Paolo VI Catechesi 31176

Mercoledì, 3 novembre 1976

31176
Siamo in novembre. Questo scorcio dell’anno liturgico ci prepara a una conclusione, che s’intitola a Cristo-Re. Cioè a fare una sintesi su la nostra celebrazione di Cristo, quasi una revisione della nostra professione religiosa cristiana. Abbiamo celebrato le feste del Signore percorrendo il ciclo annuale degli avvenimenti della sua biografia evangelica e degli insegnamenti ch’Egli, il Maestro divino, ci ha lasciati; abbiamo qualificati i primi come « misteri », fatti cioè traboccanti dalla realtà della scena storico-umana in aperture sconfinate nella rivelazione del cielo e dei destini soprannaturali della vita umana; e abbiamo cercato di classificare e di penetrare i secondi, cioè gli insegnamenti, in un certo ordine, che abbiamo chiamato Vangelo, dottrina cristiana.

Siamo ora noi in grado di fare questa sintesi, traducendola in una duplice risposta alle due domande che sempre dobbiamo rivolgere a noi stessi, e che alla fine di questa pedagogia liturgica annuale si fanno urgenti su le nostre coscienze: Chi è Cristo, in Se stesso? Chi è Cristo per me? La fortuna che noi abbiamo avuta, di ricevere un’istruzione religiosa fondamentale e di sentircela ripetere partecipando ai riti domenicali, ovvero ascoltando gli echi della parola «cristiana» provenienti dalla conversazione nella vita vissuta, ci soccorre certamente con precise risposte; e beati noi se la memoria ce le conserva in termini fedeli. Ma in realtà queste risposte si inceppano talora sulle nostre labbra e nell’interno stesso dei nostri animi, non tanto per la difficoltà di trovare le parole esatte di tali risposte, quanto perché le realtà che esse devono esprimere si sono fatte così grandi e così complesse da diventare forse nebulose o forse ineffabili. Quasi si preferirebbe che quelle domande non sorgessero dentro, o fuori di noi, e che noi potessimo coprirci del nome cristiano comodamente, senza sperimentarne né la stringenza, né l’ebbrezza (Cfr.
Ac 26,28 1P 4,16).

Chi è Cristo? Chi è Egli per me? Quando riflettiamo su queste semplici, ma formidabili ricorrenti questioni ci accorgiamo d’essere tentati di scivolare in un vuoto nominalismo cristiano e di eludere la logica drammatica del realismo cristiano. Se Cristo è Colui all’infuori del quale non v’è soluzione alle questioni capitali della nostra esistenza, se sono vere, se sono attuali le parole «piene di Spirito Santo» dell’Apostolo Pietro nello scontro del primo processo intentato alla Sua Predicazione messianica: «. . . Questo Gesù è la pietra che, scartata dai costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che noi possiamo essere salvati» (Ac 4,11-12), allora la nostra mentalità è scossa e forse sconvolta; non possiamo più considerare il nome di Gesù Cristo come un appellativo puro e semplice che si è insinuato nel linguaggio convenzionale della nostra vita, ma la sua presenza, nella statura incalcolabile della sua grandezza, si drizza davanti a noi; ecco, Egli è l’alfa e l’omega, « il principio e il fine » d’ogni cosa (Cfr. Apoc Ap 1,8), il cardine dell’ordine cosmico, che ci obbliga a rivedere le dimensioni della nostra filosofia, della nostra concezione del mondo, della storia della nostra personale esistenza. Ci sentiamo annientati, come gli apostoli sul monte della trasfigurazione (Mt 17,6), e non oseremmo più rialzare lo sguardo, vogliamo dire inoltrarci in un’esperienza spirituale e morale che si fa religiosa, cioè ci dà «l’estasi e il terrore» d’una Verità vivente a noi del tutto proporzionata, se non fosse che una sua voce incantevole e vicina ci ridestasse dalla confusione del nostro paralizzante stupore, anzi un suo tocco prodigioso («. . . .li toccò», dice il Vangelo), ci facesse gustare l’ineffabile momento, diventato umanissimo: «Su, e non abbiate timore!» (Mt 17,7), e ci ricordasse altre sue parole rivelatrici che ci assicurano essere riservate le sue divine confidenze a noi, se piccoli ed umili (Cfr. Ibid. 11, 25). L’umiltà di Dio fatto uomo ci confonde come la sua grandezza, ma non solo rende possibile il colloquio, ma lo offre, lo impone (Cfr. S. AUGUSTINI Sermo 30: PL 38, 191; De Catech. Rud., 4, 7-8: PL 40, 313-315; Confessiones, 7, 18, 24: PL 32, 745; Confessiones, 7, 20-26: PL 32, 747).

Siamo in un’atmosfera nuova, inverosimile: è quella del rapporto della fede, che non annulla il rapporto della ragione, ma lo esalta, e fortifica così quello religioso da infondergli una certezza più preziosa della vita stessa, e ancora così avida di sapere e di progredire da rendere insonne la sua ricerca e la sua contemplazione. Alla conclusione della nostra stagione liturgica esaminiamo, Figli e Fratelli, il grado della nostra conoscenza di Cristo. Non è offensivo il nostro rilievo: noi lo troveremo forse deficiente. E così per noi tutti, se qualche cosa abbiamo afferrato della divina conversazione che la nostra elezione cristiana ci consente. Riassumiamo i nostri pensieri in un proposito finale, in un desiderio che prelude al suo compimento oltre il tempo; è quello dei Greci che nel giorno dell’ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme così si espressero: «vogliamo vedere Gesù» (Jn 12,21).

Cosi noi tutti. Con la nostra Apostolica Benedizione.



Alle 250 Suore Agostiniane d’Italia che concludono il loro VII Convegno Nazionale

Ci rivolgiamo ora alle 250 Suore Agostiniane d’Italia, che oggi concludono il loro VII Convegno Nazionale, e salutiamo con esse le Consorelle provenienti dalla Svizzera, da Malta, dalla Francia e dalla Spagna, che si sono unite a loro nell’importante circostanza.

Abbiamo letto con particolare piacere il tema del Convegno: «Comunità Agostiniana - Comunità Apostolica», e vi abbiamo trovato ben delineate come la carta di identità delle vostre famiglie religiose, Sorelle dilette in Cristo. Sì, nell’apostolato che nasce e s’irradia dalla vita comunitaria, incentrata nella contemplazione, si identifica la vostra missione. E questo non è stato del resto il programma del grande Vescovo e Dottore, da cui vi gloriate di prender nome ? Sant’Agostino è stato quel grande pastore e uomo d’azione che conosciamo, perché prima di tutto è stato il grande mistico, che dalla teologia della grazia, della Chiesa, della vita interiore ha tratto ispirazione per le immortali trattazioni che, nei secoli, hanno illuminato e alimentato le anime. Attingete dalle sue pagine l’insegnamento necessario per l’impegno evangelizzatore della vostra vocazione; traete dalle Costituzioni, che innervano la vostra vita religiosa, l’ispirazione e l’energia necessarie per essere sempre fedeli, per essere sante, per essere apostole, nella vita comune e per il bene della società. È questo l’augurio che vi facciamo, accompagnato dalla nostra Benedizione.

Ai giovani toscani dell’Opera «Villaggi per la gioventù»

Un saluto particolarmente cordiale rivolgiamo ora ai circa quattrocento giovani toscani, che hanno voluto concludere la loro «quattro giorni» di studio sulla Chiesa col pellegrinaggio a Roma e con la visita al Vicario di Cristo, riaffermando in tal modo la loro fedeltà alla Cattedra di Pietro, «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione» (Lumen Gentium LG 18). Noi vi auguriamo, carissimi giovani, che uno studio serio e approfondito della storia della Chiesa vi permetta di superare valutazioni superficiali e preconcette e vi porti a intravedere sempre più chiaramente, pur attraverso le inevitabili lacune e fragilità umane, il «mistero» mirabile e appassionante, che è la Chiesa, «sacramento» di una presenza salvifica sempre in atto, quella di Cristo. Cosi il Concilio ha qualificato Ia Chiesa, riconoscendo in essa il «Sacramento . . . dell’intima unione con Dio e dell’unita di’ tutto il genere umano» (Lumen Gentium LG 1). Faccia il Signore che questa ravvivata consapevolezza conduca ciascuno di voi ad impegnarsi sempre più generosamente in una coerente testimonianza di vita, cos? da diventare efficaci strumenti di salvezza nelle mani di Cristo.

Con la nostra Benedizione Apostolica.

A un gruppo cattolico della televisione olandese

Unser herzlicher Gruß gilt der Pilgergruppe des holländischen Katholischen Fernsehens.

Vor Jahren hatten Wir Gelegenheit, Ihr modernes Fernsehenstudio zu besichtigen.

Liebe söhne und Töchter! Wie die beiden Gruppen vor Ihnen L möchten auch Sie Ihre Verbundenheit mit dem Nachfolger des heiligen Petrus zum Ausdruck bringen. Sie sehen in ihm den Diener der Einheit und Wahrheit zur Verwirklichung des Fortschrittes des Gottesvolkes.

Sie haben das Glück, in einem Land zu leben, das auf eine große christliche Vergangenheit zurückblicken kann. Wir erwarten deshalb von Ihnen den mutigen Einsatz für den von den Vätern ererbten Glauben und für die Einheit der Kirche in Lehre, Liturgie und Seelsorge als Ausdruck eines echten Christentums.

Das katholische Radio- und Fernsehenprogramm hat diese Pilgerfahrt durchgeführt, Es ist Unser Wunsch, daß Sie sich immer am katholischen Glauben orientieren. Nach dem Konzilsdekret »Inter Mirifica« soll Ihr Programm »zur vollen und echten Teilnahme am Leben der Kirche« fiihren (Inter Mirifica IM 14).

Dazu Ihnen allen von Herzen Unseren Apostolischen Segen!

Alla comunità romana dei Missionari dello Spirito Santo che celebra il 50° di fondazione

Unas palabras de especial saludo para los Religiosos de la comunidad romana de los Misioneros del Espíritu Santo.

Sabemos, amados hijos, que celebrais precisamente en este día el Cincuentenario de la fundación de vuestra casa de Roma, y nos alegramos de veros aquí presentes en tan fausta ocasión. Sed fieles a vuestra hermosa vocación de ayuda y servicio a los sacerdotes, a las personas consagradas y a cuantos buscan la perfección cristiana. Y para hacer esto posible, vivid siempre bajo la mirada del Padre, íntimamente unidos a Jesús, dóciles a la voz del Espíritu, imitando a María.

A vosotros, a los familiares y amigos que os acompañan impartimos con gran afecto nuestra Bendición Apostólica.


Mercoledì, 10 novembre 1976

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Verso la fine dell’anno liturgico, - si concluderà fra due settimane, con l’ultima domenica del ciclo stabilito, la quale lo coronerà con la festa di Cristo-Re -, ancora ci attrae il desiderio di farne una sintesi, com’è nel genio del modo di pensare del nostro tempo, e di raccogliere intorno ad un’idea le molte cose che sono state l’oggetto della nostra riflessione religiosa annuale. Questo anno, dopo l’Anno Santo ed ancora nel cono di luce del Concilio, quale aspetto religioso sembra per noi riassumere la nostra fede? Indubbiamente Cristo; sempre Cristo è il centro irradiante che assorbe il nostro pensiero, che ispira la nostra preghiera, che guida la nostra condotta, se noi siamo fedeli al nostro impegno che cristiani ci definisce e ci fa. Ci siamo già domandati - forse qualcuno si ricorderà -, sempre desiderosi di condensare in punti prospettici estremamente brevi e fondamentali la nostra mentalità, chi è Cristo in Se stesso, e chi è Cristo per noi; speriamo che qualcuno di quanti ci hanno ascoltati abbia potuto dare a se stesso le formule esatte e densissime, importantissime, di questa catechesi conclusiva della nostra osservanza liturgica annuale. Ma non è tutto.

Affinché questa sintesi possa afferrare un altro aspetto della nostra presenza religiosa al messaggio cristiano domenicale noi sentiamo sorgere dentro di noi una nuova inevitabile e anch’essa formidabile domanda: e cioè: in sostanza questo insegnamento, che mi deriva da Cristo, che cosa mi propone di credere, di sapere, di pensare? In altre parole: che cosa offre di specifico, di fondamentale, di irrinunciabile, di bello il Vangelo, che ho ascoltato, alla Messa festiva, o ad altra sorgente informativa?

Questa revisione postuma dell’ascoltazione evangelica è tutt’altro che superflua, se non vogliamo ricadere nel vacuo nominalismo, che si serve dell’epiteto « cristiano » per qualificare mille cose in modo puramente convenzionale, superficiale, esteriore, senza ne approfondirne il significato essenziale, né sperimentare la vibrazione interiore che il ricorso ad un tale nome dovrebbe sempre suscitare. E tanto meno è superfluo ristabilire il posto che l’insegnamento cristiano deve assumere nella scala dei valori speculativi ed operativi, che esso comporta, se davvero esso è religioso, anzi è verità religiosa, e sale in vetta dei principii determinanti l’umano ordinamento e lo spirituale equilibrio. Per quanto fecondo, indispensabile ed inesauribile sia e debba essere l’impulso che il cristianesimo conferisce all’umana promozione, esso non può essere intenzionalmente strumentalizzato per una concezione della vita, - oggi, ad esempio, si parla del «cristianesimo per il socialismo» -, la quale concezione ideologicamente e praticamente al cristianesimo contraddica. Discorso lungo sarebbe qui da farsi; ma ora basti l’accenno.

A noi adesso preme e basta definire quale sia in sostanza quella dottrina, che si definisce cristiana, e che ha fatto oggetto della riflessione religiosa e liturgica dell’anno che sta per concludersi. Accogliendo un modo oggi molto consueto d’esprimere gli orientamenti sommari della spiritualità possiamo anche noi classificare la dottrina cristiana come tracciata in una duplice direzione, verticale e orizzontale, cioè come rivolta al grande mistero di Dio, e al mistero, infinitamente più esiguo, ma pur esso mistero inesauribile, quello dell’uomo Cioè: l’insegnamento di Cristo, il suo Vangelo, ci apre due finestre, una sul cielo, l’altra sulla terra. Chi frequenta la scuola del Maestro divino godrà d’una scienza, d’una sapienza, d’una incomparabile e beatificante rivelazione circa l’Iddio infinito e ineffabile, trascendente e immanente, e sarà autorizzato a chiamarlo col nome di parentela, più augusto e più familiare. «Voi dunque - c’insegna Cristo - pregate così: Padre nostro, che sei nei cieli . . .» (
Mt 6,9 ss.). Meravigliosa teologia, di cui l’umanità non potrà mai saziarsi, e da cui una volta scoperta, una volta interiormente sperimentata non potrà mai staccarsi. Oh! tenti la filosofia umana di balbettare qualche sublime parola sul «Dio ignoto» senza lasciarsi fiaccare dal dubbio e dalla paura, e ci dica se mai visione più perfetta e più rassicurante sia mai stata offerta alle labbra, al cuore umano! oh! non vogliamo disconoscere le altezze dell’umana poesia, le speculazioni dei mistici d’ogni religione e d’ogni speculazione, i gemiti di tanti spiriti derivanti dalle esperienze più acute dell’amore e del dolore, ma non potremo non ringraziare il divino Maestro Gesù d’averci insegnato la sua, la nostra ormai insuperabile preghiera, che scorre da animi diventati intrepidi ad accogliere il grande e primo mandato dell’amore, somma di tutta la legge e di tutte le profezie sull’operare umano (Cfr. Mt 22,37 ss.), e sgorga da labbra infantili educate alla divina conversione (Ibid. 11, 25 ss.). Questo l’insegnamento verticale (Cfr. B. PASCAL, Pensées, 527, 537, 547, 548, etc.).

E l’insegnamento orizzontale? la teologia su l’uomo; la leggiamo con quella di Dio, innanzi tutto: «Chi vede me, vede il Padre» ammonisce Gesù il discepolo Filippo, che aveva osato domandare: «Signore, mostraci il Padre, e tanto a noi basta» (Jn 14,8-9). Gesù irradia una duplice visione, quella divina, l’infinita perfezione; e quella umana, nella sua molteplice degradazione, cioè in ogni umana sofferenza traspare, per chi lo sa scoprire, il mistero dell’uomo, sofferente e degradato, ma non più da disprezzare, ma da cercare piuttosto e da amare, con amore plus-valente, con amore religioso (Cfr. Mt 25,35 ss.).

Questa è la religione di Gesù. Bisogna che vi insistiamo. Oggi sembra che sia di moda; e sta bene. Ma ricordiamo: finché è Vangelo. La civiltà anche più esperta e raffinata, non regge al vero e forte e coerente amore dell’uomo per l’uomo, se Cristo non c’insegna chi sia l’uomo e perché amarlo (Cfr. Jn 2,25; cfr. L. DE GRANDMAISON, Jésus Christ, II, pp. 85 ; ROUSSELOT-HUBY, Christus, pp. 982 ss.).

Con la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 17 novembre 1976

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Un desiderio di sintesi, noi dicevamo nei nostri precedenti incontri del mercoledì, un desiderio di riassumere in alcune formule essenziali la celebrazione dell’Anno Santo ha guidato i nostri pensieri, mentre ci avviciniamo alla conclusione di quest’anno liturgico, logicamente collegato con l’antecedente, e ci proponiamo di prolungare nel tempo non solo il ricordo, ma lo spirito del rinnovamento cristiano, di cui queste precedenti stagioni di più intensa e più cosciente esperienza religiosa ci hanno, per grazia di Dio, infuso il senso e il vigore.

La formula, che oggi andiamo rievocando e che vogliamo ritrovare carica delle ricchezze spirituali godute e feconda di potenziali sviluppi per un successivo periodo di vita cristiana, è quella che abbiamo intitolata al gaudio spirituale, che deve caratterizzare l’autenticità della nostra professione di figli di Dio, di discepoli e di fratelli di Cristo, di templi animati e illuminati dallo Spirito Santo, di membri vivi di quel mistico e pur visibile corpo sociale, che si chiama la Chiesa. «Gaudete in Domino», siate lieti nel Signore, noi abbiamo detto alla Chiesa stessa e a quanti, in qualche misura, ne respirano il divino soffio animatore; «gaudete in Domino» (
Ph 4,4), ripetiamo ora con la stessa intenzione di includere in questa parola, tanto ripetuta da S. Paolo (2Co 13,11 Ph 2,18 Ph 3,1 1Th 5,16 etc. ), un atteggiamento cumulativo di fede, di speranza, di amore, di mentalità e di operosità apostolica, di serenità, di coraggio, di pazienza e di abnegazione, eccetera, che può degnamente coronare la spiritualità e la pedagogia di questo particolare periodo liturgico.

Noi non abbiamo che da rimandare la vostra filiale ascoltazione all’Esortazione Apostolica sul gaudio cristiano, del 9 maggio 1975; osiamo dire: rileggetela per avere impressa nel cuore una parola, che molte altre ne ricollega ad un punto orientatore per un vero rinnovamento di senso religioso e cristiano, quale noi tutti abbiamo auspicato celebrando l’Anno Santo e quello presente, ora alla fine, che vi ha fatto seguito.

Noi facciamo ora qualche brevissima osservazione di commento e di raccomandazione al testo che riproponiamo alla vostra attenzione. E la prima osservazione è questa: non si tratta d’un documento di consolazione particolare o occasionale; sì bene d’una parola, che ha valore di messaggio essenziale per la spiritualità cattolica, anche se il suo annuncio, pare a noi, giunge a proposito, con una tempestività, che merita d’essere avvertita. Non sono forse tristi i nostri tempi? pur troppo, sì. Forse essi sono segnati da una patologia traumatica successiva alle due guerre mondiali che hanno insanguinato la storia del nostro secolo, con le rivoluzioni e le inquietudini sociali che ne hanno, sotto certi aspetti, prorogato il disagio morale: il nostro tempo, anche sotto l’aspetto gaudente che lo riveste d’una maschera fittizia, non è felice. A bene osservare la psicologia degli uomini d’oggi si scorge ch’essa è intrisa di amarezza, di scetticismo, di spirito di rivoluzione e di vendetta; ed anche gli sforzi ammirabili per dare ordine e prosperità al nostro mondo spesso altro non concludono che a risvegliare il senso delle sue deficienze, delle sue ingiustizie, delle sue sofferenze. È cresciuto col senso della civiltà raggiunta o da raggiungere, quello della sua incompletezza e della sua fragilità. E soprattutto lo sviluppo logico della filosofia, della ideologia della cultura contemporanea ha portato a traguardi di incertezza, d’insoddisfazione, di nichilismo, che una disciplina esteriore non vale a soffocare, né tanto meno a consolare. Un gemito, che potremmo quasi dire profetico, circola nel mondo, quasi a denunziare la crescente sofferenza interiore degli uomini e mano a mano che cresce la loro ricchezza e la fame d’una ricchezza maggiore e mancante. Miserie, dolori, delusioni, sofferenze sembrano estendersi sulla faccia della terra, invece che placarsi in un pacifico godimento dei tanti beni che il progresso ci procura. La parola di Cristo risuona ancora con un’attualità e con una capacità di conforto e di speranza, che giustifica la nostra apologia della gioia cristiana: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò», dice il Signore (Mt 11,28).

E questo senso d’infelicità è diventato contagioso in alcuni settori dello stesso mondo ecclesiale da segnarne il volto di aggressiva amarezza, non solo a rimprovero fraterno per i tanti difetti che lo avviliscono, e che la sua impronta cristiana rende più evidenti e più responsabili, ma per un atteggiamento ormai di moda, che sembra talvolta giustificare una superiore intransigenza e nasconde spesso una mancanza di amore, cioè di gioia interiore non più capace d’esprimersi esteriormente. Anche qui il balsamo d’una sincera gioia cristiana potrebbe riportare fra fratelli di fede una rinascita di esemplare socialità cristiana.

E un’altra osservazione vogliamo aggiungere affinché non si pensi che la vita cristiana sia sempre e unicamente allegra, e riesca a escludere il dolore dall’esperienza vissuta. No. La gioia cristiana è compossibile con la sofferenza, salvo che questa geminazione di gaudio e di dolore diventa non solo tollerabile, con l’aiuto di Dio, ma auspicabile. S. Paolo è grande esempio di questa ambivalenza della sensibilità cristiana: «Io sono pieno di gioia, pervaso di consolazione in ogni nostra tribolazione» (2Co 7,4). La croce non è abolita dalla pienezza della vita cristiana; anzi vi è inalberata come trofeo di vittoria, unita com’è all’amore, al sacrificio, alla garanzia della risurrezione.

E così ci ricorderemo di alimentare in noi la gioia della vita cristiana per saperne trarre la fortezza che le è propria. Con la nostra Benedizione Apostolica.



Alle partecipanti all’assemblea triennale delle Consorelle e Delegate dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali svoltasi a Roma

Ai partecipanti al Congresso dell’Associazione Internazionale degli «Skal Clubs»

Ai pellegrini della Costa d’Avorio


Mercoledì, 24 novembre 1976

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Termina, Voi sapete, questa settimana, l’anno liturgico, cioè la ricerca di Dio nella storia, venuto appunto nel Natale di Cristo, con quel suo modo di rivelarsi nell’umiltà del Vangelo, nella concretezza della sua umanità (Cfr.
1Jn 1,1-3), ma con quella sua Parola acuta come una spada che trafigge (He 4,12), e che con virtù taumaturgica ridona la salute (Cfr. Mt 8,3) e domina le onde (Ibid. Mt 8,26); e tanto ci ha incantati con messaggi beatificanti (Mt 5,3 ss.) e terrificanti (Ibid. Mt 11,21 Mt 18,7 Mt 23,14); e finalmente ci ha rivelato il Padre, Se stesso e lo Spirito (Jn 16,13 Mt 28,19); è morto crocifisso, risuscitato e asceso al cielo; scomparso (Ac 1,9). . . Ci ha detto che ritornerà . . . . (Ibid. Ac 1,11) Ma come? Ma quando? E intanto dodici mesi sono trascorsi; l’anno della preghiera distribuita nel tempo è finito. Come concludiamo questa stagione spirituale?

Si impone una sintesi. Che è poi quella del nostro atteggiamento conclusivo in ordine a Cristo. Ascoltiamo pure una voce estranea, che ci scuote come naufraghi nella tempesta: Gesù . . . «Non è altro che un piccolo Ebreo, der kleine Jude, dice Nietzsche, e con lui molti fra gli uomini più saggi, famosi e forti nel mondo . . . . Egli è povero, nudo, spregiato, insultato, sputacchiato, verme e non uomo . . . Ma se guarderanno con un po’ più di attenzione nel Suo viso, impazziranno dalla paura, e cadranno ai suoi piedi, come l’indemoniato di Gadara: Ti scongiuro, per Iddio, non mi tormentare!» (MEREZKOVSKIJ, Gesù sconosciuto, p. 314). Chi è Gesù Cristo? Ecco, vogliamo riassumere, sempre alla scuola della Chiesa, e sempre ricordando il nostro catechismo, la nostra teologia, in un titolo che tutto dica in una parola, e che si ponga sul suo capo, quello che l’Angelo, annunciandone al mondo la venuta, gli riconobbe con linguaggio biblico per diritto nativo: «lo chiamerai Gesù. Sarà grande, e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,31-33). Quello che un giorno, dopo il miracolo strepitoso della moltiplicazione dei pani, la gente felice ed esaltata voleva conferirgli, quello di re, ma con equivoco significato messianico, temporale e profetico insieme, e che Egli, sottraendosi alla folla, rifiutò (Jn 6,15). Quello che gli era attribuito dall’opinione pubblica quasi come un capo d’accusa, e che Egli Gesù, davanti a Pilato, durò fatica a rimettere nel suo vero trascendente: «Tu sei il Re dei Giudei?» interrogava Pilato, così istigato dalla denuncia d’un popolo furibondo; e Gesù, a rispondere: «Il mio regno non è di quaggiù». Incalzava il Procuratore: «Dunque Tu sei Re?». E allora «rispose Gesù: Tu lo dici; Io sono Re» (Ibid. Jn 18,37). Affermazione che, dopo la flagellazione, valse a Gesù, per crudele dileggio dei soldati, una corona di spine (Ibid. Jn 19,2); e poi, sulla croce, il titolo per la sua condanna vergato da Pilato stesso: «Gesù, il Nazareno, il Re dei Giudei; . . . scritta in ebraico, in latino ed in greco» (Ibid. Jn 19,20). Come Re, perché Re, Cristo fu Crocifisso. Come Re, Cristo risorto fu poi glorificato, e tale è per l’eternità: «Egli è avvolto in un mantello di sangue e il suo nome è Verbo di Dio; ci rivela l’Apocalisse; . . . un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei Re, e Signore dei Signori» (Ap 19,16).16 Sì, Cristo è Re. A noi oggi dice meno questo supremo appellativo. Bisogna sentirne risuonare il senso biblico e attuale, rileggendo e studiando il documento pontificio, che Papa Pio XI, alla fine dell’Anno Santo del 1925, con l’Enciclica «Quas Primas», volle rivolgere alla Chiesa istituendo la Festa di Cristo Re (PII XI Quas Primus: AAS 17 (1925) 503 ss.).

La regalità di Cristo sintetizza liturgicamente e spiritualmente il ciclo del nostro culto annuale, e propone alla nostra vita religiosa una meditazione globale stupenda e sconfinata. La nostra cristologia si fa cristocentrica. Essa è la chiave per comprendere il Vangelo, se davvero il Vangelo è, come sappiamo, l’annuncio e l’inaugurazione nel tempo, nell’umanità, nella vita della Chiesa del regno di Dio; la regalità è la veste che ci aiuta a penetrare il mistero di Cristo, nella sua profondità ineffabile (Cfr. Ap 1,12 ss.), nella sua estensione cosmica (cfr. la sfolgorante pagina di S. Paolo nella lettera ai Colossesi - Cfr. Col 1,15-23); nella sua formulazione teologica (Cfr. «Tomus» Papae Leonis I: DENZ-SCHÖN., DS 290 ss.; cfr. L. BOUYER, Le Fils éternel, Réflexions, p. 469 ss.). Troveremo nella celebrazione della regalità di Cristo i motivi per adorarlo nella sua divinità, per avvicinarlo nella sua umanità, troveremo, sì, la sua maestà e la sua potestà, ma altresì la sua centralità effusiva dello Spirito santificante, e attrattiva d’ogni umano destino; troveremo il Capo, il Maestro, il Pastore, il Salvatore, il Verbo Incarnato, l’Agnello di Dio, Sacerdote e Vittima d’infinita bontà.

E questa irradiante figura di Cristo-Re, che anticipa, come a noi è possibile percepire, la visione di Lui escatologica e celeste, non lo allontana da noi, da ciascuno di noi, ché lo specchio nel quale possiamo contemplare la sua vivente immagine è la fede, quella fede che ciascuno di noi, come un occhio interiore e spaziale può custodire dentro di sé, perché Egli, Cristo, come ci assicura San Paolo e la nostra stessa esperienza religiosa conferma, «abita dentro di noi» (Ep 3,17).

Tutto questo dà a noi l’impressione d’un mondo nuovo, d’un turbine indefinibile, ma è la realtà, vigiliare oggi, reale domani, se davvero ci lasciamo salvare da Cristo.

Con la nostra Apostolica Benedizione.

Ai duecento parroci e rettori di altrettanti Santuari Mariani d’Italia, che hanno svolto il loro annuale convegno a Roma su iniziativa del «Collegamento Mariano Nazionale»

Salutiamo con paterna benevolenza il gruppo dei Rettori dei Santuari d’Italia, i quali, guidati da Monsignor Francesco M. Franzi, sono venuti a farci visita nel corso del Convegno che stanno celebrando in questi giorni, su iniziativa del «Collegamento Mariano Nazionale».

Noi vi ringraziamo sentitamente per il gesto di sincera venerazione e, conoscendo le ragioni ecclesiali e pastorali per cui voi siete insieme riuniti, non possiamo fare a meno di rivolgervi una parola che vi sia di incoraggiamento e conforto nel ministero sempre delicato e spesso determinante - sì, determinante se pensiamo alle anime - che a ciascuno di voi è affidato. Voi avete concentrato la riflessione sul tema «Maria nella pietà popolare», ed a questo riguardo a noi piace proporvi due brevi pensieri:

a) vogliamo lodare, anzitutto, l’intenzione di approfondire il rapporto, che diremmo di corrispondenza e quasi di compenetrazione, che tradizionalmente unisce la Vergine benedetta e la pietà popolare. È proprio vero che Maria, come occupa un posto privilegiato nel mistero di Cristo e della Chiesa (Cfr. Lumen Gentium, VIII), così è sempre presente nell’anima dei nostri fedeli, e ne permea nel profondo, come all’esterno, ogni espressione e manifestazione religiosa;

b) notiamo, poi, il riferimento esplicito, e da parte nostra parimenti apprezzabile, ad un recente Documento del nostro Magistero: l’Esortazione Apostolica «Evangelii Nuntiandi», nella quale abbiamo, tra l’altro, trattato della pietà popolare nel contesto dell’evangelizzazione, per ricordarne il peculiare significato nella ricerca di Dio e nella vita di fede (Cfr. PAULI PP. VI Evangelii Nuntiandi, 48: AAS 68 (1976) 37-38).

Abbiamo, dunque, motivo di congratularci con voi che, studiando tale argomento, vi dimostrate attenti ad un fenomeno che a noi sta tanto a cuore perché, se ben orientato, può essere utile strumento per la causa del Vangelo. Nel vostro servizio presso i suggestivi Santuari italiani non dimenticate mai di essere anche voi evangelizzatori: sappiate essere evangelizzatori fedeli, diligenti e sapienti, integrando l’opera che, a questo fine essenziale, svolgono i Pastori e i Presbiteri nelle Chiese locali.

Con la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 1° Dicembre 1976

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Ecco l’Avvento. È questo il periodo liturgico che precede il Natale. È il periodo dell’attesa, della preparazione, della ricerca. Non si può celebrare degnamente quel grande fatto, quel massimo avvenimento, che è il Natale, cioè la venuta del Verbo di Dio, Dio Lui stesso, nel mondo, nella storia, nell’umanità, senza esservi in qualche modo preparati. Il Natale non è una semplice scadenza del calendario, è un prodigio che si pone come cardine del destino di tutti gli uomini; è il centro della ruota cosmica, che tutti ci coinvolge, coscienti o incoscienti che siamo. Esso pone enormi problemi, che soverchiano i nostri spiriti; o meglio, esso risolve questioni fondamentali per il nostro pensiero e per la nostra vita.

Innanzi tutto esso esige un primo atteggiamento, che possiamo dire un atteggiamento di ricerca. O se volete: un atteggiamento filosofico, cioè radicalmente razionale, quello che riguarda Dio, l’esistenza di Dio, la quale per noi è come il sole che illumina la scena sconfinata dell’universo: «la luce vera, quella che illumina ogni uomo», come dice l’evangelista San Giovanni nel prologo del suo Vangelo (
Jn 1,9); quella che rende intelligibile il mondo.

Ed ecco allora un nostro primo movimento di ricerca, quello che si rivolge a Dio. Esiste Dio? Chi è Dio? Quale conoscenza possiamo noi avere di Lui? A che punto si trova il pensiero contemporaneo rispetto a questo fondamentale interrogativo? E qual è la posizione del mio animo circa questo punto centrale del sapere umano?

Formidabili domande! Non pretendiamo affatto di darvi una risposta adeguata, organica, scolastica; ma solo ci basta avere l’avvertenza di queste domande per renderci conto dell’importanza, della vastità, della superiorità stessa dell’ambiente mentale, in cui ci introduce la celebrazione del Natale. La religione è così. Essa ci apre davanti panorami immensi. Poveri noi, se avessimo l’opinione, ahimé!, tanto diffusa nella mentalità contemporanea, che la religione sia una forma ingenua, primitiva, mitica di concepire il quadro della realtà, che circonda la nostra esistenza! La religione apre i cieli sopra di noi; la religione scopre abissi intorno a noi; la religione dilata il nostro pensiero oltre la stanza chiusa della nostra consueta esperienza. Registriamo intanto questa prima persuasione: l’incomparabile dignità della religione.

Intendiamo per religione il rapporto dell’uomo con Dio. E qui il nostro pensiero prenatalizio è invitato a superare un altro gradino, dopo quello dell’inferiorità a cui lo condanna l’ateismo moderno. Il gradino della certezza. La nostra ricerca non si mantiene nella sola fase della sua formulazione problematica quella interrogativa, quella della perenne indecisione finale, quella del dubbio sempre sospeso nell’incertezza, quella della riserva timida e aristocratica, che non vuole compromettersi ad ammettere la verità conquistata, fonte di troppi doveri. La nostra ricerca avrà, sì, la coscienza di non poter mai esaurire il suo sforzo verso il Tutto, verso il Segreto ulteriore e ultimo, e poi ineffabile della realtà; ma conservando la tensione verso il progressivo cammino del sapere, non rinnegherà l’adesione dovuta alla Verità conosciuta, non chiuderà la ragione nel timore sistematico di doversi ricredere, ma saprà dire « sì » alla certezza che motivi plausibili le impongono. È questa una delle debolezze caratteristiche della mentalità di tanta gente del nostro tempo; confondere il dubbio scettico e abituale con la ricerca e lo studio dell’intelligenza critica e progressiva (Cfr. DENZ.-SCHÖN., DS 3014 DS 3036).

E così pure noi non dovremo cedere all’illusione, che anch’essa fa scuola nel nostro mondo incredulo; quella d’aver dato risposta sufficiente al pensiero umano con le risposte scientifiche, che sono certamente meravigliose, enciclopediche, progressive, ben degne d’essere cercate e celebrate, ma insufficienti, se eludono la suprema questione di Dio, o con la cecità preconcetta e pseudosufficiente, o con un reviviscente panteismo assurdo, o con un nichilismo umiliante; la scienza, dilatando il campo della conoscenza razionale, non fa che allargare il campo della finale ricerca del come e del perché delle cose, cioè del principio trascendente e generatore dei fenomeni scientifici (Cfr. C. TRESMONTANT, Comment se pose aujourd’hui le problème de l’existence de Dieu , pp. 384 ss., Seuil, 1966).

Sì, ricercare dobbiamo; ma non con l’animo prevenuto dalla disperata convinzione di non poter raggiungere la verità di Dio, quella ch’Egli stesso nel grande specchio della natura ci lascia scoprire, e quella poi che la storia e la Parola di Cristo con ricchezza ineffabile, con comunione vitale ci rivelano, Questa attitudine ottimista della nostra ricerca è un’attitudine prenatalizia che ci ricorda la parola di Pascal: «Tu non mi cercheresti se tu già non mi avessi trovato». Con la nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì, 15 dicembre 1976


Paolo VI Catechesi 31176