Paolo VI Catechesi 8105

Mercoledì, 8 ottobre 1975

8105


Fratelli e Figli carissimi,

abbiamo ascoltato nella sua risonanza interiore e profonda l'eco personale e sociale della parola programmatica, che deve qualificare questo Anno Santo, che ora noi stiamo celebrando? Ci riferiamo alla parola programmatica: rinnovamento. Che cosa vuol dire, nel nostro caso, rinnovamento? Rinnovamento di che cosa? e con quale metodo? per quale risultato?

A prima vista questa parola non ci appare nuova, né originale. Essa ricorre molto spesso, e si applica ad ogni sorta di cose. E una parola che caratterizza il nostro tempo, nelle sue aspirazioni più significative e nelle sue manifestazioni più generali. Ne sentiamo l'eco, quando si parla del nostro meraviglioso e tumultuoso periodo storico, che si definisce moderno, progressista, riformatore, rivoluzionario, come altri periodi, nei secoli passati, si definirono classici o romantici, civilizzatori e conservatori, ovvero periodi del rinascimento, del risorgimento, e cosi via.

Per noi questa parola di rinnovamento ha soprattutto un significato religioso e morale; ricordiamolo bene. Noi vogliamo, noi dobbiamo rinnovare il nostro sentimento religioso e il nostro impegno morale. E vogliamo e dobbiamo fare questo in ordine a due poli, tra i quali corre l'asse della nostra vita; il polo evangelico ed il polo dell'attualità, nella quale si trova praticamente la nostra esistenza.

Il polo evangelico. E di moda una interpretazione comoda, lassista, soggettiva, puramente liberatrice del Vangelo; Vangelo che, tutto sommato, noi consideriamo, a buon diritto, il codice fondamentale della nostra religione. Non ha forse detto il Signore: "Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero?" (
Mt 11,30). Non ha Egli detto di Sé: "Io sono il buon Pastore?" (Jn 10,11), il Quale, avendo cento pecore, se una ne perde, lascia le novantanove per andare in cerca di quell'una che srè smarrita, e, trovatala, se la mette sulle spalle tutto contento e la riporta a casa . . . ? (Lc 15,4-6 e tutto il discorso polemico di Mt 23). Si, la bontà, l'amore, il sacrificio di sé, il perdono sono i caratteri essenziali del Vangelo; essi delineano fedelmente il profilo di Cristo. Ma non possiamo dimenticare un altro carattere della sua predicazione: il regno dei cieli, che Gesù Cristo ha predicato, non è né politicamente sovversivo, né moralmente permissivo (nel senso odierno di questo termine). Gesù Cristo è il grande Profeta della riforma umana, quella riforma che da tutti è richiesta ed è per tutti salute.

Dovremmo rileggere il celebre e fondamentale "discorso della montagna" nel Vangelo di San Matteo. Quante volte Gesù costruisce il suo discorso con la dialettica drunrantitesi riformatrice: "Voi avete udito che fu detto agli antichi . . ." (Mt 5,17 Mt 21 et ss.), Egli afferma ripetutamente; e poi subito: "E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei (che erano allora reputati i professionisti della giustizia e della perfezione), voi non entrerete nel regno dei cieli". Il regno dei cieli, noi possiamo dire il cristianesimo, è esigente; è una porta stretta, che conduce alla vita (Cfr. Ibid. Mt 7,14); esige uno sforzo, esige un impegno. Non è fatto per gli imbelli, per i vili, per i gaudenti; è fatto per i coraggiosi, per i forti, per quelli che non ricusano di portare, con Cristo, come Cristo, la Croce (Cfr. Ibid. Io, 38-39; Jn 12,24-25).

Quale sia questa Croce ce lo dirà ancora il Vangelo: sarà il senso del dovere morale, dell'interiorità spirituale, dell'amore fraterno e sociale; sarà quel persistente sforzo di autoriforma, mediante il quale diamo alla nostra vita un contenuto e un aspetto di autenticità cristiana; diciamo pure, sapendo che a tanto la grazia divina ci assiste, di santità.

Primo polo questo, che attinge la sua direzione e la sua energia dalle sorgenti della vita spirituale e religiosa. E l'altro polo, al quale questa stessa vita spirituale e religiosa deve, con rettilinea fedeltà, dirigersi, qual è? è la condizione concreta e pratica della nostra esistenza, multiforme e variabile; ma provvidenziale punto drarrivo, dove essa acquista senso e valore.

Rinnovamento è riforma, per ciascuno e per tutti. Cosi è la Chiesa che riparte da questo Giubileo con passo nuovo, verso i suoi storici ed eterni destini.

Con la nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 15 ottobre 1975

15105


Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Noi ci troviamo in un momento ed in una sede: l'Anno Santo e queste tombe apostoliche, da cui ci si presenta nella sua più chiara e più drammatica prospettiva la questione pratica e principale della nostra vita cristiana, quella del confronto, del rapporto cioè fra la professione della nostra fede ed il mondo nel quale ci troviamo. E una questione capitale: un cristiano, che vuole essere coerente e fedele con la propria adesione alla religione cattolica, puo immergersi nel mare potente e tempestoso della vita moderna? Vi è un contrasto, un conflitto, un urto fra la concezione circa il modo di vivere drun battezzato, drun figlio autentico della Chiesa, e la concezione, il costume drun figlio non meno autentico del nostro secolo? Ed è una questione antica; risale al Vangelo, il quale, da un lato, professa unradattabilità aperta a tutte le nazioni, a tutte le civiltà: "andate, ha detto Cristo ai suoi discepoli ed ai suoi apostoli, andate a tutte le genti" (
Mt 28,19); e dall'altro lato, non nasconde una irriducibile diversità, un antagonismo fra chi vuol essere seguace di Cristo e chi non lo è e al seguace si oppone; Gesù ha detto: "Ecco, Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (Ibid. Mt 10,16): sarete perseguitati; la vostra esistenza sarà resa dura e difficile; perfino in seno ad una stessa famiglia potrà sorgere divisione; "voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome r; . . . "non pensate che Io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace; ma la spada . . ." (Ibid. Mt 10,34); "verrà l'ora in cui chi vi ucciderà, penserà di rendere omaggio a Dio" (Jn 16,2). La tragica storia del Santo che abbiamo canonizzato domenica scorsa, Oliviero Plunkett, ne è, fra le tante, una drammatica testimonianza; e quanti cristiani, ancora oggi, perché cristiani, perché cattolici vivono soffocati da una sistematica oppressione! Il dramma della fedeltà a Cristo, e della libertà di religione, se pure mascherato da categoriche dichiarazioni in favore dei diritti della persona e della socialità umana, continua!

Perché ricordiamo questa triste sorte ancor oggi riservata a tanti fratelli di fede? La ricordiamo, primo, perché dobbiamo averli presenti nella preghiera questi fratelli, nel cuore, nell'onesto tentativo di ottenere anche per loro giustizia, pace e libertà nella civile professione dei loro sentimenti religiosi. Secondo: perché noi tutti abbiamo a riflettere realisticamente su questo aspetto della nostra fede: essa comporta sempre fortezza dranimo, coerenza di vita, capacità di pazienza e di testimonianza. Terzo: perché sappiamo leggere e rileggere quella grande pagina del Concilio, che srintitola Gaudium et Spes, dove con tanto ottimismo, con tanta larghezza di vedute, con tanto senso della realtà storica, questo immenso problema del confronto fra la vita cristiana e la vita profana e moderna è analizzato sapientemente e praticamente.

Noi ci limitiamo qui ad accennare ai tre atteggiamenti che in simile situazione ci sembrano raccomandabili. l'atteggiamento della fedeltà a Cristo, alla Chiesa, al nostro inalienabile rapporto con la verità religiosa, col nostro destino vitale e soprannaturale. Ripeteremo ancora una volta le parole esortatrici di San Pietro: siate "forti nella fede" (1P 5,9); e non sedotti dall'opportunismo di moda, o dalla parziale priorità sociologica, o politica data talora alle questioni di religione e di coscienza. l'atteggiamento critico e morale a riguardo di espressioni ideologiche e morali, che spesso diventano convenzionali nella pubblica opinione, e trovano facile appoggio nell'acquiescenza collettiva drun decadente costume; e cio specialmente quando sono in gioco valori superiori, sia a riguardo del pensiero, che della condotta pratica, che il magistero della Chiesa abbia autorevolmente difeso. Parola di San Paolo: "Esaminate bene ogni cosa; ritenete cio che è bene; astenetevi da ogni forma di male" (1Th 5,21-22). E finalmente atteggiamento apostolico, pieno di stima, di simpatia, di fiducia anche verso gli uomini del nostro tempo: cioè procuriamo, non solo di difenderci dal contagio del male, che possiamo pur troppo riconoscere presente un por dappertutto (Cfr. 1Jn 5,19), ma di promuovere il bene, di sostenerlo, di attestarlo, di difenderlo, di moltiplicarlo: il cristianesimo possiede tali risorse di bene, che dobbiamo talvolta attribuire a noi stessi se il mondo va male, per nostra insipienza, per nostra ignavia, per nostra viltà. Lasciamoci esortare dall'Apostolo: "sappiate ben conoscere il tempo; questa è già l'ora per noi di svegliarci dal sonno!" (Rm 13,11). Coraggio, dunque! con la nostra Apostolica Benedizione.


SALUTI DEL SANTO PADRE

Padri Passionisti

partecipanti al Congresso internazionale sulla teologia della Croce

Un particolare saluto meritano i Padri Passionisti e gli altri studiosi che partecipano al Congresso Internazionale indetto nel secondo centenario della morte di San Paolo della Croce, in collaborazione con la Fondazione Internazionale "Stauros" di Lovanio, e il Pontificio Ateneo "Antonianum" di Roma. Voi state dedicando contributi di studio e di riflessione ad approfondire "La Sapienza della Croce, oggi r, nel ricordo di un grande Santo che della Croce ha fatto il programma totale della sua vita, del suo apostolato, della sua mistica, della sua famiglia religiosa. Vi siamo grati di codesta iniziativa: effettivamente, la Sapienza della Croce E punto centrale del Cristianesimo, è forza della Chiesa, è fulcro della sua vita sacramentale, della sua preghiera, della sua predicazione, fondate sul Cristo crocifisso e risorto, vivente nella Chiesa (Cfr. 1Co 1,18). E questo paradosso di Sapienza-stoltezza va illustrato oggi, quando tanta parte del pensiero, della mentalità, della prassi sembra rifuggire da esso, o rinnegarlo addirittura. Che il mondo contemporaneo, lacerato da tante contraddizioni, ritorni a scoprire nella Croce la luce, la forza, il coraggio, l'amore di cui ha bisogno se non vuole perire: è il nostro voto, con cui accompagniamo i vostri lavori, insieme con la nostra Benedizione.

Catechisti di varie nazionalità partecipanti all'l Incontro Mondiale Catechisti Missionari r

We wish to express our deep affection for all the missionary catechists present here today. We want you to realize the dignity of your role and the importance of your mission in the Church. We want the whole World to know our esteem for you.

How often we pray for you! And how many times we enquire about you and send you our blessing through your Bishops! Beloved catechists, you must always be strong in your faith. You must teach Christ and bring him to your fellowmen by word and example. The Church loves you and depends on you. And Christ loves you and depends on you. And in his name we bless you once again.

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Mercoledì, 22 ottobre 1975

22105


Fratelli, Fratelli miei!

Noi abbiamo intrapreso una grande fatica, quando abbiamo iniziato questo Anno Santo come unropera di rinnovamento. Di quale rinnovamento, in fondo, si tratta? Si tratta drun tale rinnovamento che ci faccia ritrovare Dio nella nostra vita moderna. Si tratta drun ritrovamento, un ritrovamento religioso.

E mai possibile? cominciamo col renderci conto che questo ritrovamento costituisce il primo problema del nostro tempo, il primo problema della mentalità contemporanea e, per molti di noi, il nostro primo problema, quello che riguarda più a fondo la nostra anima, il nostro modo di pensare, il nostro modo di agire.

Noi che siamo qui riuniti per ridare alle nostre anime il senso di Dio, per convertirci alla religione, cioè al rapporto autentico e vitale con Dio, per imprimere nella nostra vita la direzione giusta, quella che dà senso e salvezza alla nostra esistenza, per riaprire le labbra e il cuore al colloquio con Dio, cioè per pregare, noi non dobbiamo avere paura a mettere davanti alla nostra coscienza questo capitale e inevitabile problema: esiste Dio, esiste davvero? e come pensarlo? come trovarlo? come comportarci alla sua penetrante e sovrastante presenza?

La domanda incalzante e molteplice ci intimidisce e talora ci scoraggia. Noi sentiamo drintorno a noi la pressione drun mondo che vive senza Dio. Un mare di gente, chrè pure a noi tanto vicina, è, e spesso si professa a-religiosa, irreligiosa. Indifferente davanti a questo problema, che noi invece, giustamente, stimiamo fondamentale; anzi essa si vanta dressere laica, nel senso radicale della parola, apatica, estranea, quasi affrancata da ogni preoccupazione religiosa; e se ne vanta, come se l'incuranza religiosa fosse segno di libertà e di modernità. Costoro pretendono di vivere senza Dio. Anzi, oggi, pur troppo non sono pochi che vogliono vivere contro Dio, falsamente convinti di due fatali errori: che la religione sia inutile, e che la religione sia errata.

Tutti sappiamo quale diffusione e quale complessità di opinioni, di teorie, di movimenti si concentri su questi pseudo-principii, e quale irradiazione di idee, di letteratura, di propaganda, di costumi scaturisca da essi. Povera nostra civiltà religiosa e cristiana, quale mole negatrice ti opprime e ti schiaccia! povere nostre chiese, dove sono le comunità che nelle vostre mura, nei vostri riti, nei vostri canti celebravano inneggiando a Dio la loro fratellanza? Poveri nostri campanili, fino a quando eretti verso il cielo ci obbligherete a sollevare lo sguardo dalla terra nella fiducia di orizzonti celesti?

Noi non dobbiamo essere insensibili e rassegnati a questa sorte, che, negando Dio ed il suo regno fra noi, distende una notte senza stelle sui destini umani. Il mondo comincia ad accorgersi che la velleitaria negazione di Dio si ritorce in una reale negazione dell'uomo. In ogni modo sia chiaro per noi che quanto più si attesta e si diffonde l'ateismo, teorico o pratico che sia, tanto più noi dovremo, in umiltà ed in fortezza di spirito, essere gli assertori della gloria di Dio, della nostra fede, della nostra sicurezza, della nostra fortuna, della nostra felicità di cristiani, che sanno recitare, cantare anzi, fidenti ed impavidi il loro: Credo in Dio, Padre onnipotente.

Impossibile qui discorrere di un tema vasto come un oceano. Un accenno, un accenno soltanto alla causa, forse principale, della irreligiosità moderna (a prescindere ora da quella sociale e politica). La causa? la causa, strano a dirsi, è il progresso tecnico e scientifico che ha scoperto nelle cose conosciute dai nostri sensi e dalla nostra intelligenza una straordinaria ricchezza di leggi e di energie, e di diversità di enti e di combinazioni fra loro; ha scoperto il mondo, e si è lasciato invaghire, incantare, entusiasmare, legittimamente; e poi si è provato, ed è riuscito a fare strumenti per dominare questo mondo finalmente scoperto, e a farne mezzi meravigliosi per moltiplicare la potenza dell'uomo, la sua ricchezza, e la sua immediata felicità. Che cosrè successo? è successo che l'uomo srè fermato al quadro delle sue scoperte e del suo studio scientifico, gridando trionfante: questo è tutto! ovvero, sudando dalla fatica drun implacabile lavoro: questa è la mia catena, non posso pensare -ad altro. Il progresso tecnico e scientifico, che caratterizza il nostro tempo, è diventato un arresto speculativo e spirituale.

l'uomo non si è accorto che quanto più complesso, più interessante, più bello gli appariva il regno conoscibile, tanto più evidente egli incontrava l'impronta druna Mano operante, di una Causa trascendente; e che percio la sua conquista, lungi dall'allontanarlo dal Dio creatore, a Lui doveva avvicinarlo. Egli non ha saputo accorgersi che le sue scoperte si presentavano come segni e riflessi drun Pensiero operante e superiore. Scriveva la Simone Weil: "Se questi oggetti (del nostro studio e del nostro lavoro) non si trasformano in specchi di luce, è impossibile che durante il lavoro l'attenzione sia orientata verso la sorgente di quella luce. Una simile trasformazione è la necessità più urgente r.

Ora questo, Fratelli, è il nostro dovere, la nostra stupenda missione : insegnare all'uomo moderno, lavoratore, impresario o scienziato che sia, che l'accresciuto possesso del mondo è un accresciuto contatto con una rivelazione naturale di Dio, con una sua prima teofania, del Dio onnipotente, alla quale segue poi la rivelazione soprannaturale del Dio-Amore, del Dio del cristianesimo. La religione, invece dressere inadatta per il mondo moderno, lo è più di prima, quando il mondo era privo di cultura scientifica; e per convincere gli uomini del nostro tempo di questa splendida verità deve affermarsi il rinnovamento del nostro giubileo, ricordando le parole di San Paolo all'areopago di Atene: in Dio, egli disse, "in Lui noi viviamo, noi ci moviamo, noi siamo!" (
Ac 17,28).

Delle mille cose che ancora su questo tema sarebbero da dire questa adesso ci basti! e sia programma di vita nuova e moderna; con la nostra Benedizione Apostolica.





Mercoledì, 29 ottobre 1975

29105


Durante e mediante questa celebrazione dell'Anno Santo noi stiamo studiando e osando grandi cose, quali sono quelle che riguardano il restauro del piano ideale della vita. Ci attira l'ideale di riordinare il disegno della nostra esistenza, di riparare in noi i falli del nostro modo di pensare e di agire, di dare alla nostra fisionomia umana uno stile di perfezione e di bellezza; e sapendo oramai che questo riordinamento, o rinnovamento come abbiamo preferito definirlo, altro non è che un dare, o ridare alla nostra personalità unrautentica impronta cristiana, noi ci domandiamo, come il giovane del Vangelo, che cosa in fondo noi dobbiamo fare. Sorge cosi in noi questa interiore e impellente domanda circa il dovere, cioè circa quella esigenza dell'agire, del fare, del diventare, dell'imprimere al nostro essere quella forma che corrisponda alle sue vere e supreme esigenze, il dover essere. Ci accorgiamo che in questa parola "dovere" sta il segreto della nostra vita; non basta vivere, non basta né l'essere, né l'avere, né il potere; quello che importa è la nostra risposta al dover essere, alla chiamata interiore circa la nostra perfezione; e non una perfezione qualsiasi, di sapere, di potere, di apparire, di riuscire, di star bene e di godere, ma una perfezione di dovere, quella perfezione che sola ci definisce veramente uomini, veramente cristiani. Questo è il problema fondamentale: indovinare, scoprire cio che noi dobbiamo essere moralmente; il che vuol dire: divenire propriamente noi stessi, secondo l'idea che Dio ha concepito su di noi. Questione sottile, ma di facile comprensione: noi dobbiamo conseguire, o tendere a conseguire, la nostra perfetta autonomia nella corrispondenza a quella eteronomia (cioè a quella legge a noi proposta) nella quale si pronuncia la volontà trascendente di Dio, e si realizza il vero nostro essere. Il programma dell'esistenza nel tempo è questo: fare la volontà di Dio. Ricordare il fiat voluntas Tua, del Pater noster? Cosi ha risposto Gesù, il Maestro della nostra vita, al giovane del Vangelo alla domanda circa cio che dovesse fare: "osservare i comandamenti" (
Mt 19,17). Questo è il senso intenzionale della nostra vita, questo dovrebbe essere il verbo della nostra coscienza, questa è l'esigenza principale e direttiva della nostra attività.

Ebbene! arrestiamo, per un istante, che puo essere per noi quello decisivo circa l'esito della nostra celebrazione giubilare, la nostra riflessione su questo tema dominante: qual è in noi, in ciascuno di noi il senso del dovere, quale Dio presenta al nostro destino? Quale fu la primissima reazione di S. Paolo (allora ancora si chiamava Saulo) quando Cristo dal cielo lo folgoro sulla via di Damasco: "Signore, che cosa vuoi che io faccia?" (Ac 9,6). Cosi noi proveremo a chiedere al Signore, che forse ci ha atteso a questo incontro dell'Anno Santo per illuminarci con la fulminante sua luce: Che cosa dobbiamo fare? O meglio: che cosa io devo fare?

Qui un rapidissimo accenno ad alcune importanti osservazioni. La prima è quella circa la necessità di determinare, almeno in via di massima, la linea normativa, cioè l'esigenza del dovere, circa la concezione della propria esistenza. Diciamo questo non per smentire, né per mortificare unraltra prerogativa della vita, elevata al grado supremo nella mentalità moderna, quella della libertà, che noi sappiamo essere un dono spirituale privilegiato, che configura l'uomo alla somiglianza di Dio (Cfr. Gen.2, 26), ma per ricordare che il dono della libertà deve essere impiegato nella ricerca e nella scelta del bene, cioè del dovere, anzi dell'amore di Dio, chrè la suprema e riassuntiva legge del Vangelo (Mt 22,156). La libertà devressere bilanciata dall'obbligazione morale, spontaneamente, ma generosamente e totalmente; altrimenti essa diventa diritto, solo diritto egoistico e unilaterale, con tutte le conseguenze antisociali che questa esclusività comporta; ovvero degenera in cieca licenza, schiava dell'istinto, e non certo drun istinto equilibrato e rivolto alla vera statura dell'uomo.

Due termini ottimi noi incontriamo nel linguaggio contemporaneo, quasi sostitutivi della troppo severa parola di "dovere r: coscienza e responsabilità. Ottimi diciamo, se collegati con le realtà, che questi termini comportano; le realtà trascendenti della legge di Dio e della compagine naturale e sociale, in cui si svolge la nostra vita. Coscienza, sta bene, se essa non si limita a quella psicologica o puramente egoistica, ma si solleva al livello morale, chrè illuminato dalla luce di Dio; responsabilità, sta bene, se essa conserva la visione integrale dei vincoli a cui dobbiamo osservanza, siano essi personali, o sociali, o religiosi.

Noi pensiamo che questa sacra parola, che suona dovere, non dovrebbe essere abolita dal nostro pensiero e dal nostro linguaggio, specialmente quando, come noi ora, vogliamo rinnovare in noi il senso cristiano: essa è parola piena di forza, di onore, di amore, e di fiducia, parola, che dovrebbe essere stampata, come fecero i grandi, gli eroi, ed i santi nel cuore dell'uomo: io devo!

Con la nostra Apostolica Benedizione.





Mercoledì, 5 novembre 1975

51175


Questo benedetto Anno Santo pone davanti al nostro spirito la questione somma e fondamentale: che cosa in fondo dobbiamo fare per rimettere ordine, equilibrio, saggezza, perfezione nella nostra vita?

Ci è stato detto che non è l'essere, che conta alla fine per la nostra salvezza, né tanto meno l'avere, o il potere; le quali cose sono pure preziose in se stesse, ma in ordine alla nostra salvezza sono doni che accrescono, non esauriscono la nostra responsabilità. Decisiva devressere per noi la tremenda questione, con cui Cristo ci aggredisce, si puo dire, nel Vangelo: "Che cosa giova mai all'uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde lranima? O che cosa darà l'uomo in cambio dell'anima sua?" (
Mt 16,26). Cio che conta, dicevamo, è il fare.Lrazione diventa il valore più prezioso. La volontà decide il destino della nostra vita.

Ed ora ecco l'insistente nostra domanda: allora, che cosa devo fare? Domanda che nel Vangelo suona cosi, sulle labbra drun "dottore della legge r, che interpella Cristo: "Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?" (Ibid. 22, 36). Tutti noi ricordiamo la semplice e sublime risposta: "Ama (ricordiamo bene e ripetiamo: ama) il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" (Ibid. 22, 37); ed il Vangelo di S. Marco aggiunge: "e con tutte le tue forze" (Mc 12,30).

Amare Dio! grande parola! grande legge! Ma è facile? E possibile a noi, figli del nostro secolo? Dio: come lo conosciamo? Siamo più abituati a dubitare di Lui, che a pensare a Lui: come possiamo con quella forza e con quella totalità di sentimenti, di certezza, di propositi, che il Vangelo reclama? non vi è piuttosto una posizione critica nello spirito dell'uomo moderno, che una disposizione amorosa? non sopravvive in certe volgari abitudini del linguaggio popolare unrindegna facilità di bestemmia del santo e ineffabile nome di Dio, piuttosto che una professione di simpatia e di lode? e non sono arrivati i cervelli più audaci e più ottenebrati dall'ateismo moderno a prospettare l'ipotesi - ahimé! in certo modo consumata nei loro animi ciechi, non certo in se stessa chrè la cosa più assolutamente impossibile -, l'ipotesi, diciamo, anzi l'affermazione della "morte di Dio r? Come puo l'aridità religiosa del tempo nostro ammettere ancora che l'atto più importante e più impegnativo della nostra vita è l'amore a Dio? E poi: che cosa srintende per amore? non è questa parola diventata assai equivoca e degradata in espressioni indegne non solo di Dio, ma dello stesso uomo? Perché non ci è fatta una lezione sul vero amore, quale si possa rivolgere religiosamente a Dio? Amore ricerca, amore attesa, amore ascensione, amore gioia, amore luce, amore dono, amore lode, amore amicizia, amore beatitudine? (cfr. S. Agostino, S. Bernardo, S. Francesco drAssisi, San Francesco di Sales, e tutti i Santi che ci hanno detto qualche cosa del loro rapporto con Dio).

Noi presentiamo questo aspetto negativo della nostra questione per onestà di realismo psicologico, morale verso il nostro tempo. E per alzare la voce nostra e la coscienza di tutti su l'estrema importanza di restituire alla nostra religione la sua base fondamentale: l'amore a Dio. Ma potremmo anche dire qualche cosa su le aspirazioni, segrete o palesi, con cui l'anima umana, fatta per tendere a Dio, ancora oggi ci documenta la sua sete di Lui, inestinguibile sete, finché l'uomo resta uomo.

Ora tuttavia preferiamo, parlando a voi che nei passi stessi del vostro pellegrinaggio giubilare dimostrate l'ardente e concreta ricerca amorosa di Dio, suggerirvi alcuni consigli utili, noi pensiamo, alla soluzione della grande questione chrè poi capitale per l'esito dell'Anno Santo.

Bisogna partire dalla certezza che Dio è! Il pensiero, nel suo più semplice e inevitabile cammino, nel suo istinto logico, potremmo dire, ci dà questa certezza: si, Dio E! Ma è una certezza tormentosa se non è integrata dalla rivelazione stessa che Dio ha fatto di Sé; rivelazione estremamente delicata, e quasi gelosa, perché riservata a chi con limpido cuore è disposto a riceverla. La fede riempie di luce e di gioia lo spazio infinito scoperto dalla ragione, e anche dal cuore, come patria di Dio. E allora che la parola inebriante di Cristo arriva a noi: "Padre nostro, che sei nei cieli r! (Mt 6,9)

Ecco dunque la grande conquista, di cui non avremo mai abbastanza esplorate le dimensioni: Dio è Padre! Questo concetto esistenziale, metafisico, unico, originale, ineffabile è la sorgente della nostra religione; la quale pone questo principio: se Dio è Padre, Dio è Amore. Egli ci ama. Non finiremo mai di saziare ogni nostra aspirazione mentale, cordiale, spirituale, lasciando che questa convinzione penetri nel nostro spirito: noi siamo amati! amati da Dio! Tutto è bene per noi, se Dio ci ama! e cosi è! Ed ecco allora la soluzione, potenziale almeno, del nostro grande problema: se Dio mi ama, io non posso non amarlo. La carità di Dio verso di noi rimbalza, per quanto a noi è dato per sua grazia di fare, rimbalza forte, sincera, umana, felice, nella risposta verso di Lui: Si, o Signore, anchrio, Tu lo sai, anchrio Ti amo!

Tutto il resto viene da sé, con la nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 12 novembre 1975

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Nel quadro del "rinnovamento r, che la celebrazione dell'Anno Santo propone ai Fedeli, deve trovare il suo posto, un posto di decisiva importanza, il precetto della carità verso il prossimo, un precetto che trova la sua applicazione in ogni nostro rapporto con gli altri, siano essi nostri familiari, o nostri soci o colleghi in ogni forma di raggruppamento collettivo, ovvero appartengano essi alla società umana, vicina o lontana chressa sia dalle nostre persone o dai nostri interessi.

Il prossimo, nella definizione che ce ne ha dato il Vangelo nella parabola del buon Samaritano (Cfr.
Lc 10,29-37), è chiunque abbia bisogno di noi; è una definizione amplissima, che supera ogni confine, e che comprende anche gli estranei (Cfr. Ibid. Lc 14,12 ss.), anche i nemici (Mt 5,44-48 Rm 12,14); ed ha un carattere obbligante, contrario ad ogni forma di egoismo (Cfr. Lc 16,19 ss.), o di insensibilità sociale (Mt 25,42 ss.). Il cristianesimo, ben lo sappiamo, è amore, è carità: Carità di Dio verso di noi; carità, mistero ineffabile che tende niente meno che ad associare, per via della grazia, la nostra vita a quella di Cristo (Rm 5,5), e che genera in noi una carità che risale a Dio, e che diventa una energia amorosa e premente verso ogni effusione reclamata dalla sofferenza altrui (Cfr. 1Co 13,1 2Cor.ss.; 2Co 5,14 Ph 4,9 etc.).

Impossibile quindi immaginare un rinnovamento cristiano che non sia nello stesso tempo un rinnovamento nell'amore del prossimo, e possiamo pure usare il linguaggio attuale: un rinnovamento sociale. Il discorso diventa cosi assai importante e assai delicato. Importante, perché entra nel dramma delle lotte e delle evoluzioni sociali, proprie del nostro tempo, con l'intenzione di apportarvi non solo la formula risolutiva, chrè quella della fratellanza degli uomini fra loro (Mt 23,8), ma la capacità altresi di realizzarla, con l'esclusione della lotta sistematica, della lotta di classe, e con la difesa, anzi la promozione della dignità e della libertà della persona umana, nel rispetto per ogni altro membro dell'umana famiglia. Ed è questo l'aspetto delicato, cioè complesso e controverso, della soluzione che l'amore cristiano, cioè il nostro programma sociale, intende promuovere e realizzare: non tanto come semplice via media, di compromesso, fra le altre due formule avverse e parziali, che oggi si contendono il predominio della socialità contemporanea, e cioè l'egoismo liberale, o capitalismo, come di solito è qualificato, da una parte, e il socialismo comunista dall'altra, ma come espressione originale, organica e dinamica della convivenza sociale, in ordine globale, non solo cioè ristretto all'assillante contesa dei beni economici e materiali, ma esteso alla valutazione altresi dei beni superiori, quelli morali, spirituali e religiosi.

Vi accenniamo appena, senza ora entrare nella critica delle molte questioni che sorgono allor quando consideriamo il fatto sociale ed i criteri fondamentali da cui devressere informato; ci basta ora ricordare che il rinnovamento giubilare, al quale siamo ora appassionatamente interessati, non puo trascurare questo suo aspetto essenziale, quello della carità sociale, al cui incremento tutti, come uomini, come credenti, dobbiamo cooperare.

E ci basti altresi riaffermare che l'applicazione felice e feconda drun autentico programma, individuale o collettivo che sia, di carità sociale non puo compiersi senza derivare la sua suprema ragione dressere, e anche le sue forme genuine di provvido e permanente umanesimo, dalla religione, intesa comrè la nostra, il poema cioè soprannaturale della carità di Dio Padre e di Cristo salvatore, e dello Spirito Santo verso l'umanità, anzi verso ciascuno di noi.

Senza l'amore verticale, che da Dio discende e a Dio risale, è impossibile che sia diritta la via dell'amore orizzontale dell'uomo verso l'uomo: questo orizzontalismo, o srinceppa, mancando del suo supremo e inesauribile motivo, lramore primo e sommo verso Dio; o devia in espressioni incomplete o anche difformi, e alla fine egoiste ed anche inumane.

Ed aggiungiamo unraltra osservazione, che ci sembra suggerita per giunta anche dalla presente condizione storica dei Popoli chiamati a trovare formule di rispetto reciproco e di equilibrio generale; ed è questa: occorre infondere nella comune coscienza sociale uno "spirito" di amore, di solidarietà, di servizio, che temperi e corregga l'egoismo rinascente con lo stesso sviluppo economico e civile, e che educhi gli uomini del nostro tempo alla concordia, alla collaborazione, alla pace. Questo spirito, noi crediamo, è quello di Cristo, che dalla Croce del suo sacrificio ci esorta: "amatevi gli uni e gli altri, come Io vi ho amati" (Jn 13,32): amare senza vero altruismo, senza sacrificio, veramente non si puo.

Cosi sia per noi e con la nostra Apostolica Benedizione.


Partecipanti all’assemblea generale dell’Istituto dei «Foyers de Charité»






Paolo VI Catechesi 8105