Paolo VI Catechesi 13274

Mercoledì, 13 febbraio 1974

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Ancora, per terminare, sul Natale.

Noi vorremmo che una tale festa non fosse celebrata senza lasciare tracce di sé negli animi di chi vi ha partecipato cordialmente.

Quali tracce? oh! il culto d’un tale mistero dovrebbe averne lasciate cento, e d’ogni genere nella gamma delle nostre impressioni spirituali, da quelle ben note di umana poesia, ad altre di riflessione storica, o di sentimento religioso. Natale è una fontana inesauribile di temi per la nostra pietà, per la nostra sensibilità umana, per la nostra educazione morale, per la nostra esplorazione teologica, per la nostra contemplazione mistica. Fermiamoci oggi ad una sola conseguenza, che noi vorremmo derivare da quella sempre memorabile festività, e che piuttosto suscita in noi un bisogno insoddisfatto invece di darci alla fine una placata conclusione. Dunque, di che cosa si tratta? Si tratta d’una cosa ovvia e apparentemente semplicissima: si tratta di conoscere Gesù, Colui che è nato, Colui che abbiamo ammirato e venerato nel presepio, Colui in onore del Quale abbiamo offerto tre Messe nel giorno commemorativo della sua natività, Colui che, in qualche modo, ha dato motivo alle varie celebrazioni domestiche, alla corrispondenza augurale, Colui la cui memoria della venuta al mondo ha segnato una data speciale nel calendario. Lui, il centro della festa, lo conosciamo?

Chi è Gesù? Non facciamo torto ad alcuno con questa domanda, perché supponiamo che tutti sappiate dare di Lui la definizione che ci offre il catechismo: è il Figlio di Dio, fatto uomo; e che tutti abbiate su di Lui un’informazione copiosa, nutrita di narrazioni evangeliche e di nozioni teologiche, e fors’anche d’immagini devote o artistiche. Questo va molto bene, e pensiamo che sia normale in chiunque porta il nome cristiano. Ma ecco una prima nota caratteristica e fondamentale circa la nostra conoscenza su Gesù Cristo: se davvero lo conosciamo, noi avvertiamo che non lo conosciamo abbastanza. Ciò che sappiamo di Lui non tranquillizza il nostro bisogno, il nostro dovere di intelligente cognizione, ma stimola, eccita, infiamma tanto questo bisogno, quanto questo dovere; tutti noi ci sentiamo invitati, quasi logicamente e spiritualmente costretti a conoscerlo meglio, a farci di Lui un concetto più chiaro, più concreto, più completo. La nuova curiosità non ci dà più pace, e urge sul nostro spirito con una domanda implacabile, insaziabile: chi è Gesù?

Donde, Fratelli e Figli carissimi, una seconda nota, relativa alla conoscenza circa il Signore Gesù: questa conoscenza è graduale.

Essa non solo non si esaurisce in una semplice immagine sensibile: un quadro, una scena evangelica, un racconto biografico . . . . ma se essa, questa conoscenza, si è davvero, in qualche modo, impressa nel nostro spirito, sveglia il desiderio di meglio identificarla, di approfondirla, di verificarne il significato, il contenuto. Diventa problema: insomma, chi è questo Gesù?

Ciascuno di voi ricorderà come questa indagine sia sorta negli stessi contemporanei di Gesù, nei quali, specialmente dopo qualche suo miracolo, fu ricorrente la domanda: «Chi è mai costui che comanda ai venti e al mare, e gli obbediscono?» (
Lc 8,25). Voi ricorderete che Lui stesso, Gesù, provocò fra i discepoli una specie d’inchiesta; racconta l’evangelista Matteo: «Gesù, venuto nel territorio di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: - la gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Le opinioni erano diverse. Segno che la rivelazione che Gesù faceva di se stesso lasciava, sì, trasparire qualche cosa di straordinario, ma non senza ricoprirlo di un velo umano non sempre e non a tutti trasparente. Perfino Maria e Giuseppe « restavano meravigliati delle cose che si dicevano del bambino» Gesù (Lc 2,33); e non tutto comprendevano di quel misterioso fanciullo (Lc 2,50).

I suoi stessi concittadini, di Nazareth, lo circondano di stupore e di diffidenza, non riuscendo a rendersi esattamente conto di chi Egli fosse (Cfr. Mc 6,2-4). Gesù, si direbbe, ama l’incognito. Tutto il Vangelo di Giovanni è pieno di questo assillante problema circa l’identità essenziale della personalità del Maestro («Si tu es Christus, die nobis palam») (Cfr. Jn 10,24); ed intorno a tale problema si stringe il dramma della sua passione, nel duplice processo, religioso e civile, che porta il primo alla sua confessione di Messia, Figlio di Dio, il secondo alla sua ammissione di Re dei Giudei. Poi l’inconcepibile epilogo della sua risurrezione, che supera la comprensibilità stessa dei testimoni immediati, fino a meritare il rimprovero dello stesso Risorto: «O stolti e tardi di cuore a credere ciò ch’era pur preannunciato dai Profeti!» (Lc 24,25). Gesù è mistero. Non lo avremo mai esplorato abbastanza, non mai compreso del tutto. La conoscenza di Lui ha dovuto finalmente risolversi nella fede, cioè in una conoscenza superrazionale; certissima, ma fondata su testimonianze che eccedono in parte un nostro sperimentale controllo; le quali testimonianze hanno però in se stesse la forza di convinzione, perché in fondo sono divine, e esigono da noi quella dilatante maniera di conoscere, con la mente e col cuore, senza tutto capire, perché troppo v’è da capire, che appunto chiamiamo fede.

Gesù dev’essere studiato con tutta la tensione della nostra capacità comprensiva (e la capacità comprensiva dell’amore supera quella della pura intelligenza). E così fu per la Chiesa: ripensò, studiò, discusse, ebbe per Sé la luce dello Spirito Santo; e con un cautissimo e fedelissimo travaglio di secoli riuscì a formulare la dottrina esatta, ma sempre sconfinante ed aperta sul mistero circa nostro Signore Gesù Cristo: chi Egli fu, che cosa fece per noi, e poi come Egli a noi si concede e si concederà. Chiamiamo questo centrale capitolo della nostra religione « Cristologia », e lasciamo pure che altri capitoli quali quelli della «Ecclesiologia» (tanto studiato dal Concilio), e quello della «Pneumatologia», cioè relativo alla dottrina sullo Spirito Santo, ora impegnino il nostro studio e la nostra vita spirituale, Ma non chiudiamo il volume della nostra dottrina su Cristo Signore, come se ormai fosse da ciascuno di noi già ben conosciuto. Bisogna riaprirlo questo volume; bisogna tenerlo sempre per noi aperto, e posto davanti alla nostra attenta riflessione, alla nostra appassionata contemplazione. «Per me vivere è Cristo» dice S. Paolo (Ph 1,21).

E poi bisogna esserne gelosi custodi e non lasciarsi sorprendere da opinioni erudite, spesso preconcette nel metodo o nel contenuto, che, fuori dalla scuola della Chiesa, pretendono dare un’interpretazione nuova (una ermeneutica) e alla fine vanificante dell’autentica teologia sul Cristo del nostro Natale.

Saremmo tentati di discutere con voi questa moderna e sottile contestazione sul nostro Cristo vivo e vero, e avremmo voluto suggerirvi la lettura di qualche buon libro. Ma vediamo che non è questo il luogo né il tempo; e poi questo lo potete facilmente fare da voi; cercatelo un po’ qualche libro su Cristo, cominciando da una nuova, ordinata e pia lettura del santo Vangelo. Con la nostra Benedizione Apostolica.



La Scuola Pontificia «Pio IX»

Rivolgiamo ora il nostro saluto alla Scuola Pontificia «Pio IX», di Roma, il cui incontro ci procura sempre vivo piacere.

Come ci avete fatto conoscere, questa Udienza vuol segnare per voi l’inizio delle celebrazioni dell’Anno Santo: e pertanto, al consueto motivo di soddisfazione, aggiungiamo un vivo incoraggiamento a far tesoro dell’opportunità che vi si offre di entrare nella grande corrente di riconciliazione, di conversione, di rinnovamento spirituale, che permea le Chiese locali in questo tempo privilegiato, che Dio ci offre per l’accrescimento della nostra fede e della nostra carità, perché la nostra vita sia più autenticamente cristiana.

Noi siamo certi che, nella fedeltà alla tradizione educativa della vostra scuola e nella rispondenza fattiva alle consegne dell’Anno Santo, voi saprete vivere con particolare intensità i vostri impegni specifici: gli Educatori, per essere sempre all’altezza della loro responsabilità nell’esercizio di quella che è «l’arte delle arti e la scienza delle scienze» (S. GREGORII NAZ. Orat. II: PG 35, 426); i genitori, per affiancare con la sollecitudine, con la vigilanza, e soprattutto con l’esempio, l’opera formativa della scuola; e voi alunni, specialmente, per accogliere come fertile terreno i germi della sapienza, per farli fruttificare con l’entusiasmo e la serietà a voi propri, e per trafficare così in modo degno i vostri talenti.

Vi accompagni sempre la grazia del Signore, nel cui nome vi diamo la nostra Benedizione.

L’Associazione Educatrice Italiana

Con paterno compiacimento accogliamo in questa Udienza i partecipanti al Convegno sui problemi della scuola, che si celebra in questi giorni a Roma, organizzato dall’Associazione Educatrice Italiana.

Siate i benvenuti, cari figli! Ci congratuliamo vivamente con voi, perché di fronte ai nuovi ed immensi problemi che suscita oggi il rinnovamento delle strutture scolastiche in Italia, la vostra Associazione non è rimasta inerte, ma intende entrare nel vivo dei dibattiti ed offrire il positivo contributo della esperienza e dei talenti dei suoi iscritti. In un momento così delicato, quale sta attraversando la scuola italiana, è necessaria da parte degli insegnanti una forte presa di coscienza delle proprie responsabilità.

Essere educatori nella scuola, oggi più che mai significa considerare questa missione come un servizio dei più impegnativi e dei più importanti per la società. Vi diciamo, pertanto, la nostra sincera riconoscenza e il nostro apprezzamento, e facciamo voti che le risoluzioni che saranno da voi prese - ispirate, come ne fa fede la vostra presenza, al pensiero educativo della Chiesa - trovino efficace applicazione in ordine allo sviluppo di una scuola realmente formatrice, come è nelle aspettative di tutti.

Comunicate questi sentimenti e queste nostre speranze alla schiera numerosa e valorosa degli altri vostri colleghi che, come voi, sono pensosi dell’avvenire della scuola, e consacrano le loro energie alla incomparabile missione dell’insegnamento.

Noi vi siamo vicini con l’affetto e con la preghiera; e di cuore vi benediciamo per ottenere su di voi qui presenti, e sulla vostra Associazione la continua abbondanza delle divine grazie.

Le Pie Discepole del Divino Maestro

Siamo ben lieti di accogliere e di salutare il Consiglio generalizio e il gruppo delle Pie Discepole del Divin Maestro, venute in occasione del 50° di fondazione del loro Istituto recentemente celebrato.

La felice ricorrenza ci ravviva la cara immagine paterna di Don Giacomo Alberione, che, tra le varie generose iniziative in favore della Chiesa, ha voluto istituire la vostra Congregazione, con il duplice scopo di attendere alla contemplazione e all’apostolato.

Sappiamo, carissime figlie, con quale fervida adesione a tale vostro ideale e con quanto impegno vi adoperate affinché siano realizzati i nobili intenti della vostra responsabile scelta.

Profittiamo volentieri dell’odierna circostanza per incoraggiarvi a vivere sempre più gli esempi del Divino Maestro e della Madonna, con spirito di orazione e di abnegazione per essere maggiormente attive ovunque sia richiesto il vostro intervento: contribuendo, cioè, nei modi più opportuni, ad alimentare la pietà dei fedeli e ad agevolare la loro partecipazione ai riti liturgici, e impegnandovi nelle vostre benefiche opere a favore dell’infanzia, degli aspiranti al sacerdozio, dei missionari, degli infermi, degli anziani per dare una gioiosa testimonianza dell’amore che vi lega a Cristo Signore.

Vi accompagni e vi sostenga nel vostro lavoro la nostra propiziatrice Benedizione.


Mercoledì, 20 febbraio 1974

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Quando si comincia ad interessarci di Cristo, finire non si può. Resta sempre non solo qualche cosa da sapere e da dire; resta il più. S. Giovanni, l’evangelista, termina proprio così il suo libro: «Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù; che se si volesse scriverle ad una ad una, il mondo intero, io credo, non potrebbe contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (
Jn 21,25). Tanta è la ricchezza delle cose che a Cristo si riferiscono, tanta la profondità da esplorare e da cercare di comprendere, tanti i problemi a cui il mistero di Cristo si collega, tante le difficoltà che insorgono intorno e contro di Lui, tanta la luce, la forza, la gioia, il desiderio, che da Lui scaturiscono, tanta la realtà della nostra esperienza e della nostra vita che a noi da Lui deriva, che davvero sembra sconveniente, antiscientifico, irriverente mettere fine alla riflessione, che la sua venuta al mondo, la sua presenza nella storia e nella cultura e l’ipotesi, per non dire la verità, della sua vitale relazione con la nostra propria coscienza, onestamente esigono da noi. Non si finirebbe mai di girare intorno a questo polo dei nostri supremi interessi: Gesù.

Così che, ad un certo momento, sorge nello spirito, credente o profano che sia, il bisogno d’una sintesi, il bisogno di trovare un punto prospettico centrale, che ci consenta di considerare tutto ciò che si riferisce a Gesù Cristo con un solo sguardo, con un pensiero riassuntivo, con un sentimento unico. E senza entrare ora nella sfera psicologica di questa questione (sarebbe un’indagine interessantissima tentare un’escursione di questo genere attraverso qualche documento agiografico, per scoprire ciò che Cristo fu nel cuore dei Santi), possiamo, per un istante, guardare il panorama oggettivo, biblico o teologico, ponendolo a confronto, se così piace, per averne migliore intelligenza, con gli aspetti caratteristici di altre religioni, per ridurre, senza deformare, nel perimetro visuale della nostra percezione il significato supremo e primario e centrale del cristianesimo, cioè della venuta di Gesù Cristo nel mondo.

Per migliore comprensione di quanto stiamo dicendo ricorderemo come questo bisogno di vedere tutto ciò che a Cristo si riferisce nell’involucro d’una formula comprensiva è stato sempre presente nell’anima umana (Cfr. ad es. Jn 7,26 Jn 7,41 Mt 26,63); le professioni di fede battesimale, i simboli; le controversie cristologiche, certe opere dei Padri (Cfr. ad es. S. AUGUSTINI Enchiridion, 4: PL 40, 232; etc.). Diciamo d’I più: l’insegnamento apostolico ci guida alla ricerca e alla scoperta dell’idea centrale della rivelazione cristiana; e lo studio critico-letterario moderno tende istintivamente a identificare una chiave d’interpretazione del fatto cristiano (Cfr. ad es. A. VON HARNACH, L’essenza del cristianesimo, 1900; C. ADAM, L’essenza del cattolicesimo, 1930). Se fosse domandato a ciascuno di noi: qual è l’idea centrale della fede cristiana? Come risponderemmo?

Ritorniamo alla scuola di San Paolo, e domandiamo a lui la risposta. Noi già sappiamo che due problemi, insolubili alla nostra speculazione razionale, ci mettono in ascolto; e cioè sappiamo che il fatto cristiano è un fatto religioso, cioè è fondato su due teste di ponte, estremamente corrispondenti anche se infinitamente diverse, che lo sostengono: l’uomo (e chi conosce l’uomo, quando la sintesi platonico-socratica culmina in una domanda, inesauribile nella risposta: «conosci te stesso»?), e poi Dio (e Dio chi lo può in se stesso conoscere?) (Cfr. Jn 1,18 Ac 17,23 1Co 13,12). E, secondo, se il cristianesimo è un fatto religioso, è per ciò stesso un fatto misterioso. Come possiamo noi decifrarlo nelle sue intrinseche e supreme ragioni? Ascoltiamo dunque che cosa ce ne dice l’Apostolo, il quale più d’una volta apre la via alla identificazione del punto centrale del cristianesimo.

Qui non si può prescindere dalle citazioni; scegliamone due, che a noi sembrano giovare alla nostra giustificazione, ma troppo miope curiosità: Dio, dice S. Paolo, scrivendo ai Colossesi, mi ha affidato la missione di completare la Sua parola e di annunciarvi «il mistero occultato ai secoli . . . che è Cristo in voi, speranza di gloria . . .» (Col 1,26). L’altra citazione, in cui ricorre lo stesso concetto di mistero rivelato, è desunta dalla I lettera ai Corinti, dove si dice che l’annuncio del cristianesimo è l’apertura d’un segreto eterno di Dio per la salvezza del mondo (1Co 2,6-7). E in che cosa consiste questo segreto che finalmente si svela nella storia della umanità? È l’Amore! l’Amore nascosto, dietro la facciata dello scenario della natura fisica, impassibile e inesorabile, dove, sì, «le stelle stanno a guardare», ma vi è un Padre, che sta nei cieli, vi è un Dio, «che è ricco di misericordia e che per la grande carità con cui ci ha amati . . .» (Cfr. Ep 2,4), e, osserva l’evangelista Giovanni, «talmente amato da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita» (Jn 3,16).

Il segreto del cristianesimo è l’Amore salvifico di Dio e quindi poi di Cristo, il Quale «amò me e sacrificò se stesso per me» (Ga 2,20).

Questa è la religione fondata da Gesù Cristo: una religione, scaturita dalla Bontà infinita di Dio, fino alla immolazione di Gesù sulla croce, e a fare di Lui una vittima per la nostra salvezza.

L’incarnazione, il Presepio, si conclude nella Redenzione; due misteri questi, uno di vita, l’altro di morte, che si integrano in un solo dramma d’Amore (Cfr. FORNARI, Vita di Gesù Cristo). Così Cristo diventa per noi, com’è nel pensiero del Padre, il punto focale dell’universo, in Lui tutto s’incentra e si instaura (Cfr. Ep 1,10 S. TH. III 1,1).

Comprendiamo meglio così le parole di pace del Natale, riferite «agli uomini di buona volontà», parole che gli esegeti ci persuadono a tradurre: gli uomini oggetto della divina benevolenza; e possiamo allora concludere, per la nostra felicità, ed insieme per la nostra responsabilità: siamo amati da Dio, da Lui per primo (1Jn 4,10), senza esserne degni, essendone piuttosto assolutamente bisognosi.

Questo è il carattere essenziale, questo il segno specifico della nostra religione, questo lo stimolo urgente alla nostra amorosa risposta (2Co 5,14): Caritas Christi urget nos. Così, mentre il tempo passa, e questa vita si consuma, ricorderemo il Natale.

Con la nostra Apostolica Benedizione.



I dirigenti della U.N.I.T.A.L.S.I.

E ora il nostro particolare saluto ai membri responsabili delle Sezioni italiane dell’U.N.I.T.A.L.S.I.: presidenti, cappellani, medici, venuti col Cardinale Luigi Traglia, Decano del Sacro Collegio e Presidente Nazionale dell’Unione. In questa parola «particolare» vorremmo mettere tutte le espressioni della nostra benevolenza e stima, per un’organizzazione tanto benemerita, qual è quella che abbiamo enunciato in sigla, e che per disteso significa: «Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e ai Santuari d’Italia». Chi non conosce tale istituzione, che cura con tanta abnegazione i pellegrinaggi degli infermi nei luoghi della fede e della speranza ? Chi non ha visto all’opera i suoi instancabili membri?

L’occasione odierna ci è propizia per dirvi la nostra riconoscenza per il bene che fate, e l’incoraggiamento a moltiplicare ancora, se fosse possibile, i vostri sforzi e le vostre premure a favore dei malati, nei quali siete allenati a vedere il volto velato di Cristo. Ed è proprio questo il nostro augurio: di saper procedere fruttuosamente in questa scuola di altissima formazione, nella quale voi donate ai fratelli sofferenti, ma anche ricevete da essi le lezioni più alte della fiducia in Dio, dell’abbandono alla sua volontà, dell’oblazione delle sofferenze a pro del corpo di Cristo, che è la Chiesa (Cfr. Col 1,24).

Noi vi siamo vicini nella vostra missione in modo «particolare», ripetiamo; e, invocando su di voi la materna protezione della Vergine SS.ma, di cuore impartiamo a tutte le Sezioni dell’U.N.I.T.A.L.S.I. e alle loro attività la Benedizione Apostolica.

Clarisse Cappuccine adunate per aggiornare le Costituzioni

Con l’animo pieno di paterna commozione porgiamo ora il nostro saluto alla eletta schiera di monache, delegate dei Monasteri delle Clarisse Cappuccine di ogni parte del mondo, venute a Roma per la revisione delle loro Costituzioni.

Figlie carissime in Gesù Cristo, vi accogliamo con quell’affetto e quella stima che merita la grande famiglia delle Comunità monastiche, che voi degnamente rappresentate. E siamo lieti di ricevervi qui, perché possiamo indicarvi all’ammirazione e alla gratitudine di quest’assemblea, per il servizio prezioso e nascosto che voi prestate nella Chiesa, spendendo la vita nel silenzio, nella preghiera e nella mortificazione per amore di Cristo e per comunicare al mondo, pur separate dal mondo, la salvezza da Lui operata sulla Croce.

La vostra testimonianza di fedeltà all’ideale contemplativo oggi più che mai significa per i fedeli il primato di Dio e della vita interiore nel complesso dinamismo delle attività apostoliche; significa l’affermazione dei valori spirituali della preghiera, della povertà, dell’amore fraterno, dello spirito di sacrificio, della croce; cosicché, come afferma il Concilio Ecumenico, ben giustamente voi costituite «una gloria per la Chiesa e una sorgente di grazie celesti» (Decr.

Perfectae Caritatis PC 7).

Se il Popolo di Dio guarda a voi con questi sentimenti, voi da parte vostra dovete sforzarvi di corrispondere sempre più generosamente alla vostra vocazione. E che tale sia il vostro impegno, lo dimostrano i lavori del Convegno, ai quali state attendendo per dare ai vostri Monasteri quello slancio di rinnovamento, nella fedeltà delle vostre genuine tradizioni monastiche, che il Concilio Ecumenico ha richiesto, per adempiere con sempre maggiore fecondità il ruolo a cui siete chiamate nella Chiesa.

Vi assista lo Spirito del Signore, facendovi sempre più sue; vi guidi la Vergine Maria, vostro ideale e modello di consacrazione a Dio e di donazione alle anime; vi incoraggi la nostra Apostolica Benedizione, che di cuore impartiamo a voi qui presenti e a tutte le vostre Consorelle sparse nel mondo.


Mercoledì, 27 febbraio 1974

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Noi non possiamo sottrarci, in questo breve colloquio spirituale, al fatto dominante la vita della Chiesa, in questo periodo dell’anno liturgico, che chiamiamo quaresima, e che oggi comincia.

Due osservazioni preliminari si presentano alla nostra considerazione.

La prima riguarda la successione di periodi molto diversi nella vita spirituale della Chiesa. Ella ci educa non soltanto alla preghiera e alla celebrazione di riti sacri, in cui si alimenta e si esprime il nostro rapporto religioso con Dio e il senso comunitario della Chiesa stessa, ma ci associa allo svolgimento d’un grande disegno ideale, cioè teologico e morale, che si sviluppa nel tempo, conformandosi all’anno luni-solare, che Giulio Cesare introdusse nel calendario civile, e che tuttora serve anche alla Chiesa, come base cronologica, del suo dramma religioso, ogni anno ripetuto con sempre nuovo sentimento della sua originale attualità e della sua inesauribile profondità. Come in un’opera musicale, il senso, la bellezza, la forza dell’insieme risultano dalla composizione delle diverse sue parti, così la liturgia della Chiesa assurge non solo al livello d’una incomparabile opera d’arte per la varietà dei temi divini ed umani, di cui si compone il suo misterioso svolgimento, ma offre all’umanità, ai fedeli specialmente, la possibilità di partecipare ad una complessa e meravigliosa celebrazione, non puramente commemorativa e rappresentativa, ma, in una sua mistica rinnovata realtà, rievocatrice della storia perenne dell’ineffabile dialogo fra Dio e il mondo, che in Cristo Redentore e nell’uomo redento ha due motivi drammatici principali.

Bisogna fare attenzione a questa dialettica discorsiva, che invade e commuove la liturgia della Chiesa, per non cadere nell’errata impressione della forma sempre eguale e monotona della nostra espressione spirituale; e poi per avere un sempre migliore concetto di quel mistero pasquale, in cui si riannoda la sintesi del nostro - chiamiamolo così - sistema religioso, ed a cui tutti dobbiamo vitalmente riferirci, se vogliamo conseguire la nostra salvezza.

Dunque: dobbiamo avvertire la diversità e l’originalità del nuovo periodo liturgico, quaresimale, se vogliamo essere in consonanza salutare con la Chiesa. Forse dire liturgico non è tutto dire; dovremmo dire anche ascetico e penitenziale, anche perché sotto questo aspetto la quaresima s’inaugura e si prospetta.

E questo ci porta ad una seconda osservazione preliminare. Sì, la quaresima ha un volto severo, ha un linguaggio talvolta crudo e spietato, come oggi, «Feria quarta Cinerum», mercoledì delle ceneri; poi ha esigenze penitenziali, come il digiuno, ora assai mitigate, ma non del tutto abolite, né mai dimenticate nel loro spirito e in una loro personale e discrezionale esigenza; la quaresima inoltre invita a preghiere assidue e prolungate; dispone finalmente al ricorso di quel sacramento della penitenza, che comunemente chiamiamo confessione, e ch’è davvero un atto di umiltà, di conversione, di contrizione, non certo simpatico alla gente del nostro tempo. Dobbiamo riconoscere questo aspetto negativo, umanamente parlando, della quaresima, e in genere della penitenza, che la Chiesa ci predica, come elemento costitutivo dell’autentica vita cristiana.

Date un pensiero al rito dell’imposizione delle Ceneri. Meriterebbe una prefazione storica, che lo fa risalire all’antico Testamento (Cfr. ad es.
Jr 25,34 Jg 9,1 Da 9,3, etc.), e lo travasa nel nuovo (Cfr. Lc 10,13 Mt 11,21), e poi nella prassi dei primi secoli cristiani e nei seguenti (Cfr. JUNGMANN, Lat. Bussriten). Ma guardatene il senso, il pessimismo cioè che grava sulla vita umana nel tempo; rileggete uno dei libri, sapienziali, e in certo senso, quasi sconcertante, della Bibbia, l’Ecclesiaste (ora indicato col termine ebraico Qohèler), che comincia con le famose parole, adatte per un cimitero dell’umanità senza speranza: «vanità della vanità, tutto è vanità» (Qo 1,1); e ripensate al pauroso verismo di certa letteratura e di certa filosofia contemporanea; e vi convincerete della sincerità della Chiesa nella sua pedagogia spirituale; ella non può passare sotto silenzio l’esperienza della morte e del dissolvimento, a cui la nostra temporale esistenza è condannata. Ma con questa immediata rettifica ad una concezione disperata del nostro vero destino: la vita, in Cristo, sarà vittoriosa.

E cioè bisogna ricordare e scoprire l’aspetto positivo della quaresima, cioè della penitenza cristiana. Essa non è voluta e promossa per offendere e per rattristare l’uomo, insaziabilmente avido di vita, di pienezza, di felicità, ma per ammaestrarlo e per condurlo, mediante l’arduo cimento della penitenza, alla conquista, o meglio alla riconquista del «paradiso perduto».

Periodo perciò di riflessione si apre davanti a noi. È la concezione, in fondo, della nostra vita che passa all’analisi della coscienza cristiana; è l’autocritica fondamentale, è la filosofia che sfocia nella sapienza, è lo sforzo di salvataggio, dall’inevitabile naufragio travolgente, che accetta la mano salvatrice di Cristo, che ci è offerta in questa palestra spirituale. Procuriamo di comprendere, cerchiamo di profittarne.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Il personale del «Circo sul ghiaccio»

Con vivo compiacimento accogliamo nell’udienza di stamane il gruppo composto dai dirigenti, artisti e addetti ai lavori del «Circo sul Ghiaccio», insieme con le loro famiglie. Prima di prendere congedo dalla nostra città hanno voluto porgerci il loro atto di omaggio.

Vi ringraziamo di cuore per il cortese pensiero, cari figli, che coi vostri prestigiosi spettacoli, ormai famosi in tutto il mondo, vi siete conquistata l’ammirazione e la simpatia della cittadinanza romana. La vostra rispettosa presenza ci attesta che voi intendete accompagnare con senso di responsabilità umana e cristiana la vostra serietà professionale. Ciò non deve essere mai dimenticato in una attività come la vostra, se vuol tener fede a1 nobile compito di offrire ai grandi e ai Piccoli ore di svago sanamente ricreative.

Noi vi auguriamo pertanto di mantenervi sempre all’altezza di questo ideale, che del resto rientra nelle belle tradizioni del circo, senza cedere mai a gusti malsani che la coscienza riprova.

Accogliete questo nostro augurio come attestato del nostro apprezzamento per la vostra attività e del nostro incoraggiamento a lavorare nel senso indicato. E con questi sentimenti volentieri impartiamo a voi tutti la nostra Apostolica Benedizione.

Le «Bureau International de l’Enfance»

Religiose provenienti dagli Stati Uniti

We are happy to greet a large group of Sisters who have assembled principally from the United States and who come from various communities and represent various forms of religious life-all of whom perform their highly-valued apostolates within the wider and esteemed context of the association of all the Institutes of Women Religious of the United States.

Your presence here this morning evokes in us a thought which our great predecessor Pius XII often expressed: the value and importance of religious life and, in particular, the beneficial results that accrue to the whole Church in America through the persevering dedication and humble service of thousands of Sisters.

In this regard our advice to you today is to realize the contribution that all the Sisters can and must make to the Church, to realize that this contribution depends on your being one in Christ Jesus and in the Church-united with each other and with us.

Our message is a call for genuine renewal, for Christian penance, for complete reconciliation, for the elimination of all divisive faction-in a word, for perfect unity and perfect charity: «. . . so that the world may believe» (Jn 17,21).

And so with Saint Paul we say to you: «. . . be united in your convictions and united in your love, with a common purpose and a common mind. That is the one thing which would make me completely happy» (Ph 2 Ph 2). As our thoughts turn with paternal affection to all the Sisters of the United States and throughout the world, in their efforts to live in Christ’s love and to share it with all men, we cordially impart to you present here with us today our Apostolic Blessing.

Ufficiali e marinai inglesi

We offer a word of welcome to a group of visitors from Great Britain, officers and men of the Royal Navy. We express the hope that your visit to Rome will be a happy one, and also an experience that will be for your spiritual benefit.

We assure you of our good wishes, and ask you to convey our greetings to your families and friends at home.


Mercoledì, 13 marzo 1974

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Fratelli e Figli carissimi!

Vogliamo fare insieme un passo sul grande cammino verso il rinnovamento cristiano, al quale siamo invitati da tre grandi impulsi, nascenti dalla Chiesa vivente, vogliamo dire dal recente Concilio, dall’Anno Santo già in atto nelle Chiese locali, e dal periodo quaresimale, che ci impegna ad una seria preparazione alla Pasqua?

Un passo solo, per oggi; ma tanto può bastare per introdurci in una grande corrente, potremmo dire in un travolgente torrente di questioni d’ogni genere, filosofiche, morali e religiose, la quale basterebbe a invadere e sconvolgere il nostro spirito, se appena vi volessimo indugiare, senza porre a noi stessi dei limiti ben precisi. Il passo ha il carattere d’un ritorno. Un ritorno verso quale direzione? verso noi stessi, ciascuno verso la propria coscienza. Della coscienza s’è già tanto parlato, e ancora si parla fino a fare di questa parola un luogo comune, dove confluiscono i più vari significati. Un neologismo, non certo accetto ai cultori della buona lingua parlata, si va divulgando col termine eteroclito di «coscientizzare», volendo dire cioè di rendere cosciente, consapevole, riflesso, responsabile. E sta bene.

Ma distinguiamo subito fra i diversi significati della parola «coscienza», quello che ora a noi preme, pur tributando il dovuto onore a tali significati, che hanno avuto nella storia del pensiero una risonanza, spesso ancora non spenta, che cosa è la coscienza? per esempio: un atto riflesso sul contenuto d’una conoscenza; conosci te stesso, ancora Socrate c’insegna; saper di sapere (Platone); specchio di sé (Plotino); e fra i moderni: riflessione introspettiva, analisi sulla interiorità vissuta; sentimento dell’io pensante; esperienza interiore; ecc. Ma noi non possiamo soffermarci su questo fertilissimo campo della coscienza psicologica per restringere il nostro interesse ad una zona particolare della coscienza in generale, una zona centrale, importantissima per la nostra vita religiosa, ed è la coscienza morale; a quell’atto cioè del nostro spirito mediante il quale applichiamo il nostro pensiero alla nostra azione (Cfr. S. TH.
I 79,0). Consideriamo ora la coscienza quale giudizio sulla moralità del nostro agire, quale intuizione etica superiore e per ciò stesso in riferimento al criterio assoluto del bene e del male, riferimento che si polarizza nel suo centro inevitabile, quasi come un luogo geometrico postulato da un dato disegno, che è Dio.

La coscienza morale, condotta nel suo spontaneo e logico svolgimento, postula come termine logico e quindi come principio ontologico, Dio. Non per nulla anch’essa, la coscienza morale, è nella discussione moderna considerata un campo di battaglia, dal quale tuttavia, vulnerata e travisata, appena è rimessa nel suo normale funzionamento, riesce tuttora vittoriosa. Lasciamo ogni controversia, e apriamo il Vangelo in una delle pagine più note e più tipiche, quella della storia (parabola si chiama, ma si potrebbe chiamare il paradigma della vita umana nell’analisi della coscienza morale) del figliol prodigo. Dice il Vangelo, cioè Gesù, il Maestro, narrando la storia del figliol prodigo, nella sua fase più infelice e al tempo stesso più salutare, che il povero protagonista della triste avventura, ritornò in se stesso, in se autem reversus (Lc 15,17). Ricordiamo questa semplicissima frase; essa è come l’ago di scambio per la traiettoria d’un convoglio fuori strada, Ritornò in se stesso: ma aveva bisogno di ritornare in se stesso un giovane pieno di vita, che non aveva altro cercato che se stesso, cioè di godersi la propria vita, mediante le esperienze della libertà e del piacere, le quali sembrano rivelare a un cercatore della vita la sua pienezza, la sua autenticità, la sua felicità?

Era così uscito da se stesso, dalla propria coscienza, dalla propria vera personalità, e giunto al fondo d’una disperata e ignobile miseria ritornò là donde era fuggito: ritornò in se stesso.

È drammatico, è stupendo. È sommamente istruttivo. Questo atto di riflessione solitaria, coraggiosa, personale sta alla radice soggettiva (non senza certamente un imponderabile, ma decisivo aiuto divino) del ricupero della vera e nuova vita dell’uomo. L’esame di coscienza, la verità su se stessi, la classifica secondo giustizia della propria condotta, il coraggio di piangere senza disperazione, eccetera, potrebbero condurci alle magnifiche analisi del male voluto e vissuto, e già sotto il peso d’un’auto-condanna, piena di straordinaria ricchezza, non solo passionale e letteraria, ma sapiente ed umana, bisognosa, diremmo quasi fin d’ora, meritevole di compassione e di riabilitazione.

Basti quest’unico pensiero: in se autem reversus. Quante lezioni ne potremmo ricavare! sul silenzio, sulla vita interiore, sulla capacità di autometamorfosi, sulla fortuna di ritrovare il proprio vero io, e con esso, domani, Dio, il Padre!

Il quadro clinico spirituale vale per tutti. Pensiamoci. Con la nostra benedizione spirituale.


Mercoledì, 20 marzo 1974


Paolo VI Catechesi 13274