Paolo VI Catechesi 20676

Mercoledì, 2 giugno 1976

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Il nostro discorso ritorna al grande tema della preghiera. Un tema grande, come una cattedrale. Noi ci avviciniamo a questo monumentale edificio, sospinti da due motivi pratici: la stagione liturgica e i bisogni del nostro tempo; motivi conosciuti. La festa della Pentecoste, la festa dello Spirito Santo, ci invita alla riaccensione della nostra lampada interiore, che è appunto la preghiera. E poi, come non avvertire dalle vicende difficili, che scuotono la normalità, l’ordine, il benessere, la pace nel mondo, un bisogno di soccorso divino, che l’orazione ci conforta a sperare dall’alto, dalla Provvidenza? speranza e preghiera vivono insieme. Ed oltre a questi occasionali stimoli a ricorrere alla preghiera, noi sappiamo che essa è una legge, variamente obbligante ed urgente sui nostri spiriti, ma sempre presente per chi vuole vivere la vita cristiana, e possiamo pur dire semplicemente una vita umana autentica e piena; sappiamo che ci impone questo grave e soave dovere Gesù che insegna: «bisogna pregare sempre, senza stancarsi» (
Lc 18,1). Non diciamo poi di tutti i libri e i discorsi religiosi, che ci richiamano a questo fondamentale dovere (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 83,0; Cat. Rom., IV; S. AUGUSTINI Ad Probam, 130: PL 33, 493-507).

Ma oggi noi ci fermiamo un momento sulla soglia del tempio della preghiera; e osserviamo che la porta è chiusa. Un tempo era sempre e a tutti aperta; ora no. Un tempo si litigava circa la legalità, cioè l’ortodossia dell’accesso; quanti martiri la storia ricorda per causa di religione professata o negata; adesso la questione religiosa (perché di questa, in fondo, si tratta) si pone diversamente e radicalmente: non vi è più motivo di pregare!

Figli e Fratelli carissimi! quale formidabile questione! Anche se tutti non siamo in grado di analizzare il fenomeno antireligioso del nostro tempo, tutti tuttavia ne conosciamo il radicalismo, con cui esso si oppone alla nostra tradizione spirituale, a quella cristiana e cattolica specialmente, anche in paesi storicamente imbevuti di religione, e sentiamo, in qualche misura, come l’ateismo minacci, nell’interno dell’anima, la consistenza dei motivi che giustificano e reclamano la religiosità del nostro essere razionale e spirituale. Una volta l’ateismo, nell’opinione pubblica, era giudicato negativamente, come un’assenza della fede comune; adesso invece è giudicato positivamente, per errore e sventura nostra, noi pensiamo, come un progresso, come una liberazione da una mentalità mitica e primitiva, come una bandiera dei tempi nuovi. La scienza basta. La ragione rifugge dal mistero. E non è vero; anzi chi ama la scienza e ne avverte la sua profondità e il suo rigore non può, non deve sbarrare al pensiero le sue esplorazioni metafisiche e mistiche; e chi vuole non mortificare la ragione nei confini dei suoi trattati convenzionali deve ammettere la necessità e la gioia di trascenderli per cercare almeno, o per sperimentare, e godere se possibile, l’incontro con una Sapienza, con un Verbo, che mentre lo curva all’adorazione religiosa, lo innalza ai preludi d’un dialogo superrazionale e inebriante, la preghiera.

Questo solenne malinteso fra il pensiero scientifico e il pensiero religioso (quello cristiano) scuote ogni nostra sicurezza mentale, che diventerà incertezza morale e inquietudine sociale. È il grande problema della nostra età. Non dobbiamo spaventarci, non solo perché la nostra mentalità religiosa non ha nulla di preconcetto o di contrario al progresso scientifico, sia speculativo che pratico e tecnico, ma perché al contrario lo favorisce e lo integra, tanto oggettivamente che soggettivamente con il suo culto della Verità totale, quale appunto è cercata, professata, proclamata col nostro Credo.

E procuriamo di non sentirci soddisfatti d’una formazione mentale puramente ed esclusivamente «laica», che prescinda cioè sistematicamente e in ogni campo del pensiero e della vita da un logico riferimento religioso, per non cadere, senza avvedercene, in quell’ateismo, che giustamente temiamo come sovvertitore d’ogni ordine, e per erigere la legittima autonomia delle realtà terrene in esclusivo criterio di verità (Cfr. Lumen Gentium LG 36 et Gaudium et Spes GS 36).

E parimente procuriamo di non lasciarci intorpidire da quella apatia religiosa e spirituale, oggi tanto diffusa nel nostro mondo profano e secolarizzato, la quale sembra un inevitabile risultato dell’attivismo moderno e del soverchiante frastuono delle pubbliche voci, ma cerchiamo di far nostro il programma della formula di Cristo: «vigilate e pregate» (Mt 26,41).

Con la nostra Apostolica Benedizione.

Ai superiori, sacerdoti, studenti, seminaristi e personale del Seminario Francese di Roma


Mercoledì, 9 giugno 1976

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Nel clima della vita pubblica dell’ora presente la nostra voce che invita alla preghiera, quasi per fare eco dentro i nostri animi alla celebrazione, ormai terminata, delle grandi festività di Pasqua e di Pentecoste, potrà sembrare intempestiva, o quasi un monologo nel deserto. Che questa nostra voce, rivolta a voi, visitatori provenienti da sedi e da situazioni molto diverse, e avidi di discorso spirituale, piuttosto che profano e contingente, prescinda appunto dall’attualità della vita pubblica, per quanto interessante e grave essa sia, è vero; noi qui siamo, come al solito, tesi verso il tema religioso; ma pensiamo che esso, il tema religioso, parimente come al solito, non ci renda estranei a quella partecipazione alla vita sociale, ch’è la nostra, quella cioè che guarda la scena del mondo sotto la luce, che piove dall’alto, e che, anche da una sfera diversa da quella dell’esperienza temporale, può aiutare una migliore visione delle cose, indicare i sentieri migliori anche per la prudenza terrena, e soccorrere con imponderabili, superiori sussidi, l’umana stanchezza.

Dunque, ancora della preghiera vogliamo parlarvi, con la brevità e la semplicità, che non pretendono di penetrarne i meravigliosi sentieri, ma solo di accennare all’attitudine che l’uomo moderno tuttora conserva per la preghiera stessa. Noi abbiamo accennato, in un precedente sermone, alla porta chiusa che l’uomo moderno trova quando si appressa al tempio della preghiera; chiusa per demolizione decretata del secolare e monumentale edificio; chiusa per trasformazione in museo archeologico, in sala da divertimento profano, in palestra sportiva. Vogliamo dire che ai nostri giorni la preghiera, e tutta la psicologia e la pedagogia, tutta la moralità, la vita sociale, la visione della vita, che essa suppone, e promuove, possono e debbono essere sostituite da altra mentalità e da altre attività, dall’ateismo cioè, e dal secolarismo, dal laicismo nelle loro espressioni radicali ed esclusive, anche se per sé umane e lodevoli. Ne abbiamo già fatto cenno altra volta.

Questa volta noi, appressandoci ancora al metaforico edificio, scopriamo che la porta è aperta. Aperta la porta della preghiera all’uomo moderno? Sì, è aperta; anzi, dopo certi fatti contemporanei, come il Concilio e come l’Anno Santo, spalancata.

Osserviamo i fatti. Alcuni derivano proprio da quel mondo razionale, scientifico e tecnico, che ha fornito a molti uomini d’ingegno, e a moltissimi uomini di media o modesta cultura gli argomenti per la loro irreligiosità. Qui si dovrebbe fare a ritroso il cammino filosofico di tali argomenti, per ritrovare la perenne e invincibile validità della religione naturale, quella che deriva dal pensiero umano, guidato dall’onestà della ricerca e dal desiderio della verità. Per fortuna la mente umana non ha perduto la sua virtù speculativa; ed anche dopo i drammi, perché tali sono, del pensiero contemporaneo, la conclusione del suo sforzo verso la verità, o fallisce in un desolato scetticismo, o si orienta sia per propria intrinseca necessità, sia per esigenza obiettiva verso una «teodicea», una scienza di Dio, che non può rimanere semplicemente inerte e passiva, ma sperimenta la logica, la vitale spinta all’espressione d’una parola; una parola rivolta a Dio: una chiamata? una lode? un tentativo di dialogo? comunque, una preghiera.

Noi abbiamo con ammirazione osservato la trasmissione televisiva del ritorno degli astronauti dalla loro stupefacente escursione sulla luna: per un istante, che vale un’ora, vale una vita, tutti i presenti: astronauti, operatori, scienziati, autorità, si sono fermati in un assorto religioso pensiero, che vale un grido, vale un inno, vale un coro della terra intera, per riconoscere, sì, adorare e invocare il «mistero», il mistero trascendente e immanente di Dio.

La preghiera ancora invita la nostra generazione, la nostra civiltà (se veramente è tale e cosciente), ad una vivente espressione. Apriamo a caso, direi, i documenti dell’umanità contemporanea; ascoltate anche un solo accento della scrittrice sofferente e chiaroveggente, ebrea, Simone Weil († 1943): «la condizione dei lavoratori è quella nella quale la fame di finalità, che costituisce l’essere stesso di ogni uomo, non può essere saziata se non da Dio . . . Non a caso si chiama attenzione religiosa il grado più elevato dell’attenzione. La pienezza dell’attenzione non è altro che la preghiera» (Cfr. DOMENICO PORZIO, Incontri e scontri con Cristo , pp. 665-667).

E non è forse in fondo all’amarezza contestatrice di tanta gioventù dei nostri giorni uno stato d’animo di lamento, di poesia, d’invocazione che non sembra indebito classificare sotto l’insegna, superstite dagli uragani della delusione moderna, di preghiera?

Sì, il tempio della preghiera apre le sue porte agli uomini del nostro tempo, ed essi, molti certamente, avvertono che sarebbe bello rientrarvi; ma sono esitanti: come osare? e come pregare? essi pensano. Vale la pena che noi li accompagniamo e li invitiamo ancora a pregare con noi.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Ai partecipanti al «XIV Corso di perfezionamento per quadri tecnici e operativi di Paesi in via di industrializzazione» ed ai partecipanti al «IV Corso sulle tecniche e sui sistemi integrati di direzione aziendale» organizzati dall’«Istituto per la Ricostruzione Industriale» (IRI)

Un cordiale saluto desideriamo rivolgere ai partecipanti al «XIV Corso di perfezionamento per quadri tecnici ed operativi di Paesi in via di industrializzazione» e al «IV Corso sulle tecniche e sui sistemi integrati di direzione aziendale», organizzati dall’ «Istituto per la Ricostruzione Industriale» (IRI).

Esprimiamo, anzitutto, il nostro apprezzamento per tale iniziativa, che vi ha messi in condizione di approfondire le vostre specifiche competenze in modo che, ritornando nei vostri Paesi, possiate offrire la vostra fattiva e generosa collaborazione al loro legittimo progresso sociale. Ma ci piace anche sottolineare che questa vostra esperienza, la quale ha riunito per alcuni mesi giovani provenienti dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia e dall’Europa, rappresenta il segno di quella solidarietà, di quella unione, di quella pace nella giustizia, che tutti i Popoli cercano ardentemente. Date sempre il vostro contributo perché nelle coscienze e nella società si realizzino e si vivano questi alti ideali!

Con tali voti invochiamo su voi tutti, sui vostri cari, sulle vostre Nazioni la grazia di Dio Onnipotente, mentre a conferma della nostra benevolenza vi impartiamo di cuore la Benedizione Apostolica.

Ai novelli sacerdoti del Collegio Americano del Nord di Roma

We extend special greetings to the new priests from the North American College. Dear sons: in the presente of your parents, your friends and the entire community, you have irrevocably dedicated yourselves to the priesthood of our Lord Jesus Christ. You are one with Christ in his praise of the Father, in the building up of his Church, and in the service of his brethren. This program requires faithful and persevering love. And the measure of your love will be the measure of your effectiveness and the measure of your joy. We invoke upon you the Holy Spirit to confirm your hearts in his love-today and forever. TO al1 of you we impart our Apostolic Blessing.

Alla Delegazione dell’Istituto di Studi Superiori della difesa nazionale del Venezuela

Un saludo particular al grupo formado por la Delegacion del Instituto de Estudios Superiores de la Defensa Nacional de Venezuela.

Sabemos, amadísimos hijos, que estáis perfeccionando vuestros conocimientos en el extranjero, con el vivo deseo de hacer más solícita y fructuosa vuestra entrega al servicio de la Comunidad nacional; que a esto corresponda también en vuestros ánimos una vigilancia espiritual constante, atenta a ennoblecer los vínculos de la fraternidad cristiana, con una conducta impregnada en la fe y en la caridad. Y que «la paz de Cristo haga de árbitro en vuestros corazones» (Cfr.
Col 3,15).

Con nuestra Bendición Apostólica para vosotros y vuestras familias.


Mercoledì, 16 giugno 1976

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In questi tempi, in questi giorni tanto impegnati negli avvenimenti umani, noi, ancora memori del ciclone spirituale che è stato per il mondo, per la Chiesa specialmente, la Pentecoste, ancora rivolgeremo il nostro pensiero alla preghiera, alla sua legittimità, alla sua necessità, alla sua modalità. Sappiamo bene che su questa espressione dello spirito umano si è indugiato lo studio delle religioni, lo studio dell’orazione cristiana, lo studio della psicologia umana, quasi mettendo in difficoltà colui che da un cumulo così grande di esperienze, di costumi, di letteratura voglia estrarre un’idea sintetica e orientatrice, quanto basti all’uomo profano contemporaneo per classificare in una scheda mentale, riassuntiva quanto occorra sapere su questo tema ormai estraneo alla sua mentalità empirica e positiva. E se, accettando questo imperioso metodo semplificativo, noi concludiamo la nostra riflessione sulla preghiera in due maggiori proposizioni, e cioè: la preghiera, primo, suppone da parte di Dio un’attenzione, una ascoltazione delle voci che a lui siano rivolte dall’uomo, cioè una «Provvidenza»; e, secondo, da parte dell’uomo, una speranza, un’attesa d’essere esaudito e aiutato. Noi vediamo d’aver costruito, sì, lo schema essenziale della preghiera, cioè d’un possibile colloquio fra l’uomo e Dio, ma di non saper ancora nulla, o ben poco, circa la validità di questo colloquio. È esso un’ipotesi immaginaria, o realmente esso stabilisce un rapporto; un rapporto bilaterale, un rapporto benefico?

Ebbene: fra i maggiori favori che il cristianesimo, la fede, Gesù Cristo anzi in persona, abbia conferito all’umanità è proprio questo dell’orazione vera, valida, indispensabile, fortunatissima. Cristo ha stabilito la comunicazione fra l’uomo e Dio; e questa comunicazione, che prevale su tutte le nostre moderne e meravigliose comunicazioni tecniche e sociali, ha per sua prima, normale espressione, la preghiera. Pregare vuol dire comunicare con Dio.

E Cristo è lui stesso questa fondamentale comunicazione. Lo è con la manifestazione di se stesso: entriamo nel sacrario della esplorazione di Chi è Cristo, oggetto ancor oggi di tormentate e, in fondo, fatalmente negative indagini per chi si distacchi dalla definizione calcedonense circa l’unica Persona del Verbo, vivente in due nature, divina ed umana (Cfr. DENZ.-SCHÖN.,
DS 301-302; BOUYER, Le Fils éternel, 469 ss.); il «ponte», come si esprimeva Santa Caterina (S. CATHARINAE, Dial., 25 ss.). Ed è lui stesso, Gesù, Sacerdote per eccellenza (Cfr. He 5), l’esempio più luminoso della preghiera, che documentata nel Vangelo diventa per noi la via regia dell’orazione e della vita spirituale. A questa scuola tuttora l’umanità seguace e credente è alunna indefessa. «Per quale via posso giungere io a Cristo e al suo messaggio?», si chiede un noto pensatore cattolico moderno; e risponde: «ve n’è una cortissima e semplicissima: guardo nell’anima di Gesù che prega, e credo» (C. ADAM, Cristo, nostro fratello, 37, cfr. il bel capitolo «La preghiera di Gesù»). E così la forte sintesi sul «Message de Jésus», di L. De Grandmaison (L. DE GRANDMAISON, Jesus Christ, II, 347 ss.).

E come, e quando ha pregato Gesù? Oh, quanto bella e istruttiva sarebbe una escursione nelle pagine del Vangelo, cogliendo come fiori del campo, gli accenni quasi incidentali circa la preghiera del Signore. Scrive, ad esempio, l’evangelista Marco: «Al mattino (Gesù) si alzò quando ancora era buio e uscito di casa (probabilmente la casa di Retro, a Cafarnao - Cfr. Mc 1,29), si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). Vedi, ancora, ad esempio, dopo la moltiplicazione dei pani: «Congedata la folla (Gesù) salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, Egli se ne stava ancora lassù» (Mt 14,23).

E così lunga meditazione meriterebbero le preghiere del Signore, delle quali il Vangelo ci dà notizia. Quella, ad esempio, celebre del capo XI di Matteo, la quale ci fa «entrare nel segreto più profondo della sua vita»: «In quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). E che dire della preghiera che conclude i discorsi dell’ultima cena? «Così parlò Gesù. Quindi alzati gli occhi al cielo disse: Padre, è giunta l’ora: glorifica il Figlio Tuo, perché il Figlio glorifichi Te . .». Lo ricordiamo: è la preghiera per l’unità: «affinché tutti siano uno» (Jn 17,21-22). E poi la triplice, gemente, eroica preghiera del Gethsemani, nell’imminenza della passione: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42).

Quale rivelazione non solo sul dramma della vita del Salvatore, ma sulla complessità e la profondità dei destini umani, che anche nelle loro più tragiche e misteriose espressioni possono essere annodati, mediante la preghiera, alla bontà, alla misericordia, alla salvezza derivante da Dio.

Pregare dunque, come Gesù. Pregare forte. Pregare oggi. E sempre nella fiduciosa comunione che l’orazione ha stabilito fra noi e il Padre; perché è ad un padre, è al Padre che la nostra umile voce si rivolge.

E sempre così, con la nostra Apostolica Benedizione.



Ai Fratelli delle Scuole Cristiane partecipanti ai lavori del quarantesimo capitolo generale

Alla delegazione dell’Associazione degli imprenditori belgi dei lavori del genio civile


Mercoledì, 23 giugno 1976

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Noi inviteremo la vostra disponibilità spirituale, che pensiamo aperta ed avida d’una nostra parola in questo momento, a riflettere ancora una volta sulla preghiera, azione questa nella quale sembra a noi praticamente consistere quella sintesi di vita spirituale, alla quale le recenti festività liturgiche ci hanno predisposti.

Il rinnovamento della nostra vita morale, cioè quella conversione, quella rettitudine direttiva d’ogni nostro operare, quella «metanoia» di cui parla il Vangelo ed a cui si fa sovente riferimento, e poi il rapporto fiducioso e amoroso ristabilito con Dio mediante l’accesso ai sacramenti pasquali, e per di più una avveduta e pericolosa esperienza del momento storico-sociale nel quale ci troviamo, mettono nel cuore e sulle labbra una filiale e spontanea preghiera. Forse noi siamo nella condizione propizia per aprirle il volo verso il mistero di Dio, mistero non più cieco, non più pauroso, ma avallato dalla fede, e documentato da qualche interiore, gioiosa esperienza.



E allora, quale preghiera sarà la nostra? Chiediamolo al Maestro divino stesso, al Signore Gesù: «insegnaci a pregare» (
Lc 11,1). Ed ecco la formula prima e somma, per antonomasia, del nostro colloquio con Dio, quale Cristo, ci ha insegnata: il «Padre nostro». Essa è l’espressione più semplice, più felice, più profonda della nostra religione. Tutti lo sappiamo.

Ma faremo bene a dedicarvi una speciale riflessione, appunto per renderci conto, non foss’altro, della nostra fortuna di poter pregare così. Noi ora non oseremo dirvi di più. Ci basti invitarvi a riflettere almeno a quale rapporto religioso questa preghiera stabilisca fra noi, piccoli atomi nell’oceano dell’universo e il Creatore di tutto, l’Essere infinito, eterno, ineffabile, onnipresente e misterioso, il Dio del cielo e della terra: il rapporto di figli con il proprio Padre. Basta questa prima avvertenza per arrestare il nostro pensiero: siamo noi diventati cos1 grandi da poterci arrogare il titolo di figli di Dio? o è Dio, che si è degnato curvarsi verso di noi fino ad autorizzarci a considerarlo, a saperlo nostro Padre? Questo è il cuore del Vangelo; questo è il punto prospettico familiare e superlativo, nel quale ci colloca la rivelazione cristiana. Pensiamoci, pensiamoci; perché subito quasi rapiti nell’orizzonte incommensurabile dell’universo: Padre nostro (nostro, ricordiamo!), che stai nei cieli: l’atmosfera del mistero restituisce al Padre la sua faccia, superiore ad ogni nostro tentativo di contemplazione, ma non toglie a noi la certezza e la beatitudine d’esserci impadroniti del suo vero, dolcissimo nome: Padre nostro, principio vivente e amoroso del piccolo, sì, ma meraviglioso essere nostro, che illuminato dalla Luce presente ed invisibile del sole divino si scopre alla nostra coscienza come a Lui somigliante; parola dell’origine : «facciamo l’uomo a nostra somiglianza» (Gn 1,26); e allora in lumine Tuo videbimus lumen (Ps 35,10): al tuo fulgore di luce vedremo la nostra luce. Basterebbe questo primo annuncio del dialogo, reso possibile tra l’uomo e Dio, per dire grazie a Cristo, e per dirgli l’improvvisa ed estatica gioia del nostro spirito: «Maestro, è bello per noi stare qui!» (Mc 9,5).

Ma questo non è che l’atrio della nostra conversazione diventata, fin dalla soglia del suo ingresso nel regno dei cieli, conversazione celeste (Cfr. Ep 3,20). Voi conoscete come essa procede, con duplice disegno simmetrico e trinitario. Con tre elevazioni ascendenti, al nome, al regno, alla volontà di Dio, celebrative le prime; imploranti le tre successive, del pane, del perdono, della difesa di cui ha bisogno la nostra fragile esistenza; tese le une e le altre allo sforzo possibile per l’umile, ma indispensabile casualità umana, così che la preghiera non sia l’imbelle rassegnazione fatalista alle soverchianti difficoltà del mondo ostile, oscuro a noi circostante, e sia invece rivolta alla soverchiante, ma pietosa causalità divina, che la filiale orazione implora provvida e risolutiva delle nostre insolubili necessità. Qui è il nodo di collegamento e d’incontro della sovrana efficienza divina a cui si apre e s’innesta umile, ma volonterosa e disponibile, l’efficienza umana. Quanti aspetti della sapienza religiosa sono qui riassunti a nostro ammaestramento e a nostro conforto! Quanto ci fa umili e quanto ci fa grandi la preghiera del «Padre nostro», insegnataci dallo stesso supremo ed unico Maestro, che è il Cristo! (Cfr. Mt 23,8) quali profondità soggettive e personali essa scava dentro di noi, e quali armonie comunitarie essa esige e promuove!

Non diciamo di più; ma vorremmo che questa regina delle preghiere diventasse per noi la preferita. E fosse tema, una volta almeno, di speciale e attenta meditazione. Esiste tutta una letteratura su questa «oratio dominica», su questa preghiera che il Signore stesso ci ha insegnato (Tra i commenti classici a noi più accessibili: TERTULLIANI De Oratione: PL 1149.1196; S. CYPRIANI De Oratione dominica: PL 4, 519-543, ora tradotte da C. Failla, Città Nuova Ed.; S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 83,3 II-II 83,4, etc.; Cat. Rom. Tridezt., «De Oratione dominica»; etc. Tra i commentatori recentissimi: Carnelutti, etc.).

Espressione della nostra insufficienza, della nostra debolezza, della nostra colpevolezza, la preghiera del Signore può diventare la nostra forza, la nostra fiducia, la nostra speranza: «Chiedete, e vi sarà dato», dice il Signore. «Chi tra di voi al Figlio che chiede un pane darà una pietra? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano?» (Mt 7,9-11). Pregare dunque, pregare sempre: con la nostra Benedizione Apostolica.

Agli studenti dell’Associazione per la Formazione, gli Scambi e le Attività Interculturali (AFSAI)

Una particolare parola di cordiale benvenuto va ora al gruppo di giovani studenti liceali dell’Associazione per la Formazione, gli Scambi e le Attività Interculturali (AFSAI), che hanno voluto essere qui presenti, stamani, per salutare il Papa, prima di tornare ai loro Paesi d’origine.

Noi ci auguriamo, cari giovani, che questo anno di permanenza in Italia abbia significato per tutti voi un’esperienza positiva, vi abbia convinto in particolare della possibilità di pacifica convivenza tra culture diverse, le quali da una reciproca apertura e da un sereno confronto possono trarre, pur nella fedeltà alla propria sana originalità, un arricchimento di sensibilità per nuovi aspetti di quell’essere stupendo e misterioso che è l’uomo, vertice della creazione e parlante immagine di Dio.

Ora che rientrate nei vostri Paesi, sentitevi impegnati a sensibilizzare i vostri coetanei a questa visione aperta dei rapporti fra le Nazioni, contribuendo così a costruire un mondo sempre più pacifico, più rispettoso delle minoranze e più conscio della ricchezza umana, comune alle varie culture.

Una conferma che tutto questo non è progetto utopistico, ma ideale realizzabile, voi l’avete, anche se su di un piano diverso, in quanto costatate in questi giorni di permanenza a Roma, ove genti di ogni razza e di ogni cultura si ritrovano ad attestare, pur nelle forme proprie alla sensibilità di ciascun popolo, la comune fede nel Verbo di Dio, fattosi carne per la salvezza del mondo.

È guardando a Lui, uomo perfetto oltre che Dio, principio ed esemplare di un’umanità nuova affratellata dall’amore (Cfr. Ad Gentes AGD 8),9 che noi imploriamo su di voi, sulle vostre famiglie e sui responsabili della vostra Associazione la nostra Benedizione Apostolica.


A un gruppo di studenti della facoltà teologica ortodossa di Tessalonica

A un gruppo di studenti americani

We are pleased to greet the group made up of students from Placentia, California and from Piacenza. You have overcome barriers of language and geography to form friendships and to give expression to fraternal charity. And we are happy today that your friendship and your fraternal charity have brought you to Rome-to the center of Christian unity. May fellowship and brotherhood be always part of your lives. Through you we send our blessing to your families, your schools and your cities.


Mercoledì, 7 luglio 1976

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Voi, che venite a visitare ed a venerare la sede dell’umile successore dell’Apostolo, Simone figlio di Giovanni, da Gesù Cristo stesso chiamato Pietro, quale parola, quale profezia, quale destino storico andate cercando, non solo nel luogo della sua tomba, ma nel trofeo monumentale altresì che qui di lui glorifica la memoria e simboleggia la spirituale missione? Non sentite dentro i vostri animi echeggiare la promessa che appunto Gesù trasmise all’Apostolo, quando a lui disse: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (
Mt 16,18)? Parole fatidiche, che qui sembrano acquistare sensibile significato, e che noi non finiremo mai di meditare, ripercosse come sembrano essere, non pure nell’edificio della Basilica alla quale siamo accorsi scrutando, ammirando e pregando, ma nella istituzione, che qui ha il suo cardine ed il suo cuore, e che tutti ci coinvolge, e ci rivela il nostro nome, comunissimo e più che mai misterioso: noi, noi siamo Chiesa, la Chiesa, il corpo storico, visibile ed insieme spirituale e trascendente la nostra scena storica, il Corpo mistico di Cristo! Per questo luogo benedetto, per questo momento privilegiato, l’annuncio messianico e divino è stato pronunciato, proclamato: «Io, Io Gesù il Cristo, Figlio del Dio vivente, edificherò la mia Chiesa».

Tutto è da ascoltare, da ripensare, e per quanto ci è possibile, da comprendere. Scegliamo ora un solo vocabolo: «Io, il Signore (Cfr. Is 9,4-6), edificherò . . .». Edificare, che cosa significa? Vuol dire costruire, prendere dei materiali informi e dispersi, e, conservandone la struttura essenziale, modellarli, unirli, compaginarli in un piano architettonico, e conferire ad essi l’utilità e la dignità d’unico disegno, che rispecchi un pensiero, una finalità, una bellezza, ch’è di tutti i singoli materiali componenti, e di tutto insieme l’edificio. Questa è l’idea di Cristo circa l’umanità, circa il regno di Dio, circa la costruzione. Questo è il regno di Dio, di cui il Vangelo porta l’annuncio, questa è la Chiesa, che Cristo dice «mia», questa è l’umanità pervasa dal disegno della salvezza. Questa è la chiave per l’intelligenza delle Scritture: si legga la storia di Abramo (Cfr. Gn 12,3 Ga 3,8 ss.); la storia di Israele (Ga 6,15-16 Rm 9 etc.); la storia della Chiesa nascente (Ac 11,17-18; etc.); questo è il pensiero divino operante nella storia dell’umanità, e nel segreto delle anime, che ascoltano il Maestro interiore.

Le vertigini della rivelazione divina, che apre davanti a noi i suoi sconfinati e pur immediati panorami (Cfr. Ep 3,18-19 ss.) possono dare al visitatore un senso di ebbrezza ed insieme un senso di confusione, da lasciarlo quasi sopraffatto e disorientato. Ma non sia così. Raccogliamo invece il duplice messaggio, che si fa nostro, di ciascuno, e pieno di confortante energia.

Il primo messaggio è quello dell’unità e dell’universalità, il quale scaturisce dal Vangelo che qui ci ha folgorato. Quante cose tale messaggio ci obbligherebbe a ricordare! basterebbe ascoltarne, non pur l’eco, ma la ripetizione diventata semplice come una formula verbale, ma estremamente realista e impegnativa, risonante nelle parole estreme e commoventi di Cristo, nella imminenza della sua passione: «siamo tutti uno» (Cfr. Jn 17,11; etc.). Qui queste parole testamentarie del Signore echeggiano sempre. Qui esse diventano trombe squillanti per tutti i popoli; qui diventano vocazione per chiunque abbia l’orecchio dello spirito attento alla chiamata divina. Qui è offerto, come un gioco amoroso del Signore, un colloquio con lui. Ascoltare qui è la prima forma di preghiera, di espressione spirituale sincera, disponibile a innestare colui che ascolta nel disegno del divino interlocutore.

E poi il secondo messaggio, quello relativo alla costruzione; la costruzione della Chiesa, che Cristo sta lui stesso operando nella storia; una costruzione che per noi, figli del tempo, è, si può dire, sempre in principio. Tutto il lavoro compiuto nei secoli a noi precedenti non ci esonera dalla collaborazione col divino costruttore, anzi ci chiama, e non solo ad un fedele compito di conservazione, e nemmeno di passivo tradizionalismo, né di ostile rifiuto alla perenne innovazione della vita umana; ci chiama a ricominciare da capo, memori sì, e gelosi custodi di ciò che la storia autentica della Chiesa ha accumulato per questa e per le future generazioni, ma consapevoli che l’edificio, fino all’ultimo giorno del tempo, reclama lavoro nuovo, reclama costruzione faticosa, fresca, geniale, come se la Chiesa, il divino edificio, dovesse cominciare oggi la sua avventurosa sfida alle altezze del cielo (Cfr. 1Co 3,10 1P 2,5). Qui si scuotono la stanchezza, la pigrizia, la sfiducia, l’autolesionismo della contestazione sistematica, e con giovanile freschezza, con audacia geniale, con umile, grande fiducia, si cerca d’interpretare nei bisogni della società il progetto che Cristo, l’edificatore, prepara per i suoi.

Vediamo noi d’essere suoi. Con la nostra Apostolica Benedizione.

Alle giovani del Movimento GEN (Generazione Nuova)

It is always a joy for us to have a visit from young people, from members of GEN. For us you are a sign of the perennial youth of Christ’s Church, and we want you always to be a convincing proof to the world of the Church’s supernatural vitality and spiritual energy.

We are pleased that you have come to Rome and that it is here-near the tomb of the Apostle Peter-that you are experiencing in depth the meaning of Christ’s words: “For where two or three are gathered in my name, there am I in the midst of them” (Mt 18,20).

Yes, you are experiencing in the community of the Church the presence of Jesus. You have found Jesus in your fellow Christians, you have found him in prayer and in the word of God. Above all, you have found him in the Eucharistic mystery of his love, re-enacted for ever in his Church. In this union with Jesus you have discovered, moreover, immense power and strength. It is the power of Christ and of his Spirit-the power of his love. It is a power that can transform the whole world and uplift all humanity.

And as you experience the presence and power of Jesus, you must be more convinced than ever of your mission to be witnesses to Jesus. In the unity of his Church, in the strength of his love, you are called to give witness, by the authenticity of your lives, to the Lord Jesus and to his Kingdom. Never forget that his Spirit is in you; Christ is with you. And in his name-in the name of the Lord-we send you forth and bless you.


Mercoledì, 14 luglio 1976


Paolo VI Catechesi 20676