Paolo VI Catechesi 11473

Mercoledì, 11 aprile 1973

11473

Oggi vogliamo ricordare l’anniversario di un fatto che ha segnato profondamente la storia della Chiesa, e certo anche quella della civiltà. Dieci anni or sono, in questo stesso giorno, 11 aprile, il nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII dirigeva a tutti gli uomini di buona volontà la sua Lettera Enciclica «Pacem in terris», la quale ha suscitato nel mondo una eco che ancora non si è spenta, ed ha spinto individui e collettività di diverso credo religioso, di diversa razza e cultura, di diverso ambiente sociale e politico, a profonde riflessioni.

Nessuno si lasci invadere lo spirito da un senso di noia, dicendo dentro di sé: non è discorso nuovo; si è già fin troppo parlato di pace, così che ormai ‘questo tema ci lascia quasi indifferenti; e ciascuno ritorna alla mentalità d’una volta, quella che vorremmo superata, dopo le tristissime esperienze delle guerre recenti, dopo l’avvertenza dei disastrosi presagi di possibili conflitti prossimi o futuri, e che invece una quasi istintiva attrazione ci porta a fissare in opinioni fatali: ciò che preme, più della pace, più dell’ordine, più della giustizia, è la forza, è la lotta, in potenza o in atto che sia, è il proprio interesse, individuale, o sociale, o nazionale, è, tutt’al più, il precario e sovente illusorio equilibrio delle forze, nel quale la propria sia in grado di prevalere su quelle altrui. Questa, si dice, è la storia reale, è la politica machiavellica se volete, ma positiva. Allora, noi chiediamo, una volta ancora, l’egoismo deve presiedere ai destini dei popoli; e la legittima e doverosa tutela del proprio giusto benessere non deve essa pure essere ispirata dall’amore, non moderata dalla giustizia, non inquadrata nella pace?

La pace, questo è il principio della nuova civiltà, ricordiamolo bene; non deve essere la pace una pausa contingente della storia, ma stabile fermento della umana società; non una situazione parziale in un mondo orientato ormai verso l’unità, ma universale; non una condizione pietrificata in uno stato, che lo sviluppo delle cose e degli uomini denuncia intollerabile, ma dinamica e sollecita sempre a tutelare, sopra ogni altro, il primato dell’uomo, considerato nel complesso globale del suo essere, dei suoi diritti, dei suoi doveri, dei superiori destini.

Quell’Enciclica ha vigorosamente richiamato ogni uomo di buona volontà a meditare uno dei doveri più gravi dell’individuo nella società contemporanea: quello di diventare sempre più cosciente della sua tremenda responsabilità e del suo irrinunziabile impegno di fronte a ciascun altro uomo nel collaborare alla costruzione e alla difesa della pace, secondo le linee tracciate dal Nostro Predecessore: «La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può essere instaurata e consolidata ‘solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio . . . ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà» (AAS LV,
Lv 1963, pp. 257, 303).

La «Pacem in terris» ha contribuito a sviluppare una missione essenziale della vita della Chiesa, facendo sentire e facendo diventare la pace qualcosa di veramente incarnato nella sua vita pastorale, e non ‘solamente qualcosa di addizionale e di riservato a pochi.

Un nuovo spirito e una nuova sensibilità si sono manifestati ad ogni livello della Chiesa: nelle comunità cristiane, nelle organizzazioni laiche, particolarmente fra i giovani, negli istituti religiosi, nel clero e nell’episcopato.

E anche fra i nostri fratelli cristiani e fra coloro che professano altre religioni, o non ne professano alcuna, si è affermata in questi ultimi anni una sempre maggiore consapevolezza di quanto la pace sia un prezioso e inalienabile bene per il mondo, e si è manifestato un sempre più vivo desiderio di promuovere studi, movimenti e attività a favore della pace.

Una tale sollecitudine, insieme a una crescente e sincera ricerca di dialogo, hanno anche portato a un consolante sviluppo di intese e di iniziative nel promettente campo dell’ecumenismo.

Non ci sembra ardito pensare che l’Enciclica abbia validamente contribuito allo sviluppo di quella sensibilità e di quel dialogo, così come certamente ha favorito quelle intese e quelle iniziative ecumeniche, che fanno della pace un tema obbligato e centrale della mentalità e quindi della civiltà dell’uomo sociale moderno.

In questo decimo anniversario della «Pacem in terris», il Signor Cardinale Maurice Roy, Arcivescovo di Quebec, nella sua qualità di Presidente della Pontificia Commissione «Iustitia et Pax», ci ha fatto pervenire una lettera, accompagnata da un documento, in cui egli presenta un’analisi, insieme a riflessioni e pensieri, per mettere in rilievo quanto profondamente 1’Enciclica abbia contribuito ad accrescere negli animi l’anelito e la ricerca della pace.

Se da una parte ci rallegriamo nel farci attenti a tanti positivi echi della voce del nostro Predecessore, e nel costatare come l’impegno di pace cresca nelle coscienze di singoli e di collettività, d’altra parte non possiamo non notare che la pace è un bene di cui il mondo ha ancora un estremo bisogno, e che le offese alla pace continuano a moltiplicarsi un poco dappertutto, mediante l’ingiustizia, la violenza e l’oppressione.

Durante gli anni del nostro Pontificato, seguendo questa linea maestra della odierna pedagogia, rivolta a formare un nuovo spirito della convivenza umana, anche noi non ci siamo mai stancati di compiere ogni sforzo per la difesa della pace, per convincere gli uomini della sua radicale necessità, per promuovere maggiore comprensione fra i popoli e per difendere coloro che soffrivano a causa di situazioni pseudo-pacifiche, cioè ingiuste, ovvero corrose e rovinate da conflitti in azione.

Il contenuto sempre valido del messaggio della «Pacem in terris» ci offre in questo decimo anniversario un conforto e un nuovo slancio a operare infaticabilmente per costruire la pace nel mondo. Vorremmo veramente augurarci che esso continui ancora a trovare eco e a suscitare ispirazione, fiducia e impegno in tutti gli uomini di buona volontà, rendendo tutti, singoli e comunità, veramente coscienti che «la pace è possibile», - come s’è detto quest’anno per la «giornata della pace» -, e dunque essa è doverosa!

Per quest’impresa tanto nobile e alta, che richiede la costruttiva partecipazione di tutti, ma per la quale le forze umane sono tanto tenui e fragili, è necessario l’aiuto dell’alto. Oggi la nostra invocazione, ripetendo quella che il nostro Predecessore poneva dieci anni or sono al termine della sua Enciclica, sale «a colui che ha vinto nella sua dolorosa Passione e Morte il peccato (...) e ha riconciliato l’umanità col Padre Celeste nel suo Sangue» (Pacem in terris , AAS 55, 1963, 303) ed ha perciò stabilito la migliore premessa della riconciliazione degli uomini fra loro. Sia dunque Cristo, il Principe della pace (Is 9,6), a portare questo prezioso dono al mondo, Egli che «venne ad evangelizzare la pace a voi, che eravate lontani, e la pace ai vicini» (Ep 2,17).

Così tutti, alla scuola del grande documento, lasciato a noi, alla Chiesa, alla storia, da Papa Giovanni XXIII, procuriamo di educare i nostri animi alla vera pace, pensando, operando, pregando, con la nostra Benedizione Apostolica.

Cospicuo gruppo di studenti ed insegnanti italiani

Figli carissimi,

A voi il nostro affettuoso e cordiale saluto! E insieme a voi salutiamo rispettosamente le autorità scolastiche, gli insegnanti e i familiari che vi hanno accompagnato in questa Udienza.

Il vostro numero così rilevante, e il fatto che provenite da scuole delle diverse parti d’Italia, ci obbliga ad esprimervi tutta la gioia e la soddisfazione che procura al nostro animo questo graditissimo e gioioso incontro. Siete venuti per porgere omaggio al Vicario di Cristo qui presso la tomba del Principe degli Apostoli: il che ci dice i vostri sentimenti di fede, e anche la vostra fierezza di essere giovani credenti e figli della Chiesa cattolica.

Noi facciamo tanto affidamento, figlioli, su di voi. Lasciate allora che vi raccomandiamo di essere non soltanto fieri, ma anche degni della vostra fede. E così sarà, se essa penetrerà profondamente il vostro modo di pensare e di agire. Giacché il cristianesimo non può appagarsi di giovani mediocri, non può essere vissuto in una maniera qualunque; o lo si vive in pienezza o lo si tradisce.

Conosciamo le aspirazioni che si muovono nel vostro cuore, la generosità e lo slancio di cui siete capaci, la vostra sete ardente di ideali che possano dare all’esistenza umana la sua bellezza e la sua dignità. Trepidiamo, è vero, al pensiero delle insidie che si trovano sul vostro cammino, in mezzo a un mondo così pieno di scetticismo, di inquietudine, di fermenti pericolosi, di attrattive verso il piacere disonesto. Ma voi, giovani carissimi, sappiate essere forti, pensosi, maturi: la gioventù di oggi lo è molto più di quella di ieri, e perciò abbiamo viva speranza che dalle vostre generazioni sorga un mondo nuovo più umano, più giusto, consapevole delle vere esigenze della società, aperto alle meravigliose conquiste del progresso, ma non per questo dimentico delle sofferenze e dei bisogni nei quali versa tanta parte dell’umanità.

La scuola che voi frequentate, vi educa a questa grande, necessaria coscienza e alla sua conseguente missione. Per imparare l’amore ai valori della vita, dovete amare la scuola; essa è davvero per voi un preziosissimo aiuto, di cui dovete sapervi avvantaggiare con tutte le forze. Siatene grati ai vostri insegnanti, e soprattutto sappiate infondere al vostro studio un’anima religiosa che lo sostenga, lo elevi e lo santifichi.

Su ciascuno di voi noi invochiamo la grazia del Signore, affinché possiate rispondere alle attese dei vostri benemeriti educatori con tutto l’ardore e la spontaneità dei vostri giovani anni, e perseverare con generosità per il restante corso degli studi, e soprattutto della vostra vita.

Con tale augurio, impartiamo di gran cuore la Benedizione Apostolica a voi tutti qui presenti, alle vostre famiglie, ai vostri insegnanti e alle vostre rispettive scuole.





Mercoledì Santo, 18 aprile 1973

18473

L'imminenza della Pasqua ci invita a riflettere sulla preparazione che la Chiesa vi ha anteposto, con così ampio apparato di esortazioni e di esercizi ascetici. La quaresima è stato un grande sforzo didattico, spirituale e morale per farci giungere ad una, conclusione assai importante: importante in se stessa, la celebrazione commemorativa e, in modo sacramentale, rinnovatrice sia del fatto che del mistero della Redenzione, compiuta da Cristo mediante la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione; ed importante per noi, per la Chiesa, per il mondo, in ordine alla partecipazione da parte nostra, dei fedeli, degli uomini al mistero pasquale. Quaresima e Pasqua non sono semplicemente uno spettacolo, al quale basti assistere passivamente, ovvero con qualche spirituale interesse, ma senza che le nostre coscienze, anzi le nostre anime vi siano coinvolte. Ciascuno di noi, e tutta la comunità ecclesiale è stata erudita, ammonita, commossa, perché? a qual fine pratico e religioso? È saputo da tutti: per partecipare, per convivere, per rinnovare in noi stessi il mistero pasquale; e cioè, come comunemente si dice: «per fare la Pasqua». La partecipazione personale, soprattutto, e comunitaria al mistero attuale della Redenzione è il punto d’arrivo della pedagogia quaresimale; ed anche se questa, pur troppo, fosse mancata, o fosse rimasta inefficace, rimane come logica esigenza della nostra referenza a Cristo, e come prescrizione canonica sempre vivissimamente reclamata dalla Chiesa rimane l’obbligo di «fare la Pasqua».

E anche questo tutti comunemente sappiamo che cosa vuol dire «fare la Pasqua». Praticamente vuol dire accostarsi ai Sacramenti. Ma è questa umile formula che nasconde una quantità di questioni difficili e meravigliose.

Innanzi tutto: che cosa vuol dire «sacramento»? La parola è diventata d’uso piuttosto comune; ma il significato rimane recondito, anche perché non è sempre univoco; e anche quando esprime il concetto catechistico, che nel nostro comune discorso è prevalso di segno sacro santificante (S. TH.
III 60,2), o meglio di segno sensibile, religioso, che ha meravigliosa virtù di significare, di contenere, di conferire la grazia di Dio, noi rimaniamo più stupiti, che istruiti; ed abbiamo bisogno di analizzare più attentamente ciò che affermiamo per scoprire nel sacramento un segno, che ci vuole ricordare la passione di Cristo, dimostrare e comunicare la sua azione salvatrice, cioè la sua grazia, e preannunziare una pienezza di vita, che solo nella gloria della vita futura potremmo conseguire.

Diciamo più in breve: un segno misterioso (in greco appunto il sacramento si chiama «mistero»), che per divina disposizione significa sensibilmente un fatto divino interiormente operante (Cfr. L. CIAPPI, De Sacramentis in communi).

Viene subito in considerazione il sacramento pasquale per eccellenza: il battesimo, con cui si nasce alla nuova esistenza umano-divina, e siamo iniziati alla vita cristiana. Una volta il battesimo si conferiva preferibilmente a Pasqua, la quale rifletteva, e in certa forma, operava nel catecumeno, cioè all’uomo preparato a diventare cristiano, la morte e la risurrezione del Signore (Rm 6,4 Ga 3,2). Noi, per grazia del Signore, già battezzati, venendo la Pasqua, dobbiamo riflettere con grande gioia e commozione su questo nostro avvenimento capitale, mediante il quale siamo stati elevati al grado di figli adottivi del Padre, di fratelli di Cristo inseriti nel suo corpo mistico, la Chiesa, e pervasi dell’animazione nuova dello Spirito Santo. La liturgia notturna del Sabato Santo scioglie uno dei suoi inni più belli, l’Exsultet, per ricordare tale avvenimento, che tutti, singolarmente ed ecclesialmente, ci riguarda; quell’inno profetico facciamolo nostro.

Ma non è solo il battesimo che rende preziosa la celebrazione pasquale. Vi è un altro Sacramento che figura e rinnova la risurrezione delle anime morte; ed è la Penitenza, la confessione; sacramento che ci deve essere estremamente caro. Perché ne abbiamo bisogno. Perché ci umilia e poi ci rende beati. Perché ci fa rientrare in noi stessi (ricordiamo il figliol prodigo della parabola evangelica: «ritornato in se stesso») (Lc 15,17) e rimette la coscienza nella giusta prospettiva con dinamica chiarezza. Perché ci fa usufruire, fino all’esperienza interiore, la misericordia, la bontà, l’amore di Dio. Perché ci restituisce la pace, la speranza del bene, la dignità battesimale. Perché ci restituisce alla comunione con la Chiesa. Perché è, insomma, la nostra Pasqua di risurrezione. Perciò fare la Pasqua, innanzi tutto, vuol dire per noi confessarsi bene per assidersi poi, senza rimorsi sacrileghi, alla mensa del Signore, all’Eucaristia (1Co 11,27-28). Oggi, su questo punto della confessione pasquale dovremmo fare un lungo discorso apologetico: la diffusione delle terapie psicanalitiche ce ne darebbero facile argomento, esse che tutto frugano e scoprono, ma non hanno la virtù ineffabile del perdono; come pure la ritrosia odierna di ricorrere alla confessione sacramentale ci obbligherebbe a ricordarne la severa, sapiente e salutare obbligazione. Ma non in questa sede. La quale adesso solo ci offre occasione per ricordare che la avvincente metamorfosi, ancora del figliol prodigo: surgam et ibo, mi alzerò e andrò (Lc 15,18), altro non è che semplicità e coraggio.

Dopo di che il cammino verso la casa paterna è segnato, ed è breve; e conduce alla mensa paterna, sontuosamente e festosamente imbandita; conduce all’Eucaristia, la cui degna assunzione ci autorizza a dire, a nostro conforto interiore e ad edificazione dei fratelli: sì, «ho fatto la Pasqua».

Qui ci fermiamo per dare a queste parole il significato d’augurio a voi tutti, Figli e Fratelli: buona Pasqua!

Giovani di varie Nazioni

Salutiamo di gran cuore questa splendida accolta di giovani di varie Nazioni, che affollano questa Basilica e l’animano con la loro letizia, col loro entusiasmo.

E anzitutto una parola a voi, studenti di numerose Scuole Medie italiane inferiori e superiori, per esprimervi i sentimenti di speranza e di fiducia che la vostra presenza c’infonde. Noi amiamo tanto i giovani : conosciamo la vostra sete di assoluto, di autenticità, di lealtà: il vostro rifiuto di ogni viltà, di ogni compromesso. E sentiamo il dovere di ripetervi, come abbiam fatto domenica rivolgendoci a tutti i giovani del mondo, idealmente stretti attorno a Cristo Re e Messia nel suo solenne ingresso a Gerusalemme, che soltanto da lui questa sete può essere saziata, solo in Lui questo anticonformismo può essere sottratto alle suggestioni della moda o del gregarismo per rivestire le forme della vera libertà interiore, quella libertà «per cui Cristo ci ha liberati» (Ga 4 Ga 31): dal peccato, dal male, dalla morte. La prossima Pasqua, nel gioioso incontro sacramentale con Cristo Risorto, vi offre la magnifica possibilità di realizzare pienamente voi stessi, di costruire responsabilmente la vostra personalità nello sforzo spirituale di oggi per la riuscita di domani. Vi facciamo l’augurio che questa letizia pasquale vi accompagni sempre, sostenga le fatiche che dovete affrontare per la vostra maturazione intellettuale, e la lotta quotidiana contro le insidie della natura ferita e le lusinghe di certa società corrotta e corruttrice. Franchi, sereni, aperti, puri, pensosi, generosi, sensibili verso i fratelli che soffrono, membri vivi e attivi della Chiesa, apostoli di verità e di giustizia: così vi vuole Cristo Signore, così vi vagheggia la Chiesa, che vede in voi le forti colonne che la sosterranno domani nella sua missione per il mondo. Non deludete queste aspettative, carissimi.

Ve lo auguriamo con tutto il cuore, mentre tutti vi benediciamo, insieme con i vostri genitori e con gli ottimi Presidi ed Insegnanti, che vi accompagnano. La grazia e la pace di Cristo Risorto siano sempre con voi!



Dear students,

We welcome you with joy and affection on this Wednesday of Holy Week. We are indeed happy to have your visit so close to Easter.

Easter is the feast of Christ's Resurrection. And the message of Easter is a message of confidence and trust. Christ has overcome sin and death.

For us this means a challenge. Christ calls us to follow him with a newness of enthusiasm, dedication and love. His victory is meant to be ours. And it Will be so if we open up our hearts to the Risen Jesus.

We wish you all a blessed Easter and give you our Apostolic Blessing.


Mercoledì, 25 aprile 1973

25473
Con quale saluto accoglieremo noi la vostra visita, cari pellegrini, diciamo pure cari turisti, di questi giorni pasquali? il nostro saluto sarà l’Alleluia! Fratelli e Figli e Visitatori, a voi il nostro Alleluia.

L’Alleluia è un’acclamazione tradizionale, antichissima, che viene a noi dall’antico Testamento (Cfr. Tob. 13, 22) e che significa «lode a Dio». Probabilmente questa acclamazione faceva parte anche dei canti della cena rituale degli Ebrei alla Pasqua, e fu perciò pronunciata da Gesù stesso al termine della sua ultima cena (Cfr.
Mt 26,30 Mc 14,26). Essa è passata nelle liturgie cristiane come un’espressione enfatica di gioia, di letizia, di forza, riservata specialmente al tempo pasquale, come quello caratterizzato dal gaudio per la celebrazione della risurrezione del Signore. Sant’Agostino, commentando i Salmi, ce lo ricorda, notando che ciò non è senza un segreto insegnamento, perché se dobbiamo cantare l’Alleluia in certi giorni determinati, in ogni giorno noi dobbiamo averlo nel cuore (Enarr. in Ps 106, PL 37, 1419).

Questo grido di lode a Dio, usato come grido di gioia per noi, ci offre un tema degno di profonda riflessione, la quale ci porta alle sorgenti del nostro pensiero religioso, il quale c’insegna che la gloria di Dio è la nostra gioia. Ricordate la stupenda esclamazione dell’inno della santa Messa festiva, detto appunto il Gloria, la quale così esprime questa meravigliosa dottrina: «noi rendiamo grazie a Te (o Dio), a motivo della tua grande gloria»; gratias agimus Tibi, propter magnam gloriam Tuam. Come mai questo? Come può la grandezza, infinita e misteriosa, di Dio essere fonte della nostra riconoscenza e insieme della nostra letizia? Si, perché Dio è tutto per noi. Dio è la vita, Dio è la potenza, Dio è la verità, Dio è la bontà, Dio è la bellezza; sì, alla fine, Dio è la nostra felicità. Alleluia!

Quale superamento d’ogni altra concezione inferiore della religione, che tanto spesso è presentata sotto l’aspetto della distanza, della oscurità, della paura, della terribilità! e quanto spesso noi siamo allontanati dallo studio e dalla pratica religiosa, perché non abbiamo capito e gustato che Dio è la nostra beatitudine, la nostra felicità! e forse noi pure non abbiamo abbastanza compreso l’originalità della nostra fede che ci offre questa visuale: Dio è grande, perché è buono! Dio merita di essere esaltato nella sua immensa, sconfinata transcendenza, perché essa ci è rivelata nella sua Essenza, che è Amore; Amore in Se stesso, Amore per noi. Dio è la Vita! la nostra Vita, ripetiamo!

La Pasqua ce ne ha svelato il mistero, mediante Cristo morto e risuscitato, non solo per Sé, ma anche per noi creature viventi, sì, ma mortali, suscettibili però d’essere coinvolte nella rivincita della nuova vita da lui, Cristo, inaugurata al mattino di Pasqua.

Dio è la gioia ! Ricordatevi di questo annuncio, come di una felice scoperta! una scoperta da sempre scoprire, da sempre godere. È questo il nostro augurio, che associamo al nostro saluto, al nostro grido pasquale: alleluia! (Cfr. S. AUG. Confess. 10, 22-23: PL 32, 793; cfr. VICT. VITENSIS De persecutione vandalica: PL 58, 197. L’autore ricorda l’episodio del lettore che, cantando l’Alleluia pasquale, cade colpito da una freccia alla gola)

Con la nostra Apostolica Benedizione.

La stampa cattolica australiana e neozelandese

We are happy to extend a special word of wslcome to the large group from Australia and New Zealand, which is accompanied by Bishop Peter Quinn. We hope that your visit to Rome will be a pleasant one and that your hearts will be filled with Christ’s paschal graces. For all of you who are members of the Catholic Press we pray that this pilgrimage will help you to dedicate yourselves with new vigour to your important work.

Pellegrini di San Miniato

Un particolare saluto rivolgiamo ai numerosi pellegrini della diocesi di San Miniato, i quali, in occasione del 350° anniversario della erezione della loro Diocesi, sono venuti a Roma, guidati dal loro zelante Vescovo, Monsignore Paolo Ghizzoni, per manifestare la loro fede indefettibile in Cristo e la loro costante devozione alla Cattedra di Pietro.

La vostra esultanza, carissimi figli, non può non essere da noi condivisa e incoraggiata per le nobili motivazioni di cui è espressione sincera.

Noi auspichiamo che la fausta ricorrenza, da voi ricordata con religioso fervore, non sia soltanto una celebrazione del passato, ma costituisca un invito e uno sprone per il futuro. Vi diremo pertanto: fate onore alla fede cristiana tramandatavi dai padri; portate sempre alta questa luce divina, mediante una inconcussa fedeltà al messaggio evangelico, e trasmettetela alle nuove generazioni, insieme con le forti e generose virtù della vostra gente.

Mentre di cuore vi ringraziamo per la vostra visita, invochiamo su ciascuno di voi, sulle rispettive famiglie e sull’intera vostra Comunità diocesana la pienezza dei doni del Divino Risorto, e tutti paternamente vi benediciamo.

Centro Salesiano «San Domenico Savio»

Il nostro cordiale benvenuto va al gruppo di ragazzi del Centro Salesiano «San Domenico Savio» di Arese, che hanno tanto desiderato questo incontro per poterci manifestare, a nome anche dei loro condiscepoli e dei rispettivi familiari, l’affetto che li unisce al Papa; affetto, com’essi sanno, da lui ricambiato con particolare sollecitudine.

Il clima della Pasqua, nel quale s’inserisce la vostra visita, cari figlioli, ci riporta al tema, mai esplorato abbastanza, della predilezione del Redentore per i fanciulli e per i giovani.

Il Papa, che rappresenta Gesù sulla terra, vuole confermarvi la speciale premura con la quale vi segue.

L’impegno generoso, che avete assunto per la vostra formazione religiosa, culturale e professionale, vi fa rivivere in tutta la sua grandezza la dignità di figli di Dio.

Vi esortiamo, pertanto, a crescere nella fede per avvertire, sempre più stimolante, il senso della misericordiosa paternità di Dio e dell’amore verso il prossimo in ogni circostanza della vostra vita.

Vi sostenga e vi conforti la Nostra Benedizione Apostolica, che di cuore estendiamo all’intero Centro «San Domenico Savio» di Arese e a tutti i vostri familiari.


Mercoledì, 1° maggio 1973

10573

Oggi, Festa del Lavoro, alla quale il nostro venerato Predecessore Papa Pio XII volle attribuire un carattere religioso, quasi a sublimare il suo carattere economico-sociale, quante, quante cose sarebbero da ricordare in questo nostro incontro, che non può dimenticare il tema dominante della festa, il lavoro cioè, e non può rinunciare al tentativo di inquadrarne l’idea nel disegno spirituale e religioso della vita cristiana.

La brevità stessa di questa nostra familiare conversazione impone una sintesi. Concentriamo i nostri pensieri in un solo punto focale: onorare il lavoro.

1. Sì, onoriamo dapprima il lavoro, sotto l’aspetto soggettivo, come un’esigenza naturale dell’essere umano. L’uomo è un essere virtuale, implicito, bisognoso di sviluppo e di perfezionamento. Questo sviluppo e questo perfezionamento non avviene in forma dovuta ed in misura soddisfacente da sé, quasi per crescita vegetativa; avviene mediante l’attività dell’uomo, un’attività razionale, ordinata, che mette in esercizio le forze e le facoltà umane; questo esercizio è il lavoro. È l’operosità, è la scuola, è la ginnastica, è la fatica. L’uomo non raggiunge la sua dimensione vera senza il lavoro, ch’è legge benefica e grave per tutti noi. Guai all’ozio, alla pigrizia, allo spreco del tempo, all’impiego vano e superfluo delle proprie capacità. Ogni uomo deve essere in qualche modo intelligente e volenteroso lavoratore. Onoriamo nel lavoro ciò che lo fa grande, nobile, meritorio: il dovere. E riconosciamo nel lavoro un programma immancabile e irrinunciabile della nostra vita: il diritto al lavoro (Cfr.
Gn 2,15; Mt 20,6 Gaudium et Spes GS 33-37).

2. Riconosciamo sinceramente un altro aspetto del lavoro: l’aspetto, diciamo così, penale. Il lavoro non è sempre piacevole. È insito nella natura stessa del lavoro un effetto sgradevole: la fatica, lo sforzo, la stanchezza; e poi il fatto ch’esso è dovere, è obbedienza, è necessità ci ricorda che l’attività umana porta in se stessa un castigo derivato da un fallo antico, il peccato originale, di cui noi portiamo ancora la triste eredità: «col sudore del tuo volto mangerai il tuo pane», disse Dio Creatore ad Adamo peccatore; ricordate? (Gen. 3, 17-19); tanto che S. Paolo, lanciando un principio perenne di deontologia e di economia sociale, scrisse, in una delle prime lettere, chiaro e tondo ai Tessalonicesi: «se uno non vuole lavorare, neppure deve mangiare» (2 Thess 2Th 3,10). Sì, il lavoro è gravoso, talvolta penoso, rischioso. Onoriamo il lavoratore che soffre. Onoriamo il lavoratore fiaccato, spesso umiliato, sfruttato. E cerchiamo di asciugare il suo sudore, procurando che esso sia alleviato, risparmiato; e anche confortando la pena di lui come titolo d’una maggiore dignità umana e come segno non vano di simiglianza a Cristo paziente.

3. Onoriamo il lavoro nel suo aspetto economico. Cioè come dominatore della natura, e trasformatore delle cose in beni utili all’uomo. Il fenomeno è universale e gigantesco. Oggi l’uomo pensante è venuto in soccorso all’uomo faticante: gli ha inventati e dati tali strumenti, che mentre questi alleggeriscono, fino quasi ad annullarla, la fatica fisica, ne moltiplicano a dismisura l’efficienza. È il prodigio caratteristico del nostro tempo, della civiltà moderna: il connubio della scienza e della tecnica, dal quale provengono i frutti ciclopici dell’industria e i ritrovati meravigliosi della nostra cultura. È una gloria questa, che noi dobbiamo spiritualmente riconoscere e esaltare. La vita della società moderna ormai ne dipende; e poi l’opera dell’uomo così vi risplende, che noi dovremo onorare in lui quella somiglianza divina che il Padre ha infuso, creandola, nell’anima umana. Sì, dovremo esaltare e benedire questo fenomeno, estremamente complesso, fecondo, potente, e sempre nuovo, dell’attività organizzata e strumentalizzata dall’industria e dalla tecnica, non come un’apostasia naturalista dell’uomo fattosi adoratore della terra, ma come uno sforzo dell’uomo che, mediante una sua sapienza celeste, la mente umana, estrae da essa, la terra, i doni ivi infusi dal Pensiero creatore (vedi la bella lapide murata alla diga del Tirso, in Sardegna).

4. Tutto bello dunque il lavoro trionfante che qualifica la nostra età? vi è un altro aspetto, ed è il più importante che noi dobbiamo considerare nel lavoro, ed è l’aspetto sociale. Questo è più degno di ogni altro del nostro onore, perché riguarda il valore prioritario relativo al lavoro, ed è l’uomo. L’uomo lavoratore, per antonomasia; l’uomo che mediante lo sviluppo industriale ha moltiplicato oltre ogni attesa i membri della società, li ha divisi in classi, e, come tutti sappiamo, ha fatto della società non una famiglia, ma un inevitabile campo di lotta, perciò sovente senza concordia, senza pace, senz’amore. I grandi valori del progresso, il pane, la libertà, la gioia di vivere, sono in perpetua contestazione, se il grande torrente di ricchezza, che scaturisce dal nuovo lavoro conquistatore e produttore, è confiscato da un duplice egoismo: quello che ripone nei beni temporali il solo e maggiore fine dell’uomo fine supremo a se stesso, errore ideologico, materialista; e quello che fa programma costitutivo della vita comunitaria la lotta radicale, esclusivista, fra le varie classi fra loro per il monopolio della ricchezza; errore sociale ed economico. Ma questo aspetto sociale del lavoro merita ad ogni modo il nostro onore ed il nostro interesse, anche perché noi pensiamo che un dovere cristiano, pari alle dimensioni del bisogno, reclama nel mondo del lavoro il nostro impegno di saggezza e di carità, la nostra testimonianza di fraternità e di esperienza storica e psicologica. Noi crediamo che i rimedi alle tensioni sociali presenti esistano; e con speranza già vediamo delinearsi alcune vie di felici soluzioni, alle quali vogliamo, oggi specialmente, augurare successo.

5. Ed una di queste vie ci presenta un ultimo aspetto del lavoro, quello religioso. Una volta esso rappresentava la formula individuale e collettiva dell’operosità umana: ora et labora; prega e lavora. Questa formula ha il vantaggio di considerare l’attività nostra in tutta la sua possibile estensione, e di conferirle una dignità, una onestà, una razionalità, una forza e una pace, che il lavoro, di natura sua rivolto al regno temporale, da solo non può raggiungere, e che illuminato, sorretto, integrato dalla preghiera può facilmente godere.

Lasciamo alla vostra meditazione esplorare queste vaste regioni del pensiero e dell’esperienza; e in nome di Cristo, divino lavoratore, tutti vi benediciamo.

Pellegrini di Alba

Dobbiamo ora un saluto al pellegrinaggio della diocesi di Alba, guidato dal Vescovo, Monsignor Luigi Bongianino, che ci fa tanto piacere rivedere, insieme con i rappresentanti del Clero e delle benemerite Congregazioni religiose colà operanti, e con le forze del laicato cattolico, dei fedeli delle varie parrocchie e dei lavoratori delle industrie locali. Siate i benvenuti a questo tonificante incontro di anime, presso il Sepolcro di Pietro!

Facciamo voti che questa opportunità di ritrovarvi in preghiera al centro della fede cristiana, in consonanza di propositi e d’intenti, vi infonda nuova generosità nel fare onore al nome cristiano. Sappiamo che la vostra diocesi si è sempre distinta per il numero e per la formazione dei suoi sacerdoti, per la solidità della vita parrocchiale e dell’insegnamento catechistico, per l’attività di azione cattolica; è stato tracciato un solco, è stata lasciata un’orma che dovete impegnarvi a seguire, perché le nuove generazioni ricevano e tengano alta la fiaccola della fede, nella serietà e nella laboriosità alla vita, nella letizia dei cuori. Il Signore vi accompagni sempre, vi renda docili alla sua grazia, vi stimoli alla cooperazione apostolica e missionaria, renda feconda di opere e di meriti la vostra vita diocesana! Con questi voti, impartiamo a voi, presenti, ed all’intera diocesi albese la nostra particolare Benedizione.

Catechiste parrocchiali di Verona

È presente all'udienza un gruppo assai numeroso di Catechiste Parrocchiali della diocesi di Verona, le quali, guidate dal caro e venerato Monsignore Giuseppe Carraro, sono venute a farci visita per ascoltare da noi una parola di incoraggiamento e di augurio.

Rispondiamo volentieri al vostro desiderio, perché sappiamo che il pellegrinaggio a Roma vi è costato non poco sacrificio e, più ancora, vi costa sacrificio l’attività catechistica, che svolgete nelle parrocchie e nei centri pastorali della diocesi. Voi siete, in gran maggioranza, operaie, ed alla fatica quotidiana nelle fabbriche e negli opifici avete voluto aggiungere, con lodevole spirito di generosità, un’altra e più meritoria fatica nella Chiesa, che è - come ha ricordato il Concilio, riprendendo due suggestive immagini di S. Paolo - il «campo di Dio» e l’«edificio di Dio» (Lumen Gentium LG 6). Come potremmo, inoltre, dimenticare la scuola diocesana, che vi ha preparate al ministero di catechiste? È giunta al suo tredicesimo anno di vita, ha un’originale fisionomia ed assolve una preziosa funzione nella Comunità ecclesiale Veronese. Ne diamo meritata lode al degnissimo Pastore, che l’ha istituita, ed ai Sacerdoti e alle Religiose Canossiane, che curano la formazione delle alunne. Auspichiamo che da questa scuola scaturiscano sempre più fresche energie per alimentare la vita spirituale dell’antica Chiesa di S. Zeno, il Patrono di cui ricorre il XVI centenario della morte e che fu tra i massimi evangelizzatori della regione. Il ricordo della sua opera missionaria deve stimolarvi a collaborare con impegno all’opera della educazione cristiana, dando così coerente sviluppo alla tradizione religiosa, che onora la vostra terra. Vi sia di conforto la Benedizione Apostolica, che estendiamo ai vostri maestri, alunni e familiari.

Centro di addestramento professionale

Ed ora, un particolare saluto ai numerosi allievi della «Federazione Italiana Centri di Istruzione e di Addestramento Professionale».

Desideriamo esprimere, anzitutto, il nostro apprezzamento per le finalità, umane e cristiane, della vostra Federazione, la quale intende promuovere tutte quelle iniziative atte alla istruzione e alla formazione integrale dei giovani nel campo del lavoro. Con questo essa intende anche rispondere ad un pressante invito del Concilio Vaticano secondo, il quale ha così affermato: «Occorre fare ogni sforzo affinché quelli che ne sono capaci possano ascendere agli studi superiori; ma in tale maniera che, per quanto è possibile, essi possano occuparsi nella umana società di quelle funzioni, compiti e servizi che sono consentanei alle loro attitudini naturali e alle competenze acquisite» (Gaudium et Spes GS 60).

Con lo sguardo rivolto a queste ampie prospettive, preparatevi, figli carissimi, con serio impegno alla vostra professione, per essere cittadini coscienti di dover offrire un fattivo e positivo contributo alla società; ma, specialmente, siate e mostratevi sempre cristiani coerenti, capaci di dare, con costante generosità, una testimonianza di vita, ispirata alle esigenze del messaggio evangelico.

Con questi voti ed in pegno della nostra benevolenza impartiamo a voi, ai responsabili della Federazione, a tutti i vostri cari l’Apostolica Benedizione.

Ammalati di Saint-Brieuc

Pellegrinaggio di Biella

Partecipano all'udienza odierna numerosi pellegrini della diocesi di Biella, venuti a Roma in occasione del secondo centenario della istituzione della loro diocesi, per manifestare la loro fede indefettibile in Cristo e la loro costante devozione alla Cattedra di Pietro. Sono guidati dai Pastore della diocesi stessa, il venerato Monsignore Vittorio Piola; e sappiamo che li accompagnano i loro Presuli Monsignore Carlo Rossi, già Vescovo di Biella, e Monsignore Giovanni Picco, già Vescovo Ausiliare di Vercelli, insieme a numerose autorità civili della zona.

Anche noi, figli carissimi, siamo profondamente lieti di questo incontro. Vi riceviamo, quindi, con animo paterno, e nel gradire il vostro devoto ed affettuoso omaggio, sentiamo di raccogliere la testimonianza di fede e di carità che la vostra intera diocesi ha saputo offrire in questi due secoli di generosa e fattiva vitalità.

Ai membri di questa eletta porzione della Chiesa di Dio, e in particolar modo a voi qui presenti, giunga il nostro affettuoso saluto. Esso vuol essere in pari tempo un’esortazione a corrispondere alla gioia ecclesiale di questa fausta ricorrenza, con un intensificato impegno di fedeltà, di unità attiva e feconda dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici attorno al loro Vescovo, quale è nelle belle tradizioni della vostra Chiesa, per il suo migliore avvenire. Un avvenire che noi auspichiamo sereno e prospero, sotto la protezione della Vergine Santissima che, dal suo Santuario di Oropa, veglia da secoli sulle sorti della Chiesa biellese. Non è senza un particolare motivo questo richiamo alla vostra celeste Protettrice. Avete voluto, infatti, presentarci, perché sia da noi benedetto, un imponente ed artistico cero che, portato a Lourdes con un pellegrinaggio di malati, avrà la sua sede definitiva nel Santuario di Oropa a ricordo di questa centenaria ricorrenza. Ben volentieri aderiamo al vostro desiderio, e vorremmo che questo cero, che d’ora innanzi brillerà nel vostro celebre Santuario, fosse il segno di un rinnovato patto di fedeltà e di amore fra noi e la Gran Madre di Dio, come sarà certamente un segno della protezione che Ella non lascerà mancare a chi vorrà volenterosamente seguire le sue orme sulla via della onestà, della purezza, della santità e della grazia.

Avvalori questi nostri voti paterni la Benedizione Apostolica che ora di cuore impartiamo a voi qui presenti, a cominciare dai degnissimi e a noi carissimi Vescovi, e che amiamo estendere a tutti i vostri condiocesani spiritualmente uniti con voi in questo incontro col Vicario di Cristo.






Mercoledì, 9 maggio 1973: INDIZIONE DELL'ANNO SANTO 1975


Paolo VI Catechesi 11473