civile, in atto nei vari Paesi ove svolgete la vostra attività; cosi ancora l'orientamento assolutamente apostolico, col quale animare tutte le singole opere dell'Istituto, affinché le Suore trovino impulso alla loro costante dedizione pur nella necessaria diversità delle attribuzioni; e poi lo slancio missionario, che ha dato nuova vitalità alle Suore di Carità; né vogliamo dimenticare la bellissima e opportuna iniziativa della "Casa di preghiera r, nella quale, come in una spirituale Betania, le Suore possono trovare periodi privilegiati di raccoglimento da cui ripartire rinfrancate, come da unroasi corroborante, verso l'assillo quotidiano della consueta attività.

Ci basti l'aver semplicemente richiamato su tali punti la vostra attenzione: tutto questo, mentre ci dice che l'intera Società ha orecchi per ascoltare "cio che lo Spirito dice alle Chiese" (
Ap 2,7 ss.), ed è percio aperta a raccogliere i segni ldei tempi, ci offre pure il gradito motivo di far nostro per tutte voi l'augurio del Concilio Vaticano II: che le anime consacrate a Dio nelle singole famiglie religiose "possano adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione religiosa, e progredire nella gioia spirituale sulla via della carità" (Lumen Gentium LG 43).

La carità! E questo il vostro carisma: sappiate attingerla alla perenne fonte della vita trinitaria, per viverla interiormente nell'intimità della grazia e della comunione con Dio mediante la Chiesa, e diffonderla al di fuori come in mille e mille rivoli verso i fratelli, che hanno bisogno di luce alla mente, di conforto alla salute, di solidarietà alla loro sofferenza, nelle sue varie forme. Ecco, dilette figlie in Cristo, il nostro augurio per il vostro programma quotidiano! Noi preghiamo per voi la Madonna Santissima, Maria Bambina, affinché interceda per voi le grazie necessarie al compimento fedele di codesta vocazione, mentre di cuore tutte vi benediciamo.





Mercoledì, 9 aprile 1975

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Noi dobbiamo vivere, Fratelli e Figli carissimi, questo periodo successivo alla Pasqua, la festività del sommo mistero circa Gesù Cristo, nostro Signore (Cfr. R. GUARDINI, Il Signore, VI, 2) e circa la nostra salvezza (Cfr.
1Co 15,20), nel ripensamento e nell'esplorazione di questa straordinaria novità della risurrezione, che srinnesta, per un verso, nella storia evangelica e nell'esperienza della vita naturale (Cfr. Jn 20,27), e per un altro verso, la supera e la trascende, obbligandoci e invitandoci a gustare i primi saggi, a noi accessibili, della vita che dobbiamo chiamare soprannaturale. Sebbene scarsa questa super-esperienza della esistenza cristiana nel regno della risurrezione, lo riconosce lo stesso Vangelo (Cfr. Ibid. Jn 21,25), è tale da attrarre e incantare la nostra curiosità spirituale e da alimentare, volendo, unrinesauribile meditazione, donde poi unrinesauribile aspirazione, sia ascetica, che mistica (Cfr. S. AUGUSTINI De civ. Dei, 19, 27). Noi ci contentiamo delle primissime impressioni scattate dal Cristo risorto per accendere la nostra fede e la nostra meraviglia.

Fermiamo ora la nostra attenzione sull'improvviso saluto, tre volte ripetuto nel medesimo contesto evangelico, di Gesù risorto, apparso ai suoi discepoli, raccolti e chiusi nel Cenacolo per paura dei Giudei; il saluto che doveva essere allora consueto, ma che nelle circostanze in cui è pronunciato acquista una pienezza stupefacente; lo ricordate, è questo: "Pace a voi r! Un saluto che era risuonato nel canto angelico del Natale (Lc 2,14): "pace in terra r; un saluto biblico, già preannunciato come promessa effettiva del regno messianico (Jn 14,27), ma ora comunicato come una realtà che è inaugurata a quel primo nucleo di Chiesa nascente: la pace, la pace di Cristo vittorioso della morte e delle sue cause vicine e lontane dei suoi effetti tremendi ed ignoti.

Gesù risorto annuncia, anzi infonde la pace agli animi smarriti dei suoi discepoli. Noi ora non parleremo della pace nei suoi molteplici significati, ma solo invitiamo la vostra attenzione a pensare alla pace del Signore nel suo primo significato, quello personale, quello interiore, quello morale e psicologico, che si confonde con la felicità, quello che S. Paolo iscrive nella lista dei frutti dello Spirito, dopo la carità e il gaudio, quasi confuso con essi (Ga 5,22). Non è estranea questa felice fusione a qualche nostra comune esperienza spirituale, quasi la migliore risposta alla nostra interrogazione sullo stato della nostra coscienza, quando questa puo dire: la mia coscienza è in pace.

Che cosa vrè di meglio per un uomo cosciente ed onesto? La pace della coscienza non è il migliore conforto che noi possiamo trovare in noi stessi? E non supera tale conforto ogni altra consolazione, ogni altro orpello tranquillizzante, che ci puo venire dal di fuori? Chi vuol vivere con la testimonianza interiore druna propria verità, druna propria giustizia non deve forse cercarla in fondo alla propria coscienza, al proprio cuore ? E non è la prima infelicità dell'uomo quella dell'autoaccusa della propria coscienza? E non è una degradazione dell'uomo stesso il tentativo, ahimé!, spesso abituale e orchestrato da manovre bugiarde, quella di soffocare il disagio senza pace della propria coscienza per dare a se stesso una rispettabile dignità esteriore, o per cauterizzare la propria sensibilità morale con spregiudicate audacie permissive?

La pace della coscienza è la prima autentica felicità. Essa aiuta ad essere forti nelle avversità; essa conserva la nobiltà e la libertà della persona umana nelle condizioni peggiori, in cui essa si puo trovare; la pace della coscienza per di più rimane la fune di salvataggio, cioè la speranza di ricupero della propria riabilitazione, della propria stima e della propria rinascita morale, quando la disperazione dovrebbe avere il sopravvento nel giudizio di sé. Ma è possibile avere, è possibile ricuperare una vera, non illusoria, pace della coscienza con le sole proprie nostre risorse morali? Chi salderà, nei casi migliori, i debiti, cioè i rimorsi del passato? Chi garantirà una certa sicurezza per l'avvenire?

E bello notare, proprio nel quadro evangelico che stiamo meditando, quello dell'incomparabile dono della pace interiore, il primo dono fatto da Cristo risorto ai suoi, è bello notare diciamo, come Gesù abbia immediatamente istituito il talismano, cioè il sacramento, che puo dare la pace, la pace alla coscienza; il sacramento del perdono, un perdono risuscitante, quello della penitenza sacramentale, che ha potestà di cancellare i nostri debiti sul libro di Dio (Jn 20,23).

e quindi di ridare innocenza e vita nuova alle anime, alla loro vera, essenziale condizione, più reale e più bisognosa di terapia miracolosa che non sia la nostra stessa coscienza, specchio non sempre perfetto circa il nostro essere dinanzi all'occhio penetrante e infallibile di Dio.

Pace a voi! Quale saluto vivificante! Quale prima definizione di chi ha la fortuna, - e tutti la possiamo avere! - di partecipare vitalmente, sebbene ancora in misura incipiente, alla vita di Cristo risorto! Non è sempre calmo, lieto, buono, esemplare colui che davvero ha la pace di Cristo nel cuore? Pace dunque a voi! Saluto questo, chrè più che un augurio, è un invito, è un principio, che la liturgia e la conversazione cristiana hanno fatto proprio, e che noi oggi, con la nostra Benedizione Apostolica, a voi rinnoviamo!





Mercoledì, 16 aprile 1975

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Ancora la Pasqua, Figli carissimi, ancora la Pasqua testè celebrata deve alimentare i nostri pensieri, deve essere oggetto della nostra attività spirituale. E fra i vari motivi pasquali uno deve interessarci personalmente e particolarmente; e questo motivo è la novità, il rinnovamento chrè uno dei temi dai quali la spiritualità dell'Anno Santo deve trarre la sua ispirazione caratteristica e determinante.

Questione semplice, ma questione fondamentale: la nostra vita, prima che il mistero pasquale ci sia comunicato, rimane la stessa dopo che tale mistero pasquale, non solo ci è stato annunciato, ma ci è stato comunicato e partecipato? Se il battesimo fa dell'uomo un cristiano, come sappiamo, quale fatto, quale elemento, è stato introdotto nella sua vita? Un semplice fenomeno esteriore, quale sarebbe l'iscrizione anagrafica del battezzato nel registro degli iscritti a quella società, a quella istituzione sociale, che si chiama la Chiesa?

Ovvero qualche novità reale, esistenziale, soprannaturale è penetrata nella vita profonda, nell'essenza intima, nel destino decisivo del battezzato stesso? La domanda è assai grave, e puo sollevare qualche dubbio dal fatto che, li per li, nessuna nota esteriore, sensibile, di per sé operante distingue l'esistenza naturale dell'uomo da quella soprannaturale del battezzato. Noi concentriamo sul battesimo questa nostra indagine, perché esso è il primo dei sacramenti, è la porta dringresso nella religione cristiana, è l'inserzione in quel meraviglioso disegno della salvezza, che ci rende, con una parentela nuova ed ineffabile, figli adottivi di Dio, in qualche misura partecipi della sua stessa natura (Cfr.
2P 1,4); ci rende fratelli di Cristo e membra di quella umanità, destinata a far parte del suo Corpo mistico e universale, che si chiama la Chiesa (Cfr. Col 1,24), e che è animato da un nuovo flusso vitale, la grazia, cioè l'azione santificante e vivificante dello Spirito Santo, lo Spirito di Cristo, mandato dal Padre (Cfr. Ga 4,6). Questa straordinaria elevazione dell'essere umano al grado superiore di vita divinizzata non si ferma al battesimo, come sappiamo, ma con gli altri sacramenti (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III 73,3, ad 3) e con i carismi e le virtù cristiane si accresce, si evolve, srintreccia con l'esperienza della vita naturale, la quale subisce una specie di metamorfosi, di simbiosi fra l'esistenza comune, profana e l'esistenza straordinaria della grazia, di rinnovamento cioè: di quel rinnovamento che ora ci interessa considerare.

Diciamo in breve: il mistero pasquale è nell'intenzione salvatrice di Dio non ristretta al dramma personale di Cristo; ma comunicativo; la redenzione operata da Cristo si rivolge e si estende meravigliosamente all'umanità, che lraccetta e la fa propria. Per quali vie? Per due vie principali: la via della grazia, che suppone la fede, e la via del costume cristiano.

Questa seconda via ora impegna specialmente la nostra spiritualità prima e dopo la celebrazione liturgica. Il rinnovamento morale è condizione dispositiva, che prepara l'incontro con i misteri della croce e della risurrezione di Cristo Signore; ed è conseguenza operativa per chi a tali misteri è stato associato. Ricordiamo le parole di S. Paolo, le quali sintetizzano questo programma rinnovatore: egli scrive: "Noi siamo stati sepolti con Cristo Gesù per mezzo del battesimo nella morte, affinché come Cristo fu risuscitato da morte per la gloria del padre, cosi anche noi camminiamo in novità di vita . . ." (Rm 6,4). Il mistero trascendente della redenzione si fa per noi, ancora pellegrini nel tempo, traccia della vita nuova, della vita cristiana. Citiamo ancora S. Paolo: "vi esorto dunque, o fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come ostia vivente santa, gradevole a Dio, quale vostro culto ragionevole; e non conformatevi al secolo presente, ma trasformatevi col rinnovamento del vostro spirito" (Rm 12,2).

Quante cose possiamo imparare da questi brevissimi accenni dottrinali! Imparare, diciamo, la trascendenza dell'insegnamento cristiano: chi rifiuta per incredulità, o per radicale laicismo questa sapienza superiore spegne la luce di Cristo sulla nostra vita, la quale sembra liberata da dogmi difficili, estranei e vincolanti, mentre è privata della fede e della scienza vitale, chressa dall'alto liberamente e amorosamente proietta sui nostri passi, poveri passi disorientati e presto mortificati dall'oscurità, o dall'insufficiente lume del pensiero profano. Imparare dobbiamo il rapporto salutare fra la religione e la vita, e come questa non abbia che da guadagnare da tale rapporto: significato, nobiltà, energia, speranza, gioia dressere cosi interpretata, liberata, salvata. Imparare possiamo come la partecipazione alle celebrazioni liturgiche sia sorgente pura e inesauribile di quel rinnovamento mentale e morale, che andiamo cercando.

Questo vi raccomandiamo, con la nostra Apostolica Benedizione (Cfr. la sempre bella e lirica esaltazione della dottrina della Chiesa in S. AUGUSTINI De moribus Eccl. cath.; PL 32, 1336-1337).





Mercoledì, 23 aprile 1975

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Non possiamo, Fratelli e Figli carissimi, non dobbiamo staccare il nostro pensiero, in questo periodo successivo alla Pasqua, dal fatto, dal mistero della risurrezione del Signore. Questo avvenimento è capitale per la nostra fede. Lo afferma San Paolo in forma categorica: "Se Cristo non è risorto, è vana la nostra predicazione, è vana la vostra fede" (
1Co 15,14). La risurrezione di Gesù è la base, è il cardine della nostra religione. E importantissimo che la nostra convinzione a tale riguardo sia chiara, ferma e sicura. Noi istintivamente, come già l'ambiente giudaico nel quale quel prodigio si verifico, non saremmo predisposti ad ammetterlo come storico, come vero, come reale. Dubitarono perfino gli Apostoli al primo annuncio della risurrezione del Signore; essi, che ne avevano avuto i! preannuncio ripetuto dalle parole del Maestro (Mt 16,21 Mt 17,23 Mt 20,19); essi pure volevano, come Tommaso, la prova dei sensi, la quale fu pure più volte concessa in modo imprevisto e privilegiato (Lc 24,7 Lc 24,24 ss.; etc.; Jn 21,7 Jn 21,12 Ac 1,3 Ac 10,41), ripetuto, ed esteso anche a molti (1Co 15,6); a S. Paolo personalmente anche dopo l'Ascensione (Ibid. 1Co 15,8). Ma Gesù voleva instaurare con i suoi seguaci un rapporto diverso da quello ordinario della nostra vita temporale, il rapporto della fede, generata nel credente dapprima per via di adesione ai primi testimoni oculari della risurrezione, e qualificati fra questi gli Apostoli (Cfr. Ac 1,8 Ac 1,22 Ac 2,32 Ac 3,15; etc.); ed anche poi per via, misteriosa questa, della grazia, cioè dell'azione dello Spirito: la fede è un dono di Dio.

Merita uno studio speciale questo nostro rapporto col Signore, il rapporto della fede, intesa nel suo significato religioso, autentico e soprannaturale; metteremo percio fra i nostri propositi, suggeriti dalla celebrazione pasquale, quello di precisare nella nostra mente la dottrina della fede, quello di esigerla per noi genuina e sicura, quello di chiarire il concetto e la funzione della fede nel piano della nostra salvezza, specialmente al confronto delle controversie protestanti, moderniste e attuali, che pur troppo sono legione. Con una conclusione, ormai ricorrente, circa la possibile, anzi facile e felice, concomitanza fra il sapere naturale, sensibile, psicologico, scientifico che sia, e la conoscenza mediante la fede.

Ritorna fortunatamente drattualità nelle varie ed erudite commemorazioni che se ne fanno un por dappertutto, un grande maestro del secolo scorso, convertito, mediante lunghe e finissime analisi del pensiero speculativo, morale e religioso, dall'Anglicanesimo al Cattolicesimo, John Henry Newman (1801-1890), il quale scrisse un libro, forse di non facile lettura, ma celebre, non solo per il suo tempo, ma per tanti suoi meriti ed aspetti anche per il nostro, intitolato Grammatica dell'assentimento (Grammar of Assent, 1870). Comrè noto, Newman fu Prete dell'Oratorio Inglese, e poi Cardinale; il suo nome ci richiama quello drun altro Oratoriano, italiano questo, morto or sono dieci anni, lui pure Cardinale, Padre Giulio Bevilacqua, autore drun libro, che nella bibliografia religiosa non dovrebbe essere dimenticato: La luce nelle tenebre, libro sofferto e profetico, non certo inutile per la discussione moderna sulla nostra fede.

Ritorniamo al nostro tema, quello della risurrezione di Cristo; e rileviamo un fatto che torna a proposito, il fatto, successivo alla risurrezione, della conoscenza di Lui, la quale si è aperta sulla verità di Cristo, resa cosciente, per quanto è dato alle nostre menti edotte dalla rivelazione, della sublime ed arcana teologia che lo riguarda: le grandi lettere dottrinali di S. Paolo (anteriori nel tempo, non al Kerigma cioè alla prima predicazione circa l'annuncio della buona novella, ma alla redazione dei Vangeli), ci documentano il primo ripensamento, ispirato certo dallo Spirito Santo, su Gesti Cristo; ripensamento non mitico, non enfatico, ma fedele alla verità vissuta e penetrante finalmente, dopo la risurrezione di Lui, nella sua realtà umano-divina, di cui la vita terrena di Gesù aveva, si, lasciato trasparire delle misteriose e ineffabili visioni, come nella Parola di Lui, ovvero nella confessione di Pietro, o nella Trasfigurazione, ecc.; ma senza che gli stessi Apostoli capissero compiutamente il divino segreto della loro incomparabile esperienza nella privilegiata conversazione con Cristo. Capiscono dopo (Cfr. i discorsi di Pietro negli "Atti degli Apostoli r; i discepoli sulla via di Emmaus; etc).

E questo deve confortare assai la nostra condizione di discepoli postumi del periodo evangelico: l'intelligenza della fede puo supplire, anzi superare la conoscenza diretta e sensibile della presenza storica e sperimentabile del Signore. I Santi ce lo insegnano. Siamo cosi, col pensiero riflesso, con la preghiera meditante, con l'amore vigilante anche noi presenti al Cristo risorto, che lasciando la scena terrestre ci ha promesso: "Io sono con voi" (Mt 28,28)

Con la nostra Apostolica Benedizione.






Paolo VI Catechesi 12375