Paolo VI Catechesi 40276

Mercoledì, 4 febbraio 1976

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Noi siamo ancora indotti a pensare ai frutti dell’Anno Santo, persuasi come dobbiamo essere che una simile esperienza religiosa e morale non può, non deve essere senza conseguenze operanti oltre la durata dell’Anno Santo stesso, e sotto certi aspetti alcune conseguenze di quel periodo di revisione e di rinnovamento del nostro modo d’essere cristiani devono essere permanenti.

Ora è di prima evidenza che uno dei risultati auspicati dall’Anno Santo è quello d’un cristianesimo forte. La comune assuefazione al costume, che abbiamo abitualmente qualificato cristiano, ha in molti, in troppi seguaci di questa umanissima e sempre sublime definizione della vera ed autentica arte di vita, ha svigorito la sua intrinseca esigenza, quella della coerenza, quella della fermezza, quella del coraggio, quella dell’operosità. Ci siamo abituati ad un cristianesimo puramente nominale e anagrafico; ci siamo lasciati a torto incantare dalla mitezza che la sequela di Cristo comporta (
Mt 11,9), per confonderla con la debolezza; abbiamo profittato della libertà cristiana e della indulgenza doverosa verso le altrui opinioni per concederci l’indifferenza verso qualsiasi agnosticismo teorico e pratico; abbiamo dato al pluralismo e alle novità delle idee e delle azioni un’interpretazione lassista e permissiva deleteria d’ogni norma logica e morale; abbiamo spesso giudicato debilitante e imbelle l’educazione religiosa al confronto di altre pedagogie energiche e costrittive. Diciamo pure: abbiamo anche noi talvolta dubitato se l’opportunismo di moda verso ideologie correnti non potesse avere, come fosse un atto di personale coraggio, la nostra comoda e supina adesione. Analizzando un po’ questo diffuso contegno, ci siamo forse accorti che interiormente esso equivaleva ad evitare fastidi ed a procurare vantaggi; non ci siamo lasciati sfuggire la doverosa autodenuncia d’una viltà; e abbiamo così evitato la testimonianza, il sacrificio, la croce. Ci siamo rassegnati allo scoraggiamento, alla fatalità degli avvenimenti, mascherando di intelligente tempestività il vostro tardivo ossequio al trionfo della moda e della passività ambientale; senza più afferrarci ai nostri principii, ai nostri doveri, alla nostra coscienza cristiana.

Ebbene, se vogliamo essere coerenti e fedeli dovremo ricordarci che dobbiamo essere forti, secondo ragione s’intende, anche se questa virtù della fortezza cristiana ci espone a non pochi pericoli, a non poche difficoltà (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 123,1). La nostra professione cristiana non dev’essere condizionata dalla paura. Cristo ce lo ha ripetuto tante volte (Cfr. Mt 10,28). Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti (cioè i forti) lo possono raggiungere (Ibid. Mt 11,12). Il cristiano non dev’essere un mediocre, ma un forte (Cfr. S. AMBROSII De Officiis, 1, 39).

Se la nostra educazione cristiana è stata debole e reticente, specialmente sul senso del dovere, su l’obbligo della testimonianza e dell’apostolato, sul rischio dell’impopolarità, dell’avversa fortuna (Cfr. Jn 16,20) e perfino della vita (Ibid. Jn 12,24-25), noi dobbiamo corroborarla di virtù per sé religiose, quali sono la fede, la speranza, l’amore, ma eminentemente pratiche anche nell’ordine temporale (Cfr. Ga 3,11 Rm 5,5 2Co 1,7 etc.); e ricuperare alla nostra vita cristiana la virtù cardinale della fortezza.

Noi ripeteremo con S. Pietro: siate forti (1P 5,9); a tanto ci chiama l’integrità della nostra vocazione cristiana; a tanto ci obbliga la storia dei tempi che stiamo vivendo.

Con la nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì, 11 febbraio 1976

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Sì, miei Fratelli e Figli carissimi, dopo la celebrazione dell’Anno Santo noi dobbiamo portare nell’animo il senso, ch’è proprio corrispondente al mistero della grazia, del nuovo rapporto stabilito, per noi cristiani anzi ristabilito, restaurato, operante di Dio-Amore nel cuore della nostra esistenza, il senso della novità, della novità cristiana. Il cristiano è sempre un uomo nuovo. È sempre un uomo giovane. Egli deve sentirsi rinato, continuamente rinato; continuamente in una fase di superamento della condizione caduca e depressa della vita puramente naturale nell’atto di tendere, anzi di raggiungere in qualche modo uno stato di vita sopra-naturale, con qualche corrispondente esperienza interiore, soggettiva, e nella Chiesa anche esteriore, dell’atmosfera d’amore, di carità, alla quale egli, cristiano, è stato ammesso.

Chi sa e sente d’aver conseguito questa nuova animazione, la pace e la gioia nello Spirito Santo (Cfr.
Rm 14,17 Ga 5,22), d’essere, come si suol dire, in grazia di Dio, dovrebbe alimentare in se stesso questa coscienza dell’inestimabile fortuna conseguita, e dare al suo stile di vita questa nota di novità e di felicità. Ce ne parla ripetutamente S. Paolo, esortandoci a camminare in una nuova vita (Rm 6,4 Rm 7,6 Rm 12,2). È lui che ci parla dell’uomo vecchio, quali noi siamo quando Cristo non vive in noi (Ibid. Rm 6,6 ss.), e che ci introduce nella dottrina mistica, accessibile ad ogni cristiano, della vita di Cristo la quale si realizza in noi, affermando: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Ga 2,20). Questa psicologia del diventare cristiani nel senso misterioso, ma realistico, della parola, è propria dei santi, cioè, come si qualificavano fin dai primi giorni della Chiesa, i cristiani, dei figli adottivi di Dio, partecipi in certo grado fin d’ora, e in potenza ad un’ulteriore pienezza della Vita divina (Cfr. 2P 1,4), e si esprime in un gaudioso ottimismo, che pervade in ogni sua condizione la nostra nuova vita (ne abbiamo parlato nella nostra Esortazione Apostolica «Gaudete in Domino» dello scorso anno), e che ci assicura nella fede e nella speranza la pienezza vittoriosa della carità dell’oltretomba (1Co 13,8).

Ineffabile, bellissima e già beatificante visione della vita presente alla luce escatologica della vita futura. Che cosa cambia nella filosofia della esistenza, quando in questa è infuso l’ordine soprannaturale della grazia? nulla, si direbbe giudicando le cose col criterio dell’esperienza sensibile e dello stesso ordine razionale; ma come in ambiente oscuro quando si accende una luce nulla di per sé cambia, ma tutto acquista ordine, misura e senso, così nella nostra esistenza terrena nulla sembra sia mutato quando vi è immesso il mistero vivente di Cristo, ma invece tutto in realtà è definito nella sua vera realtà, ch’è per di più una realtà progressiva, mutevole ed effimera, da parte dell’uomo che ne è dotato, ma arricchita d’una potenzialità di riviviscenza, di risurrezione prodigiosa (Cfr. Rm 6,5 Ph 3,10-11).

Ma facciamo attenzione, Fratelli carissimi. Non pensiamo che tutto sia qui; non crediamo che fin d’ora tutto sia festa per noi. Se vogliamo inaugurare nuovamente e promuovere la civiltà dell’amore non dovremo illuderci di poter cambiare questi anni stretti negli argini del tempo in un fiume di perfetta felicità. Il Signore ora ci dà, sì, la novità della grazia e quindi della sua gioia, ma non ora la gloria, non la perfetta misura di esperienza di Lui, riservata dopo l’ultimo giorno, alla foce del tempo, quando noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo Cosi com’Egli è (1Jn 3,2). Noi ora vediamo, come scrive S. Paolo, quasi in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia (1Co 13,12).

Perché accenniamo a questa distanza di tempo e di visuale dal conseguimento della vera e perfetta forma di vita cristiana a noi assegnata? Oh! il perché lo sapete, e questo non deve turbare la nostra sicurezza e la nostra gioia anticipata e sperata. Il perché è la Croce, eretta al valico sommo fra la vita presente e quella futura. La Croce non solo fa parte, ma costituisce il centro del mistero d’amore, che abbiamo scelto come vero e totale programma della nostra rinnovata esistenza. In verità, in verità vi dico, insegnò Cristo al termine dell’ultima cena, voi piangerete e vi rattristerete, e il mondo godrà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia (Jn 16,20). Egli aveva già detto: Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna (Jn 12,25).

Questo fisso ricordo ci conforterà in questa presente e terrena vicenda non a temere, ma a essere forti; non volubili, ma coerenti; non paghi delle fallaci mercedi del mondo; ma desiderosi del Regno di Dio. Non dovremo temere, un giorno, d’essere forse in una minoranza, se saremo fedeli; non arrossiremo dell’impopolarità, se saremo coerenti; non faremo caso d’essere dei vinti, se saremo testimoni della verità e della libertà dei figli di Dio (Cfr. Rm 8,21). Così tutti ci aiuti Iddio; con la nostra Benedizione Apostolica.



Agli emigrati libanesi giunti da vari Paesi del mondo


Mercoledì, 18 febbraio 1976

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Noi proseguiamo la grande riflessione che la celebrazione dell’Anno Santo ha iniziato e promosso nei nostri animi, nell’intento di rinnovare nelle forme e nelle energie la nostra vita cristiana. Una parola ora è di moda a tale riguardo, la parola «autenticità», analizzando la quale, per scoprirne il senso interiore, riferito al comportamento umano, vediamo che autenticità comporta perfetta armonia fra pensiero e azione; esige cioè una semplicità d’animo, una trasparenza fra l’interno e l’esterno della condotta, una veracità che attraversa con una medesima luce la mente, il sentimento, la parola, i fatti ed i segni, che insieme definiscono una persona. San Tommaso parla di una verità vissuta (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae,
II-II 109,2 ad 3; et II-II 109,3 ad 3); noi di solito, qualificando un uomo che pratichi questa virtù della verità nella propria vita, parliamo d’un carattere, di una personalità autentica; e, se vogliamo infondere una espressione scritturale in questo stile superiore d’essere e di agire, la chiediamo all’inesauribile e sublimante sapienza dell’apostolo Paolo, il quale ci insegna che dobbiamo vivere «la verità nella carità» (Ep 4,15): veritatem facientes in caritate crescamus in Illo per omnia, qui est caput Christus.

Verità e carità, il binomio è semplice, ma psicologicamente e socialmente non facile; ma, ad ogni modo, comprensivo e rappresentativo di quelle virtù fondamentali che definiscono socialmente l’uomo ideale, cioè il cristiano, e al grado migliore, il santo. Sembrano queste due attitudini morali evidentemente complementari, cioè fatte per integrarsi a vicenda nell’ordine dell’umana convivenza; e così è, secondo l’esigenza superiore dell’unità morale, propria dell’uomo perfetto; ma nell’esperienza della vita vissuta dobbiamo rilevare che spesso la professione sociale d’una verità particolare porta all’intransigenza e alla intolleranza (Cfr. A. VERMEERSCH, La tolérance, 1912); e che la professione sociale d’una filantropia agnostica suppone un’indifferenza ideologica, che spesso la rende poco praticabile e non sempre realmente generosa e fedele. È difficile professare una opinione, che si reputa espressione di verità e dimostrarsi comprensivi e indulgenti verso chi non condivide pari adesione a quella mentalità stessa; come è difficile dimostrarsi veramente amorosi del prossimo, se si prescinde da principii ideali che ce lo rendano degno d’una sincera abnegazione e d’un pesante servizio. In altre parole, la fede senza la carità può, nei rapporti umani, diventare egoista; e la carità, senza la fede, può mancare dei motivi che la rendano perseverante ed eroica.

Come si vede, la sintesi fra verità e carità tocca aspetti della vita molto importanti, i quali possono mutarla, come non di raro avviene nella realtà storica, in antitesi! Buon per noi che il recente Concilio ci ha confermati nell’una e nell’altra adesione, cioè alla verità, ch’è sempre tale da meritare l’omaggio e se necessario anche il sacrificio della nostra esistenza per professarla, per diffonderla e per difenderla; ed insieme alla carità, maestra di libertà, di bontà, di pazienza, di abnegazione in ogni nostro rapporto con gli uomini, a cui il Vangelo attribuisce il nome di fratelli.

Non sono giochi di parole, non sono contrasti di scuola, non sono drammi fatali della storia; sono problemi intrinseci alla natura e alla socialità umana, i quali trovano nel Vangelo, e perciò in quella «civiltà dell’amore», che noi andiamo vagheggiando quale eredità dell’Anno Santo, la loro umile e trionfante soluzione.

Ci conservi tutti a questa scuola la nostra Benedizione Apostolica (Cfr. Ad Gentes AGD 22 Unitatis Redintegratio UR 4 Gravissimum Educationis UR 10 Gaudium et Spes UR 62 Unitatis Redintegratio UR 9-12).




Mercoledì, 25 febbraio 1976

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La speranza, sì, la speranza. Che parola è questa? Una parola che ascoltiamo volentieri, in mezzo come siamo a tante incertezze e a tante tribolazioni. Noi la ascoltiamo volentieri, come una risposta alle attese, che la vita moderna rende più consistenti e più urgenti; come una promessa, che trasferisce nel futuro l’oggetto dei nostri desideri, a cui il presente non dà corrispondente soddisfazione; come un credito che promette d’ottenere sicuramente ciò che la delusione presente per un mancato conseguimento ci fa maggiormente desiderare. L’esperienza della vita non fa che accrescere i nostri desideri; più si ha e più si vorrebbe avere; e, se questa aspirazione non è un inganno fatale, di speranza si vive. Non possiamo, non dobbiamo dire: basta! dobbiamo tendere ad un aumento, ad un progresso, ad un più, che non ci dà pace, finché almeno noi non siamo sicuri oggi di ottenerlo domani. Questa è la speranza.

E noi siamo oggi stimolati a questa proiezione nel futuro della nostra ricerca di ciò che ci manca da un duplice motivo: le condizioni esteriori d’insufficienza, di precarietà, di disordine, e quindi da un bisogno di riparazione, di rinnovamento, di giustizia, di cui è alimentato il dinamismo della vita moderna; possiamo ricavare da queste complesse e tormentate condizioni la tensione, cioè la speranza naturale propria del nostro tempo. L’altro motivo, che si intreccia spesso col primo, è interiore; nasce dalla sofferenza umana, congenita alla natura propria dell’uomo, il quale non è mai contento realmente finché non abbia conseguito quel bene, quella pienezza, quella felicità, a cui l’uomo è essenzialmente ordinato; come l’occhio non è mai appagato finché non abbia la luce. E perciò la speranza è rivolta ad una meta trascendente, all’Infinito, a Dio. Ancora una volta ritorna come vera, come unica la celebre parola di Sant’Agostino: Tu (o Signore), ci hai fatti per Te; e il nostro cuore è inquieto finché non si riposi in Te (S. AUGUSTINI Confessionum, 1, 1: PL 32, 661). A questa aspirazione fondamentale della nostra vita risponde il tentativo supremo della speranza naturale, che rimane ordinariamente allo stato drammatico e stupendo, ma incompleto di desiderio, di invocazione, di sogno; e nella sua incompletezza facilmente viene meno e si spegne nello scetticismo e spesso nella disperazione. Ma vi è un’altra risposta a quell’aspirazione, ed è data dalla speranza, che non delude (
Rm 5,5), la speranza cristiana, quella fondata sulla fede (Cfr. He 11,1).

Ora di questa speranza religiosa, che investe sotto tanti aspetti anche la vita naturale, noi dobbiamo parlare, se vogliamo ricavare dall’Anno Santo, testé celebrato, il rinnovamento che gli deve essere proprio; abbiamo detto: la civiltà dell’amore. Anch’essa affonda le sue radici nella speranza cristiana. Non si può davvero amare con un amore generatore d’un avvenire ideale, senza speranza; senza la vera speranza, ch’è quella invitata al superamento dei limiti e degli ostacoli, propri degli orizzonti temporali.

Una delle grandi tentazioni, ed anche dei più gravi malanni della nostra età, è quella contro la speranza portata da Cristo nel mondo: Abbiate fiducia, Egli ha detto, Io ho vinto il mondo (Jn 16,33). Spesso si annida in fondo ai nostri animi la fiducia sulla capacità del cristianesimo di rinnovare veramente la vita degli uomini, degli uomini moderni specialmente, imbevuti d’altre speranze precarie e spesso fallaci, come sono quelle materialiste, ma estremamente suggestive (Cfr. Jn 16,20: voi piangerete e vi rattristerete, mentre il mondo godrà). Quale efficacia può avere la nostra professione cristiana a fronteggiare e a risolvere i problemi odierni, su scale ingigantite dal progresso tecnico e sociale? E allora si spiega, con mal celata rassegnazione, sull’incertezza di un cristianesimo, vissuto senza fermezza interiore, senza rigore morale, senza incidenza nella vita pubblica. E forse, non valutando l’errore del calcolo globale circa la fortuna della vita, si trascura di considerare il peso, anche temporale, proprio della speranza escatologica, cioè quella della vita eterna.

No, così. Dovremo vivere in coraggiosa e serena pienezza la nostra speranza cristiana. Non solo per una consuetudine tradizionale, di cui sovente le lapidi dei nostri cimiteri conservano memoria e testimonianza; non solo per un impegno storico, che tanto è penetrato nella nostra spiritualità. E nemmeno per un indolente quietismo, che pensa ad un tollerabile e fortunato risultato dal gioco intrinseco delle causalità naturali. Ma per altri motivi!

Vi accenniamo appena. La speranza dev’essere fondata, innanzitutto, sulla solidità delle nostre idee, della nostra filosofia, della nostra concezione della storia e della vita; in altre parole, sulla verità della nostra fede. Chi crede, spera. E poi sappiamo che l’ottimismo della nostra speranza può essere fondato anche su avvenimenti che le sono apparentemente, umanamente contrari, perché tutto cospira al bene di coloro che amano Dio e sono stati chiamati secondo il suo disegno (Rm 8,28). Ed infine perché una guida vigile e paterna, la Provvidenza, conduce le nostre vicende personali e la storia intera (Cfr. A. MANZONI, I Promessi Sposi, conclusione).

Perciò, Figli e Fratelli, speranza e coraggio. Con la nostra Apostolica Benedizione.



Mercoledì delle Ceneri, 3 marzo 1976

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Per dare qualche applicazione pratica al nostro proposito di un rinnovamento effettivo della nostra vita cristiana, proposito che portiamo negli animi come ricordo operante dell’Anno Santo, un altro principio, oltre quelli già affermati, noi dobbiamo stabilire, o meglio ristabilire a fondamento del nuovo edificio spirituale, nel quale deve trovare la sua stanza, anzi la sua officina la «civiltà dell’amore»; ed è lo sforzo ascetico.

Sappiamo tutti in che cosa esso consiste. Consiste in uno sforzo abituale della buona volontà, una tensione morale vigilante e perseverante della coscienza sopra il dominio delle proprie azioni, una attitudine normale di autogoverno, di padronanza di sé, nell’intento di unificare il complesso meccanismo psicologico dei propri istinti, delle proprie passioni, dei propri interessi, dei propri sentimenti, delle proprie reazioni interiori ed esteriori, dei propri pensieri, sotto un unico comando direttivo, l’amor di Dio e del prossimo, norma suprema e vitale della personalità cristiana. Ricordiamo due dati di fatto: noi uomini siamo esseri complessi, polivalenti, polioperanti; ed è principio della sapienza naturale e cristiana il tentativo continuo di comporre in un ordine logico e morale questo nostro essere complicato e per sé capace di forme diverse di azione e di comportamento. La saggezza naturale, anche pagana, aveva già avvertito questo bisogno di animi concordia, come si esprime Seneca (Cfr. SENECAE De vita beata, 8, 6); così Epitteto, l’umile e grande filosofo, che insegnò l’armonia fra la libertà e la virtù (Cfr. le sue «diatribe», o dissertazioni che piacquero al Leopardi, che ne fece una elegante traduzione. Opere, 1, pp. 539-566). E poi il secondo fatto capitale, misterioso e realissimo (Cfr. Pascal), il peccato originale, che ha lasciato un disordine congenito nell’uomo (Cfr. DENZ-SCHÖN.,
DS 1512), che porta con sé una specie di tendenza centrifuga delle sue facoltà, le quali, senza un’azione severa e riflessa di coordinamento e senza un aiuto divino, non ricompongono più il profilo ideale, cioè la santità, la perfezione, a cui l’uomo è pur chiamato.

Dobbiamo perciò notare come punto importante del nostro programma di rinnovamento il bisogno, abbiamo detto, di uno sforzo ascetico. Sappiamo tutti benissimo che questo capitolo del programma rinnovatore della vita cristiana non gode il favore dell’opinione pubblica, e nemmeno talvolta il dovuto rispetto di certi maestri, che pur si qualificano moralisti e per di più cristiani (alcune imprevedibili e ingiustificate reazioni alla recente Dichiarazione della nostra Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede «circa alcune questioni di etica sessuale» ce ne danno una ben triste esperienza).

Oggi l’autorità, oggi la legge, che ci propongano una norma esteriore, per quanto conforme alle esigenze interiori del nostro essere, non sono più gradite, né spesso più ascoltate. La spontaneità sembra essere il diritto fondamentale dell’azione umana. Trionfa Rousseau. Essa si è dapprima ammantata delle esigenze della coscienza personale, senza spesso badare che la coscienza psicologica ha prevalso su quella morale, privando questa della sua visione sull’obbligazione intrinseca ed estrinseca che la deve guidare, donde l’esplosione d’una libertà cieca, d’un istinto passionale, d’una delinquenza sfrenata, donde insomma l’abdicazione della volontà intelligente e veramente responsabile.

Il nostro sforzo ascetico, perfettivo della condotta morale, avrà due momenti: uno negativo, che i maestri di spirito chiamano mortificazione, digiuno, rinuncia, combattimento spirituale, penitenza, eccetera. Ricordiamo tutti come questo esercizio di riconquista della padronanza di sé, per conseguire un’idoneità alla vita cristiana, abbia nel Vangelo espressioni fortissime, che dovranno essere saggiamente interpretate, come questa: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te . . .» (Mt 5,29 così della mano: Mt 30). A cui fa eco S. Paolo: «io tratto duramente il mio corpo, e lo trascino in schiavitù . . .» (1Co 9,27).

L’altro momento dell’ascetica cristiana è positivo, rivolto cioè alla fortificazione della virtù, propria d’un seguace di Cristo. Milizia si chiama questo momento (Cfr. Jb 7,1 2Co 10,4 Rm 13,14 Ga 5,16), ed ha in S. Paolo la metaforica ed espressiva descrizione dell’armatura romana: «Prendete . . . l’armatura di Dio, . . . cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia . . . , ecc.» (Ep 6,13-17). Non si è veri cristiani, se non si è forti. Non si è forti, anche spiritualmente, se non si è atleti, cioè senza dure e lunghe esercitazioni (1Th 5,8). E tutto questo per possedere quella invincibile carità, che sopra ogni cosa andiamo cercando: «chi ci potrà separare dalla carità di Cristo?» (Rm 8,35).

Con la nostra Benedizione Apostolica.

Un folto gruppo di studenti e alunni canadesi


Pellegrini tedeschi appartenenti all’organismo «Missio»

Verehrter Monsignor Wissing, liebe Söhne und Töchter, Mitarbeiter der Missio!

Ihnen allen gilt unser herzlicher Gruß als den Vertretern des missionarischen Deutschlands. Sie nehmen regen Anteil an unserer Sorge für die ganze Kirche.

In Ihnen grüßen wir auch die deutschen Missionare in aller Welt. Sie sind die Träger einer wundervollen, unbezahlbaren, oft verkannten, aber doch heldenhaften Tätigkeit, die letzte Selbsthingabe erfordert (Cfr. Botschaft zum Weltmissionssenntag 1975).

Ihnen allen gilt aber auch unser Dank; Dank für den stillen Einsatz, Dank für die große Liebe zur Mission, Dank für die materiellen Opfer.

Herzlichen Dank für das, was Missio durch die großzügige Hilfe der deutschen Katholiken zu tun in der Lage ist für die Ausbildung einheimischer Priester, Schwestern und Katechisten. Nur wenn sie in genügender Zahl zur Verfügung stehen, können die Jungen Kirchen die ihnen zukommende Eigenständigkeit erlangen und das Evangelium in die ganze Breite und Tiefe ihres Kontinents hinein verkünden.

Herzlichen Dank den deutschen Katholiken! Es sind über eine Million, die sich für eine regelmäßige geistliche und materielle Missionshilfe verbürgt haben.

Herzlichen Dank den deutschen Priestern, die mit der Aktion » Priester helfen Priestern « ihre Mitbrüder in den Missionsländern unterstützen.

Herzlichen Dank den deutschen Bischöfen, die die Anregungen des Zweiten Vatikanischen Konzils so ernst genommen haben. Sie stellen einen festen Prozentsatz ihrer diözesanen Mittel alljährlich der Mission zur Verfügung.

Zuletzt aber noch eine zweifache Bitte: Die Weltmission braucht nicht nur finanzielle Hilfe, sie braucht auch heute noch junge Menschen, junge Menschen aus Deutschland! Und: Die Weltmission braucht unser Gebet. Sie muß mehr denn je von geistigen Kräften getragen werden!

Got gebe Ihnen allen ein frohes Herz! Er schenke Ihnen seine Gnade für Ihre tägliche Arbeit im Dienste der Mission! Dazu Ihnen allen, hier und daheim, von Herzen unseren Apostolischen Segen.

Responsabili del Comitato nazionale tedesco per l’Anno Santo

Wir begrüßen sie, lieber Mitbruder im Bischofsamt, und die Mitarbeiter des deutschen Nationalkomitees für das Heilige Jahr sehr herzlich. Ihre Aufgabe ist jetzt erfüllt. Sie haben in dem frohen Bewußtsein gearbeitet, dienend mithelfen zu können, dass die vielen Pilger aus dem deutschen Sprachraum im Heiligen Jahr geistlichen Nutzen aus der Begegnung mit dem Zentrum der Kirche gezogen haben. Dafür Ihnen allen auch an dieser Stelle unseren von Herzen kommenden Dank.

Unser Wansch ist, daß die Frucht des Heiligen Jahres – Erneuerung und Versöhnung - weiterwirke in den Herzen der Menschen; daß das Heilige Jahr nicht ein großes Ereignis der Vergangenheit bleibe, sondern fortlebe in der Gemeinschaft der Gläubigen! Wollen Sie sich dafür einsetzen? Gern erteilen wir Ihnen allen dazu unseren Apostolischen Segen.


Mercoledì, 17 marzo 1976

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Questa è un’ora storica per la preghiera forte. Intendiamo per preghiera forte un’invocazione a Dio, Padre di misericordia, espressa con intensità di sentimento religioso, con fiducia filiale che, al di là delle circostanze difficili e sfavorevoli, implori un soccorso che il gioco delle causalità naturali conosciute non lascerebbe supporre, e che, anche se non esaudita nella misura e nella forma della nostra mentalità umana, sa che tutto può risolversi in bene per chi vive nella sfera della fede in Dio e dell’Amore suo immenso e misterioso per noi, e del nostro umile e filiale per lui.

Qui tutta la dottrina sulla preghiera, non poco complessa e controversa, esigerebbe una esposizione chiara, capace di sostenere le ondate di obiezioni, che investono le sue basi, sia negando l’esistenza d’un Dio provvido e buono, sia supponendo che il meccanismo delle forze, in cui la vita umana è impegnata, sia fatalmente determinato, o che non convenga all’uomo, anche religioso e pio, uscire dal quietismo rassegnato ai travolgenti e imperscrutabili disegni divini, arbitri adorabili delle sorti umane, altro non restando all’uomo che curvare passivamente la fronte, dicendo non sapientemente: fiat voluntas tua. La preghiera non avrebbe senso di fronte a simili obiezioni (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae,
II-II 83,2). Invece no: noi sappiamo due cose, che Dio esiste, è buono, è provvido, è potente, è vicino, è, in una parola, Padre onnipotente; e sappiamo che l’uomo è libero, e che nel governo di Dio sul mondo è ammesso, voluto anzi il concorso della libera collaborazione dell’uomo; in questo senso egli prega perché si compia, lui docile e solidale, la volontà di Dio.

A noi ora basta per la nostra affermazione sulla impellente necessità della preghiera ricordare le parole, tanto ripetute, di Cristo Signore : «chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto . . . Chi di voi al figlio, che chiede un pane, darà una pietra? . . . Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,7-10). «Finora, aggiunge in altro discorso il Signore, all’ultima cena, voi non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Jn 16,24). L’efficacia della preghiera, anche di quella interessata al proprio bene, la petitio (e non solo quella che si innalza a lodare Dio e a cercarlo e ad unirsi misticamente a Lui, la elevatio mentis) (Cfr. S. TERESA, Cammino di perfezione; Castello interiore), ha valido corso nel regno di Dio, nell’economia religiosa della Chiesa, nel governo spirituale del mondo.

Quindi pregare dobbiamo, e pregare forte. Questa, noi pensiamo, deve essere una conseguenza della celebrazione dell’Anno Santo, che tanto ha fatto, e con frutto, per dissigillare le labbra mute e chiuse dell’uomo moderno e per rimettere nella sua capacità espressiva il balbettio, il colloquio, l’invocazione, il canto del rinnovato rapporto con Dio. La preghiera, anche quella che chiede pane e salute, pace e gaudio e carità per l’uomo stanco e pellegrino sui sentieri sterili della esperienza contemporanea, non solo è lecita, ma desiderata, comandata dal Vangelo. Essa può essere, sì, il linguaggio superiore della civiltà dell’amore, che l’Anno Santo ha voluto nuovamente inaugurare. Pregare forte, inoltre, perché le tempeste della storia si fanno ogni giorno più minacciose. Vi sono tante cose belle, nuove e buone nel mondo; sosteniamole; ma quante altre nuove e gravi incombono sui Popoli inquieti, gaudenti e sofferenti. I pericoli non mancano; siano essi stimolo a preghiera più assidua, più cosciente e più fervorosa.

Sì, pregare, Fratelli, ora che la Chiesa ha riformato la sua preghiera ufficiale, la liturgia, rinnovandone e riesumandone i testi migliori, aprendone l’intelligenza con l’uso nel culto divino delle lingue parlate, e favorendo la partecipazione dei fedeli (che vogliano essere veramente tali), con tanta premura e con tanta dignità. È venuta l’ora, per il Popolo di Dio, di dare prova d’intelligenza e d’obbedienza. Dobbiamo fare coro. Né ostinate e irriverenti nostalgie alle forme di culto, pur degne dei tempi passati, né arbitrarie e non meno irriverenti così dette « creatività » nell’azione sacra e sancita della Chiesa potranno giovare sia all’autentica spiritualità delle nuove generazioni, sia alla sua fondamentale unità di spirito e di azione, voluta da Cristo, specialmente nell’atto di culto (Cfr. Mt 18,20), per la sua Chiesa, e oggi tanto più necessaria quanto meno è contenuto, nonostante l’ecumenismo, l’istinto centrifugo, di cui soffrono certe zone della vita religiosa.

E diremo di pregare anche a quegli spiriti, non sempre presenti all’assemblea liturgica, ma assetati di qualche sincera e personale certezza religiosa, giovani specialmente. Dio non è lontano. Cristo è forse con loro, misterioso viandante sul sentiero vespertino della loro esperienza delusa, dell’incantesimo d’un mondo materialista e sensuale, per svelare dove, anzi Chi sia la Verità. Pregare dovete, anche voi amici lontani, nel silenzio o nel singhiozzo del cuore, in una solitudine che sa di vocazione. Ascoltate la voce del Profeta: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (Is 55,6)

Alla vostra preghiera, Figli e Fratelli, sia stimolo la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 24 marzo 1976

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Noi ripensiamo ancora all’avvenimento, ch’è stato per noi l’Anno Santo, ricercando la traiettoria storico-spirituale della sua recente celebrazione in due direzioni, l’origine e il risultato; l’origine prossima e determinante non può essere che il Concilio ecumenico, dal quale l’Anno Santo ha attinto la sua ricchezza dottrinale e la sua fecondità rinnovatrice: Concilio e Anno Santo sono stati per la Chiesa e per l’umanità due momenti fra loro coordinati e determinanti per l’avvenire. Lo sguardo dal passato si volge all’avvenire, e lo interroga circa il risultato, circa le conseguenze, circa i frutti, che noi siamo in dovere di attendere da fatti così importanti e ricchi di impegni e di promesse. Abbiamo accennato, per quanto riguarda appunto il futuro, alla «civiltà dell’amore», che dovrebbe essere rigenerata dall’Anno Santo; ma la formula, è chiaro, si presta ad applicazioni e ad amplificazioni diverse.

Quello che ora interessa la nostra attenzione è il fatto di questa continuità, di questa coesione tra un momento e l’altro, fra quello originante e quello derivante per la vita della Chiesa. Diciamo la definizione logica di questo processo storico religioso; essa è contenuta nella parola «coerenza»: la vita della Chiesa in questo epilogo del secolo ventesimo segue una linea di coerenza; ed è sempre stata questa, nonostante i sussulti drammatici e le diversità di condizioni storiche, la linea direttiva di fondo della Chiesa, quella della coerenza a se stessa, o meglio della coerenza ai suoi principii, quali sono nel Vangelo, e alle sue applicazioni, quali sono nella ricerca della santità dei suoi figli.

Forse un’altra parola è religiosamente più espressiva, e a noi più cara e ben nota: è la parola «fedeltà». È una parola sacra e forte, è una parola, riguardo al tempo, bifronte: la fedeltà guarda al passato, al punto di partenza, alla sorgente, che è Cristo; e guarda all’avvenire, al tempo che viene e che passa, che tutto consuma, e divora, eccetto lei, la fedeltà, che rimane e vuol rimanere: non apatica, non immobile, non ignara dell’evoluzione delle cose e dei bisogni, ma sempre viva ed eguale a se stessa e sempre pronta a inserirsi nella storia, per darle una direzione, un significato, un processo, ch’è vero progresso; così è la fedeltà.

Bisogna che noi ci armiamo di questa virtù, se vogliamo valorizzare l’eredità del passato per le acquisizioni future. Si classifica nel settore delle virtù derivate da quella cardinale della fortezza: la fedeltà è una manifestazione di fortezza, ma è, nella vita vissuta, collegata con le virtù teologali; con quella della fede, di cui vuol essere professione pratica e costante, e con quella della carità, al cui servizio può raggiungere il vertice della perfezione cristiana (Cfr.
Jn 15,13; S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 124,3). Non sarà difficile rilevare come la fedeltà, intesa come logica che coordina il pensiero all’azione, abbia nel Vangelo la sua ripetuta apologia: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli»: così si esprime Cristo, il Quale inoltre ripetutamente ci ammonisce: «chi persevererà fino alla fine sarà salvato» (Mt 10,22 et Mt 24,13.). Bisogna essere, farà eco l’apostolo Pietro, «forti nella fede» (1P 5,9). E così via. Difatti, lo sappiamo, il cattolicesimo è un atto perenne di fedeltà, che attraversa la storia.

E qui dobbiamo fare attenzione a due formidabili obiezioni, le quali potrebbero scuotere la nostra fedeltà, diciamo pure la nostra identità cristiana, se non fossimo difesi da adeguate risposte interiori.

La prima difficoltà ci è data dalla vertigine della novità; della novità per se stessa, la quale pervade e domina la mentalità moderna.

Per l’uomo che vive davanti allo spettacolo del trasformismo filosofico e sociale dei nostri tempi, anzi ne è lui stesso partecipe, si forma interiormente l’opinione che ogni fissità è negativa, ogni mobilità è positiva. Si arriva a confondere il mutamento con le pulsazioni della vita. La rivoluzione è il programma normale. La moda è l’interprete della sempre nuova primavera. Tutto si cambia, tutto si evolve. La verità stessa dovrebbe subire questa sola, inesorabile legge fissa: la mutazione. Che questa possa essere un’osservazione, che si giustifica nella instabilità della creatura, dell’essere cioè che non ha in se stesso la ragione sufficiente della propria esistenza (Cfr. il «pánta rei»: ogni cosa scorre, di Eraclito), nessuno forse lo nega; ma che questa volubilità si possa applicare a Dio, alla Sua Parola, alla rivelazione quindi e alla fede, non è per noi ammissibile; è questa, possiamo dire, l’ineffabile originalità di Cristo, il Verbo eterno di Dio calato nel flusso della storia umana: «il cielo e la terra, ha proclamato appunto Gesù, il Maestro, passeranno» (Mt 24,35). La nostra fedeltà cristiana può trovare qui la sua soprannaturale radice, e la sua radice naturale nella immutabile essenza dell’uomo creato a immagine di Dio.

E l’altra difficoltà nasce dal timore che la fedeltà paralizzi l’azione conforme alle contingenze dei tempi e alle necessità dell’amore. Non è così. La fedeltà a Cristo è una fontana inesausta di rinnovamento nella logica dei principii, donde essa trae sorgente. È novità vissuta: sempre «noi possiamo camminare in una vita nuova», scrive S. Paolo (Rm 6,4). Così noi. Con la nostra Benedizione Apostolica.


A un gruppo di studenti di Strasburgo


Due gruppi di lingua inglese provenienti dal Canada e dall’Inghilterra

It is a great pleasure for us to renew our contact with young people. We welcome warmly the large group from Ontario. During the Holy Year we had the opportunity to speak to thousands of young people. Our hope for you today is that you will find true joy and lasting happiness-that each of you will open your heart to God and to your fellow human beings, and that each one of you will make a real contribution in building up the civilization of love. May God bless Canada!

Our special greetings go to the group from Great Britain: the students affiliated with the Open University. Dear young people, we know the effort you have made to be here this morning. Yes, the world needs your effort, your sacrifice, your self-giving. And you need God’s strength and his love. Be assured of our respect, our admiration, our prayers and our blessing.


Mercoledì, 31 marzo 1976


Paolo VI Catechesi 40276