Paolo VI Catechesi 16277

Mercoledì, 16 febbraio 1977

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Ancora sul mondo sarà oggi il nostro discorso. Sì, perché questa parola «mondo» è così comune che assume facilmente significati diversi, e in quasi tutti contiene uno sforzo espressivo, che ci porta a rivestire la nostra mentalità d’una visione sintetica, riassuntiva, la quale contiene un certo giudizio filosofico, che risale ai principii orientatori del nostro pensiero, e quindi della nostra attività. Abbiamo ultimamente già detto qualche cosa sopra un primo significato, che vuole rappresentare alla nostra mente la visione panoramica dell’universo; mondo vuol dire il cosmo; e se tale è il senso di questa comunissima parola «mondo», noi abbiamo visto come esso ci porta all’origine di tutto ciò che esiste; il problema dell’essere assale il nostro pensiero: che cosa vuol dire «mondo», se noi ci riferiamo all’essere di quanto siamo, di quanto ci circonda, di quanto fu, è e sarà. E abbiamo osservato come questa parola grave e opaca si fa complicata, e ci conduce a una geminazione fondamentale del suo intimo significato, che possiamo tradurre con il verbo essere, o con il verbo esistere, e nello stesso tempo ci trascina alla ragione sia dell’essere, che dell’esistere: come esiste il mondo? per quale principio il mondo è quello che è? Infatti appena si osservi il mondo pensando al suo segreto esistenziale vediamo che, come ci appare, esso non spiega la sua ragion d’essere, ma la postula a sé esteriore e a sé superiore: è il famoso problema di Dio che traspare come una necessità dalla stessa opacità. La contemplazione del mondo ci obbliga a risalire alla sua superiore ed estranea, sebbene presente ed operante, sorgente, cioè il mistero di Dio: «i cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani» (
Ps 18,2). È assurdo pensare diversamente. Ma la parola «mondo», com’è noto, offre un altro significato, tanto nel linguaggio comune, come in quello che qui ci interessa, cioè quello biblico, nel Nuovo Testamento specialmente: mondo vuol dire l’umanità, vuol dire il genere umano; e questo nella sua prima significazione, che chiameremo ottimista, poiché nel Vangelo (di S. Giovanni in particolare) un’altra significazione, negativa, ci presenta il mondo sotto il segno del male (Cfr. 1Jn 5,19: «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno»).

Ma occupiamoci ora della prima significazione, quella positiva, ottimista, secondo la quale il mondo è niente meno che l’oggetto dell’amore di Dio. Teniamo nella memoria e nel cuore questa solare, magnifica rivelazione : «Così Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Jn 3,16; cfr. Rm 5,8 Rm 8,32 1Jn 4,9). Qui è tutta la teologia della salvezza; qui è lo squarcio più profondo concesso alla nostra introspezione nel cuore stesso di Dio: l’amore per il mondo, per l’uomo, per le sue condizioni di dignità e di miseria, per l’universalità della sua vita sulla terra e nel tempo. Dio ama! Dio ci ama! Dio ha disposto una ineffabile, incommensurabile economia di amore, mediante l’incarnazione e la Redenzione, mediante Cristo Salvatore, nato, morto, risorto per tutti gli uomini. Non basteranno mai le campane di tutta la terra per ricordare ai suoi abitanti questa fortuna, questa felicità! Questo è il cristianesimo: esso si svolge tutto nell’orbita d’una infinita e beata effusione dell’amore di Dio per noi (Ep 2,4 Ep 5,2). Di qui nasce l’antropologia cristiana, cioè la nostra scienza sull’umanità: la dignità, la sacralità della vita umana traggono da questo amore di Dio per essa la loro più profonda radice; esso fa cadere ogni divisione, ogni odio fra gli uomini se tutti sono fratelli: perché l’uomo contro l’uomo se tutti sono figli d’uno stesso Padre celeste, oggetto del medesimo sacrificio amoroso di Cristo, tutti destinati al medesimo soffio amabilissimo dello Spirito Santo? Perché gli apostoli, perché i missionari, perché la vita pastorale della Chiesa, se non in virtù di questo amore di Dio per il mondo? perché il perdono, perché la pace fra gli uomini, se non per l’amore che Dio stesso ci ha insegnato, Lui, amandoci per primo? (1Jn 4,10)

Se questo amore, per ipotesi infelicissima, si spegnesse, sopravvivrebbe ancora la «filantropia» umana? sì, come vocazione infusa nel cuore dell’uomo, come nobile tentativo di civile progresso (in grande parte d’origine cristiana); ma non potrebbe forse ancora prevalere l’egoismo, e l’odio, e la ferocia dell’homo homini lupus, come lo stesso progresso degli armamenti ci lascia ancora temere per il nostro mondo moderno?

Impariamo ancor oggi, noi cristiani, ad amare il mondo, come il Vangelo, non altra ideologia, ci può insegnare; con un nativo entusiasmo per l’uomo che nasce (Cfr. Jn 16,21), con un rispetto sacro a questo specchio di Cristo, ch’è l’uomo sofferente, con uno spirito di servizio e di sacrificio che conferisce all’amore del prossimo un valore religioso, trascendente per l’eternità: «mihi fecistis» (Mt 25 Mt 40). Come sarebbe bello il mondo se davvero fosse cristiano!

E nel desiderio comune di questa bellezza ricevete la nostra Benedizione Apostolica.



Agli Economi generali e provinciali di Comunità e di Istituzioni religiose

Diamo il nostro cordiale benvenuto ai partecipanti al VII Convegno Nazionale di studio e di aggiornamento per gli Economi Generali e Provinciali di Comunità e di Istituzioni religiose, i quali hanno manifestato il desiderio d’incontrarsi con noi, in una sosta dei loro lavori, per ricevere una nostra parola di consolazione e di incoraggiamento.

Vi siamo riconoscenti, carissimi figli di questa attestazione di omaggio e insieme di fiducia, e vi diciamo subito che ci rendiamo conto dei sacrifici, di ogni genere, a cui vi obbliga, oggi più che mai, il vostro gravoso incarico.

Le realtà materiali che dovete trattare sono, infatti, un duro banco di prova per l’uomo spirituale, sia per la tensione psicologica che esse procurano, sia per i pericoli ai quali espongono, sia per le difficoltà interne ed esterne alle quali bisogna far fronte con serenità e dedizione.

A ciò si aggiungono le preoccupazioni per il malessere economico mondiale coi suoi riflessi nelle singole nazioni; per l’evoluzione dei tempi con incidenza sulla prestazione d’opera, sempre più esigente nelle sue richieste; per la necessità di essere scrupolosi osservanti delle norme legislative.

Considerate, carissimi figli, con spirito di fede e con generosa sollecitudine ai vostri Istituti il quotidiano assillo di questo rapporto di amore. Si accresca sempre in voi il fiducioso abbandono alla Provvidenza divina, collaborando con essa nel sovvenire alle necessità dei vostri Confratelli e di quanti richiedono il vostro aiuto. Tenderete così al vertice della carità che, nell’amore ai fratelli, ci unisce indefettibilmente a Dio.

Con questo auspicio impartiamo di cuore a voi e alle vostre rispettive famiglie religiose, di cui siete i rappresentanti, la nostra paterna Benedizione.

Ai Vigili Urbani d’Italia

Salutiamo ora con particolare compiacimento il gruppo di Vigili Urbani convenuti a Roma da tutta l’Italia per celebrare il ventennale della costituzione della Sezione Italiana della «International Police Association».

Noi vi ringraziamo di questa visita che ci rallegra e ci onora. L’omaggio che avete voluto porgerci in una data così significativa, ci attesta non solo la nobiltà dei sentimenti del vostro animo verso la nostra persona, ma rivela altresì l’alta coscienza con cui intendete svolgere il vostro dovere. Vi diciamo pertanto tutta la nostra sincera stima per il prezioso servizio che voi rendete alla comunità nazionale. Servizio, il vostro, che richiede continua tensione, diligenza, spirito di sacrificio, servizio assai spesso scomodo, ingrato, ma indispensabile, non tanto per reprimere le infrazioni dell’ordine pubblico, quanto piuttosto per prevenirle, per educare i cittadini al rispetto della norma comune e della convivenza. Vi auguriamo perciò che la vostra presenza abbia ad essere sempre garanzia di ordine, diffonda fiducia, sicurezza e rispetto alla legittima autorità fra i cittadini.

La nostra preghiera vi invoca copiosa effusione delle grazie celesti che vi accompagnino nello svolgimento della vostra attività, come pure in seno alle vostre famiglie, e ne è pegno cordialmente affettuoso la nostra Apostolica Benedizione.

Alla Comunità del Circo dei Signori Orfei

Ed ora rivolgiamo volentieri il nostro saluto alla Comunità del Circo dei Signori Orfei, la quale, nella multiforme varietà dei suoi componenti, ha manifestato unanime il desiderio di partecipare all’odierno incontro e di esprimerci i propri sentimenti di venerazione e di ossequio.

Noi vi siamo grati della vostra presenza, come pure dei doni che ci presentate in auspicio di letizia, di serenità e di pace. Questi stessi voti amiamo ricambiare a ciascuno di voi, in special modo ai giovani e ai bambini, che ci han fatto omaggio del loro «giornalino». Pensando alle particolari esigenze ed ai sacrifici che la vita del Circo comporta, vi esortiamo a mantenervi sempre fedeli all’ideale che vi muove nel vostro pellegrinare di città in città: diffondere la gioia nel cuore degli uomini, oggi troppo spesso affaticati e turbati, con l’onesto e sano divertimento. Non è, infatti, la vostra un’attività puramente ricreativa o folcloristica, ma ha anche un contenuto morale, che merita da parte nostra sincero incoraggiamento. Vi impartiamo, perciò, la nostra paterna Benedizione, quale pegno dell’assistenza e della protezione del Signore.

Ad un gruppo di fedeli della parrocchia romana San Pio V

Vogliamo ora rivolgere un particolare saluto ai circa mille fedeli della comunità parrocchiale di San Pio V in Roma, guidati dal loro Parroco Don Edoardo Leboroni Pierozzi.

Carissimi, sappiamo che la vostra Parrocchia celebra felicemente, in questi giorni, il XXV anniversario della sua erezione, mentre ancora ricordiamo di essere già venuti personalmente in mezzo a voi nel marzo del 1969. Conosciamo anche la vostra operosità cristiana, che si manifesta in varie forme di vita associativa e in fruttuose iniziative parrocchiali.

Ebbene, il nostro cordiale saluto vuole trasformarsi in un vivo incoraggiamento a consolidare sempre più la vostra purissima fede in Cristo Signore e la vostra fraterna comunione vicendevole. Per il cristiano, del resto, la vita di fede e la vita di comunità sono i due capisaldi fondamentali, che non solo si condizionano a vicenda, ma unitamente danno corpo a quella necessaria testimonianza che dobbiamo rendere al mondo. La Madre di Gesù, che voi venerate sotto il titolo e nella popolare chiesetta della «Madonna del Riposo», vegli sempre su di voi e sulle vostre famiglie, e vi annoveri costantemente tra i suoi figli devoti.



Un saluto e un augurio specialissimo rivolgiamo al gruppo dei bambini che si preparano alla Prima Comunione e a quello dei ragazzi della Cresima: che questi momenti segnino davvero per voi una tappa importante nella crescita del vostro cammino di fede e nella scoperta di quanta gioia c’è realmente nell’impegno serio di una vera vita cristiana.

Infine, incarichiamo tutti voi qui presenti a portare il nostro saluto affettuoso a ciascuno dei vostri Cari, particolarmente ai malati, ai bisognosi di ogni genere, ai piccoli. Un pensiero speciale è per le forze più impegnate nella vita della comunità: per i membri zelanti del Presbiterio parrocchiale e per i responsabili delle varie associazioni.

All’intera Parrocchia vada la nostra paterna Benedizione Apostolica.

Ai collaboratori del Centro culturale romano «Amici di Avvenire»

Ci rivolgiamo ora al gruppo dei collaboratori del Centro culturale «Amici di Avvenire», per dare loro il nostro cordiale benvenuto ed insieme esprimere il nostro sincero apprezzamento per l’impegno che essi pongono nel promuovere, con varie iniziative, la diffusione del messaggio evangelico. In particolare desideriamo congratularci con voi, figli carissimi, per la sollecitudine, con cui vi industriate di divulgare la conoscenza del quotidiano cattolico «Avvenire». È sollecitudine, questa, che già si raccomanda da un semplice punto di vista di civile e democratica convivenza: assicurare la presenza di una voce, portatrice di un proprio messaggio originale, significa contribuire a rinsaldare i presupposti di una reale libertà di opinione, altrimenti minacciata da organi di informazione, che, nonostante le diverse matrici ideologiche, si mostrano, su certi temi, singolarmente monocordi e tendenziosi. Non è poi necessario che ci soffermiamo a ribadire l’importanza dell’opera formatrice, svolta dal quotidiano cattolico, all’interno del Popolo di Dio, per sorreggerne le convinzioni ed orientarne l’azione alla luce dei valori evangelici. Desideriamo pertanto incoraggiarvi a proseguire con generoso entusiasmo nella vostra azione, che è servizio alla causa della verità, ed insieme contributo validissimo alla costruzione di una società più consapevole e giusta.

Vi accompagni e conforti la nostra Apostolica Benedizione.

Agli studenti de l’«Ecole de la Foi»


Mercoledì, 23 febbraio 1977

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Il mondo, ancora il mondo è il tema della riflessione, che oggi noi proponiamo ai nostri visitatori. Ne abbiamo già parlato, e come sempre con brevi cenni, in Udienze precedenti; ancora ne parliamo perché ci resta da ricordare come questa parola «mondo» assuma nel linguaggio scritturale significati molto diversi, come quello di cosmo, di creazione, di opera di Dio, magnifico significato per l’ammirazione, lo studio, la conquista dell’uomo; ovvero quello di «umanità» il mondo può significare quel genere umano, tanto amato da Dio da provvedere alla sua salvezza (
Jn 3,16) e alla sua elevazione ad un livello d’ineffabile associazione dell’uomo alla vita stessa di Dio (2P 1,4); e finalmente la parola «mondo», nel nuovo Testamento e nella letteratura ascetica cristiana, riveste spesso un significato sinistro, e negativo al punto da riferirsi al dominio del Diavolo sulla terra e su gli stessi uomini dominati, tentati e rovinati dallo Spirito del male, chiamato «Principe di questo mondo» (Cfr. Jn 14,30 Jn 16,11 Ep 6,12). Il «mondo», in questo senso peggiorativo, significa ancora l’umanità, o meglio quella parte di umanità, che rifiuta la luce di Cristo, e che vive nel peccato (Rm 5,12-13), e che concepisce la vita presente con criteri contrari alla legge di Dio, alla fede, al Vangelo (1Jn 2,15-17).

L’ambiguità perciò di significato di questa parola «mondo» costituisce uno dei problemi più gravi e più drammatici della vita cristiana, dal momento che noi siamo immersi nel mondo, campo frammisto di bene e di male, di «buon grano e di zizzania» (Mt 13,25), anche se senza nostra colpa esso è perciò buono e fecondo ed insieme guasto e nocivo, e se la convivenza, alla quale le condizioni stesse della vita ci obbligano non può materialmente essere da noi sempre evitata (Cfr. Jn 17,15 1Co 5,10). Si vive in un ambiente equivoco ed inquinato, dove è necessario continuamente sapersi immunizzare, con una profilassi morale, che va dalla fuga dal mondo, come fanno appunto quelli che per desiderio di perfezione scelgono un genere di vita votato a più rigorosa ed amorosa sequela di Cristo (Cfr. Lumen Gentium LG 40), alla disciplina ascetica propria d’ogni vita cristiana, che non solo fa suo programma lo stile morale e spirituale proprio di chi ha ricevuto il battesimo, «come si conviene a santi» (Cfr. Ep 5,3 Rm 6,22), ma cerca di diffondere il sentimento ed il costume cristiano nel mondo stesso che vi è ostile e refrattario (Cfr. Apostolicam Actuositatem AA 2, etc.).

La vita cristiana è un dramma, in cui il bene e il male si intrecciano e si oppongono continuamente e conferiscono appunto al mondo il carattere d’un combattimento permanente: «milizia» è chiamata dalla sacra Scrittura (Jb 7,1 Ep 6,11-13) la condizione dell’uomo sulla terra. È questo un concetto fondamentale della nostra esistenza presente, passeggera (1Co 7,31) ma decisiva per la nostra sorte nella vita futura (2Co 5,10); il Signore lo ha voluto inserire nella formula, possiamo dire ufficiale, della nostra preghiera a Dio Padre, facendoci invocare sempre il suo aiuto per ottenere difesa da una continua minaccia che insidia il nostro cammino nel tempo: la tentazione. Questa facile, ma tremenda parola meriterebbe una lunga lezione e un orientamento etico pedagogico corrispondente: il periodo quaresimale, che oggi incomincia, ci offre l’opportunità di riflettere su questo tema, che non è certo ora di moda, ma ha aumentato, non diminuito, il suo spirituale interesse. Pensiamo: noi siamo esseri liberi, ma assai condizionati dall’ambiente, diciamo pure dal mondo, in cui viviamo: vale a dire, noi siamo continuamente provocati a imprimere nei nostri atti una scelta, a risolvere una «tentazione»; il nostro senso morale dev’essere sempre in una tensione di vigilanza (altra parola evangelica) (Cfr. Mt 24,42 Mc 14,38 Mc 13,37 1Co 16,13 1P 4,7 1P 5,8 etc.), minacciata di espulsione dal codice della moderna permissività; l’igiene morale, cioè la preventiva difesa della nostra tanto evidente debolezza etica, si direbbe che non debba esistere più, ma che una falsa norma pratica, quella dell’esporsi alla tentazione col pretesto d’irrobustire così la propria personalità mediante l’esperienza del male, possa prevalere su i «tabù», con cui la sensibilità della coscienza e la dirittura della condotta hanno inceppato la libera e facile disinvoltura dell’uomo contemporaneo, così detto «adulto». Non è meraviglia allora se la nostra società degrada dal suo livello di autentica umanità a mano a mano che progredisce in questa pseudo-maturità morale, in questa indifferenza, in questa insensibilità della differenza tra il bene e il male, e se la Scrittura acerbamente ci ammonisce che «tutto il mondo (nel senso deteriore che stiamo osservando) giace sotto il potere del maligno» (1Jn 5,19).

Vigiliamo, Fratelli e Figli carissimi, affinché il mondo, che non è da Dio, non ci seduca, non ci infonda un’illusoria concezione della vita, e non ci faccia perdere il senso dei suoi veri valori. Stiamo con Cristo per essere partecipi della vittoria ch’Egli ci annuncia e ci promette: «abbiate fiducia! Io ho vinto il mondo» (Jn 16,33).

Con la nostra Apostolica Benedizione.



Ad un gruppo di sacerdoti e coadiutori salesiani

Salutiamo ora con paterno affetto il gruppo di sacerdoti e coadiutori salesiani che, provenendo dall’America Latina, dall’India, dall’Africa e da alcuni Paesi dell’Europa, si sono raccolti in questi giorni a Roma per un convegno di studio sui problemi connessi col loro specifico apostolato. Sappiamo, figli carissimi, della vostra attività, preziosa e difficile ad un tempo, tra i baraccati delle «favelas» e delle «bidonvilles», come pure tra i ragazzi raccolti per le vie delle grandi città, sui marciapiedi o sotto i ponti, ove vivono abbandonati a se stessi ed esposti a tutte le insidie del male. Profittiamo volentieri di questa circostanza per dirvi tutto il nostro apprezzamento, la consapevolezza che abbiamo delle difficoltà del vostro lavoro, la fiducia che nutriamo per i suoi frutti, reali sempre anche se non sempre immediatamente constatabili. Rivive in questa vostra attività l’ispirazione più genuina del vostro Istituto, l’ansia pastorale più caratteristica del vostro santo Fondatore, che ai poveri volse il suo ministero con scelta preferenziale, e tra questi in modo particolare ai giovani, alla cui formazione sociale e cristiana volle consacrate le proprie energie e quelle dei suoi figli. Vi sorregga nella vostra quotidiana fatica la parola di Cristo, che indicò negli umili, nei piccoli, nei sofferenti, nei bisognosi i cittadini privilegiati del Regno dei cieli (Cfr. Mt 18,3 ss.) ed anzi i viventi rappresentanti di se stesso (Mt 25,40).

Il Papa è vicino a ciascuno di voi e a tutte le persone, alle quali giunge il vostro servizio pastorale, con una speciale, affettuosa Benedizione.

Ad un gruppo di sacerdoti comboniani

E’ presente all’udienza di stamani anche un gruppo di una trentina di Sacerdoti missionari Comboniani, partecipanti ad un Corso di aggiornamento. Vi siamo grati, diletti figli, per la testimonianza, che la vostra odierna presenza ci offre. Voi tornerete presto nei luoghi del vostro ministero apostolico, in Africa e in America Latina. Ebbene, sappiate che il pensiero del Papa vi accompagna e, col pensiero, il suo affetto e la sua preghiera. Conosciamo la complessità e gravità dei compiti ai quali deve far fronte, oggi, il missionario. Se al centro dell’evangelizzazione dovrà esserci sempre la «chiara proclamazione che in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia» (PAULI PP. VI Evangelii Nuntiandi, 27),19 è indubbio, però, che parte integrante del messaggio e dell’impegno missionario debba essere anche quanto attiene alla promozione umana e cioè l’impegno per la giustizia, lo sviluppo e la pace in ogni parte del mondo. Mantenere collegate liberazione umana e salvezza in Gesù Cristo, senza tuttavia identificarle, ma continuamente indicando nella seconda, la salvezza in Cristo, la mèta che trascende e al tempo stesso motiva ed orienta ogni vera liberazione dell’uomo, ecco quanto oggi con particolare insistenza si chiede a voi, che portate in terre lontane l’annuncio del Vangelo.

Vi conforti nel rinnovato impegno di totale dedizione alla causa del Regno l’Apostolica Benedizione, che di cuore vi impartiamo.

A due gruppi di studenti svedesi e danesi

With particolar interest we note the presente here today of the various groups from Scandinavia. Our welcome goes to the students from Denmark, to the St. Hallward’s Boys’ Choir from Norway, and to the members of the Swedish Church’s Study Confederation. To all of you we extend our greeting in the Lord and ask you to take it back to your loved ones at home: into your families, into your schools, into your churches. To al1 Scandinavia: grate and peace in Jesus Christ.


Mercoledì, 16 marzo 1977

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Lo snodarsi della Quaresima ed il progredire della sapientissima pedagogia della sua liturgia, ci inducono, quasi ci costringono a riflettere sul tema centrale di questo straordinario periodo, vero tempo forte dello spirito: la conversione. Siamo chiamati a convertirci, a far penitenza. In questo Leit-motiv la Chiesa, fin dalla sua remota antichità, ha sviluppato tutta una pienezza di motivi teologici, spirituali e morali, che si è espressa nei riti liturgici, come nella predicazione dei grandi Padri, con l’intento appunto di preparare i cuori alla conversione: ed è ben noto come il tempo quaresimale preludesse al conferimento del Battesimo e alla riconciliazione dei peccatori nella Penitenza.

Ciò facendo, la Chiesa non ha fatto che continuare il grande messaggio della Rivelazione, mediante la quale Dio ha chiamato gli uomini a entrare in comunione con Lui e ad infrangere quei ceppi che ne impedivano il cammino. Perché proprio di cammino si tratta: la conversione è un cammino, diciamo così, a ritroso, come indica il verbo ebraico šûb (cambiar strada, invertire la direzione, tornare indietro). È idea profonda e stupenda che permea le pagine dell’Antico Testamento, particolarmente dei Profeti (Cfr.
Is 1,11-17 Jr 3,21-25 Jr 4,1-4 Jr 31,18 Jr 36,3 Ez 11,19 ss.; Ez 18,31 ss.; Ez 36,26-31 Am 5,14 ss.; Os 14,2-9), i quali alzano la voce per invitare il popolo ribelle a ritornare a Dio, come fa Isaia con parole roventi: «Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia» (Is 1,16 ss.); o come promette Geremia, il profeta per eccellenza della conversione: «Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Jr 24,7). Questa voce si fa preghiera nei Salmi (ricordate il «Miserere»?: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo» (Ps 50,12). Questo grido vien fatto rimbalzare al tempo di Cristo, in tutta la sua forza, dal Precursore (Mt 3,2 Mt 3,8 Lc 3,10-14); e Gesù ne farà il segno squillante dell’avvento del Regno di Dio, anzi la condizione prima per entrare nel nuovo ordine della salvezza, ch’Egli viene a instaurare nel mondo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15 cfr. Mt 4,17). Gesù è venuto a chiamare i peccatori alla conversione (Cfr. Lc 5,32): i pubblicani, la peccatrice, il buon ladrone sono il segno vivo di questa possibilità, di questa realtà di ricupero, che il Figlio di Dio offre all’umanità decaduta per il peccato. Occorre rinascere (Cfr. Jn 3,3), occorre diventare come i bambini (Cfr. Mt 18,3 loci et paralleli.). Si pensi alla forza di santificazione che quest’ultima parola ha avuto per una grandissima anima dei tempi moderni, Teresa di Lisieux!

Non finiremmo più di ricordare parole e fatti evangelici per mettere in luce il senso e il valore di questa conversione, di questa penitenza, di questa metánoia, che è appunto un rivolgimento interno, un cambiare strada, un ritornare fra le braccia del Padre, come lo descrive visivamente con accenti incomparabili la parabola del figlio che ritorna (Cfr. Lc 15,11-32). Come ben comprendiamo dai chiarissimi insegnamenti di Gesù, lo scopo è quello di una modificazione profonda, in due direzioni.

Anzitutto, modificare la maniera di pensare, la mentalità, gli intimi moventi delle azioni: e si pensi di quale mutamento difficile si tratta, se coinvolge la personalità più segreta e profonda di ciascuno di noi; e, in secondo significato, si tratta anche di mutare la condotta pratica, il comportamento, l’agire, affinché le azioni esteriori corrispondano senza ormai più stridenti contrasti con la interiore rivoluzione, avvenuta nello spirito.

In una parola, si tratta di stabilire una piena, sempre più piena conformità di pensiero e di vita con la volontà di Dio, che Gesù ci fa chiedere nella preghiera programmatica del cristiano: fiat voluntas tua, sia fatta la tua volontà (Mt 6,10), senza ostacoli, senza remore, senza resistenza; come in Cielo così in, terra.

Sono parole ostiche, ma solo per chi rifiuta di aprire il cuore alla voce del Signore, solo per chi si ostina a procedere in «direzione vietata» contro tutti i richiami della Rivelazione e della coscienza. Certamente siamo molto distanti dalla concezione permissiva moderna, che esalta nei modi più provocatori, specie per chi ancora non sia temprato e forte, una libertà che è solo licenza; un istinto, un interesse, un’amoralità e un immoralismo che equivalgono solo all’egoismo più sfrenato; ma così si dimentica che esiste un rapporto tanto ontologico ed esistenziale, quanto deontologico, tra la libertà, consapevolmente, virilmente esercitata, e il dovere che da essa trae forza, virtù e merito.

Difficile? Certo. Ma non impossibile. È la via da sempre segnata da Dio per chi vuole esser degno di diventare suo figlio. Troveremo la forza per seguirla? Sì. È Cristo che ci chiama con le parole più sconvolgenti, che devono infondere tanta confidenza anche in chi si sia smarrito lontano: «ci sarà più gioia in Cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti, che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7). Sì, così è, così sia, fratelli e figli carissimi.

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 23 marzo 1977

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La prossimità della Pasqua ci invita ad un dovere caratteristico della partecipazione d’ogni singolo fedele alla celebrazione della grande festa della Redenzione, quello di «confessarsi», cioè di accostarsi al sacramento della Penitenza, personalmente e sinceramente, accusando i propri peccati con umile pentimento e con proposito di emendarsi. Questa è una legge grave della Chiesa, tuttora vigente; una legge difficile, ma quanto mai salutare, sapiente e liberatrice; una legge, la cui osservanza incontra oggi due ordini di difficoltà, uno pratico ed estrinseco, quello di trovare le circostanze concrete favorevoli all’adempimento di questo precetto; l’altro psicologico e intrinseco, quello di formulare nella propria coscienza il concetto del peccato, anzi dei propri peccati, e di avere il coraggio di accusarli, sia pure sotto la garanzia del più assoluto segreto, ad un sacerdote, cioè ad un ministro autorizzato dalla Chiesa per averne da lui l’assoluzione con le relative imposizioni penitenziali.

Dobbiamo perciò notare una certa progressiva inosservanza di questa prassi sacramentale, con molteplici e notevoli recessioni nella fedeltà e nella vivacità della vita cristiana e della consapevolezza della vita ecclesiale. E ciò con gravi apprensioni in chiunque, ministro o semplice fedele che sia, ami la realtà mistico-sociologica del mistero della nostra inserzione in Cristo, il mistero della grazia, il mistero della nostra salvezza. Che l’uomo sia tuttora e sempre bisognoso di questo sacramento lo dice non solo il diritto canonico (Cfr. Codex Iuris Canonici
CIC 906), lo dice la diminuita coscienza di quella rigenerazione profonda prodotta in noi dal battesimo con il conseguente obbligo di derivarne un originale, coerente e superiore stile di virtù morali, e lo dice l’esperienza dei vantaggi spirituali che la confessione, specialmente se l’uso sapiente di essa accompagna lo sviluppo e lo svolgimento della vita vissuta, assicura all’anima che vuole essere forte e fedele nella professione della propria religione (Cfr. A. MANZONI, La Morale Cattolica, 1, cap. VIII).

Noi non entreremo con questo semplice accenno nell’apologia della Confessione sacramentale. Un’apologia, che può essere vastissima, se studiata storicamente; può essere fecondissima utilizzando gli sviluppi stessi degli studi, scientifici o letterari, della psicologia dell’uomo moderno; e può essere consolantissima per quanti si avvedono che un’onesta e obiettiva indagine sopra le radici interiori dell’umano operare conclude ad uno sconsolato e perfino disperato pessimismo circa l’inettitudine dell’uomo alla virtù autentica e stabile. Ci basti dire che questa apologia è possibile e facile a chi ricordi le parole di Cristo risorto, proclamate la sera stessa della sua risurrezione, quando Egli apparve nel cenacolo ai suoi discepoli: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’Io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro, e disse: ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, non rimessi resteranno» (Jn 20,21-23). Il sacramento della Penitenza, così istituito, si definisce subito il sacramento della risurrezione delle anime morte, il sacramento delle anime redivive, il sacramento della vita, della pace, della gioia.

Ci basti esortare i nostri Fratelli sacerdoti, abilitati all’amministrazione del Sacramento della Penitenza, a dare all’esercizio pastorale ch’esso autorizza e conforta, l’importanza ch’esso reclama, la stima, il culto, lo spirito di sapienza e di sacrificio ch’esso si merita: è la Confessione il sacramento terapeutico per eccellenza, il sacramento pedagogico per la formazione cristiana a tutti i livelli (Cfr. Seminarium, 3, 1973).

Ed esorteremo poi tutti i Fedeli a sgombrare il proprio animo da ogni diffidenza che la vigente disciplina sacramentale può suscitare per il suo pratico esercizio. Se oggi la Chiesa autorizza in certi casi particolari, l’assoluzione collettiva, ricordino che questa autorizzazione ha carattere eccezionale, non dispensa dalla confessione personale, e non li vuole privare dell’esperienza, dei vantaggi, del merito di essa: scuola di sapienza morale, la confessione educa la mente a discernere il bene dal male; palestra di energia spirituale, essa allena la volontà alla coerenza, alla virtù positiva, al dovere difficile; dialogo sulla perfezione cristiana, essa aiuta a scoprire le vocazioni proprie delle singole anime e a corroborarne i propositi per la fedeltà e per il progresso verso la santificazione, propria ed altrui. Possa la prossima Pasqua apportare a ciascuno di voi la fortuna di celebrarla con una buona Confessione! È con la Comunione il grande dono pasquale (Cfr. Catechismus ex Decreto Concilii Tridentini ad Parochos, De Poenit. Sacramento; et SACRAE CONGREGATIONIS PRO DOCTRINA FIDEI Normae pastorales circa absolutionem sacramentalem generali modo impertiendam, CDF 12 16 iunii 1972: AAS 64 (1972) 510 ss.).

Con la nostra Benedizione Apostolica.



Ai fedeli della Parrocchia romana di Sant’Eligio

Rivolgiamo ora un saluto particolarmente sentito ai 250 fedeli della Parrocchia romana di Sant’Eligio a Ovile, venuti col loro Parroco, e con Monsignor Vittorio Terrinoni, Ausiliare del nostro Cardinale Vicario, per celebrare festosamente il decimo anniversario della costituzione della loro comunità.

Carissimi, sappiate che noi vi consideriamo e sentiamo come nostri figli particolari, in quanto membri della grande famiglia diocesana di Roma. Perciò vi esortiamo ad una schietta vita cristiana che da una parte sia fatta di totale fedeltà al Signore e alla Chiesa, e dall’altra di coerente testimonianza di fronte al mondo. Auguriamo all’intera vostra Parrocchia di crescere sempre più in armoniosa unità di intenti, partecipando responsabilmente e costruttivamente alle varie forme di vita associativa, così da edificare tra voi e in voi il tempio santo di Dio.

Di tali voti vuol essere pegno la nostra Benedizione Apostolica, che di gran cuore impartiamo a voi qui presenti, incaricandovi di estenderla ai vostri Cari e a tutta la vostra Parrocchia, in particolare ai malati e ai più bisognosi di cristiano conforto.

Alle Religiose di San Giuseppe di Chambéry

Il nostro saluto va ora al gruppo di Religiose della Provincia italiana della Congregazione di San Giuseppe di Chambéry, presenti all’udienza per testimoniare, in occasione del centenario di istituzione della Provincia stessa, la devozione profonda e la immutabile fedeltà, che lega la loro Famiglia religiosa a questa Sede Apostolica. Esse accompagnano una folta rappresentanza di alunne delle loro Scuole Superiori di Roma e di Albano Laziale e di genitori iscritti all’Associazione Genitori Scuole Cattoliche.

Cogliamo volentieri l’occasione per esprimere a queste benemerite Religiose il nostro vivo apprezzamento per l’opera solerte, che esse svolgono in mezzo alla gioventù studiosa ed a servizio di anziani e malati. Continuate, dilette figlie, con entusiasmo sempre rinnovato, a sforzarvi di orientare la vostra vita secondo lo spirito del motto programmatico, caro al vostro Fondatore: «Servire tutto il caro prossimo nella perfetta obbedienza alla Santa Chiesa». È una formula che, se applicata con coerenza fino alle ultime conseguenze, conduce diritto alla santità. Alle vostre alunne, poi, affidiamo una precisa consegna: che cioè sappiano unire agli studi superiori l’approfondimento consapevole e gioioso della religione e della morale cristiana, perché la loro vita abbia una ricchezza di contenuti e una pienezza di sintesi intellettuale e spirituale, quale la fede cristiana, amata e vissuta, permette di raggiungere.

Valga a confermare i buoni propositi la nostra Apostolica Benedizione.


Mercoledì, 30 marzo 1977


Paolo VI Catechesi 16277